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Altari tedeschi dei secoli XV e XVI nell’Agordino nello Zoldano e nel Cadore, in A nord di Venezia. Scultura e pittura nelle valli dolomitiche tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra a cura di A.M. Spiazzi, Milano, Silvana editoriale 2004, pp. 279- 297

Altari tedeschi dei secoli XV e XVI nell’Agordino, nello Zoldano e nel Cadore Giuseppina Perusini Non intendo qui riassumere o discutere le attribuzioni delle tata diffusione5 oppure su pubblicazioni locali che talvolta opere presenti in mostra, sia perché condivido le proposte riportano notizie generiche o decisamente “fantasiose”6. avanzate dai colleghi, sia perché gli studi sui Flügelaltäre Qualche indagine di più ampio respiro venne effettuata dagli (altari a battenti) del Bellunese di questi ultimi anni sono pre- studiosi tedeschi, i quali tuttavia limitarono le ricerche alle valentemente incentrati sui problemi attributivi e tecnici1. opere già note e di maggior pregio; fra questi il contributo Rimando dunque alle schede coloro che fossero interessati a più significativo fu senza dubbio quello di Erich Egg7, che questi argomenti, mentre qui intendo affrontare due proble- esaminò i Flügelaltäre di Rocca Pietore e di Livinallongo8 ma mi assai più complessi e meno studiati ovvero: non citò neppure quelli di San Simon di Vallada Agordina, 1. la committenza di queste opere o, più in generale, le Selva, Goima e Pieve di Cadore9. ragioni per cui, in una zona di lingua e cultura prevalente- Le prime indagini sistematiche su tali manufatti risalgono mente italiane, nel corso del Quattrocento e del primo Cin- dunque agli anni novanta e sono lieta di aver contribuito quecento vennero realizzati diversi altari tedeschi; alla ripresa di questi studi: alla fine degli anni ottanta infat- 2. la storia conservativa di queste opere, intendendo con ciò ti frequentavo spesso queste zone e mi colpirono subito la non la storia dei danni o dei restauri subiti da questi altari, quantità e la qualità delle sculture lignee di origine tedesca ma la considerazione di cui essi furono oggetto nel corso dei ancora presenti nel Cadore e nell’Agordino10. Fu così che nel secoli; spesso infatti la conservazione o la distruzione delle 1989 assegnai a una studentessa di Feltre, Luciana Tazzer, opere d’arte dipende dal valore che viene loro attribuito. una tesi di laurea sulla scultura lignea tedesca nella provin- Prima di affrontare questi argomenti è necessario, tuttavia, cia di Belluno11. La Tazzer fece un ottimo lavoro da cui tras- fare almeno un cenno alla storia degli studi che, nel corso del se due articoli12 che, ancor oggi, costituiscono il punto di Novecento, furono dedicati a tali manufatti. Gran parte del- partenza per qualsiasi studio sull’argomento. Fra il 1991 e il le ricerche sulla scultura lignea italiana risale al secondo 1992 potei restaurare e studiare l’altare di Santa Fosca a Sel- dopoguerra , e anche la scultura lignea dell’arco alpino va di Cadore13 e, negli anni seguenti, ebbi occasione di orientale non venne indagata sistematicamente prima del segnalare altre sculture di scuola tedesca14. In seguito altri sesto decennio del Novecento. Le ricerche di quegli anni, fra colleghi ampliarono ulteriormente il catalogo delle sculture cui si segnalano quelle di Giuseppe Marchetti3, riguardarono tedesche presenti nel bellunese, grazie al rinvenimento (da prevalentemente il Friuli, ma ve ne sono alcune dedicate parte di Anna Maria Spiazzi) e all’attribuzione a Parth (da anche alle sculture lignee cadorine poiché Carnia e Cadore, parte di Serenella Castri) delle due statue raffiguranti santa 2 che furono storicamente legati per secoli, presentano note- Margherita e santa Caterina nella chiesa parrocchiale di voli affinità sia geografiche sia culturali4. Sappada15 e alla recente segnalazione, da parte di Milena La scarsità di ricerche sulla scultura lignea bellunese e quindi, Dean, della statua di san Floriano, sempre a Sappada, a maggior ragione, sulle opere tedesche, ha fatto sì che, fino anch’essa probabilmente riconducibile alla bottega di al 1990, i Flügelaltäre di questa zona venissero in parte tra- Parth16. scurati dalla critica e le poche indagini effettuate, solitamente A partire dagli anni novanta queste opere furono oggetto di in seguito al rinvenimento d’iscrizioni o documenti, fossero cir- una sistematica campagna di restauro, voluta e diretta da coscritte a singole opere e venissero stampate su riviste di limi- Anna Maria Spiazzi della Soprintendenza per il Veneto sic279 ché, al giorno d’oggi, gran parte delle sculture tedesche pre- 14) la scultura raffigurante la Vergine col Bambino in trono senti nel bellunese sono state restaurate. (del XV secolo) attualmente conservata nella chiesa di Santa Oltre alle opere già citate furono infatti restaurati gli altari di Giuliana ad Alverà (Cortina), quasi sconosciuta fino all’attua- Rocca Pietore (1991-1992 e 1993-1995)17, Campo (1992- le mostra anche perché è stata grossolanamente ridipinta e 1993) , Vallada Agordina (1996-2004) , Vigo di Cadore coperta con vesti di stoffa27. 18 19 20 (1994-1997), Goima di Zoldo (1994-1997) , Lorenzago Se a queste opere si aggiungono alcune sculture lignee iso- (1997-1999) , Falcade Alto (1999-2003) e le due sculture late (ma che in passato fecero forse parte di qualche altare) superstiti degli altari di Sappada (2000-2002) e Presenaio come la Madonna addolorata e il sant’Antonio abate della (2000-2002) . Si può dire dunque che al momento attuale chiesa di Santa Fosca, la statua di san Lorenzo nella chiesa quasi tutte le sculture lignee (conosciute) di scuola tedesca omonima a Selva di Cadore, la scultura raffigurante san Flo- che si trovano nella provincia di Belluno sono state studiate riano a Sappada28 e alcune statue in Gußstein o in arenaria e restaurate. come il san Biagio della chiesa di Alleghe (dell’inizio del XV A questo punto credo sia utile fornire un elenco di tali ope- secolo), la piccola Madonna in alabastro proveniente dal san- re collocandole in ordine approssimativamente cronologico24: tuario dei Santi Vittore e Corona (sempre dell’inizio del XV 1) l’altare della chiesa di Santa Fosca a Selva di Cadore (1490- sec.) 1500), di cui sopravvive solo lo scrigno (la parte centrale); la provincia di Belluno30, risulta evidente che, nonostante le 2) l’altare della chiesa di San Sebastiano a Falcade, di cui rilevanti perdite, in questa zona esiste ancora una significati- sono rimaste solo le tre sculture dello scrigno (1497 circa); va testimonianza di tali opere. 21 22 23 29 e i cinque Vesperbilder che ancora si conservano nel- 3) la predella e le portelle dell’antico altar maggiore della chiesa arcidiaconale di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore (1498 circa) di Ruprecht Potsch; la realizzazione dei Flügelaltäre nella provincia di Belluno 4) l’altare di San Tiziano a Goima di Zoldo riconducibile alla durante i secoli XV e XVI bottega di A. Haller (1520); La presenza di opere di scuola tedesca nell’alto bellunese è 5) le due statue superstiti della chiesa di San Volfango a Pre- legata a diversi fattori fra cui, in primo luogo, quella “feli- senaio, che facevano parte di un antico altare a battenti (del- ce fluidità dei confini”31 che caratterizzò l’autunno del l’inizio del 1500); Medioevo nei paesi alpini (fig. 1). Nel 2002 Enrico Castel- 6) l’altare di Ruprecht Potsch della chiesa parrocchiale di San- nuovo scriveva a tal proposito: “se c’è un momento nel ta Maddalena a Rocca Pietore (del 1518); quale si può parlare di un’arte alpina è proprio il XV seco- 7) l’altare della chiesa dei Santi Simone e Giuda a Vallada lo”32, tuttavia “questo fecondo momento di scambio fra la Agordina attribuibile alla bottega di Andrè Haller (1520- cultura nordica e quella latina si concluse con la fine del 1525); ‘Gotico internazionale’”33. Tale situazione infatti mutò col 8) la predella e la statua di san Rocco appartenenti all’altare diffondersi della Riforma protestante che indusse i paesi di Michele Parth nella chiesa della Difesa a Villapiccola di cattolici a creare nuovi sbarramenti per controllare le infil- Lorenzago (1523-1525 circa); trazioni dei luterani. Non mi dilungherò su questo argo- 9) le due statue, sempre di Michele Parth, raffiguranti santa mento poiché la funzione dei paesi alpini come luogo d’in- Margherita e santa Caterina della chiesa parrocchiale di Sappa- contro fra la cultura tedesca e quella latina è stata oggetto da (del 1530 circa) che facevano parte di un altare a battenti; di molte recenti pubblicazioni34, concentrerò invece la mia 10) l’altare di Michele Parth della chiesa di Sant’Orsola a Vigo indagine su alcuni aspetti più direttamente connessi alla di Cadore (del 1541) a cui manca il coronamento; presenza dei Flügelaltäre in questa zona che non sono sta- 11) l’altare di Michele Parth nella chiesa di San Candido a Cam- ti ancora indagati fra i quali, in primo luogo, la committen- po di Cortina (del 1549), a cui manca solo il coronamento. za di queste opere. A queste opere vanno aggiunte: Anticipando le conclusioni, dirò subito che, a mio avviso, i 12) le due tavole dipinte, di scuola klockeriana, databili all’i- principali committenti dei Flügelaltäre bellunesi furono quei nizio del XVI secolo e raffiguranti due Sacre Conversazioni (la piccoli gruppi di paesani che, assieme ai fabbriceri, gestivano Madonna con sei santi e la Madonna con quattro santi) che i beni delle chiese locali35: si tratta dunque di capire perché sono attualmente conservate nella chiesa di San Floriano a questi uomini, di lingua e cultura italiana, con scarsi mezzi e Pieve di Zoldo ; limitate conoscenze artistiche ordinassero i loro altari ad arti- 13) la tavola dipinta (della fine del XVI secolo) raffigurante la sti tedeschi anziché a quelli italiani. Ciò implica infatti l’esi- Vergine fra san Nicolò e san Biagio nella chiesa di Ospitale di stenza, a livello popolare, di forti legami fra le comunità resi- Cortina26; denti sui due versanti delle Alpi, un fatto che solo in tempi 25 280 Vicende storico-culturali che hanno determinato 1. Carta geografica raffigurante la suddivisione politica dell’Italia nord-orientale nel XV secolo (tratto dal catalogo della mostra “Il Gotico nelle Alpi”, Trento 2002) recenti è stato confermato dalle ricerche storiche che hanno Vediamo innanzitutto chi erano i tedeschi residenti in queste inoltre appurato la complessità di tali rapporti che erano nel- zone nel Quattrocento e nel Cinquecento: semplificando li lo stesso tempo economici, culturali e religiosi. potremmo raggruppare in alcune grandi categorie: i preti, i Comincerò a esaminare i legami religiosi poiché sono stati i mercanti e gli artigiani (residenti soprattutto nei borghi mag- meno indagati, e poiché ebbero un ruolo fondamentale nel- giori), e infine i minatori41. l’unire le genti dei due versanti alpini, sia nel tardo Medioe- Per quanto riguarda la prima categoria, non esiste alcuna vo sia nei secoli successivi. Questi legami durarono infatti traccia documentaria che attesti un legame diretto fra i Flü- fino all’Ottocento e qualcuno di essi esiste tutt’ora: basti gelaltäre e i numerosi preti di origine oltralpina che, fino all’i- pensare ai pellegrinaggi che per secoli partirono (almeno una nizio del Cinquecento, erano presenti in queste zone42. Nel volta all’anno) dai villaggi situati sul versante meridionale del- Quattrocento ad esempio vi furono a Pieve di Cadore due le Alpi orientali diretti verso alcuni importanti santuari oltral- arcidiaconi d’origine tedesca, ma essi non ebbero alcun rap- pini come quello di Heiligenblut, quello di Sant’Osvaldo a porto con la commissione dell’altar maggiore della pieve Sauris, quello diretto alla collegiata di San Candido e infine all’intagliatore brissinese Ruprecht Potsch dato che, quando quello per il santuario di Maria Luggau nella Gailtal, che ha fu realizzata quest’opera (nel 1498), era arcidiacono il cado- luogo ancor oggi nella terza domenica di settembre36. Tali rino Vendramino Soldano (1488-1515) e non un tedesco. Nel occasioni permettevano il contatto diretto con le opere d’ar- XV secolo, su otto arcidiaconi del Cadore43, solo due furono te tedesche le cui forme entrarono così lentamente nel baga- d’origine tedesca: Andrea da Colonia (1435-1455) e Giovan- glio figurativo delle popolazioni alpine italiane . ni Krauss (1462-1473)44, i quali tuttavia, anche se “foresti”, Fino a ora i pochi studiosi che si sono occupati di questi alta- avevano già ricoperto qualche incarico presso altre chiese del ri hanno sostenuto che essi furono commissionati dai tede- Cadore. Questo fatto, come nota giustamente la Spiazzi, schi temporaneamente o stabilmente residenti in queste conferma l’esistenza per tutto il Quattrocento di una forte zone . Tale ipotesi, a cui in passato aderii anch’io, non può autonomia locale che venne meno solamente nel secolo suc- essere completamente scartata ma bisogna ammettere che, cessivo con il progressivo spostamento degli interessi politici, al momento, mancano conferme documentarie in tal senso; economici e culturali verso la Serenissima45. pertanto, se è vero che queste presenze allogene costituiro- La mancanza di un legame diretto fra la presenza di sacerdoti 37 38 no un tramite importante per la conoscenza dell’arte tede- tedeschi e la commissione di Flügelaltäre è confermata anche sca, non è altrettanto certo che spettino a questi gruppi le dall’esame di altre situazioni locali: a Lorenzago, ad esempio, commissioni dei Flügelaltäre39. Credo dunque che vada ricon- quando nel 1523 fu commissionato all’intagliatore pusterese siderata una vecchia affermazione di Marchetti secondo il Michele Parth l’altare per la chiesa della Difesa era parroco quale “Non è per nulla esatto dire che clienti delle botteghe Pietro da Thiene e non, come si potrebbe supporre, il suo d’oltre confine, fossero soltanto le colonie allogene”40. predecessore Tommaso Piper di origine prussiana46. A Vigo di 281 Cadore non vi furono preti tedeschi dall’inizio del Quattro- di storici della seconda metà del Novecento57 hanno giusta- cento alla metà del Cinquecento, e tuttavia nel 1541 venne mente sottolineato l’importanza degli scambi che avveniva- commissionato al Parth l’altare per la chiesa di Sant’Orsola . no all’interno dell’area alpina, utilizzando le strade seconda- Diverso ovviamente era il caso di Sappada48 dove (come a rie e i valichi minori orientati prevalentemente sull’asse est- Sauris) la popolazione era di origine tedesca, e di conse- ovest (come il passo San Pellegrino, il Falzarego, il passo di guenza vi furono diversi curati d’oltralpe poiché, per assolve- Monte Croce Comelico eccetera)58. re ai loro doveri pastorali (in particolar modo per la confes- I prodotti di prima necessità per la gente locale, primi fra tut- sione), essi dovevano conoscere la lingua dei parrocchiani49. ti i cereali di cui v’era estrema penuria in questa zona, pas- Fino alla metà del Cinquecento, quando il potere centrale di savano principalmente su queste strade59. Furono soprattut- Venezia e più tardi quello della Chiesa cattolica riformata to questi scambi a favorire i contatti fra la gente minuta dei incominciarono a farsi sentire in maniera più decisa, le comu- due versanti e a far sì che gli italiani potessero apprezzare le nità locali, attraverso i fabbriceri50, poterono dunque ammi- opere d’arte tedesche e contattare gli artigiani d’oltralpe. La nistrare con grande e autonomia i beni delle loro chiese, presenza di queste vie favorì l’insediamento di artigiani e anche perché tale autonomia era garantita da antiche norme mercanti tedeschi nei paesi situati lungo le strade maggiori 60 e consuetudini . e spiega inoltre la presenza di ben cinque Vesperbilder nella Il legame culturale e religioso con i tedeschi non era dunque sola provincia di Belluno61. imposto dall’alto ma veniva condiviso dalla gente comune Un altro aspetto di notevole rilevanza per la diffusione del- che, fino alla metà del Cinquecento, conosceva e apprezza- l’arte tedesca è costituito dalla presenza di diverse miniere (di 47 51 va gli altari tedeschi almeno quanto le ancone italiane. Una rame, ferro e argento) distribuite nell’Alto agordino (valle conferma di questa committenza popolare viene anche Imperina) nel Cadore (Santa Fosca, Pescùl e Auronzo)62 e nel- dagli unici tre contratti d’appalto superstiti di questa zona52: lo Zoldano nonchè di numerosi “forni fusori” in cui venivano quello per il Flügelaltar di Rocca Pietore, stipulato fra “gli lavorati i metalli estratti da queste miniere. Gli studiosi che si uomini di Rocca” e l’intagliatore brissinese Ruprecht Potsch sono occupati di quest’attività hanno sottolineato come, nel 1516 e i due contratti stipulati fra l’intagliatore Michele fin’oltre la metà del Cinquecento, gran parte delle maestran- Parth di Brunico e gli uomini di Lorenzago e Vigo di Cado- ze specializzate che lavoravano nelle miniere e nei forni fos- re rispettivamente nel 1523 per la chiesa della Difesa a sero d’origine tedesca e come questo fatto abbia profonda- Lorenzago, e nel 1541 per la chiesa di Sant’Orsola a Vigo. mente influito sulla cultura e sull’arte di queste zone63. Scrive Se è vero che gli abitanti di Rocca Pietore erano fortemen- infatti a tal proposito Cucagna: “i documenti non lasciano te influenzati dalla cultura tedesca, sia per la vicinanza con dubbi: tedesco è, particolarmente nei secoli più lontani, il per- i territori del vescovo di Bressanone, sia per l’autonomia dal sonale direttivo e tecnico, tedesca è la tecnica seguita nell’e- potere centrale di cui il paese godeva da molto tempo per scavazione, tedesca è ovunque la terminologia mineraria. È i paesi di Vigo e Lorenzago la situazione era diversa eppure probabile dunque che nelle valli bellunesi, come in quelle del 53 282 dalla lettura dei contratti emerge chiaramente come i com- Trentino e della Carnia i minatori tedeschi fossero chiamati mittenti fossero proprio gli abitanti del paese54. Anche il per perfezionare e dare nuovo impulso all’industria mineraria recentissimo rinvenimento dei documenti relativi all’altare anche se il flusso migratorio non dovette mai essere forte della chiesa di Pieve di Cadore55, commissionato al maestro numericamente”64. Della stessa opinione è il Vergani secondo Ruprecht Potsch di Bressanone, conferma questa situazio- cui: “tra la comunità veneta e la colonia tedesca si stabilì un ne: il maestoso Flügelaltar della pieve matrice del Cadore rapporto di scambio materiale e culturale che ebbe conse- venne infatti ordinato e pagato dagli abitanti di Pieve e dei guenze indelebili sulla configurazione della zona”65. paesi limitrofi. A una prima indagine potrebbe dunque sembrare che i Flü- Vediamo ora l’incidenza che ebbero, nella diffusione di que- gelaltäre di paesi “minerari” come Falcade, Selva di Cadore, ste opere, i legami economici fra le popolazioni dei due ver- Goima e Vallada Agordina fossero collegabili alla presenza di santi alpini. È stato detto spesso che la presenza di Flügelal- questi lavoratori, tuttavia non sono stati ancora trovati dei täre nell’alto bellunese era legata all’esistenza d’importanti documenti che attestino la committenza di queste opere da vie di comunicazione con i paesi tedeschi (fig. 2); tuttavia, parte di gruppi o individui di lingua tedesca. Ritengo dunque mentre negli studi passati l’attenzione era rivolta quasi esclu- che, come nel caso degli altri Flügelaltäre, la presenza di que- sivamente agli scambi internazionali (destinati alle merci di ste opere sia dovuta principalmente al forte influsso culturale maggior pregio come ferro, spezie, tessuti preziosi eccetera) che, assieme ai fattori già esaminati66, questi gruppi allogeni che utilizzavano le strade più importanti e i maggiori valichi esercitarono sulla popolazione locale. Dai documenti d’archi- alpini, orientati prevalentemente sull’asse nord-sud56, gli stu- vio veniamo infatti a sapere che, nel corso del Quattrocento, Conservazione, distruzioni e fortuna critica dei Flügelaltäre bellunesi La storia conservativa di questi altari è soprattutto la storia delle distruzioni, delle modificazioni e delle vendite subite da tali manufatti nel corso dei secoli. Secondo la Ericani tali distruzioni iniziarono molto presto71 poiché, già all’inizio del Seicento, molti Flügelaltäre sarebbero stati modificati o distrutti per ottemperare alle norme riguardanti gli arredi ecclesiastici emanate dal Concilio di Trento72. Secondo la studiosa nella diocesi bellunese tali interventi sarebbero stati particolarmente esiziali a causa dell’applicazione rigorosa dei dettami controriformistici messa in atto dal vescovo Lollino73, che avrebbe causato “l’eliminazione sommaria” di gran parte dei Flügelaltäre del bellunese, causando una vera e propria ecatombe da cui “si salvarono pochissimi esemplari”74. La prevenzione del vescovo Lollino nei confronti di queste opere risulterebbe dalle disposizioni impartite nel corso delle visite pastorali che egli effettuò nella diocesi di Belluno fra il 1600 e il 161375. Rileggendo tali documenti mi pare tuttavia che gran parte delle ingiunzioni del vescovo riguardino la mensa degli altari e non le sovrastanti ancone76, di conseguenza ritengo che i danni causati dal suo intervento siano stati in realtà minori di quanto pensava la Ericani e casomai più legati al cattivo stato di conservazione che alle caratteristiche formali di queste opere. Resta il fatto che nell’Agordino durante i primi decenni del Seicento diversi antichi altari (non solo quelli tedeschi) vennero sostituiti con altari barocchi77: possiamo ricordare fra questi l’altare della chiesa dei Santi Vittore e Corona a Voltago78, quello di San Nicolò a Frassenelle79, quello dei Santi Floriano e Sisto a Riva D’Agordo (l’attuale Rivamonte), quello di San Valentino a Mareson di Zoldo 80 e quello di Sant’Andrea a Gosaldo81. ll Flügelaltar della chiesa di San Tiziano a Goima rimase sull’altar maggiore fino al 1714 e, quando venne rimosso, non fu distrutto ma collocato, come scrive Vizzutti, in un luogo meno eminente della chiesa82. Qualcosa di analogo (ma quasi un secolo prima) avvenne nella chiesa di San Tommaso agordino dove poco prima del 1630 l’altare maggiore a bat2. Giovanni Antonio Magini, il Cadorino (1620). La linea blu circoscrive la zona che è oggetto di questo saggio, comprendente lo Zoldano, l’Agordino e il Cadore; la linea rossa indica il percorso della via d’Alemagna orientata sull’asse nord-sud; le linee verdi indicano le strade secondarie orientate prevalentemente sull’asse est-ovest. gli abitanti di Selva si servivano normalmente di artigiani tede- tenti venne spostato in una cappella della stessa chiesa e al schi: nel 1421 infatti gli abitanti di Pescùl affidarono a un tale suo posto venne collocata una grande pala di Frigimelica83. “mastro Sigismondo de Vischogna de Bornico”67 i lavori di Vi sono inoltre alcuni altari tedeschi di cui non si conosce la ricostruzione della chiesa di Santa Fosca che venne riconsa- data esatta di rimozione, come ad esempio i tre altari attri- crata nel 143868 e, alla fine del Quattrocento, commissiona- buiti a Ruprecht Potsch rispettivamente nelle chiese parroc- rono l’altar maggiore all’artista pusterese Simone da Tesido . chiali di Cencenighe, di Caprile, e nella chiesa arcidiaconale Anche in questo caso i committenti dovettero essere i fabbri- di Agordo84 . ceri locali e non, come si potrebbe pensare, una confraterni- Le raccomandazioni del vescovo Lollino erano chiaramente ta di minatori tedeschi infatti, nel registro della visita pastora- ispirate alle prescrizioni del Concilio di Trento che, fra l’al- le del 1602, è scritto che “l’altar maggiore [di S. Fosca] appar- tro, imponevano di ingrandire la mensa degli altari per cele- tiene alla Chiesa e non v’è alcuna confraternita”70. brare correttamente la messa: per tali ragioni il vescovo 69 283 imputabili più al mutamento del gusto che a motivi religio- 3. Vito da Tesido (?), 1490-1500, scrigno dell’antico Flügelaltar posto sull’altar maggiore della chiesa di Santa Fosca a Pescùl, inserito nell’altare ligneo barocco realizzato dopo il 1640 si. Spesso infatti questi altari venivano considerati antiquati o troppo piccoli per i nuovi edifici (ingranditi o rifatti in questo periodo), cosicché alcune statue o parti di antichi Flügelaltäre89 vennero sistemate entro altari barocchi, come si vede in almeno cinque delle opere che ho elencato più sopra90. Questa prassi del resto era diffusa in tutto l’arco alpino, come dimostra ad esempio la frequenza di casi analoghi in Trentino; a tal proposito Enrico Castelnuovo scrive: “È rivelatore il fatto che molte sculture che facevano parte all’origine di un altare a portelle abbiano trovato un reimpiego, una volta che il complesso a cui appartenevano era stato smantellato, entro più nuovi contenitori la cui riutilizzazione non dipese solo dal desiderio di conservare immagini venerate, ma dalla consapevolezza che esse potevano adattarsi ad un nuovo contesto, ad un altare barocco per esempio, ma che di un contesto avevano bisogno”91. Solo dalla fine del Settecento infatti gli altari lignei cominciarono a essere concepiti come un insieme di singole tavole o sculture dipinte e vennero quindi smembrati e venduti in pezzi. È noto come le visite pastorali siano preziose per lo studio degli arredi ecclesastici ma in questa zona sono utilizzabili a tal fine solo le visite della fine del Cinquecento e dei primissimi anni del secolo successivo: dalla metà del Seicento infatti, l’attenzione dei visitatori s’incentrò sull’attività pastorale e sul comportamento dei preti e dei fedeli e non si trova più alcun accenno agli arredi92. Nell’arco alpino orientale le uniche visite pastorali che danno informazioni sugli arredi delle chiese sono quella effettuata nel 1602 dal patriarca d’Aquiscriveva che la mensa doveva misurare da 5 a 7 piedi di leia Francesco Barbaro nelle chiese della Carnia93 e quella del “longheza”85, 3 piedi di “largheza” e, qualora tali misure 1604 realizzata dall’arcivescovo Ermolao Barbaro nelle chie- risultassero inferiori, esse andavano modificate “con se del Cadore94 (che faceva parte della diocesi di Aquileia), aggiunta di sasso, di querelli86 o di legno, con proporzione oltre alle visite del vescovo Lollino nell’Agordino (diocesi di et decentia et siano nella metà serata d’ogni parte, levan- Belluno) negli anni 1600, 1607 e 161395. dovi armari o altri busi, che non vi si possa mettere cosa Nel corso della visita pastorale effettuata in Carnia nel 1602, alcuna” . Secondo Ericani tali norme si riferivano ai Flüge- il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro96 e il suo luogote- laltäre posti sopra alla mensa88 che, in effetti, hanno la for- nente Agostino Bruno s’imbatterono spesso in opere di scuo- ma di “armari”, ma in tal caso non avrebbe senso né l’in- la tedesca di cui lasciarono delle descrizioni molto succinte giunzione di ingrandirli (anche perché molti misurano ben ma significative per comprendere il valore che assegnavano a 87 284 più di 7 piedi!) né soprattutto di usare a tale scopo la pie- queste opere. A proposito del Flügelaltar eseguito da Miche- tra e i mattoni (querelli). le Parth nel 1524 per la chiesa di Sant’Osvaldo a Sauris di Se dunque è vero che, nei primi decenni del Seicento, alcu- Sotto si legge: “Sull’altar maggiore, sufficientemente alto ed ni Flügelaltäre dell’Agordino vennero sostituiti con altari di ampio, si trova un bellissimo altare ligneo dorato ed intaglia- tipo “moderno”, non bisogna dimenticare che nelle visite to, alto fino alla sommità della volta, contenente fra le altre pastorali di quegli stessi anni vi sono molti passi che atte- la statua raffigurante sant’Osvaldo… ”97. Sull’altare realizza- stano l’ammirazione dei prelati italiani verso queste opere. to da Michele Parth nel 1534 per la chiesa parrocchiale di Infatti, sia dalle notizie d’archivio che dalle modificazioni Prato Carnico è scritto: “L’altar maggiore, di pietra, che si subite dai Flügelaltäre risulta che gran parte di queste ope- trova sotto l’arco del presbiterio è sufficientemente largo ed razioni vennero effettuate nei secoli successivi e furono alto ed ha [sopra] un grande altare ligneo intagliato e dora- o quantomeno di discreta fattura (“iconae pulcrae, perpul- 4. Michele Parth (1541), scrigno, portelle e predella dell’antico Flügelaltar posto sull’altar maggiore della chiesa di Sant’Orsola a Vigo di Cadore inserito nell’altare ligneo barocco realizzato dai fratelli Chiantre nel XVII secolo crae o decentes”). Qualche rara volta, a tali giudizi, viene aggiunta la definizione “antico” (“icona antiqua”) che tuttavia non ha alcun intento spregiativo; c. tali descrizioni sono sempre molto succinte al punto che non vengono neppure citati tutti i santi raffigurati (neppure quelli dello scrigno): il più delle volte infatti, vengono menzionate solo la statua della Vergine e quella del santo titolare della chiesa senza precisare né la forma dell’altare, né i soggetti eventualmente dipinti sulle portelle; d. dalla terminologia usata risulta infine chiaramente come la parola “altare” si riferisca sempre e soltanto alla mensa, mentre quello che noi oggi chiamiamo altare (il dossale) – sia che si tratti di un altare a portelle sia che si tratti di un’ancona di tipo italiano –, veniva definito “icona lignea insculpta et aurata”. Questo, a mio avviso, costituisce una riprova del fatto che quando il vescovo Lollino raccomandava di chiudere i fori degli “altari” per impedire che vi venissero conservate le reliquie si riferiva senz’altro alla mensa. Le medesime considerazioni si possono fare riguardo alla visita pastorale effettuata nel 1604 dall’arcivescovo Ermolao Barbaro103 (come coadiutore del fratello patriarca) nelle chiese del Cadore. Ermolao Barbaro, che era il fratello minore del già citato Francesco, venne accompagnato dallo stesso Agostino Bruno che già aveva scortato il patriarca nella preceto, antico [ma] piuttosto bello, in cui, fra le altre sculture, dente visita in Carnia. La visita pastorale in Cadore ebbe ini- sono raffigurati il Crocifisso e i santi Canzio, Canziano e Can- zio il 6 settembre del 1604104 dalla chiesa di Santa Fosca dove zianilla ha inoltre uno paliotto98 decoroso, le balaustre e il si conservano ancora diverse opere di scuola tedesca fra cui baldacchino” . lo scrigno dell’antico altar maggiore, eseguito da Vito da Il Flügelaltar eseguito, sempre da Michele Parth, per la chie- Tesido alla fine del Quattrocento e attualmente inserito in un sa di Santa Margherita a Sappada, di cui restano attualmen- fastoso altare barocco (fig. 3)105. Agostino Bruno scrisse di te solo due statue, viene definito “un bell’altare ligneo dora- quest’opera: “L’altare maggiore si trova nella cappella princi- to e intagliato in cui, fra le altre sono raffigurate la beata Ver- pale alla quale si accede salendo un gradino sormontato da gine e santa Margherita e, nel coronamento, nostro Signore un arco ed ha il pavimento realizzato con pietre intere; il Crocefisso” . paliotto dell’altare, realizzato in legno, è un po’piccolo e Da questi pochi brani – ma se ne potrebbero citare molti [sopra l’altare] v’è un’ancona lignea scolpita e dorata in buo- 99 100 altri – 101 ne condizioni, ove sono rappresentate fra le altre immagini la si deduce che: a. quasi tutti i visitatori, pur essendo di cultura italiana, non Beata Vergine e Santa Fosca, per il resto l’altare è piuttosto avevano alcun pregiudizio nei confronti degli altari “tede- ben eseguito. Il Signore [Ermolao Barbaro] ordinò di allarga- schi”, la cui presenza in queste chiese doveva apparir loro re da entrambi i lati di mezzo palmo il paliotto…”106. Nel così naturale da non segnalarne neppure la diversità; infatti resoconto della stessa visita a proposito dell’altare realizzato soltanto nelle visite pastorali del vescovo Lollino è talvolta da Ruprecht Potsch alla fine del Quattrocento per la chiesa di precisato che si tratta di altari “cum portellis depictis” . Nel- Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore si legge: “sopra l’al- le visite pastorali dei due Barbaro è impossibile capire se gli tare c’è una ancona lignea, eseguita in maniera corretta, alta 102 altari descritti sono di scuola italiana o di scuola tedesca; tan- fino alla volta, dorata e intagliata contenente le immagini to che, per capire il giudizio dei visitatori nei confronti dei della Beata Vergine e dei santi Pietro e Paolo”107. Flügelaltäre, ho dovuto verificare il loro giudizio sugli altari Dell’altare della chiesa di Sant’Orsola a Vigo di Cadore, rea- “tedeschi” sopravvissuti; lizzato nel 1541 da Michele Parth, Agostino Bruno scrisse: b. i visitatori italiani apprezzavano senza riserve gli altari “ha una mensa in pietra liscia che, sebbene piuttosto picco- tedeschi poiché li definiscono quasi sempre belli, molto belli la è stata adeguatamente ingrandita col legno affinché l’al285 tare risulti sufficientemente alto e largo e, sopra di esso si prassi consueta in questa zona fra la fine del Settecento e l’i- trova un’ancona lignea dorata e intagliata con, fra le altre, le nizio dell’Ottocento, quando in seguito all’ingrandimento di immagini quelle della Beata Vergine e di sant’Orsola. Per il molte antiche chiese diversi altari lignei (sia italiani che tede- resto l’altare fu trovato in buone condizioni ed è dotato di un schi) che fino ad allora erano rimasti intatti114 furono dispersi. paliotto adeguato” . Nel caso di Pieve la documentazione è particolarmente ricca Anche i giudizi riportati da Tamis su alcuni altari tedeschi del- perché la costruzione della nuova chiesa fu al centro di l’Agordino confermano l’apprezzamento verso queste opere un’accesa polemica che indusse alcuni studiosi locali a pren- da parte dei prelati italiani che effettuavano le visite pastora- dere posizione in merito, fornendo così indirettamente qual- li. Il Flügelaltar della chiesa di San Simon di Vallada Agordi- che notizia anche sugli altari. na, ad esempio, viene definito “di fattura tedesca e di gusto Rientra fra le già ricordate ricerche sulla storia locale l’Historia antico ma elegante e bello”, così come “in buono stato e di della provincia di Cadore composta da Don Antonio Barnabò pregevole fattura” venne giudicato il perduto altare di verso il 1730115 (rimasta manoscritta), che contiene alcune Ruprecht Potsch per la chiesa di sant’Antonio abate a Cen- interessanti considerazioni sull’altar maggiore della chiesa cenighe mentre l’altar maggiore (perduto) della chiesa arci- arcidiaconale di Pieve. Barnabò annotava infatti che “L’altar diaconale di Agordo viene descritto come “pregevole, ben maggiore poi è bellissimo e grande, con una bellissima custo- eseguito, antico e di fattura tedesca”109. dia grande dorata adorno al pari di Chiesa cattedrale. Vi è la 108 pala maggiore delle belle e singolari che siano nella nostra Concludendo mi sembra dunque improbabile che siano sta- patria, nella quale evi fatta in bellissima scultura l’immagine di te le disposizioni della Controriforma e lo spirito antitedesco Nostra Signora con due altre sculture alli di lei lati de’gloriosi indotto dalla guerra antiasburgica del primo Cinquecento a SS. Apostoli Pietro e Paulo opere bellissime e di gran prezzo causare la distruzione di numerosi Flügelaltäre ; non dob- tanto espressive che paiono vive, la qual palla si chiude con le biamo dimenticare infatti che in questo periodo c’era un sue portelle dipinte co’pittura alla greca et all’antica”116. grande rispetto per le opere d’arte, non solo per il loro costo, Da questa testimonianza si viene dunque a sapere che, nel che era enorme se confrontato al potere d’acquisto di un 1730, il Flügelaltar di Pieve di Cadore era ancora intatto nel- normale cittadino, ma anche per il riguardo dovuto ai com- la sua ubicazione originaria. In un altro manoscritto, sempre mittenti ai quali esse appartenevano giuridicamente111. A ciò di Barnabò, si legge: “In luoco di pala v’è un grande arma- bisogna aggiungere il valore devozionale degli altari per cui, dio incassato nel muro del coro al didietro dell’altare, ma ele- anche quando venivano smembrati, si conservavano di nor- vato in modo di vederlo senza impedimento dal tabernaco- ma le sculture a cui la devozione popolare era maggiormente lo. Contiene esso nel mezzo un elevato magnifico trono su legata, come ad esempio quelle dello scrigno, inserendole in cui venerasi seduta l’immagine di Maria Vergine con Bambi- 110 nuove strutture architettoniche di gusto aggiornato (fig. 4). no Gesù, che ignudo le sta ritto sulle ginocchia. Nei lati entro Tale prassi del resto venne spesso seguita anche nel Trentino due uguali […] intere ed ornate nicchie stanno riposte le sta- che presentava forti analogie etniche e culturali col bellune- tue in piedi dei beatissimi apostoli Pietro e Paolo compatroni se112. Mi sembra, infine, significativo che nelle due principali della chiesa. È festeggiata la Vergine da vari angeli pure scol- chiese della zona (al di fuori di Belluno), e cioè nelle chiese piti ed elegantemente disposti, ed inoltre tutto il recipiente è arcidiaconali di Pieve e Agordo, l’esecuzione dell’altar mag- arricchito di rabeschi di fine intaglio, e tutto profusamente giore fosse stata affidata all’artista brissinese. dorato, tranne le carni che sono a color naturale. Le due porte che lo chiudono sono dipinte sulle due intere facciate da Per trovare nuove testimonianze scritte sui Flügelaltäre biso- pennello non spregevole, benché di gusto e di maniera anti- gna arrivare ai primi decenni del Settecento tuttavia, a diffe- ca. Vi sono rappresentate quattro storie: l’Annunciazione, la renza delle visite pastorali, le testimonianze dei secoli XVIII e Nascita di Gesù, la Circoncisione e l’Adorazione dei Magi, XIX riguardano quasi esclusivamente le opere conservate nei due per cadauna [portella]. Lo stile è alquanto secco ma la centri maggiori e, come in altre regioni italiane, sono legate composizione magnifica, le vesti abbondanti più del conve- allo sviluppo dell’erudizione locale. nevole e ricche di fior[ami], lavori e dorature. Il fondo dei Mi limiterò a prendere in esame la documentazione inerente quadrati è pure in oro. Oltre al dipinto queste porte sono in il Flügelaltar della chiesa di Pieve di Cadore poiché esso costi- alto al mezzo e in fondo ornate di rabeschi e d’intaglio dora- che ti. Stanno d’altronde sovrapposte a quest’armadio le altre per l’importanza di questa chiesa, in quanto pieve matrice e nicchie di lavoro gotico con entro angeli grandi e piccini inta- sede dell’arcidiacono del Cadore. gliati, ma non dorati, le quali compiono l’altare e formano un Il caso di Pieve è importante anche perché documenta una tutto e tal che non si trova pari nella nostra patria”117. tuisce un caso emblematico sia per la qualità dell’opera 113 286 5-6. Bottega di Ruprecht Potsch, scene raffiguranti l’Annunciazione e i santi Bartolomeo e Tommaso che si trovano rispettivamente all’interno e all’esterno delle portelle dipinte che chiudevano lo scrigno (perduto) del Flügelaltar già sull’altar maggiore della chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore (1498) In entrambi i brani, si percepisce un sostanziale apprezza- la sua provenienza, anche se evidentemente se n’era scorda- mento verso quest’opera, a cui viene mosso l’unico appun- to l’autore. Quanto il Sampieri scrive dell’altare di Lienz a mio to, espresso peraltro con estrema indulgenza, di essere avviso segnala soltanto il corretto avvicinamento di quest’o- “all’antica”. È interessante notare come alcuni giudizi di Bar- pera agli altari tirolesi che tuttavia a un abate italiano del Set- nabò, come quello su “le vesti più abbondanti del convene- tecento dovevano apparire tutti uguali. Interessante infine la vole “o quello sull’estremo realismo delle figure,“tanto definizione “alla greca” riservata da Sampieri alle decorazio- espressive che paiono vive”, compaiano, quasi identici, nel ni mentre Barnabò usava questo termine per le portelle che saggio Arte italiana e arte tedesca scritto nel 1942 da Rober- egli definiva dipinte “co’pittura alla greca et all’antica”. È to Longhi. L’illustre critico stigmatizzava infatti i “panneggi probabile che con tale definizione entrambi gli studiosi inten- che si snodano e si ammonticchiano ad infinitum” e il reali- dessero semplicemente sottolineare il gusto antiquato di smo “più vero del vero” che, a suo avviso, caratterizza tutta questi ornati. l’arte tedesca e sembra più prevenuto dell’erudito settecen- Segue infine la testimonianza di Taddeo Jacobi che, verso il tesco nei confronti dei Flügelaltäre tardo gotici che egli giu- 1810, scrisse: “ La palla dell’altar maggiore è formata da un dica frutto di un artigianato “possente e paziente” piuttosto grande armadio, nel quale si trovano esposte all’adorazio- che vera e propria arte118, mentre Barnabò ammirava since- ne le statue della Vergine e degli apostoli Pietro e Paolo in ramente la straordinaria perizia tecnica e la qualità artistica di legno. La B.V. è collocata nel mezzo sopra un magnifico questo altare. trono, ove sta seduta con Gesù ritto sulle di lei ginocchia Un’ulteriore testimonianza su quest’opera è quella, di poco […] sono gli apostoli in piedi. Tutto il resto è composto alla successiva, dell’abate Giuseppe Sampieri119 che nel 1761 scri- gotica con abbondanza di ornati lavorati con maestria, e veva: “L’altar maggiore è tutto di legno dorato dall’alto in profusamente dorati. Sopra l’armadio vi sono altre statue basso e lavorato con somma finezza d’interi rilievi, con in non dorate. Continuando le porte per chiuderlo sono entro mezzo la statua della beatissima Vergine e dalle parti san Pie- e fuori dipinte di gusto tedesco, di disegno scorretto, ma tro e san Paolo con moltissime ‘decorazioni alla greca’. Que- diligenti e magnifiche pitture. Le interne contengono i fat- sto fu fatto in Bresenone, e nella città di Lienz nella Carintia ti dell’Annunziazione, della Nascita, della Visita dei Magi, e vi è un altare similissimo allo stesso”120. Da questo scritto si della Circoncisione: esternamente poi vi si vedono alcuni desume dunque che, nella seconda metà del Settecento, l’al- santi (fig. 5-6)”121. tare veniva ancora apprezzato e non s’era persa notizia del- Il concorde apprezzamento degli eruditi locali non bastò tut287 esempio la soffitta della sacrestia o della canonica) ma forse, 7. Bottega di Hans Klocker (?), scultura lignea raffigurante san Paolo (?) proveniente da uno smembrato Flügelaltar tirolese databile tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, Oslo, Museo Nazionale quando vent’anni dopo i lavori della chiesa furono terminati, esso appariva ormai obsoleto o era stato semplicemente “dimenticato” dai fedeli. Approfittando di questa situazione qualche prelato poco colto o poco onesto avrebbe potuto vendere la parte più importante dell’altare senza sollevare le proteste dei cittadini. Sebbene si tratti soltanto di un’ipotesi, mi pare che l’incomprensibile sparizione delle tre sculture principali e la sopravvivenza di parti secondarie, unita all’assoluto silenzio dei documenti su quest’opera, che era stata oggetto di tanta ammirazione, nasconda qualcosa di poco chiaro come forse una vendita clandestina. Tale vendita avrebbe potuto avvenire fra il 1813 e il 1886, anno in cui Brentari vide nella sagrestia le portelle, che egli definì “fiamminghe”, assieme a un “altarino di legno dorato” (che era probabilmente la predella) e non fece parola delle tre sculture dello scrigno124. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, come in molte provincie italiane, anche nel bellunese s’aggiravano numerosi antiquari senza scrupoli che comperavano opere d’arte per i collezionisti italiani e stranieri125; in questi anni infatti vennero venduti – ma fortunatamente recuperati – l’altare della chiesa di San Nicolò a Bribano (nel 1895)126 e quello di Michele Parth della chiesa di Santa Caterina a Campo (Cortina)127. Se, come penso, anche le statue dello scrigno di Pieve vennero vendute, è possibile che, prima o poi, esse riemergano in qualche collezione pubblica o privata come è spesso accaduto per i Flügelaltäre del Sudtirolo128. Per tale ragione segnalo due sculture poco note (fig. 7), raffiguranti rispettivamente san Paolo (?) e san Volfango (?), che si trovano attualmente nel museo nazionale di tavia a preservare quest’altare dallo smembramento che Oslo129 e provengono verosimilmente dal Sudtirolo. Credo sia avvenne probabilmente nel 1813 quando fu distrutto il coro utile pubblicare queste immagini, anche se con le sculture di dell’antica pieve . Tale distruzione venne osteggiata da Pieve hanno in comune solo l’ambito genericamente klocke- alcuni studiosi, primo fra tutti lo Jacobi123, perché il coro era riano (il che non contraddice, come dirò nella scheda, l’attri- decorato con affreschi attribuiti a Tiziano e tale opposizione buzione a Potsch), poiché provengono sicuramente da un suscitò anche un vivace dibattito scritto in cui tuttavia non Flügelaltar smembrato di cui qualche studioso potrebbe rico- 122 288 venne mai menzionato il Flügelaltar. struire la collocazione originaria. I lusinghieri giudizi dei contemporanei e il fatto che siano Riguardo al commercio antiquariale di questi anni, mi sem- giunte fino a noi anche parti “secondarie” di quest’opera bra infine importante riprodurre un’immagine fornitami da (come le portelle e la predella) inducono a pensare che l’al- Milena Dean che, nell’archivio dell’intagliatore Valentino tare non venisse immediatamente disperso; ci si aspettereb- Panciera Besarel130, ha trovato la fotografia di un Flügelaltar be infatti che, almeno per le tre statue dello scrigno, princi- smontato che sembra eseguita a Venezia alla fine dell’Otto- pale oggetto della devozione popolare, venisse trovata una cento (fig. 8). Questa foto riproduce lo scrigno dell’altare di dignitosa collocazione, magari entro un nuovo altare come Ruprecht Potsch oggi conservato al Victoria and Albert era spesso accaduto in precedenza. Probabilmente la demo- Museum di Londra131 che, in base ai documenti conservati al lizione della chiesa ed il lungo protrarsi dei lavori di ricostru- museo, risulta acquistato nel 1866 da Antonio Salviati132. Sta- zione, impedirono di adottare tale soluzione, né resta alcuna bilito dunque che quest’opera venne acquistata sul mercato notizia di una temporanea sistemazione dell’altare in qual- antiquario di Venezia, resta da chiarire il ruolo avuto da Besa- che chiesa filiale. L’altare smembrato avrebbe potuto anche rel in tale acquisto: si potrebbe infatti supporre che egli abbia essere collocato in qualche ricovero temporaneo (come ad fatto da tramite per la vendita di questa o altre opere di dopo il 1877142. Fra le opere dell’agordino, ove si trova la 8. Fotografia conservata nell’archivio dello scultore e mobiliere, d’origine zoldana, Valentino Pancera Besarel, che raffigura lo scrigno di un Flügelaltar (probabilmente di Ruprecht Potsch), eseguita a Venezia alla fine dell’Ottocento gran parte dei Flügelaltäre bellunesi, furono inseriti nell’elenco solo due monumenti: la chiesa di San Simon di Vallada Agordina (ove è conservato il Flügelaltar attribuito ad Andrè Haller) e la chiesa dei Santi Cipriano e Cornelio di Taibon Agordino. Ancora più interessante è tuttavia una lettera di Osvaldo Monti al prefetto di Belluno, databile poco dopo il 1877143, in cui è contenuta un’interessante descrizione dell’altare di Ruprecht Potsch conservato nella chiesa parrocchiale di Rocca Pietore. Scrive infatti Monti: “In questa chiesa sovra l’altare maggiore evi una grandiosa ancona che tutta occupa l’abside e tutta decorata di quelle sculture in legno dorato e dipinte che in quell’epoca si usavano, di stile e carattere affatto Germanico dure, però delle migliori relativamente a quelle delle altre chiese dei altri paesi, probabilmente contemporanea all’ancona di S. Tiziano di Goima”. Monti unì alla lettera anche un disegno (figg. 9-10) in cui specificava la posizione delle statue e dei dipinti, precisava inoltre che una delle statuette dello scrigno era stata rubata e concludeva: “queste portelle erano sempre tenute aperte e, argomenPotsch ma al momento è impossibile giungere a una conclu- tando io che vi potevano essere pitture come nelle altre sione certa . Nel catalogo della recente mostra su Besarel ancone di Goima e S. Simon di Vallada Agordina, feci muo- Fabrizia Lanza scriveva: “Da un piccolo depliant pubblicitario vere le irruginite ferramenta e trovai al didietro delle pitture […] che si riferisce ad una data prossima agli anni Novanta, a tempera oscurate dalla umidità guaste anche dagli sfrega- la ditta Besarel viene presentata come una specie di Galerie menti sul muro […] trattasi di nobilissima opera d’arte di La Fayette in piccolo, una sorta di grande magazzino anti- stretta scuola tedesca: non ardisco nomi ma certamente uno quariale dove è possibile trovare tutto ciò che di bello e ‘arti- dei più forti tedeschi di quel epoca”. Osvaldo Monti propose stico’ offrono le manifatture veneziane […] per soddisfare quindi al prefetto d’inserire nell’elenco dei monumenti da una clientela per lo più inglese e americana che assedia tutelare anche il Flügelaltar di Rocca Pietore, quello della Venezia” . Sappiamo che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio chiesa di San Tiziano a Goima e la tavola di Antonio Rosso del Novecento, questi altari erano molto richiesti sul merca- della chiesa di Selva. Come si vede dunque, neppure le lotte to antiquario europeo, tanto è vero che anche in Trentino si risorgimentali provocarono incomprensione o disprezzo ver- verificarono diversi episodi analoghi135, tuttavia è possibile so le opere d’arte tedesche come invece accadde nel XX che Besarel conservasse quest’immagine anche solo per con- secolo soprattutto nelle zone del confine nordorientale d’Ita- frontarla con altri Flügelaltäre agordini, ora dispersi, che for- lia che furono teatro di violenti scontri fra italiani e austriaci 133 134 se egli ebbe ancor modo di vedere come, ad esempio, quel- durante la prima guerra mondiale e soprattutto di una rab- lo che si trovava nella chiesa arcipretale di Agordo136. biosa propaganda antitedesca negli anni immediatamente Ma torniamo alle testimonianze documentarie: per trovare precedenti e successivi al conflitto. Mi pare significativo a tal nuove informazioni scritte sui Flügelaltäre bisogna arrivare al proposito riportare quanto scriveva nel 1962(!) Benedetto 1866, quando il bellunese entrò a far parte del Regno d’Ita- Civiletti, Soprintendente ai beni storico artistici del Friuli lia e, come nelle altre regioni (a partire dal 1876), la tutela del Venezia Giulia, in occasione della “Mostra delle restaurate patrimonio artistico venne affidata alle Commissioni provin- ancone lignee del Friuli”144: “Dinanzi a questi altari, che ritor- ciali per la tutela dei monumenti d’arte e d’antichità137. L’i- nano ringiovaniti e rimessi dal tedio dell’abbandono, noi spettore provinciale per il bellunese fu, per oltre un venten- vediamo sì, la ripetizione di forme non sempre nostrane, ma nio, Osvaldo Monti138 che, ottemperando alle leggi naziona- in esse gorgoglia e vive quello spirito italiano che nessuna li , s’occupò in primo luogo di stilare un elenco dei monu- vicinanza barbara, nessun esercito straniero, nessuna ammi- menti e degli oggetti d’arte da tutelare. nistrazione politica forestiera hanno mai potuto occultare o Tale elenco , che comprendeva le opere conservate nei sopprimere”. Queste parole si riferiscono evidentemente alle distretti di Belluno, Feltre ed Agordo141, venne realizzato sculture lignee tedesche del Friuli, ma non v’è dubbio che 139 140 289 9-10. Recto e verso del disegno eseguito, circa nel 1880, da Osvaldo Monti, che raffigura il Flügelaltar realizzato nel 1518 da Ruprecht Potsch per la chiesa di Rocca Pietore (Archivio Storico del Comune di Belluno, b. 1321, fasc. Belluno) questi stessi sentimenti venissero condivisi anche nel bellu- di negazione delle ragioni dell’altro, nella rivendicazione del- nese che, durante le due guerre mondiali, subì la stessa sor- la superiorità della propria nazione o, nel caso più semplice te del Friuli. A tal proposito mi sembra particolarmente signi- nell’ignorare ciò che stava oltre il proprio confine. Se da qual- ficativo quanto ha scritto recentemente Alessandro Sacco che decennio un certo avvicinamento è avvenuto il passato riferendosi proprio a questa zona: “Il XIX secolo vedrà nasce- pesa ancora”145. re in Italia delle correnti nazionalistiche che, cresciute nel Saluto dunque con gioia questa mostra che, per quanto secolo successivo, prepareranno la prima guerra mondiale riguarda gli altari tedeschi, ha contribuito non solo al recupe- […] se nel dopoguerra le strade delle persone comuni s’in- ro materiale e storico-critico delle opere, ma anche al supera- croceranno quelle degli intellettuali no. Storici, geografi, lin- mento di una mentalità distorta, più legata alle recenti vicen- guisti dall’una e dall’altra parte, s’impegneranno in un’opera de dell’arco alpino orientale che alla sua storia passata. Ringraziamenti Ringrazio monsignor. Ausilio Da Rif, direttore dell’Archivio della Curia Vescovile di Belluno (ACVB), e don Sandro Piussi, direttore dell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine (ACAU), per la cortesia con cui mi hanno messo a disposizione il materiale documentario conservato presso tali archivi. Un particolare ringraziamento va a Vittoria Masutti per l’aiuto prestatomi nella consultazione dei documenti conservati all’ACAU. Ringrazio inoltre Noemi Nicolai, direttrice della Biblioteca Storica Cadorina di Vigo, per il costante aiuto e gli utili consigli bibliografici e Ester Cason Angeli ni, direttore del “Centro studi per la montagna Giovanni Angelini” di Belluno, Giovanna Galasso, conservatrice del Museo Civico di Belluno, Luca Majoli e Rita Bernini della Soprintendenza per i Beni Storico Artistici e Demoantropologici del Veneto per la cortese disponibilità e la continua collaborazione. Un cordiale ringraziamento infine va agli amici e ai colleghi che, con i loro suggerimenti, hanno contribuito al miglioramento di questo saggio: Donata De Grassi, Flavio Vizzuti, Milena Dean, Lucia Sartor e Alessandro Sacco. Abbreviazioni usate: ACAU - Archivio della Curia Arcivescovile di Udine ASCB - Archivio Storico del Comune di Belluno APPC - Archivio Parrocchiale di Pieve di Cadore 290 Per quel che riguarda le tecniche, l’unico lavoro che resta ancora da fare è quello di raccogliere i risultati ottenuti in appositi prontuari per poter così confrontare modelli decorativi, materiali impiegati, caratteristiche di lavorazione eccetera di questi e altri Flügelaltäre dell’area alpina. 2 Mi riferisco qui non alle ricerche su singole opere (pubblicate solitamente su riviste) ma alle monografie riguardanti la scultura lignea di alcune regioni italiane (come ad esempio i libri di Rotondi 1952; Marchetti, Nicoletti 1956; Causa, Bologna 1950 eccetera). Costituiscono un’eccezione le ricerche sulla scultura lignea senese che datano dall’inizio del Novecento (cfr. Spalletti 1995, vol. I, pp. 8-30) e, ovviamente, le ricerche su alcuni capolavori o particolari gruppi di opere (come ad esempio Körte, 1937 o De Francovich, 1938). 3 Marchetti 1942b, pp.12-29; Marchetti 1942a, pp. 9-14; Marchetti 1955b, p. 3; Marchetti 1955a, p. 27; Marchetti, Nicoletti 1956, pp. 91-100; Marchetti 1957, pp. 1-6. 4 “Il Cadore passò alla Diocesi di Belluno appena nel 1847. L’appartenenza al Patriarcato aquileiese fu stabilita da Carlo Magno, ma bisogna tener presente che fin dai tempi dei romani il Cadore era aggregato al municipio di Julium Carnicum il che dimostra ancora una volta come le circoscrizioni ecclesiastiche spesso ricalcassero quelle tardo romane. Dalla dominazione carolingia il Cadore passò successivamente sotto i duchi del Friuli e della Carinzia e solo nel 1077 i patriarchi di Aquileia vi esercitarono anche il dominio. A sua volta il patriarca Sigeardo subinfeudò quasi tutto il Cadore a vari suoi vassalli tra i quali c’era Gabriele da Camino che, circa un secolo dopo (1175) riusciva riunire sotto di sé l’intera regione eccetto qualche località rimasta sotto la dipendenza diretta dei Patriarchi…” (cfr. Zimolo, 1958, p.14). Sui legami fra queste due zone si vedano inoltre: Fiocco 1951-52, pp. 6-11; e Zanderigo Rosolo 1993, pp. 93-155. 5 Rasmo 1950a, p. 159; Rasmo 1952, pp. 34-35; Fabbro 1954, pp. 18-20 (scoperta del documento relativo all’altare della chiesa della Difesa a Lorenzago); Rapozzi 1955, pp. 137-141; Fabbro 1957, pp. 51-57; Rapozzi 1957, pp. 139- 140; Egg 1962, pp. 99 ss.; Fiori 1966; Ringler 1967, pp. 430-433; Fabbiani 1970b; Biasuz 1971, pp. 124-128; Murer 1977; Tiozzo et al. 1989 . 6 Come ad esempio l’attribuzione ad Hans Multscher avanzata da G.B. Tiozzo per l’altare di San Simon di Vallada Agordina (cfr. Tiozzo 1989a, p. 48). 7 Egg 1985. 8 L’altare di Livinallongo (Buchenstein) attribuito da Egg ad Andrè Haller (1524) è attualmente conservato nel Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck (cfr. Egg 1985, pp. 142, 157). 9 È vero che Egg esamina le opere del Tirolo, ma nella sua ricostruzione del corpus dei singoli artisti egli prende in esame anche opere poste fuori dei confini tirolesi come appunto gli altari di Rocca Pietore e Livinallongo. 10 Dopo il terremoto del 1976 ebbi modo di partecipare alla vasta campagna di studio e restauro organizzata dalla locale Soprintendenza sulla scultura lignea friulana che ebbe inizio poco prima della grande mostra del 1983 (cfr. Rizzi 1983) e si concluse circa 20 anni dopo con il convegno del 1997 (cfr. Perusini 1999a). In quegli anni mi occupai spesso anche di altari lignei tedeschi come ad esempio del magnifico Flügelaltar di Pontebba (cfr. Bonelli 1994) e, per tale ragione, mi fu assolutamente naturale continuare l’indagine sulle opere “tedesche” presenti nel Bellunese. 11 L. Tazzer, Scultura tedesca nel bellunese nei secoli XV e XVI, tesi di laurea, università di Udine, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990-1991, relatore professoressa Giuseppina Perusini. 12 Tazzer 1991, pp. 70-77; Tazzer 1992a, pp. 93-106. 13 Tale restauro fu reso possibile dal generoso contributo della CariVerona (grazie all’interessamento di Luigi Cavalet) e della parrocchia di Selva di Cadore e venne eseguito sotto la supervisione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto. Su quest’altare si vedano Perusini 1996, pp. 353-367 e la relativa scheda in questo volume. 14 Al convegno su Bellunello nel 1995 segnalai le due sculture di Presenaio e approfondii le ricerche sull’altare di Pieve ribadendo l’attribuzione a Klocker già avanzata da Rasmo (Perusini 1998, pp. 43-52). Nel 1997 grazie al contributo del Soroptimist Club di Cortina-Cadore potei effettuare il restauro (sempre con la supervisione di A.M. Spiazzi) dei due busti superstiti che si trovavano della predella dell’antico altar maggiore (oggi smembrato) della chiesa di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore; pochi mesi fa infine ebbi l’occasione di segnalare la splendida Madonna in trono col Bambino della chiesa di Santa Giuliana ad Alverà (Cortina). 15 Nel convegno friulano del 1997 la Spiazzi segnalò le due sculture di Sappada attribuendole a un intagliatore pusterese (cfr. Spiazzi 1999a, p. 122) e, due anni dopo, negli atti dello stesso convegno, la Castri le attribuì a Michele Parth (cfr. Castri 1999, p. 151, nota 46). 16 Ringrazio Milena Dean per la cortese comunicazione orale e le ulteriori informazioni riguardanti queste opere. La scultura raffigurante san Floriano si trova nel timpano di una casa di Sappada in borgata Cretta (si veda l’immagine di quest’opera in Rosina 1995, p. 247). 17 Quest’altare venne restaurato in due tempi fra il 1991-1992 (restauro conservativo) e il 1993-1995 da Milena Dean (con la collaborazione di Michela Buttignon e di Roberto Bonomi che eseguì le analisi chimiche) con la direzione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto che finanziò il restauro. Su quest’intervento si veda: Spiazzi 1993b, pp. 189-197 e Dean 1993, pp. 207-213. 18 L’altare della chiesa di San Candido a Campo (Cortina) venne eseguito da F. Vellu1 ti, L. Tomesani e O. Passarella fra il 1992 e il 1993 sotto la supervisione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto. 19 L’altare della chiesa di San Simon di Vallada Agordina è in restauro dal 1996 presso il laboratorio di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure (OPD) di Firenze. Il restauro venne eseguito da Maria Donata Mazzoni coaudiuvata da, Ute Raderer e Carolina Ros, con la supervisione di Giovanna Rasario e, successivamente, di Cecilia Frosinini e di Laura Speranza. Sul restauro di quest’opera si veda Mazzoni 1999, pp. 127132 e il contributo in questo catalogo. 20 Gli altari della chiesa di Santa Caterina a Vigo di Cadore e quello della chiesa di San Tiziano a Goima di Zoldo vennero restaurati nel laboratorio della scuola regionale di restauro dell’ENAIP/Lombardia di Botticino (Brescia) fra il 1994 e il 1997. Tali restauri vennero eseguiti nell’ambito del corso triennale per tecnico del restauro di opere lignee diretto da Elisabetta Arrighetti, sotto la supervisione da A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto. 21 La predella dell’altare di Michele Parth e la statua di san Rocco della chiesa della Difesa di Lorenzago vennero restaurate fra il 1997 e il 1999 dalla ditta “Arrighetti e Tomasoni s.n.c.” di Corticelle Pieve di Dello (Brescia) sotto la supervisione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto. 22 Le tre statue di quest’altare vennero restaurate nel laboratorio della scuola regionale di restauro dell’ENAIP/Lombardia di Botticino (Brescia) fra il 1999 e il 2003. Tale restauro venne eseguito nell’ambito del corso triennale per tecnico del restauro di opere lignee diretto da Elisabetta Arrighetti, con la supervisione di Rita Bernini della Soprintendenza PSAD per il Veneto. 23 Queste due sculture vennero restaurate a Verona fra il 1998 e il 2000 nel laboratorio di restauro della Soprintendenza PSAD per il Veneto da Guglielmo Stangherlin e Angelo Nigro sotto la direzione dapprima di A.M. Spiazzi e quindi di Fabrizio Pietropoli. 24 Naturalmente la mancanza di firma, date e documenti per gran parte di queste opere impedisce di fare un ordinamento cronologico esatto; molte datazioni, come si può vedere nelle schede relative alle singole opere, sono state infatti eseguite esclusivamente su base stilistica. 25 Nel 1998 la Castri attribuì questi dipinti a due artisti diversi: uno allievo di Klocker e uno, sempre di quell’ambito ma meno esperto, e le datò agli ultimi anni del XV secolo (cfr. Castri 1998, pp. 53-64). Nel 2004 Claut (2004a) ribadì l’appartenenza alla bottega di Klocker della tavola raffigurante la Vergine con quattro santi (esposta alla mostra su San Floriano a Illegio) sottolineando inoltre l’affinità fra questo dipinto e le portelle, sempre di scuola klockeriana, che si conservano nella chiesa arcipretale di Pieve di Cadore (Claut 2004a, p. 78). Si veda infine la scheda a cura di Luca Majoli in questo stesso volume. 26 Su quest’opera, che mi è stata cortesemente segnalata da Milena Dean, si veda Belli 1987, pp. 66-67. Belli attribuisce giustamente quest’opera a una bottega tedesca ma ritiene che sia stata eseguita nel Seicento o addirittura nel Settecento. Più correttamente aveva invece scritto Richebuono nel 1974: “È probabile che si debba alla sua [Benedikt Hebenstreit] munificenza anche la bellissima pala d’altare, certamente del 1500 con la Madonna fra san Biagio e San Nicolò. Nel 1572 infatti il vicecapitano del castello di Botestagno, Benedikt Hebenstreit, aveva fatto ingrandire e decorare con affreschi la chiesa di Ospitale ed è probabile che anche la pala sia stata commissionata da lui e si collochi attorno a questa data (cfr. Richebuono 1974, p. 269). 27 Su quest’opera si veda la scheda a cura di chi scrive in questo stesso volume. 28 Quest’opera, attualmente inserita in una nicchia entro il timpano (datato 1727) di una casa della borgata Cretta, mi è stata segnalata da Milena Dean ed è stata pubblicata da Marcello Rosina (cfr. Rosina 1995, p. 247). La scultura, che sembra chiaramente ascrivibile a Parth, è probabilmente un resto (forse del coronamento) dell’altare eseguito attorno al 1530 da Michele Parth per la chiesa parrocchiale di Sappada di cui ancora si conservano nella stessa chiesa le due statue di santa Margherita e santa Caterina su cui si può vedere la scheda, a cura di T. Perusini, in questo volume. 29 Su queste due opere si veda il saggio di Tiziana Franco in questo volume; sulla scultura di Feltre si veda inoltre la scheda n. 6 in Coden 2002, pp. 562-565. 30 Per ulteriori notizie su queste opere si veda la nota 61 e il saggio di Rita Bernini in questo stesso volume. 31 Castri 1999, p. 133. 32 Castelnuovo 2002a, p. 17. Castelnuovo si occupò per la prima volta di tale argomento nella sua lezione inaugurale alla facoltà di Lettere di Losanna (Castelnuovo 1967, pp. 13-26); seguì quindi il saggio del 1979 (cfr. Castelnuovo 1979, pp. 4-12) e infine il saggio L’autunno del medioevo nelle Alpi in Castelnuovo 2002a, pp. 1733. Mi sembra significativo che anche un convegno di archeometria che ha avuto luogo quest’anno abbia riproposto lo stesso tema: “The linking role of the Alps in the past cultures: an archeometric approach”, Bressanone, 13-14 febbraio 2004. 33 “Con il trionfo dell’arte italiana nel XVI secolo e, di conseguenza, con la fine della feconda dialettica formale che si era stabilita fra nord e sud dell’Europa, non si potrà più riprodurre né prolungare la situazione di privilegio dell’area alpina. D’altra parte diminuisce l’importanza politica ed economica della regione man mano che il centro di gravità dell’Europa si sposta verso il nord.” (cfr. Castelnuovo 1979, p. 10). 34 Cammarosano 1992, pp. 71-92; Degrassi 1988. 35 Una conferma sulla committenza popolare dei Flügelaltäre viene anche dal già citato saggio di Castelnuovo (2002a, p. 21) che riprendendo un’affermazione di Egg fa notare come solamente una committenza di questo tipo può spiegare la realizza- 291 zione nel solo Tirolo di ben duemila altari fra il 1400 e il 1525 (in questo caso tuttavia si tratta di committenti tedeschi e di artisti tedeschi). 36 Cozzi 2002, pp. 179-199; Dolcini 2002, pp. 123-129. Il pellegrinaggio al santuario di Sant’Osvaldo a Sauris di Sotto (zona di lingua e cultura tedesca dove peraltro Parth eseguì nel 1524 un magnifico Flügelaltar), che coinvolgeva anche gente proveniente dal Veneto e dal Cadore, e durò fino all’Ottocento (cfr. Zimolo1958, pp. 93-94). 37 A ciò contribuì anche la diffusione di xilografie devozionali di origine tedesca che venivano acquistate in tali occasioni e che comunque erano assai diffuse nei domini della Serenissima. Si veda in proposito l’articolo di Goi 1985, p. 191. Mi pare significativa a tal proposito anche la bella ricerca della Spiazzi sui ricami tedeschi del piviale di Pieve di Cadore ove fra le fonti iconografiche la studiosa riporta anche alcune xilografie devozionali come quella diffusissima della Madonna in sole (cfr. Spiazzi 1990, pp. 23-25). 38 Nel 1990 la Spiazzi sottolineava giustamente la permanenza in queste zone di forti legami con l’arte nordica (almeno fino al primo decennio del Cinquecento) e come la frequente presenza di preti tedeschi avrebbe rinforzato tali legami (cfr. Spiazzi 1990, p. 24). Nel 1995 al convegno su Bellunello sottolineai assieme alla Castri l’importanza degli insediamenti di lavoratori tedeschi, addetti alle miniere o ai forni dell’alto bellunese, per la diffusione dell’arte nordica in queste zone (cfr. Castri 1998, p. 54; Perusini 1998, p. 46). Devo dire comunque che il problema della committenza di queste opere non è stato mai seriamente affrontato fino a ora. 39 Bisogna soprattutto evitare di semplificare le cose in modo eccessivo come fa ad esempio Anton Draxl in una recente pubblicazione ove scrive: “I commercianti di legname di queste zone situate al crocevia fra le vie commerciali importanti […] possono aver anche intrapreso l’attività di commercianti di oggetti d’arte. Si spiega così come altari gotici a battenti provenienti dal Tirolo e soprattutto dalla Pusteria possano esser giunti in Cadore” (Draxl 2002, p. 110). 40 Marchetti, Nicoletti 1956, p. 88. 41 Nel caso dei lavoratori stranieri la cosa più verosimile è che le eventuali commissioni provenissero dalle confraternite o dalle corporazioni che essi avevano fondato; del resto in molte città del nordest come ad esempio Udine e Treviso esistevano confraternite nazionali di tedeschi che avevano scopi soprattutto assistenziali e devozionali (cfr. Di Biasio 1983, pp. 383-393 e Perusini 1994b, pp. 151-161). 42 La presenza di pievani parroci e cappellani forestieri (fra cui almeno un terzo era di origine tedesca) in tutto l’arco alpino orientale è documentata da numerose ricerche che tuttavia riguardano prevalentemente l’area friulana (cfr. De Vitt 1983; De Vitt 1988; De Vitt 1990). 43 Nel corso del Quattrocento furono arcidiaconi del Cadore: Sigismondo (14161424) già vicepievano di Pieve; Nicolò (1424-1426) di origine tolmezzina e già pievano di Ampezzo; Tommaso (1426-1427); Gianbattista Palatini (1427-1433) originario di lì e già pievano di Pieve; Giovanni Macioti (1433-1445) di origine siciliana e già pievano a Santo Stefano; Vittorio de Ulmis (1452-1453) originario di Treviso già pievano d’Ampezzo; Andrea da Colonia (1453-1455) già pievano a Santo Stefano; Odorico (1455-1457), originario di Domegge e già pievano a Pieve, la cui nomina non venne ratificata dal patriarca di Aquileia; Rizzardo Costantini (1457-1461), originario di Ampezzo e già pievano a Pieve, anche nel suo caso il patriarca di Aquileia non volle ratificare la nomina; Giovanni Krauss (14621473), già pievano di Pieve; Bucio (Bortolo) de Palmulis (1473-1480), canonico di Aquileia e già pievano di Pieve. De Palmulis non si recò mai a Pieve e lasciò tutte le sue incombenze a Giovanni di Montalto, nominato vicepievano, che gli successe infine anche nella carica di arcidiacono; Giovanni di Montalto (1481-1488) oriundo della diocesi di Cosenza e già pievano a Pieve, Vendramino Soldano (1488-1515) originario di Laggio, già pievano di Pieve. Dai documenti riportati da Da Ronco risulta che il nome dell’arcidiacono veniva quasi sempre proposto dal Consiglio della Magnifica Comunità del Cadore ma non sempre il prescelto veniva accettato dal patriarca di Aquileia, a cui spettava la ratifica della nomina. I cadorini tuttavia non volevano rinunciare alla loro scelta e ricorsero spesso al senato di Venezia affinchè, tramite il luogotenente di Udine, imponesse al patriarca il loro candidato. Col passare del tempo dunque la nomina dell’arcidiacono del Cadore fu soggetta sempre più spesso all’approvazione del senato veneziano (cfr. Da Ronco 1936, pp. 22-43). 44 Secondo Da Ronco Johannes Krauss fu arcidiacono del Cadore dal 1462 al 1475, ma in realtà dai documenti che ho rinvenuto all’ACAU egli risulta aver mantenuto questa carica fino al 1473. L’arcidiacono aveva sicuramente una notevole influenza politica, religiosa e culturale: avrebbe quindi potuto avere un significativo influsso sull’arte locale (cfr. Da Ronco 1936, pp. 26-28). Da Ronco purtroppo non dice dove si trovano i documenti che riporta nel suddetto testo ma presumo che si tratti di documenti conservati presso l’APPC o presso l’Archivio Vescovile di Belluno. All’ACAU si trovano molte altre citazioni riguardanti Krauss sia nel Fondo Cadore (ACAU, b. 295/Pieve di Cadore, cc. 23 r v) che fra i documenti riguardanti le Collazioni (ACAU, b. 1457, Registrum Collationum…, cc. 20rv, 31rv, 41bis v) che contengono le notizie più interessanti. Alla carta 20 è riportato l’atto con cui, il 2 giugno 1473, Johannes Krauss rinunciò all’incarico di arcidiacono del Cadore a favore di Bucio de Palmulis, già vicario della Curia patriarcale di Aquileia, due anni prima dunque di quanto affermava Da Ronco (1475). Il 14 aprile dello stesso anno (1473) Johannes Krauss, definito di “natione alemanna”, viene nominato cappellano della chiesa di San Cristoforo a Faedis (in Friuli). Nel 1474 gli viene assegnata la parrocchia di San Ruperto presso [……..] nella diocesi di Aquileia e quindi viene nominato arcidiacono della Slovenia (“marchie Sclavonice”); infine, il 10 gennaio 1475, viene nomina- 292 to parroco e arcidiacono di Villacco (“Collatio parochialis…de Villaco.d. Johanni Kraus nationi alemanno” e inoltre “Deputatio eiusdem ad […..] archidiaconat [s….]? Villacho”). 45 Spiazzi 1990, p. 23. Questa tendenza viene confermata anche dalla nomina come arcidiacono del Cadore di Pietro Aleandro (1516-1545), originario di Mareno di Piave, e assai gradito a Venezia. Con il prevalere di Venezia vennero anche privilegiati i rapporti lungo l’asse nord-sud in alternativa a quelli lungo all’asse est-ovest (cioè con la Carnia e il Tirolo) che avevano caratterizzato il periodo precedente. 46 Zimolo 1958, pp. 93-94. 47 Pellegrini, De Donà Zeccone 1992, pp. 13-64. 48 Come s’è detto, verso il 1530 l’intagliatore di Brunico Michele Parth eseguì per la chiesa parrocchiale di Sappada un Flügelaltar di cui restano attualmente solo due sculture. 49 Toller ricostruisce, anche se in maniera incompleta, la sequenza dei curati di Sappada. Per il periodo che qui ci interessa (1450-1550 circa) furono nominati: nel 1440 padre Giovanni, monaco alemanno; nel 1466 un non meglio definito padre Nicolò; nel 1487 rinuncia alla carica padre Martino da San Candido; nel 1487 padre Giovanni Prandt di Hau (diocesi di Frisinga); nel 1488 Giovanni Kchuttal da Freysacco (diocesi di Salisburgo); nel 1501 padre Andrea Alemanno; nel 1520 padre Michele Hanichij di san Candido; nel 1526 padre Gabriele Mens; nel 1529 padre Cristiano; nel 1539 il vicentino Giovanni Burgamino che se ne va poco dopo; nel 1540 padre Pietro de Fabricis di Ampezzo; nel 1562 padre Tommaso Maychin eccetera (cfr. Toller, 1969, pp. 98-99). 50 Scrive a tal proposito Daniela Rando: “Fra basso Medioevo e prima età moderna, quest’area si contraddistingue per diffusi diritti di compartecipazione delle comunità di fedeli alla nomina del proprio pastore” e continua “tali diritti di nomina e di elezione non si possono comprendere senza tener presenti le libertà politiche godute dalle comunità locali. Accanto al controllo del parroco e degli ausiliari, un elemento importante nel rapporto con la propria chiesa fu la sorveglianza o l’amministrazione diretta dei beni ecclesiastici attraverso i fabbriceri”. La studiosa conclude dunque: “i tratti che caratterizzano il rapporto dei fedeli con la propria chiesa si possono così sintetizzare: partecipazione alla nomina del proprio rettore e dei suoi ausiliari, amministrazione del patrimonio ecclesiastico, ampio campo d’intervento dei fabbriceri” (cfr. Rando 2002, pp. 55-57). 51 “Fra Tre e Quattrocento questa zona (l’alto bacino del Piave) troverà una sistemazione territoriale stabile, che prescinde dal modello urbanocentrico, nel confronto e nell’assestamento fra i due poteri territoriali ‘esterni’, demograficamente, economicamente e politicamente robustissimi come la dominazione veneziana e quella asburgica. Per certi versi simile la linea di tendenza che si manifesta più a oriente in Friuli ove il peso dei centri urbani è debole; si tratta inoltre di un contesto nel quale persistono anche forme di autonomia comunitaria” (cfr. Varanini 2002, p. 43). In alcuni paesi queste antiche norme prevedevano anche l’elezione del curato da parte degli abitanti del paese che non erano assolutamente disposti a rinunciare a questo “privilegio” che, assieme agli statuti, contribuiva a tutelare la loro autonomia. Fu così che, nel 1486, gli uomini del paese di Rocca Pietore mandarono un loro rappresentate dal vescovo di Belluno per rivendicare il rispetto di tale antica consuetudine (cfr. Spiazzi, Toffoli 1993, p. 39). 52 Il contratto di Potsch per l’altare di Rocca è riportato in Murer 1977, pp. 43-44. 53 Il paese di Rocca Pietore faceva parte della diocesi di Bressanone anziché di quella di Belluno e inoltre, a partire dal 1417, aveva un suo proprio statuto e i paesani rivendicavano il diritto di eleggere il curato (cfr. Spiazzi, Toffoli 1993, pp. 28-51, 59). Per quel che riguarda la presunta influenza del clero tedesco si può notare infine che quando venne commissionata quest’opera (nel 1516) era cappellano di Rocca Pietore il genovese Santino da Brugnato (1499-1521) e non un tedesco sebbene nel XV secolo vi fossero stati in paese ben tre curati tedeschi. 54 Il contratto per la chiesa della Difesa a Lorenzago venne pubblicato da Fabbro 1954, pp. 18-20 e Rapozzi 1955, pp. 137-141, e quello per la chiesa di Sant’Orsola a Vigo venne pubblicato da Fabbro 1957, pp. 51-57 e Rapozzi 1957, pp. 51-58, 101-109. 55 Sacco 2004, p. 10. 56 Si tratta dei valichi del Gottardo, del Moncenisio, del Grande e Piccolo San Bernardo, del Brennero, del passo di Monte Croce Carnico, della sella di Camporosso (val Canale) eccetera. 57 Cito qui solo quelli di maggiore interesse per le Alpi orientali. Per una bibliografia completa rimando al saggio di Guido Castelnuovo che è anche l’ultimo in ordine di tempo: Castelnuovo 2002b, pp. 61-77; e inoltre: Degrassi 1999, pp. 13-32; Castelnuovo 2000, pp. 447-464; Cason 2002. Sul Friuli si veda inoltre: Paschini 1924, pp. 123-135; Leicht 1954, pp. 232-233. 58 Dal concetto di strade principali si è quindi passati al concetto di “fascio di strade”, Varanini 2002, pp. 40-41. 59 Alessandro Sacco fa notare come già nel XIV secolo ci fosse un interesse generale per l’apertura di nuove strade e per il miglioramento di quelle esistenti. “Così il podestà di Pieve impose che s’aprisse una strada per Monte Croce [Comelico] e la Pusteria” e aggiunge “su questa strada si commerciavano bestiame, pelli d’agnello, cereali, lino e lana, grezzi o filati, utensili domestici e da lavoro, armi, candele latticini ecc”. Egli fa notare infine come il forte aumento demografico della prima metà del Quattrocento “ebbe come conseguenza una ricerca spasmodica di cereali soprattutto in Pusteria e in Tirolo” (cfr. Sacco 2002, pp. 157 e 161). Fino alla prima guerra mondiale i rapporti fra gli italiani e i tedeschi di queste zone furono sempre molto intensi anche se, soprattutto per questioni di confine, furono spesso soggetti ad alti e bassi. Il 1° novembre del 1448, ad esempio, in seguito al continuo verificarsi di scorrerie e prepotenze da parte dei tedeschi lungo i confini “il Consiglio della magnifica Comunità del Cadore decise l’espulsione di tutti i tedeschi, che erano numerosi e ben inseriti e taluno cittadino a tutti gli effetti” (cfr. Sacco 2002, p. 152). 61 Si tratta per l’esattezza dei Vesperbilder in arenaria (o Gußstein?) che si trovano nella pieve di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore (di area salisburghese e databile alla seconda metà del XV secolo), di quello della chiesa dell’Addolorata a Pieve di Zoldo affine per provenienza e datazione a quello di Pieve (cfr. Vizzutti 1995a), di quello dell’oratorio di San Rocco a Pescùl e di due Vesperbilder conservati in area feltrina e precisamente quello della chiesa dell’Addolorata a Mel, (cfr. Francescon, Sartori 1991, p. 101) e quello della chiesa di San Dionisio a Zermen (databile alla prima metà del XV secolo) a cui va aggiunta la piccola Pietà conservata nella chiesa di Santo Stefano a Grun. In Friuli vi sono addirittura otto Vesperbilder (in arenaria e in Gußstein) fra cui ricordo quelli di Gemona, Venzone, Cividale, Aquileia, San Vito al Tagliamento, Sesto al Reghena, Sacile e Castel d’Aviano) che testimoniano l’enorme diffusione che tali opere di produzione salisburghese o boema ebbero nel nord Italia. Anche la grande diffusione di queste sculture conferma, a mio avviso, l’apprezzamento di cui era oggetto l’arte tedesca nelle zone alpine orientali. Su queste opere si veda Tazzer 1991, p. 76 e inoltre Perusini, Spadea, Casadio 1994, pp. 73-93; Castri 2002, pp. 171-185 e il saggio di Rita Bernini in questo stesso volume. 62 A questi paesi del Cadore bisogna aggiungere oggi Colle Santa Lucia che però in quel periodo faceva parte dei possedimenti del vescovo di Bressanone. 63 Cucagna 1961; Squarzina 1963, pp. 216-220; Braunstein 1965, pp. 530-531; Vergani 1975, pp. 371-383; Angelini 1975, pp. 136-158; Balestra 1979, pp. 41-115; Vergani 1983, pp. 613-648, Cason 1988, pp. 279-291; De Toni, Zanetti 1991, pp. 193-208; Baldin 1997c, pp. 61-63. 64 Baldin 1997b, p. 126. 65 Credo sia utile riportare per intero il brano da cui ho estrapolato questa frase: “Nel 1483 sono in piena funzione in valle Imperina miniere e forni per l’estrazione del rame: imprenditori, tecnici, lavoranti sono in questa prima fase prevalentemente tedeschi: nel corso del Cinquecento subentrarono presto imprenditori bellunesi e veneti, mentre la manodopera permane in gran parte tedesca almeno fino agli anni 80, tra la comunità veneta e la colonia tedesca si stabilisce così un rapporto di scambio materiale e culturale che avrà conseguenze indelebili sulla configurazione della zona. Molti sintomi fanno ritenere che tra Cinque e Seicento gran parte dei tedeschi fossero ormai rifluiti verso i luoghi d’origine. Una delle cause è il maggior controllo politico e religioso che si instaura a partire dagli anni 1580 sui lavoranti d’oltralpe, sospetti di protestantesimo” (cfr. Vergani 1975, pp. 371-383). Del resto la presenza di manodopera tedesca viene confermata anche dalle testimonianze coeve, scriveva ad esempio Marin Sanudo nel 1483: “et è poi le buse (gallerie), le quali le vidi, et era cussì intitolate: san Michele, santa Barbara, San Zorzi, Santa Trinita; et vi andai per entro et vidi uno maestro chiamato sboicer (fonditore) todesco, con una barba longa” (cfr. Sanudo 1483 ed. 1847, p. 123). 66 Come ad esempio la presenza di continui rapporti commerciali e di strade che collegavano questi paesi a quelli oltralpini oltre che, ovviamente, la vicinanza geografica con i domini asburgici e quelli del vescovo di Bressanone. V’erano inoltre situazioni particolari come ad esempio quella di Rocca Pietore che faceva parte della diocesi di Bressanone e inoltre godeva di una certa autonomia amministrativa. Scrive in proposito Tamis: “Gli uomini della Rocca di Pietore hanno giurisdizione separata dalla città di Belluno, si governano secondo i loro statuti (del 1489) e antiche consuetudini, non sottostanno alle leggi e provvisioni della città [di Belluno], non pagano collette, né ordinarie né straordinarie, non concorrono ad alcuna angaria o imposizione, sia della città che del dominio veneto […] mai avevano acquistato il sale dalla città e dal dominio veneto, ma dai tedeschi” (cfr. Tamis 1983, p. 179). 67 Forse si trattava di un maestro proveniente dal paese di Villönss (?) presso Brunico ma i nomi dei luoghi sono stati italianizzati da chi stese il contratto che era evidentemente di lingua italiana. 68 “Gli Huomini di Pescùl sono venuti e concordati cum mastro Sigismondo de Vischogna da Bornicho di riedificare la chiesa dietro al pagamento di 245 (ducati? Lire rainesi?) e quaranta conzi di vino (cfr. Baldin 1997a, pp. 111-112). L. 1 rainese = L. 4,10 venete; 1 ducato = L. 6,4 venete. Il conzo è una antica unità di misura in volume per i liquidi che corrisponde all’incirca a 79 dm cubici. 69 Si veda la scheda su quest’opera, a cura di chi scrive, in questo stesso volume. 70 “Fuit dictum quod altare maius pertinet ad ecclesiam, et nulla est in eo fraternitas”, in Visitatio localis omnium ecclesiarum Cadubri aquileiensis diocesis habita ab ecc.mo et r.mo D.D. Hermolao Barbaro Dei et Apostolicae sedis gratia Archiepiscopus Tyri et Coad.re Aquileiensi, Anno 1604 [Visita pastorale di tutte le chiese del Cadore, facenti parte della diocesi di Aquileia effettuata dal rev.mo ed ecc.mo D.D. Ermolao Barbaro per grazia di Dio e della chiesa arcivescovo di Tiro e coadiutore del patriarca di Aquileia. Anno 1604], c. 2r. Questo fascicolo (di 98 cc.) è conservato attualmente nell’ACVB ma si trovava anticamente nell’ACAU; di esso ho esaminato le parti relative alle chiese dove ancora si conservano altari tedeschi (santa Fosca, Pieve, Vigo, Lorenzago eccetera). Su tale visita pastorale si veda anche Fiori 1981, p. 17. Bisogna tuttavia fare attenzione perché le trascrizioni della Fiori, indubbiamente meritorie e antesignane, contengono alcuni errori. 60 Ciò significa neppure cent’anni dopo la loro realizzazione poiché la gran parte di questi altari vennero realizzati nei primi due decenni del Cinquecento. Questo vuol anche dire che, all’inizio del Seicento, gran parte di queste opere erano ancora in buono stato di conservazione e le testimonianze di questo periodo sono quindi particolarmente attendibili. 72 Su tali disposizioni si vedano: l’esemplare volume di Zeri 1957; Scavizzi 1981; Menozzi 1995 (in particolare i capitoli XXI- XXVII, pp.175- 228), Belting 2001 (in particolare il capitolo XX, pp. 557- 596). 73 Luigi (Alvise) Lollino, nato a Creta nel 1557 e morto a Belluno nel 1625, fu vescovo della città dal 1596 alla morte, cioè per ben ventinove anni, che coincidono fra l’altro con il periodo cruciale della Controriforma. La sua famiglia era una delle più nobili e ricche di Venezia e questo gli permise di dedicarsi agli studi a cui lo portavano il suo singolare ingegno e il suo temperamento. Nel 1577, quando egli aveva aveva circa vent’anni, a causa dell’avanzata dei turchi, la sua famiglia decise di ritornare a Venezia e qui Lollino riprese i suoi amati studi laureandosi in utroque iure nel 1583 all’università di Padova dove, quando nel 1596 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica, conseguì anche la laurea in teologia. La sua fama di studioso venne accresciuta anche dalla straordinaria collezione di libri greci che alla sua morte lasciò in eredità alla Biblioteca Vaticana. Fu amico di fra Paolo Sarpi e di Agostino Valier, vescovo di Verona, il quale, quando nel 1584 venne nominato cardinale, si fece accompagnare a Roma da Lollino che si fermò due anni nella città eterna ove, fra gli altri, conobbe anche Carlo Borromeo (morto nel 1584). Lollino ritornò quindi a Roma nel 1591-1592, all’inizio del pontificato di Clemente VIII (papa dal 1592 al 1605) che lo stimava sia come studioso che come uomo. Nel 1596 Gianbattista Valier, vescovo di Belluno, essendo vecchio e malato, chiese al papa di sollevarlo dall’incarico e indicò Lollino come suo successore. Nel 1596 dunque Lollino prese gli ordini e venne consacrato vescovo di Belluno. Egli avrebbe potuto, come tanti altri vescovi, recarsi solo saltuariamente nella sua sede ma invece decise di fissarvi stabilmente la sua dimora e si dedicò alla cura del suo gregge con uno zelo degno del miglior spirito controriformista. Le sue numerose visite pastorali, anche nelle zone più impervie della diocesi, costituiscono una preziosa testimonianza di questa attività. Tuttavia già Alpago Novello nella sua dettagliata biografia del vescovo (cfr. Alpago Novello 1933a, p. 81) lamentava il fatto che nelle relazioni di tali visite sia dedicato poco spazio alle opere d’arte conservate nelle chiese e in effetti non si può dargli torto poiché, anche confrontando le visite di Lollino con quelle dei due Barbaro, le relazioni del vescovo bellunese sembrano piuttosto incentrate sugli aspetti pastorali, sebbene vi compaia anche qualche succinta notazione sui Flügelaltäre dell’Agordino. Qui mi preme soprattutto sottolineare la sua completa adesione ai dettami della Controriforma, che egli ebbe modo di conoscere direttamente dalla bocca e dagli scritti dei suoi più importanti fautori come ad esempio il cardinale Carlo Borromeo. 74 Ericani 1997, p. 10-11. “In nessuna delle altre diocesi venete” scrive inoltre la Ericani si ritrovano “disposizioni così precise e così drastiche”. 75 ACVB. Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4/1-B fasc. II, cc. 4v5r; ibidem, b. 4/112 (1613), c. 9; su altari scomparsi: fasc. IV, c. 1v, c. 3r. 76 Mi conforta in tale interpretazione anche il parere di Flavio Vizzutti che credo meglio d’ogni altro conosca le visite pastorali del bellunese. 77 L’elenco che segue, riportato anche Ericani (1997, p. 98, nota 7) è tratto, in gran parte dal libro di Tamis 1981. 78 La chiesa “aveva un unico altare e una pala di legno artistica e molto antica: nel mezzo c’era l’immagine della Vergine, ai lati san Vittore e santa Corona, in alto il Crocifisso con san Francesco e sant’Antonio. Chiudevano lo stipo due battenti. Nel 1647 la vecchia pala veniva sostituita da un’ancona più decente” (cfr. Tamis 1981a, p. 238). 79 Di questa chiesa Tamis scrive “aveva un unico altare e una pala di legno scolpita, che portava nel mezzo la statua della Vergine col Bambino, a destra san Nicolò e a sinistra san Giovanni Battista: lo stipo era chiuso da sportelli dipinti […]. Verso il 1630 il vecchio Flügelatar venne sostituito con un nuovo altare che racchiudeva una pala del Frigimelica raffigurante gli stessi santi” (cfr. Tamis 1981a, p. 262). 80 Ericani 1997, p. 98, nota 7 e Tamis 1981a, p. 211. 81 Tamis 1981, p. 254. 82 Qualcosa di analogo (ma quasi un secolo prima) venne fatto nella chiesa di San Tommaso Agordino dove l’altare a battenti che prima del 1630 si trovava sull’altar maggiore della chiesa venne spostato in una cappella della stessa chiesa mentre sull’altar maggiore veniva collocata la grande pala di Frigimelica.(cfr. Vizzutti, Dalla tabula picta alla pala moderna: indagini d’archivio e considerazioni, in questo stesso volume). Vizzutti sottolinea inoltre come nel diario di visita del 1619 il prelato che effettuò la visita pastorale del 1619 nella pieve di San Floriano a Zoldo non ebbe nulla da eccepire sull’altare a battenti che troneggiava sull’altar maggiore. 83 Si veda il contributo di Vizzutti, Dalla tabula picta alla pala moderna: indagini d’archivio e considerazioni, in questo stesso volume. Tamis scrive che: “sovrastava l’altar maggiore [della chiesa di san Tommaso Agordino] un’ancona di legno con figure scolpite rappresentanti la vergine Madre col Bambino sulle ginocchia ai lati san Giovanni Battista, san Pietro apostolo, sotto san Francesco, santa Caterina e il santo titolare” e continua “verso il 1620 la chiesa veniva restaurata: si costruivano due cappelle o altari laterali; nella cappella di Mezzogiorno si collocava l’ancona dell’altar maggiore, sostituita da un dossale nuovo, e in quella di settentrione, un altare in onore di sant’Antonio Abate, san Francesco e san Rocco con pala di legno e figure 71 293 scolpite (1646)” (cfr. Tamis 1981a, p. 245). L’altare quindi andò disperso solo in un periodo successivo, forse in occasione dei lavori di ampliamento della chiesa effettuati nel 1740-1744, o forse nella seconda metà dell’Ottocento quando alcuni di questi altari vennero venduti. 84 Su queste opere si veda: Tamis 1981a, pp. 85-86 (per l’altare di Agordo), p. 197 (per l’altare di Cencenighe). Tamis ricorda che l’altare di Cencenighe era stato eseguito da Potsch nel 1517, che aveva al centro la statua della Vergine e ai lati sant’Antonio Abate e santa Caterina e che, nelle visite pastorali, quest’ancona era stata definita “decens et honorifica e di autore tedesco”. L’altare della chiesa di San Bartolomeo a Caprile funse da modello per quello di Rocca Pietore come si legge nel contratto stipulato nel 1516 per l’altar maggiore della chiesa di Rocca che ancora si conserva nel suo luogo d’origine. Sull’altare di Agordo si veda anche la nota 136. La scelta dei camerari e delle confraternite agordine sembra dunque aver privilegiato le botteghe brissinesi di Haller e Potsch. Quest’ultimo infatti riuscì ad accaparrarsi il monopolio delle commissioni nell’Agordino dove eseguì gli altari di Rocca Pietore, Cenceniche (perduto), Caprile (ora a Innsbruck), forse quello della chiesa arcidiaconale di Agordo e magari anche altri di cui non è rimasta alcuna documentazione. 85 Un piede veneto corrisponde a cm. 34,7 (cfr. Marangoni 1974, p. 71), dunque la mensa degli altari secondo il vescovo Lollino doveva esser lunga da 170 a 240 cm e larga circa un metro (l’altezza era quella che permetteva di celebrare la messa in piedi a un uomo di media statura, cioè 80-100 cm circa). Si vedano inoltre Tucci 1973, pp. 583- 612, Ferraro 1951. 86 Il termine veneto querelli o quarei, significa “mattoni” e Flavio Vizzutti mi ha cortesemente informato di aver trovato questo termine in una documento del 1585 relativo all’ingrandimento di alcuni altari. 87 ACVB. Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4/1-B fasc. II, cc. 4v5r; ibidem, b. 4/112 (1613), c. 9; su altari scomparsi: fasc. IV, c. 1v, c. 3r. La raccomandazione di Lollino affinchè non vi si potesse metter dentro gli altari “cosa alcuna” riguarda soprattutto le reliquie di cui, nei tempi precedenti alla Controriforma, si era spesso abusato favorendo così il culto idolatrico delle immagini collegate a tali reliquie (cfr. Baxandall 1989, pp. 64-121). Dopo il Concilio di Trento gli arredi e le suppellettili ecclesiastiche furono (almeno in parte) adeguati alle minuziose prescrizioni riportate da Carlo Borromeo nell’Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae libri II, Milano 1577, di cui il vescovo Lollino, che conobbe personalmente Borromeo, era sicuramente a conoscenza. 88 Scrive infatti la Ericani: “Una preoccupazione così insolita, in verità si comprende meglio scorrendo i resoconti delle sue visite, ove sono accuratamente descritti in quasi tutte le chiese delle località montane percorse, gli antichi altari conservati: si tratta quasi sempre di strutture costituite da una cassa, e quindi aperte al centro, come richiama il prelato, entro la quale sono esposte tre o più sculture lignee generalmente raffiguranti la Madonna con il Bambino e i santi titolari della chiesa, e munita di portelle dipinte. Al di sopra trovava posto, entro pinnacoli traforati, un Crocefisso talora affiancato dalle Marie” (Ericani 1997, p. 10). 89 Accadeva esattamente la stessa cosa anche quando si trattava di ancone italiane, basti pensare alle numerose ancone di Domenico da Tolmezzo, Giovanni Martini e altri artisti friulani del Cinquecento che nel secolo successivo vennero inserite entro fastosi altari barocchi. 90 Si tratta per l’esattezza dell’altar maggiore di Santa Fosca e dell’altare della Madonna addolorata, che si trova nella stessa chiesa ed è collocato in un grande e fastoso altare barocco, dello scrigno dell’altare di Michele Parth a Vigo e di quello di Falcade, delle statue superstiti degli altari di Sappada e Presenaio. 91 Castelnuovo 1989, p. 18. 92 Neppure nella celeberrima e accurata visita pastorale del patriarca Daniele Dolfin del 1736 si trova alcun accenno agli arredi ecclesiastici (ACAU, b. 795 ?). 93 ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602; b. 780/10. Si tratta di un grosso fascicolo di 316 carte (più 20 bianche) che contiene il resoconto della visita pastorale effettuata nelle chiese della Carnia dal patriarca di Aquileia Francesco Barbaro nel 1602. 94 Le annotazioni riguardanti la visita pastorale dell’arcivescovo Ermolao Barbaro con il luogotenente Agostino Bruno sono raccolte in un fascicolo di 98 cc. con una copertina in cartone su cui è scritto: Visitatio localis omnium ecclesiarum Cadubri eccetera (si veda la nota 70). 95 ACVB, Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4. Il vescovo Lollino fece almeno tre visite alle chiese dell’Agordino all’inizio del XVII secolo nel 1600, nel 1607 e nel 1613. 96 Francesco Barbaro, primogenito di Marcantonio Barbaro, bailo della Serenissima Repubblica a Costantinopoli, nacque a Venezia nel 1546. Dal 1568 al 1573 fu a Costantinopoli col padre e, dopo aver ricoperto diverse cariche civili per la Repubblica di Venezia (fu console a Damasco nel 1573, quindi ambasciatore presso la corte sabauda dal 1578 al 1581, savio di terraferma nel 1584), si dedicò alla carriera ecclesiastica a partire dal 1585 quando Sisto V lo nominò arcivescovo di Tiro e coadiutore e poi vicario generale (dal 1587) del patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani. Del resto la decisione di abbracciare la carriera ecclesiastica appare piuttosto in linea col temperamento studioso di Francesco Barbaro e col fatto che a trentanove anni fosse ancora celibe. Nel 1592 a causa dell’anzianità del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani (che morì infatti nel 1593) venne incaricato dal papa Clemente VIII di ispezionare la vastissima parte asburgica della diocesi di Aquileia e di questa visita resta l’importante Relazione della visita apostolica in Carniola, Stiria e Carinzia fatta da F.B. patr. Eletto d’Aquileia l’anno 1593 e presentata a papa Clemente VIII 294 (stampata a cura di V. Joppi, Udine 1862) che documenta l’infiltrazione in queste zone della dottrina riformata, ma anche lo zelo controriformista di Barbaro nel combattere l’eresia e nel moralizzare la vita del clero. Questa relazione tuttavia non contiene quasi nessun accenno agli arredi ecclesiastici delle chiese visitate poiché l’attenzione di Francesco Barbaro è evidentemente incentrata sul problema del luteranesimo e del comportamento del clero. Benzoni scrisse giustamente del patriarca: “Gli austeri costumi, il fervore e l’attivismo che contraddistinsero il suo patriarcato fanno di lui una figura di rilievo nell’Italia della Controriforma, accostabile allo stesso san Carlo Borromeo per lo zelo dimostrato nell’applicare le norme del concilio tridentino”. Fu il primo patriarca a fissare la residenza a Udine, dove fece costruire il palazzo patriarcale, fondò il seminario udinese e organizzò quattro sinodi diocesani fra cui quello celeberrimo del 1596 a cui parteciparono personalmente o per procura tutti i vescovi suffraganei del patriarcato di Aquileia e durante il quale venne imposto anche nella diocesi di Aquileia l’osservanza della liturgia romana che sostituiva l’antica liturgia aquileiese (cfr. Benzoni 1964b, pp.104-106). 97 “..in altare maiori satis ampio et alto est icona lignea aurata, insculpta, perpulcra cum insuper imagines inter alias Santi Osvaldi alta usque ad fornicem.. non habet balaustra nec umbrella.” ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602; b. 780 /10, c. 121v. Su quest’altare si veda: Perusini, Castri 1999, pp. 173-188; più in generale su Michele Parth si veda il recente contributo di T. Perusini 2003, pp. 15-60. 98 Per quanto possa sembrare banale la traduzione del termine scabellum è stata tutt’altro che semplice (anche per i diversi contesti in cui risultava impiegata) e ha comportato numerosi consulti con diversi amici e colleghi che ringrazio sentitamente: don Giuseppe Peressutti, Andrea De Marchi, Valentino Pace, don Sandro Piussi, Lucia Sartor, Flavio Vizzutti, Sible de Blaauw, Maria Luisa Delvigo. La soluzione è venuta dalla lettura del testo del cardinale Carlo Borromeo, Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae libri II, Milano 1577 (che rientra nello stesso periodo cronologico e contesto culturale dei nostri visitatores) ove questo termine è impiegato col significato di paliotto. Da questo libro emerge chiaramente come l’attenzione di Borromeo s’appuntasse in maniera quasi maniacale su ogni minimo dettaglio dell’arredo e della liturgia ecclesiastica. Nel cap. XI del I libro intitolato De altari maiori è scritto: “Sit autem altare maius à scabelli solo altitudine cubitorum duorum et unciarum octorum et ad summum decem, longitudine cubitorum quinque ac plurimum, pro ecclesiae cappellane magnitudinis ratione, latitudine vero cubitorum duorum et unciarum duodecim, ac plurimum item pro longitudinis et situs modo” (p. 19). Nel cap. XV del I libro intitolato De cornice lignea altaris è scritto: “Unicuique scabello, etiam maioris altaris, coronix lignea tribus digitis, nec vero amplius, alta adiungatur qua a tribus item partibus illud cingatur, ita ut a parte anteriori palij, et a lateribus mantiliu tobalearum extremitas, eiusdem cornicis opere, usque occultetur, etiam ubi altaris scabellum à fronte tantum extat” (p. 33). Alla fine del testo è riportata graficamente la misura di un cubito (43, 5 cm circa) suddiviso in oncie (1, 8 cm circa) sotto cui è scritto “cubiti qui ex uncijs vigintiquattuor constat mensura haec est, unciatim delineata”. Nel secondo brano si legge: “Ogni paliotto anche quello dell’altar maggiore va decorato con una cornice lignea alta tre dita e non di più che va messa su tutti e tre i lati dell’altare cosicchè la sommità di tali cornici risulterà coperta dalla tovaglia dell’altare nella parte anteriore e dai mantilia sui lati, anche quando il paliotto dell’altare è visibile solo di fronte”. 99 “altare maius est sub fornice cappillae maioris lapideo…satis amplium et alto habet icona alta aurata lignea insculpta, antiqua, satis pulcra cum imaginibus inter alias crucifixi domi nst. et sct. Canzio, Canziano et Canzianilla…habet scabellum satis decens et balaustris et umbrella.” (ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 16021602; b. 780 /10, c. 226v). Su quest’altare si veda Rizzi A. 1983, pp. 182-185. 100 “iconam pulcram auratam ligneam insculptam in qua inter alias imagines est imago beatissime Virginis et sct. Margherita et in superiori parte crucifixi Domini nostri […] non habet balaustram neque umbrellam” (ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602; b. 780 /10, c. 191v). Su quest’opera di cui restano attualmente solo le due statue delle sante Margherita e Caterina si veda la scheda a cura di T. Perusini in questo stesso volume. 101 Riguardo all’altare realizzato, forse da Parth, nel 1545 (?) per la chiesa di San Floriano a Mediis si legge: “Super altari est icona lignea aurata, insculpta cum imaginibus inter alias Sct. B. Virginis et sct Floriani” (cfr. ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602-1602; b. 780 /10, cc. 156v-157. Su quest’altare si veda Rizzi 1983, pp. 186-187). 102 Nella visita pastorale del vescovo Lollino, a proposito dell’altare di Falcade è scritto che poteva essere chiuso “cum portellis pictis” (cfr. Ericani 1997, p. 10). 103 Ermolao Barbaro, fratello minore del già ricordato Francesco, nacque a Venezia nel 1548 e, nel 1596, Clemente VIII lo nominò coadiutore del fratello con diritto di successione e, assieme a tale carica, gli venne anche conferito il titolo di arcivescovo di Tiro. Quando nel 1516 Francesco Barbaro morì, Ermolao gli successe sul seggio patriarcale ma a differenza del fratello non fissò mai la sua dimora a Udine preferendo continuare a risiedere a Venezia.. Ermolao Barbaro morì nel 1622 ed è sepolto assieme al fratello nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Udine (cfr. Benzoni 1964a, pp. 100-101). 104 Il paese di Pescùl, dove si trova la chiesa di Santa Fosca, è il più lontano fra quelli del Cadore e proprio per questo i visitatores iniziavano proprio da là e si avvicinavano poi progressivamente al passo della Mauria che era il valico attraverso cui rientravano in Friuli. 105 Su quest’opera si veda la scheda a cura di scrive in questo stesso volume. “Altare maius est in capite ecclesiae, in cappella ad quam ascenditur per unum gradum fornicatum et pavimentatam integrum lapidum, aliquantulum angustum habet scabellum ligneum, iconam ligneam insculptam, auratam decentem cum imaginibus inter alias B.V. et S.ta Fusca, in reliquis fuit repertum satis bene instructum.. Dominus mandavi a cornibus epistulae et evangelij produci cum tabulis decenter per dimidium palmum ab unuquoque latere”, ACAB, Visitatio localis…, cit., c. 2v. 107 “Icona est super altari lignea aurata, insculpta, decens cum imaginibus B.V.ne S.ma, Apostoli Petri et Pauli alta? usque ad fornicem”, ACA.B, Visitatio localis…, cit., c. 65 v. 108 “Mensa est lapidea aequa et licet angusta decenter aucta ex ligno ita ut altare sit convenienter altum atque amplum, et super eo est icona lignea aurata insculpta cum imaginibus inter alias B.B. et Sct. Ursulae, in reliquis altare fuit repertum satis bene instructum et paratum cum scabellum decenter”, ACAB, Visitatio localis…, cit., c. 5-7r-v. 109 Per l’altare di San Simon di Vallada Agordina è scritto: “opus germanicae manus et ingenii antiquum, sed elegans ac politum”, mentre l’ancona di Cencenighe viene definita “decens et honorifica” e quella di Agordo viene detta “decens et honorifica, bene culta, antiqua, germanici opus artificis”. Purtroppo Tamis non cita le visite pastorali da cui ha tratto queste informazioni (cfr. Tamis 1981a, pp. 86, 156 e 197). 110 Così pensa ad esempio Ericani che scrive: “Le decisioni vescovili potrebbero forse rientrare in un diffuso spirito antitedesco alimentato nell’area da motivi religiosi e dalle razzie e dalle incursioni e battaglie di Massimiliano d’Asburgo di primo Cinquecento più genericamente da una necessità liturgica di assicurare una lettura più immediata delle immagini sacre […] o anche dipendere come spesso succede, nei cambiamenti epocali, da tutte queste componenti. Di fatto qualsiasi fosse la motivazione le disposizioni del Lollino modificarono nell’ultimo decennio del XVI secolo e agli inizi del Seicento tutti gli interni delle chiese bellunesi […] con una significativa differenza rispetto alle chiese trentine ove la presenza di Flügelaltäre è ancora consistente anche se relegata in luoghi non più eminenti delle chiese” (cfr. Ericani 1997, pp. 10-11). 111 Ciò accadeva ad esempio nel caso di opere poste in cappelle su cui cittadini o confraternite avevano diritto di giuspatronato oppure nel caso di singoli altari, sculture o dipinti commissionati da famiglie, associazioni di lavoratori eccetera. Non bisogna dimenticare che in quest’epoca il rispetto della proprietà privata era così forte che persino i riformati in alcuni casi non osarono distruggere le opere che non appartenevano alla chiesa ma a qualche privato cittadino, come dimostrano le vicende dell’Englische Gruss di Veit Stoss nella chiesa di San Lorenzo a Norimberga (cfr. Taubert 1978, pp. 60-72; AA.VV., Der Englische Gruss… 1983). 112 Passamani rilevando la diffusione di tale prassi notava come spesso “l’originario contesto altaristico […] era distrutto e le statue venivano inserite in un altare barocco […] come possiamo constatare in numerosi esempi di recupero sei settecenteschi che hanno interessato in particolare (perché più numerosi ma forse anche perché divenuti estranei al gusto, particolarmente in aree non tedescofone o ormai non più tali) i Flügelaltäre: si vedano i casi di Arsio, Mastellina, Comasine, Cogolo, Segonzano, Fiera di Primiero, ma anche quello di un’ancona all’italiana come quella della ‘scola’ di Stefano lamberti a Condino”, egli dunque conclude che “questa prassi è un importante testimonianza sul significato ed il ruolo che talune immagini lignee […] detenevano nella pratica liturgica e devozionale delle diverse comunità. Le quali, coinvolte nei mutamenti imposti dal gusto ed in particolare dalla più spettacolare liturgia postridentina e barocca, lungi dal disfarsi degli antichi simulacri, ne rinverdivano la funzione con rinnovate policromie e ridistribuzioni simboliche in nuove macchine altaristiche” (cfr. Passamani 1989, p. 32). 113 Su quest’altare, eseguito negli ultimi anni del Quattrocento dall’intagliatore brissinese Ruprecht Potsch, si veda la scheda a cura di chi scrive in questo stesso volume. 114 Fra le numerose chiese parrocchiali che vennero ingrandite fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento in Cadore ricordiamo, oltre a quella di Pieve, la chiesa parrocchiale di Santa Giustina ad Auronzo, realizzata alla fine del Quattrocento e ricostruita dopo il 1772 su disegno degli architetti tolmezzini Angelo Fabbro e Domenico Schiavi; quella di San Lucano a Villapiccola (Auronzo) costruita nel Quattrocento e ricostruita nel 1856 su disegno di G. Segusini; la chiesa di San Biagio di Calalzo, costruita sempre del XV secolo e ricostruita nel 1852 da Segusini; la chiesa di San Lorenzo a Cibiana, del XIV secolo, di cui venne rifatto il coro nel 1729 e fu quindi ricostruita nel 1852 da Segusini; la chiesa di Santa Maria Assunta a Candide, di fondazione antichissima (1186) e ricostruita nel 1762-1800 su disegno di Domenico Schiavi; la chiesa di San Giorgio a Domegge costruita nel XV secolo e rifatta nel 1861; la chiesa dei Santi Ermacora e Fortunato di Lorenzago costruita nel Quattrocento e ricostruita nel 1756 da Angelo Fabbro e Domenico Schiavi; la chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenza di San Vito di Cadore di fondazione antichissima (114) e ricostruita nel 1764 su disegno di Domenico Schiavi; la chiesa di Santa Margherita a Sappada del XII secolo e ricostruita nel 1779; la chiesa di San Martino a Valle di Cadore sempre del XII secolo e ricostruita nel 1739 (cfr. Fabbiani 1964a). 115 Il manoscritto originale, che s’intitola esattamente Historia della provincia di Cadore composta da Don Antonio Barnabò sacerdote di valle di Cadore. Composto negli anni 1729 e 30, terminato l’anno 1732, è attualmente conservato nella biblioteca del seminario di Vittorio Veneto. Ho consultato una copia dattiloscritta (realizzata nel 1943) conservata nella Biblioteca Storica Cadorina di Vigo di Cadore (ms. n. 2899). 106 116 A. Barnabò, Historia…, cit., c. 175. Barnabò continua quindi: “Ad ambedue i lati dell’altare sono eretti due altarini ne’ quali sono collocati alcuni vasi e mani dorate e croci diverse reliquie, ma non insigni con le loro portelle dipinte, co’ quali si chiudono, con due piccole lampade d’argento dinnanzi” (c. 175). Una conferma dell’esistenza di tali reliquie ci viene anche da una breve nota manoscritta di monsignor Biasutti, attualmente conservata presso la biblioteca del seminario di Udine, in cui lo studioso riporta la notizia trovata in un documento del 19 novembre 1498 ove si legge che era stata portato nella chiesa un pezzetto del legno della croce e il vicario generale Mason ne aveva proibito la venerazione rimettendo però il caso al canonico Giovanni Grimani (cfr. schedario di monsignor Guglielmo Biasutti, biblioteca del seminario di Udine, voce Pieve di Cadore). 117 Spiazzi 1999a, p. 119. La Spiazzi non riportò la collocazione del manoscritto da cui trasse questo brano ma la Cusinato nel 2000 trascrisse il testo per esteso e ne citò esattamente la collocazione: Descrizione della chiesa di santa Maria di Pieve come la vide nel 1730 il sacerdote Giovanni Antonio Barnabò di Valle. Sec. XVIII. Attribuito [a Barnabò] da Taddeo Jacobi Pieve di Cadore, APPC, busta Fabbricerie varie, cc. 1r- 4r (cfr. Cusinato 2000, pp. 119-122). 118 “Orgoglio di tecnica eroica, mirabilia dell’artigianato possente e paziente, sono gli altari su cui si sacrifica ampiamente la produttività artistica tedesca tra il Quattro e il Cinquecento. […] è certo che lo Stoss, Nicola Gerhart, il Riemenschneider e tanti altri hanno sostanza creativa. Di ognuno è concesso isolare un diverso timbro sentimentale. Quando dall’altare di Cracovia dello Stoss si estraggono i particolari come le teste della Maddalena e del san Giovanni egli può battere il nostro Mazzoni, per citare un italiano comprensibilissimo anche lassù. Ma il significante è che subito si pensi ad estrarli quei particolari. Si è perché essi aggallano sull’acervo dei panneggi che si snodano e si ammonticchiano ad infinitum. Si dice che questi dovrebbero servire all’astrazione ritmica: ma qui non era più luogo alla certezza dialettica del migliore Trecento. Sono ormai questi panni troppo consistenti di materia, troppo certi di tessuto, per girovagare a quel modo. Ho anche letto che essi diano il pathos a tutta l’opera. Ma il pathos non si regge con una interiezione sola ripetuta a metri quadrati. […] i due aspetti opposti di una naturalezza curiosa e instancabile e di una lirica folle e vagante s’affiancavano e talora s’intrecciavano [nell’arte tedesca] […] era s’intende una via pericolosa, strapiombante da un lato sul caos naturalistico di una verità troppo vera, troppo curiosa quasi indiscreta, dall’altra sulle forre di un ritmo troppo irreale, troppo frivolo, troppo giocato su una linea ormai mistificante” (cfr. Longhi 1973, pp. 14 e 19). 119 Giuseppe Sampieri era cappellano della chiesa di santa Caterina del castello di Pieve, su questo suo scritto si veda Palatini 1951, pp. 94-103. 120 Si tratta di un quaderno di 49 cc. sul cui frontespizio in cartone si legge: Libro per la nuova fabbrica della v.nda Chiesa Nostra Matrice e Arcidiaconale. A.M.D.G. 1761, conservato nell’APPC. I primi 6 fogli contengono il piano dell’antica chiesa nostra arcidiaconale, ossia una descrizione della chiesa antica accompagnata da una pianta fuori testo. Nei fogli successivi è invece compendiata la storia della riedificazione della chiesa arcipretale. Già nel 1754 infatti si era pensato di riedificare l’antica chiesa che appariva da tempo rovinata, tanto più che tale intervento era stato suggerito dallo stesso patriarca Daniele Dolfin nelle due visite pastorali del 1736 e del 1745. 121 Taddeo Jacobi, Memorie parziali e rispettive delle chiese esistenti nel Cadore e di quanto contengono, p. 3 (APPC). Io ho consultato una copia dattiloscritta conservata nella Biblioteca Cadorina di Vigo. Si tratta di un ms. di 132 cc. sul cui frontespizio si legge Memorie parziali e rispettive delle chiese esistenti nel Cadore e di quanto contengono supposta volgarmente degna di qualche considerazione ed è posto entro una busta d’archivio su cui è scritto: Carte attribuite a Taddeo Jacobi notaio sec. XVIII- XIX. Tale manoscritto venne rivendicato per la prima volta a Taddeo Jacobi (1753-1841) da Attilio Giacobbi (cfr. Giacobbi 1978, pp. 48-53), che propose di datarlo attorno al 1810 e ipotizzò che dovesse la sua origine al desiderio di Jacobi, che visse in prima persona i drammatici momenti della fine della Repubblica veneta e del dominio napoleonico, di mantener viva la memoria di tante opere d’arte distrutte in questo periodo. Jacobi, originario di una cospicua famiglia di Pieve, s’era laureato a Padova in utroque iure nel 1786 e a 33 anni venne eletto vicario del Cadore, carica che mantenne fino al 1788. Durante il periodo napoleonico fece parte di molte commissioni sia presso Bonaparte che presso la corte di Vienna per cercare di mitigare le funeste influenze delle ripetute incursioni e ricoprì anche diverse cariche onorifiche. Fu consigliere del tribunale d’appello sotto il regno italico e fu inviato a Parigi da Napoleone per l’applicazione del nuovo codice. Infine però preferì “la quiete dei suoi monti” dove venne nominato “ispettore ai boschi”. Nel 1811 si ritirò dalla vita politica per dedicarsi interamente agli studi locali coll’intento di preparare una moderna storia del Cadore. Morì a Pieve nel 1841 alla veneranda età di ottantotto anni ma la sua storia non era ancora completata e tutti i documenti che aveva prelevato dagli archivi a tale scopo (ben diciassette contenitori!) andarono in seguito dispersi. Di tutto questo lavoro rimane soltanto un copiosissimo Indice cronologico rimasto allo stadio di abbozzo che, secondo Attilio Giacobbi, è questo manoscritto. Giacobbi conclude infatti il suo articolo scrivendo: “Questo opuscolo manoscritto è una stesura provvisoria e ancora incompleta del Catalogo sulle opere d’arte del Cadore che il dott. Taddeo Jacobi andava preparando già dagli anni della Rivoluzione francese e che non riuscì a portare a termine, pur avendolo costantemente aggiornato fino al 1841 quando morì”. Ma ancor più interessante mi pare l’ultimo capoverso: “[il manoscritto] riporta molte notizie raccolte con diligenza, cita le fonti d’informazione, spesso riferisce cose viste e riscontrate personalmente pro- 295 prio negli anni in cui sparirono alcune di quelle chiese, passate al demanio o vendute, con la soppressione delle scuole, e negli anni in cui si rinnovarono in stile neoclassico molte altre, col fervore edilizio delle nuove fabbricerie parrocchiali. In breve si perse anche il ricordo delle vecchie chiese e di tante opere d’arte disperse qua e là dai nuovi profeti. Il manoscritto di Jacobi ce ne conserva una traccia” (cfr. Giacobbi 1978, pp. 52-53) . 122 Alla metà del Settecento era stato deciso di abbattere la vecchia chiesa ormai molto rovinata e troppo piccola per la popolazione di Pieve per costruirne una nuova il cui progetto (nel 1754) venne affidato all’architetto friulano Domenico Schiavi. In questo primo progetto l’architetto tolmezzino aveva previsto di rifare solo la navata lasciando intatti il coro e il transetto poiché vi si trovavano degli affreschi attribuiti a Tiziano. Tale progetto tuttavia venne scartato dall’ispettorato alle opere pubbliche di Venezia; fu così che Schiavi fornì un secondo progetto (nel 1763) che prevedeva anche l’abbattimento del coro e la creazione di una chiesa a navata unica con cupola centrale. I lavori di Domenico Schiavi ebbero inizio nel 1765, ma vennero sospesi nel 1780 e furono ripresi appena nel 1805 sotto la direzione del figlio Angelo Schiavi il quale a sua volta lasciò il cantiere nel 1812. A tal punto subentrò, come direttore lavori, l’architetto feltrino Sebastiano De Boni che nel 1813 fece “finalmente” abbattere l’antico coro e fu in tale occasione che venne probabilmente rimosso e smembrato l’altare a portelle. Nel 1837 venne inaugurata la nuova chiesa che tuttavia era ancora priva della facciata per cui venne bandito un concorso nel 1859 che fu vinto dall’architetto vicentino Giovanni Miglioranza; ma la realizzazione della facciata, di gusto neorinascimentale, venne terminata appena nel 1876. (cfr. Cusinato 2000, pp. 33-43; Guzzon 2003, pp. 7-14). 123 Fra questi fu nuovamente in prima linea Jacobi che in tale occasione scrisse un saggio intitolato Descrizione del coro della chiesa matrice di S. Maria di Pieve e delle pitture e delle sculture che vi esistono, ad oggetto soltanto di conservarne la memoria in ogni futuro evento ed è citato nell’articolo di Fabbro 1962, pp. 177-181. 124 Brentari 1886, p. 110. 125 Non dobbiamo dimenticare infatti che, grazie alla diffusione del romanticismo, in Germania e in Francia a partire dal terzo decennio dell’Ottocento le opere d’arte medioevali cominciarono a essere apprezzate e ricercate dai collezionisti pubblici e privati, mentre in Italia esse vennero trascurate ancora per diversi decenni (cfr. Spalletti 1995, pp. 8-30, e inoltre Perusini 2001, pp. 19-61). 126 Il trittico di san Nicolò (dipinto da Agostino da Lodi, con la cornice intagliata da Vettor Scienza) si trovava nella cappella Buzzatti della chiesa di Bribano (presso Sedico) e la famiglia Buzzatti, che sosteneva di avere il giuspatronato su quest’opera, lo vendette all’antiquario veneziano Antonio Carrer. La gente del paese s’oppose strenuamente alla vendita ricorrendo infine alla giustizia (per dimostrare che l’opera non era di proprietà della famiglia Buzzatti) sicché alla fine si giunse a un concordato per cui il comune ricomprò l’altare all’antiquario (al prezzo che aveva pagato alla famiglia Buzzatti) e s’impegnò a vigilare in perpetuo sulla sua conservazione (cfr. Bentivoglio 1975, pp. 431- 436). Purtroppo si tratta di un caso isolato ma pur sempre significativo per dimostrare come la conservazione delle opere d’arte è sempre e comunque legata in primo luogo all’interesse e all’affezione della gente a cui tali beni sono affidati. 127 Scrive infatti Richebuono a proposito di quest’altare: “È una vera fortuna che della chiesa di santa Caterina ci sia rimasto almeno l’altar maggiore, conservato ora nella cappella di Campo. Sul giornale ‘Tiroler Stimme’ N° 71 del 1910 il benedettino padre Adelgott Schatz scrisse che l’altare era stato ritrovato l’anno prima da antiquari, che volevano comprarlo e portarlo via” (cfr. Richebuono 1974, pp. 268-269). 128 Basti pensare, per citare solo le opere di Klocker alle tre sculture dello scrigno dell’altare di Kaltern/Caldaro finite in una collezione privata e poi disperse, e alle portelle dello stesso altare divise fra una collezione privata di Hall e il convento dei francescani a Kaltern; oppure alle sculture dello scrigno dell’altare di San Leonardo in val Passiria ora divise fra le Österreichische Galerie e la chiesa parrocchiale di Seefeld; oppure alle sculture dell’altare di Schalders conservate nel Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, e ancora allo scrigno dell’altare di Kastelfeder ora nel museo civico di Bolzano (cfr. Egg 1985, pp. 97-121). 129 Le due sculture sono alte 120 cm (le misure che avevano solitamente le sculture poste nello scrigno di un Flügelaltar di grandi dimensioni) e nella scheda d’ingresso al museo è scritto che provenivano da una chiesa presso Ulma, ma già nel 1922 Harry Fett le assegnò alla scuola di Pacher. Ernst Haverkamp, senior curator della collezione di scultura del museo, ha giustamente rigettato questa attribuzione, ma credo sia esatto affermare che provengono dal Sudtirolo. È certo infine che queste sculture provengono dal mercato antiquario (forse anche per questo la provenienza è stata falsata come spesso accadeva in questi frangenti): facevano parte infatti della collezione del pittore Eilif Peterssen (1852-1928) che verosimilmente le acquistò nella seconda metà dell’Ottocento ed entrarono quindi nella collezione di Christian Langaard, già direttore di questo museo a cui egli le donò nel 1923. Ringrazio per queste informazioni Ernst Haverkamp e ringrazio soprattutto Giovanni Ferrin al quale devo la segnalazione e le fotografie di queste due sculture. 130 Questa fotografia si conserva attualmente in un archivio privato (di Padova). Ringrazio la restauratrice Milena Dean per questa e altre notizie riguardanti il commercio di opere d’arte nel bellunese nella seconda metà dell’Ottocento. 131 Quest’altare era già stato pubblicato da Kaufmann 1973, n. 343; Müller 1976, foto 162-163; Egg 1985, pp. 134-137; Jopek 2002, pp. 137-144. In tutte queste pubblicazioni l’altare, che doveva essere di notevoli dimensioni (altezza dello scrigno 296 416 × 465 cm a portelle aperte), venne correttamente attribuito alla bottega di Ruprecht Potsch (affiancato per l’esecuzione dei dipinti da Philip Diemer) e datato fra il 1500 e il 1510. Si tratta di un altare mariano che contiene nello scomparto centrale dello scrigno la Madonna in trono col Bambino (108 cm) affiancata da san Giovanni Battista (185 cm) e san Floriano (175 cm). Nel lato interno (intagliato) delle portelle sono raffigurate quattro scene della vita della Vergine (Annunciazione, Presentazione al tempio, Natività, adorazione dei magi). Sul lato esterno sono dipinti (in quattro riquadri) i santi Albuino e Ingenuino, Lucia e un’altra santa martire, san Giorgio e san Martino. Sulla faccia esterna delle portelle della predella sono dipinte le sante Barbara, Dorotea, Caterina e Margherita mentre manca il gruppo scultoreo (raffigurante l’adorazione dei magi) che stava nella predella. Ai lati dello scrigno (e quindi visibili solo a portelle chiuse) si trovavano due sculture a tutto tondo raffiguranti san Pietro e san Paolo (112 cm). 132 Jopek 2002, p. 137. Ringrazio Diane Bilbey del Victoria and Albert Museum di Londra per le informazioni che mi ha fornito su quest’altare. 133 Egg ipotizzò la provenienza di quest’opera dalla val Isarco (cfr. Egg 1985, p. 143) probabilmente perché sulle portelle sono raffigurati i santi Albuino e Ingenuino che erano i patroni di Bressanone. Tale iconografia rende improbabile la provenienza di quest’opera dall’Agordino, ma resta il fatto che Potsch lavorò moltissimo in questa zona, eseguendo fra l’altro il perduto altare di Cencenighe (nel 1516-1517) che però, dalla descrizione riportata da Tamis, non può essere quello di Londra. Lo scrigno dell’altare di Cencenighe conteneva infatti le statue della Madonna, di sant’Antonio abate e di santa Caterina e, all’interno delle portelle, in bassorilievo, erano raffigurati san Martino e san Sebastiano (cfr. Tamis 1981a, p. 197). 134 Lanza 2002, pp. 79- 89. 135 Castelnuovo scrive che nei primi decenni del XX secolo il mercato straniero preferiva “le sculture di ambito germanico” (cfr. Castelnuovo 1989, p. 17). 136 Il Flügelaltar che stava sull’altar maggiore della chiesa arcidiaconale di Agordo doveva essere molto simile a quello di Londra e, secondo Tamis, andava anch’esso attribuito a Potsch. Si trattava infatti di “una pala di legno, d’arte tedesca, con figure di fine intaglio colorate; al centro c’era l’immagine grande della Vergine col Bambino, a destra l’apostolo san Pietro, a sinistra san Giovanni evangelista sotto una corona di angeli. Lo stipo veniva chiuso e protetto da portelli, dei quali il primo aveva nella parte interna san Floriano, san Martino, san Lucano e un ignoto, nella parte esterna la Visitazione, e la nascita di Gesù, l’altro all’interno portava san Giacomo e sant’Antonio, san Rocco e l’arcangelo Michele, all’esterno l’Annunciazione e l’adorazione dei magi. In alto un coronamento architettonico rappresentava l’Assunzione di Maria: la statua della Vergine era addossata a una tavola dipinta, di forma circolare, sostenuta da colonnine dorate e le facevano corona un’aureola di graziosi spiriti celesti: ai piedi i dodici apostoli miravano lo sguardo al cielo. Sulla predella dello stipo era scolpito il mistero della Natività della Madonna e le immagini di due santi. Nelle relazioni delle visite pastorali [ma purtroppo don Tamis non precisa di quali visite si tratti!] la pala è detta “decens et honorifica, bene culta, antiqua, germanici opus artificis”. Era simile a quella di Rocca Pietore, di proporzioni più grandi, e forse si doveva attribuire allo stesso autore, Ruprecht Potsch di Bressanone, che lavorava per le nostre chiese nella prima metà del XVI secolo” (cfr. Tamis 1981, pp. 85-86). Purtroppo è impossibile sapere quando venne smontato quest’altare; probabilmente esso rimase al suo posto fino all’inizio dell’Ottocento (com’era accaduto per l’altare di Pieve di Cadore) quando venne iniziata la costruzione della nuova chiesa. Purtroppo dalle pubblicazioni riguardanti la chiesa di Agordo non è possibile capire quando venne sostituito l’antico altare, dopo aver ricordato la sostituzione dell’altare dei Santi Giacomo e Cristoforo nel XVII secolo, Tamis scrive infatti: “In seguito (quando?) vennero fatti altri lavori ingombrando gli spazi e togliendo la semplicità dell’interno: si aggiunsero due altari laterali e quello dell’abside, ricostruito, apparve un ammasso di materia e colonne ammonticchiate”; continua quindi ricordando le vicende della ricostruzione ottocentesca (cfr. Tamis 1981, p. 87). In base a questa testimonianza sembrerebbe che l’antico altar maggiore fosse già andato distrutto prima dell’Ottocento ma sarebbe necessario effettuare ulteriori ricerche nell’archivio parrocchiale di Agordo (sulle vicende della chiesa di Agordo si veda il quaderno n. 4 di “Ricerche e studi sulla chiesa arcidiaconale di Agordo”: Guida alla arcidiaconale… 1989). Nel 1849 Valentino Pancera Besarel lavorava assieme al padre all’interno della chiesa di Agordo; a quest’epoca probabilmente il Flügelaltar era già stato smontato ma forse si trovava ancora in paese (sull’attività dei due Pancera ad Agordo si veda: Angelini, Cason Angelini 2002, p. 58 e inoltre Cason Angelini, Gambaretto 2002, pp. 19-30). 137 Nel bellunese v’era all’epoca una Commissione conservatrice dei monumenti e degli oggetti d’arte e di antichità (di cui era presidente il prefetto e di cui facevano parte nel 1885 Francesco Pellegrini, Carlo Zasso, Luigi Tonelli e Angelo Sperti) e poi gli Ispettori agli scavi e ai monumenti che dal 1881 al 1884 erano, oltre a Osvaldo Monti, Carlo Zasso, Valentino De Lorenzo, Jacopo Facen, Valentino Berton (cfr. Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 313-314). 138 Osvaldo Monti (1819-1904), di origine cadorina ma residente a Belluno, si laureò in legge a Padova nel 1845 ma non esercitò mai la professione di avvocato e durante gli studi frequentò il pittore padovano Vincenzo Gazzotto (seguace del De Min) dove probabilmente conobbe il restauratore padovano Antonio Bertolli che in seguito chiamò a restaurare i dipinti della chiesa di Lentiai. A questi anni padovani potrebbe risalire anche la sua conoscenza con Cavalcaselle (che studiò ingeneria a Padova dal 1840 al 1844) e Selvatico. Egli sposò la sorella del poeta Arnaldo Fusinato conosciuto all’uni- versità. Non fu un grande pittore ma fu invece un ottimo illustratore di libri (Gerusalemme lberata, Orlando furioso, Decamerone eccetera). Fu amministratore del Monte di Pietà di Belluno fino al 1883 e poi direttore della Banca del Popolo dal 1867 al 1869. Fu, come s’è detto, ispettore agli scavi archeologici e condivise con Pellegrini la responsabilità del Museo Civico di Belluno (si veda Lucco 1991, p. 926). 139 Ciò era infatti previsto nell’art. 7 del R.D. del 7 agosto 1874. 140 ASCB, b. 1321, fasc. Disposizioni. Ringrazio Orietta Ceiner del Comune di Belluno per aver messo cortesemente a disposizione questo materiale. Su tale argomento si veda la tesi di laurea di Alessandra Delle Vedove, La Commissione provinciale conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità in Belluno. Storia, attività, restauri, università di Udine, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2002-2003, relatore R. Fabiani. 141 Alla fine di questa relazione Monti fece anche un accenno al Cadore citando fra le opere degne di valore e artistico la chiesa di sant’Orsola e il santuario di Pieve di Cadore. 142 Non è possibile sapere con sicurezza quando venne realizzato questo inventario poiché nessuno dei fogli che lo compongono riporta una data, ma si può considerare come termine post quem il 1877 giorno in cui la Commissione provinciale si riunì per decidere quali monumenti inserire nell’elenco. 143 Questa lettera è conservata nel fascicolo ove sono raccolti i documenti riguardanti l’attività della Commissione conservatrice nel distretto di Belluno: ASCB, b. 1321, fasc. Belluno. 144 Civiletti, Belluno 1962, p. 4. 145 Sacco 2002, p. 135. 297