Altari tedeschi dei secoli XV e XVI nell’Agordino,
nello Zoldano e nel Cadore
Giuseppina Perusini
Non intendo qui riassumere o discutere le attribuzioni delle
tata diffusione5 oppure su pubblicazioni locali che talvolta
opere presenti in mostra, sia perché condivido le proposte
riportano notizie generiche o decisamente “fantasiose”6.
avanzate dai colleghi, sia perché gli studi sui Flügelaltäre
Qualche indagine di più ampio respiro venne effettuata dagli
(altari a battenti) del Bellunese di questi ultimi anni sono pre-
studiosi tedeschi, i quali tuttavia limitarono le ricerche alle
valentemente incentrati sui problemi attributivi e tecnici1.
opere già note e di maggior pregio; fra questi il contributo
Rimando dunque alle schede coloro che fossero interessati a
più significativo fu senza dubbio quello di Erich Egg7, che
questi argomenti, mentre qui intendo affrontare due proble-
esaminò i Flügelaltäre di Rocca Pietore e di Livinallongo8 ma
mi assai più complessi e meno studiati ovvero:
non citò neppure quelli di San Simon di Vallada Agordina,
1. la committenza di queste opere o, più in generale, le
Selva, Goima e Pieve di Cadore9.
ragioni per cui, in una zona di lingua e cultura prevalente-
Le prime indagini sistematiche su tali manufatti risalgono
mente italiane, nel corso del Quattrocento e del primo Cin-
dunque agli anni novanta e sono lieta di aver contribuito
quecento vennero realizzati diversi altari tedeschi;
alla ripresa di questi studi: alla fine degli anni ottanta infat-
2. la storia conservativa di queste opere, intendendo con ciò
ti frequentavo spesso queste zone e mi colpirono subito la
non la storia dei danni o dei restauri subiti da questi altari,
quantità e la qualità delle sculture lignee di origine tedesca
ma la considerazione di cui essi furono oggetto nel corso dei
ancora presenti nel Cadore e nell’Agordino10. Fu così che nel
secoli; spesso infatti la conservazione o la distruzione delle
1989 assegnai a una studentessa di Feltre, Luciana Tazzer,
opere d’arte dipende dal valore che viene loro attribuito.
una tesi di laurea sulla scultura lignea tedesca nella provin-
Prima di affrontare questi argomenti è necessario, tuttavia,
cia di Belluno11. La Tazzer fece un ottimo lavoro da cui tras-
fare almeno un cenno alla storia degli studi che, nel corso del
se due articoli12 che, ancor oggi, costituiscono il punto di
Novecento, furono dedicati a tali manufatti. Gran parte del-
partenza per qualsiasi studio sull’argomento. Fra il 1991 e il
le ricerche sulla scultura lignea italiana risale al secondo
1992 potei restaurare e studiare l’altare di Santa Fosca a Sel-
dopoguerra , e anche la scultura lignea dell’arco alpino
va di Cadore13 e, negli anni seguenti, ebbi occasione di
orientale non venne indagata sistematicamente prima del
segnalare altre sculture di scuola tedesca14. In seguito altri
sesto decennio del Novecento. Le ricerche di quegli anni, fra
colleghi ampliarono ulteriormente il catalogo delle sculture
cui si segnalano quelle di Giuseppe Marchetti3, riguardarono
tedesche presenti nel bellunese, grazie al rinvenimento (da
prevalentemente il Friuli, ma ve ne sono alcune dedicate
parte di Anna Maria Spiazzi) e all’attribuzione a Parth (da
anche alle sculture lignee cadorine poiché Carnia e Cadore,
parte di Serenella Castri) delle due statue raffiguranti santa
2
che furono storicamente legati per secoli, presentano note-
Margherita e santa Caterina nella chiesa parrocchiale di
voli affinità sia geografiche sia culturali4.
Sappada15 e alla recente segnalazione, da parte di Milena
La scarsità di ricerche sulla scultura lignea bellunese e quindi,
Dean, della statua di san Floriano, sempre a Sappada,
a maggior ragione, sulle opere tedesche, ha fatto sì che, fino
anch’essa probabilmente riconducibile alla bottega di
al 1990, i Flügelaltäre di questa zona venissero in parte tra-
Parth16.
scurati dalla critica e le poche indagini effettuate, solitamente
A partire dagli anni novanta queste opere furono oggetto di
in seguito al rinvenimento d’iscrizioni o documenti, fossero cir-
una sistematica campagna di restauro, voluta e diretta da
coscritte a singole opere e venissero stampate su riviste di limi-
Anna Maria Spiazzi della Soprintendenza per il Veneto sic279
ché, al giorno d’oggi, gran parte delle sculture tedesche pre-
14) la scultura raffigurante la Vergine col Bambino in trono
senti nel bellunese sono state restaurate.
(del XV secolo) attualmente conservata nella chiesa di Santa
Oltre alle opere già citate furono infatti restaurati gli altari di
Giuliana ad Alverà (Cortina), quasi sconosciuta fino all’attua-
Rocca Pietore (1991-1992 e 1993-1995)17, Campo (1992-
le mostra anche perché è stata grossolanamente ridipinta e
1993) , Vallada Agordina (1996-2004) , Vigo di Cadore
coperta con vesti di stoffa27.
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(1994-1997), Goima di Zoldo (1994-1997) , Lorenzago
Se a queste opere si aggiungono alcune sculture lignee iso-
(1997-1999) , Falcade Alto (1999-2003) e le due sculture
late (ma che in passato fecero forse parte di qualche altare)
superstiti degli altari di Sappada (2000-2002) e Presenaio
come la Madonna addolorata e il sant’Antonio abate della
(2000-2002) . Si può dire dunque che al momento attuale
chiesa di Santa Fosca, la statua di san Lorenzo nella chiesa
quasi tutte le sculture lignee (conosciute) di scuola tedesca
omonima a Selva di Cadore, la scultura raffigurante san Flo-
che si trovano nella provincia di Belluno sono state studiate
riano a Sappada28 e alcune statue in Gußstein o in arenaria
e restaurate.
come il san Biagio della chiesa di Alleghe (dell’inizio del XV
A questo punto credo sia utile fornire un elenco di tali ope-
secolo), la piccola Madonna in alabastro proveniente dal san-
re collocandole in ordine approssimativamente cronologico24:
tuario dei Santi Vittore e Corona (sempre dell’inizio del XV
1) l’altare della chiesa di Santa Fosca a Selva di Cadore (1490-
sec.)
1500), di cui sopravvive solo lo scrigno (la parte centrale);
la provincia di Belluno30, risulta evidente che, nonostante le
2) l’altare della chiesa di San Sebastiano a Falcade, di cui
rilevanti perdite, in questa zona esiste ancora una significati-
sono rimaste solo le tre sculture dello scrigno (1497 circa);
va testimonianza di tali opere.
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23
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e i cinque Vesperbilder che ancora si conservano nel-
3) la predella e le portelle dell’antico altar maggiore della
chiesa arcidiaconale di Santa Maria Nascente a Pieve di
Cadore (1498 circa) di Ruprecht Potsch;
la realizzazione dei Flügelaltäre nella provincia di Belluno
4) l’altare di San Tiziano a Goima di Zoldo riconducibile alla
durante i secoli XV e XVI
bottega di A. Haller (1520);
La presenza di opere di scuola tedesca nell’alto bellunese è
5) le due statue superstiti della chiesa di San Volfango a Pre-
legata a diversi fattori fra cui, in primo luogo, quella “feli-
senaio, che facevano parte di un antico altare a battenti (del-
ce fluidità dei confini”31 che caratterizzò l’autunno del
l’inizio del 1500);
Medioevo nei paesi alpini (fig. 1). Nel 2002 Enrico Castel-
6) l’altare di Ruprecht Potsch della chiesa parrocchiale di San-
nuovo scriveva a tal proposito: “se c’è un momento nel
ta Maddalena a Rocca Pietore (del 1518);
quale si può parlare di un’arte alpina è proprio il XV seco-
7) l’altare della chiesa dei Santi Simone e Giuda a Vallada
lo”32, tuttavia “questo fecondo momento di scambio fra la
Agordina attribuibile alla bottega di Andrè Haller (1520-
cultura nordica e quella latina si concluse con la fine del
1525);
‘Gotico internazionale’”33. Tale situazione infatti mutò col
8) la predella e la statua di san Rocco appartenenti all’altare
diffondersi della Riforma protestante che indusse i paesi
di Michele Parth nella chiesa della Difesa a Villapiccola di
cattolici a creare nuovi sbarramenti per controllare le infil-
Lorenzago (1523-1525 circa);
trazioni dei luterani. Non mi dilungherò su questo argo-
9) le due statue, sempre di Michele Parth, raffiguranti santa
mento poiché la funzione dei paesi alpini come luogo d’in-
Margherita e santa Caterina della chiesa parrocchiale di Sappa-
contro fra la cultura tedesca e quella latina è stata oggetto
da (del 1530 circa) che facevano parte di un altare a battenti;
di molte recenti pubblicazioni34, concentrerò invece la mia
10) l’altare di Michele Parth della chiesa di Sant’Orsola a Vigo
indagine su alcuni aspetti più direttamente connessi alla
di Cadore (del 1541) a cui manca il coronamento;
presenza dei Flügelaltäre in questa zona che non sono sta-
11) l’altare di Michele Parth nella chiesa di San Candido a Cam-
ti ancora indagati fra i quali, in primo luogo, la committen-
po di Cortina (del 1549), a cui manca solo il coronamento.
za di queste opere.
A queste opere vanno aggiunte:
Anticipando le conclusioni, dirò subito che, a mio avviso, i
12) le due tavole dipinte, di scuola klockeriana, databili all’i-
principali committenti dei Flügelaltäre bellunesi furono quei
nizio del XVI secolo e raffiguranti due Sacre Conversazioni (la
piccoli gruppi di paesani che, assieme ai fabbriceri, gestivano
Madonna con sei santi e la Madonna con quattro santi) che
i beni delle chiese locali35: si tratta dunque di capire perché
sono attualmente conservate nella chiesa di San Floriano a
questi uomini, di lingua e cultura italiana, con scarsi mezzi e
Pieve di Zoldo ;
limitate conoscenze artistiche ordinassero i loro altari ad arti-
13) la tavola dipinta (della fine del XVI secolo) raffigurante la
sti tedeschi anziché a quelli italiani. Ciò implica infatti l’esi-
Vergine fra san Nicolò e san Biagio nella chiesa di Ospitale di
stenza, a livello popolare, di forti legami fra le comunità resi-
Cortina26;
denti sui due versanti delle Alpi, un fatto che solo in tempi
25
280
Vicende storico-culturali che hanno determinato
1. Carta geografica
raffigurante la suddivisione
politica dell’Italia
nord-orientale nel XV secolo
(tratto dal catalogo
della mostra “Il Gotico
nelle Alpi”, Trento 2002)
recenti è stato confermato dalle ricerche storiche che hanno
Vediamo innanzitutto chi erano i tedeschi residenti in queste
inoltre appurato la complessità di tali rapporti che erano nel-
zone nel Quattrocento e nel Cinquecento: semplificando li
lo stesso tempo economici, culturali e religiosi.
potremmo raggruppare in alcune grandi categorie: i preti, i
Comincerò a esaminare i legami religiosi poiché sono stati i
mercanti e gli artigiani (residenti soprattutto nei borghi mag-
meno indagati, e poiché ebbero un ruolo fondamentale nel-
giori), e infine i minatori41.
l’unire le genti dei due versanti alpini, sia nel tardo Medioe-
Per quanto riguarda la prima categoria, non esiste alcuna
vo sia nei secoli successivi. Questi legami durarono infatti
traccia documentaria che attesti un legame diretto fra i Flü-
fino all’Ottocento e qualcuno di essi esiste tutt’ora: basti
gelaltäre e i numerosi preti di origine oltralpina che, fino all’i-
pensare ai pellegrinaggi che per secoli partirono (almeno una
nizio del Cinquecento, erano presenti in queste zone42. Nel
volta all’anno) dai villaggi situati sul versante meridionale del-
Quattrocento ad esempio vi furono a Pieve di Cadore due
le Alpi orientali diretti verso alcuni importanti santuari oltral-
arcidiaconi d’origine tedesca, ma essi non ebbero alcun rap-
pini come quello di Heiligenblut, quello di Sant’Osvaldo a
porto con la commissione dell’altar maggiore della pieve
Sauris, quello diretto alla collegiata di San Candido e infine
all’intagliatore brissinese Ruprecht Potsch dato che, quando
quello per il santuario di Maria Luggau nella Gailtal, che ha
fu realizzata quest’opera (nel 1498), era arcidiacono il cado-
luogo ancor oggi nella terza domenica di settembre36. Tali
rino Vendramino Soldano (1488-1515) e non un tedesco. Nel
occasioni permettevano il contatto diretto con le opere d’ar-
XV secolo, su otto arcidiaconi del Cadore43, solo due furono
te tedesche le cui forme entrarono così lentamente nel baga-
d’origine tedesca: Andrea da Colonia (1435-1455) e Giovan-
glio figurativo delle popolazioni alpine italiane .
ni Krauss (1462-1473)44, i quali tuttavia, anche se “foresti”,
Fino a ora i pochi studiosi che si sono occupati di questi alta-
avevano già ricoperto qualche incarico presso altre chiese del
ri hanno sostenuto che essi furono commissionati dai tede-
Cadore. Questo fatto, come nota giustamente la Spiazzi,
schi temporaneamente o stabilmente residenti in queste
conferma l’esistenza per tutto il Quattrocento di una forte
zone . Tale ipotesi, a cui in passato aderii anch’io, non può
autonomia locale che venne meno solamente nel secolo suc-
essere completamente scartata ma bisogna ammettere che,
cessivo con il progressivo spostamento degli interessi politici,
al momento, mancano conferme documentarie in tal senso;
economici e culturali verso la Serenissima45.
pertanto, se è vero che queste presenze allogene costituiro-
La mancanza di un legame diretto fra la presenza di sacerdoti
37
38
no un tramite importante per la conoscenza dell’arte tede-
tedeschi e la commissione di Flügelaltäre è confermata anche
sca, non è altrettanto certo che spettino a questi gruppi le
dall’esame di altre situazioni locali: a Lorenzago, ad esempio,
commissioni dei Flügelaltäre39. Credo dunque che vada ricon-
quando nel 1523 fu commissionato all’intagliatore pusterese
siderata una vecchia affermazione di Marchetti secondo il
Michele Parth l’altare per la chiesa della Difesa era parroco
quale “Non è per nulla esatto dire che clienti delle botteghe
Pietro da Thiene e non, come si potrebbe supporre, il suo
d’oltre confine, fossero soltanto le colonie allogene”40.
predecessore Tommaso Piper di origine prussiana46. A Vigo di
281
Cadore non vi furono preti tedeschi dall’inizio del Quattro-
di storici della seconda metà del Novecento57 hanno giusta-
cento alla metà del Cinquecento, e tuttavia nel 1541 venne
mente sottolineato l’importanza degli scambi che avveniva-
commissionato al Parth l’altare per la chiesa di Sant’Orsola .
no all’interno dell’area alpina, utilizzando le strade seconda-
Diverso ovviamente era il caso di Sappada48 dove (come a
rie e i valichi minori orientati prevalentemente sull’asse est-
Sauris) la popolazione era di origine tedesca, e di conse-
ovest (come il passo San Pellegrino, il Falzarego, il passo di
guenza vi furono diversi curati d’oltralpe poiché, per assolve-
Monte Croce Comelico eccetera)58.
re ai loro doveri pastorali (in particolar modo per la confes-
I prodotti di prima necessità per la gente locale, primi fra tut-
sione), essi dovevano conoscere la lingua dei parrocchiani49.
ti i cereali di cui v’era estrema penuria in questa zona, pas-
Fino alla metà del Cinquecento, quando il potere centrale di
savano principalmente su queste strade59. Furono soprattut-
Venezia e più tardi quello della Chiesa cattolica riformata
to questi scambi a favorire i contatti fra la gente minuta dei
incominciarono a farsi sentire in maniera più decisa, le comu-
due versanti e a far sì che gli italiani potessero apprezzare le
nità locali, attraverso i fabbriceri50, poterono dunque ammi-
opere d’arte tedesche e contattare gli artigiani d’oltralpe. La
nistrare con grande e autonomia i beni delle loro chiese,
presenza di queste vie favorì l’insediamento di artigiani e
anche perché tale autonomia era garantita da antiche norme
mercanti tedeschi nei paesi situati lungo le strade maggiori 60
e consuetudini .
e spiega inoltre la presenza di ben cinque Vesperbilder nella
Il legame culturale e religioso con i tedeschi non era dunque
sola provincia di Belluno61.
imposto dall’alto ma veniva condiviso dalla gente comune
Un altro aspetto di notevole rilevanza per la diffusione del-
che, fino alla metà del Cinquecento, conosceva e apprezza-
l’arte tedesca è costituito dalla presenza di diverse miniere (di
47
51
va gli altari tedeschi almeno quanto le ancone italiane. Una
rame, ferro e argento) distribuite nell’Alto agordino (valle
conferma di questa committenza popolare viene anche
Imperina) nel Cadore (Santa Fosca, Pescùl e Auronzo)62 e nel-
dagli unici tre contratti d’appalto superstiti di questa zona52:
lo Zoldano nonchè di numerosi “forni fusori” in cui venivano
quello per il Flügelaltar di Rocca Pietore, stipulato fra “gli
lavorati i metalli estratti da queste miniere. Gli studiosi che si
uomini di Rocca” e l’intagliatore brissinese Ruprecht Potsch
sono occupati di quest’attività hanno sottolineato come,
nel 1516 e i due contratti stipulati fra l’intagliatore Michele
fin’oltre la metà del Cinquecento, gran parte delle maestran-
Parth di Brunico e gli uomini di Lorenzago e Vigo di Cado-
ze specializzate che lavoravano nelle miniere e nei forni fos-
re rispettivamente nel 1523 per la chiesa della Difesa a
sero d’origine tedesca e come questo fatto abbia profonda-
Lorenzago, e nel 1541 per la chiesa di Sant’Orsola a Vigo.
mente influito sulla cultura e sull’arte di queste zone63. Scrive
Se è vero che gli abitanti di Rocca Pietore erano fortemen-
infatti a tal proposito Cucagna: “i documenti non lasciano
te influenzati dalla cultura tedesca, sia per la vicinanza con
dubbi: tedesco è, particolarmente nei secoli più lontani, il per-
i territori del vescovo di Bressanone, sia per l’autonomia dal
sonale direttivo e tecnico, tedesca è la tecnica seguita nell’e-
potere centrale di cui il paese godeva da molto tempo per
scavazione, tedesca è ovunque la terminologia mineraria. È
i paesi di Vigo e Lorenzago la situazione era diversa eppure
probabile dunque che nelle valli bellunesi, come in quelle del
53
282
dalla lettura dei contratti emerge chiaramente come i com-
Trentino e della Carnia i minatori tedeschi fossero chiamati
mittenti fossero proprio gli abitanti del paese54. Anche il
per perfezionare e dare nuovo impulso all’industria mineraria
recentissimo rinvenimento dei documenti relativi all’altare
anche se il flusso migratorio non dovette mai essere forte
della chiesa di Pieve di Cadore55, commissionato al maestro
numericamente”64. Della stessa opinione è il Vergani secondo
Ruprecht Potsch di Bressanone, conferma questa situazio-
cui: “tra la comunità veneta e la colonia tedesca si stabilì un
ne: il maestoso Flügelaltar della pieve matrice del Cadore
rapporto di scambio materiale e culturale che ebbe conse-
venne infatti ordinato e pagato dagli abitanti di Pieve e dei
guenze indelebili sulla configurazione della zona”65.
paesi limitrofi.
A una prima indagine potrebbe dunque sembrare che i Flü-
Vediamo ora l’incidenza che ebbero, nella diffusione di que-
gelaltäre di paesi “minerari” come Falcade, Selva di Cadore,
ste opere, i legami economici fra le popolazioni dei due ver-
Goima e Vallada Agordina fossero collegabili alla presenza di
santi alpini. È stato detto spesso che la presenza di Flügelal-
questi lavoratori, tuttavia non sono stati ancora trovati dei
täre nell’alto bellunese era legata all’esistenza d’importanti
documenti che attestino la committenza di queste opere da
vie di comunicazione con i paesi tedeschi (fig. 2); tuttavia,
parte di gruppi o individui di lingua tedesca. Ritengo dunque
mentre negli studi passati l’attenzione era rivolta quasi esclu-
che, come nel caso degli altri Flügelaltäre, la presenza di que-
sivamente agli scambi internazionali (destinati alle merci di
ste opere sia dovuta principalmente al forte influsso culturale
maggior pregio come ferro, spezie, tessuti preziosi eccetera)
che, assieme ai fattori già esaminati66, questi gruppi allogeni
che utilizzavano le strade più importanti e i maggiori valichi
esercitarono sulla popolazione locale. Dai documenti d’archi-
alpini, orientati prevalentemente sull’asse nord-sud56, gli stu-
vio veniamo infatti a sapere che, nel corso del Quattrocento,
Conservazione, distruzioni e fortuna critica
dei Flügelaltäre bellunesi
La storia conservativa di questi altari è soprattutto la storia
delle distruzioni, delle modificazioni e delle vendite subite
da tali manufatti nel corso dei secoli. Secondo la Ericani tali
distruzioni iniziarono molto presto71 poiché, già all’inizio del
Seicento, molti Flügelaltäre sarebbero stati modificati o
distrutti per ottemperare alle norme riguardanti gli arredi
ecclesiastici emanate dal Concilio di Trento72. Secondo la
studiosa nella diocesi bellunese tali interventi sarebbero
stati particolarmente esiziali a causa dell’applicazione rigorosa dei dettami controriformistici messa in atto dal vescovo Lollino73, che avrebbe causato “l’eliminazione sommaria” di gran parte dei Flügelaltäre del bellunese, causando
una vera e propria ecatombe da cui “si salvarono pochissimi esemplari”74. La prevenzione del vescovo Lollino nei confronti di queste opere risulterebbe dalle disposizioni impartite nel corso delle visite pastorali che egli effettuò nella
diocesi di Belluno fra il 1600 e il 161375. Rileggendo tali
documenti mi pare tuttavia che gran parte delle ingiunzioni del vescovo riguardino la mensa degli altari e non le
sovrastanti ancone76, di conseguenza ritengo che i danni
causati dal suo intervento siano stati in realtà minori di
quanto pensava la Ericani e casomai più legati al cattivo
stato di conservazione che alle caratteristiche formali di
queste opere. Resta il fatto che nell’Agordino durante i primi decenni del Seicento diversi antichi altari (non solo quelli tedeschi) vennero sostituiti con altari barocchi77: possiamo
ricordare fra questi l’altare della chiesa dei Santi Vittore e
Corona a Voltago78, quello di San Nicolò a Frassenelle79,
quello dei Santi Floriano e Sisto a Riva D’Agordo (l’attuale
Rivamonte), quello di San Valentino a Mareson di Zoldo 80 e
quello di Sant’Andrea a Gosaldo81.
ll Flügelaltar della chiesa di San Tiziano a Goima rimase sull’altar maggiore fino al 1714 e, quando venne rimosso, non
fu distrutto ma collocato, come scrive Vizzutti, in un luogo
meno eminente della chiesa82. Qualcosa di analogo (ma quasi un secolo prima) avvenne nella chiesa di San Tommaso
agordino dove poco prima del 1630 l’altare maggiore a bat2. Giovanni Antonio Magini,
il Cadorino (1620). La linea blu
circoscrive la zona che è
oggetto di questo saggio,
comprendente lo Zoldano,
l’Agordino e il Cadore;
la linea rossa indica
il percorso della via
d’Alemagna orientata
sull’asse nord-sud; le linee
verdi indicano le strade
secondarie orientate
prevalentemente
sull’asse est-ovest.
gli abitanti di Selva si servivano normalmente di artigiani tede-
tenti venne spostato in una cappella della stessa chiesa e al
schi: nel 1421 infatti gli abitanti di Pescùl affidarono a un tale
suo posto venne collocata una grande pala di Frigimelica83.
“mastro Sigismondo de Vischogna de Bornico”67 i lavori di
Vi sono inoltre alcuni altari tedeschi di cui non si conosce la
ricostruzione della chiesa di Santa Fosca che venne riconsa-
data esatta di rimozione, come ad esempio i tre altari attri-
crata nel 143868 e, alla fine del Quattrocento, commissiona-
buiti a Ruprecht Potsch rispettivamente nelle chiese parroc-
rono l’altar maggiore all’artista pusterese Simone da Tesido .
chiali di Cencenighe, di Caprile, e nella chiesa arcidiaconale
Anche in questo caso i committenti dovettero essere i fabbri-
di Agordo84 .
ceri locali e non, come si potrebbe pensare, una confraterni-
Le raccomandazioni del vescovo Lollino erano chiaramente
ta di minatori tedeschi infatti, nel registro della visita pastora-
ispirate alle prescrizioni del Concilio di Trento che, fra l’al-
le del 1602, è scritto che “l’altar maggiore [di S. Fosca] appar-
tro, imponevano di ingrandire la mensa degli altari per cele-
tiene alla Chiesa e non v’è alcuna confraternita”70.
brare correttamente la messa: per tali ragioni il vescovo
69
283
imputabili più al mutamento del gusto che a motivi religio-
3. Vito da Tesido (?),
1490-1500, scrigno
dell’antico Flügelaltar
posto sull’altar maggiore
della chiesa di Santa Fosca
a Pescùl, inserito
nell’altare ligneo barocco
realizzato dopo il 1640
si. Spesso infatti questi altari venivano considerati antiquati
o troppo piccoli per i nuovi edifici (ingranditi o rifatti in questo periodo), cosicché alcune statue o parti di antichi Flügelaltäre89 vennero sistemate entro altari barocchi, come si
vede in almeno cinque delle opere che ho elencato più
sopra90.
Questa prassi del resto era diffusa in tutto l’arco alpino,
come dimostra ad esempio la frequenza di casi analoghi in
Trentino; a tal proposito Enrico Castelnuovo scrive: “È rivelatore il fatto che molte sculture che facevano parte all’origine
di un altare a portelle abbiano trovato un reimpiego, una volta che il complesso a cui appartenevano era stato smantellato, entro più nuovi contenitori la cui riutilizzazione non dipese solo dal desiderio di conservare immagini venerate, ma
dalla consapevolezza che esse potevano adattarsi ad un nuovo contesto, ad un altare barocco per esempio, ma che di un
contesto avevano bisogno”91. Solo dalla fine del Settecento
infatti gli altari lignei cominciarono a essere concepiti come
un insieme di singole tavole o sculture dipinte e vennero
quindi smembrati e venduti in pezzi.
È noto come le visite pastorali siano preziose per lo studio
degli arredi ecclesastici ma in questa zona sono utilizzabili a
tal fine solo le visite della fine del Cinquecento e dei primissimi anni del secolo successivo: dalla metà del Seicento infatti, l’attenzione dei visitatori s’incentrò sull’attività pastorale e
sul comportamento dei preti e dei fedeli e non si trova più
alcun accenno agli arredi92. Nell’arco alpino orientale le uniche visite pastorali che danno informazioni sugli arredi delle
chiese sono quella effettuata nel 1602 dal patriarca d’Aquiscriveva che la mensa doveva misurare da 5 a 7 piedi di
leia Francesco Barbaro nelle chiese della Carnia93 e quella del
“longheza”85, 3 piedi di “largheza” e, qualora tali misure
1604 realizzata dall’arcivescovo Ermolao Barbaro nelle chie-
risultassero inferiori, esse andavano modificate “con
se del Cadore94 (che faceva parte della diocesi di Aquileia),
aggiunta di sasso, di querelli86 o di legno, con proporzione
oltre alle visite del vescovo Lollino nell’Agordino (diocesi di
et decentia et siano nella metà serata d’ogni parte, levan-
Belluno) negli anni 1600, 1607 e 161395.
dovi armari o altri busi, che non vi si possa mettere cosa
Nel corso della visita pastorale effettuata in Carnia nel 1602,
alcuna” . Secondo Ericani tali norme si riferivano ai Flüge-
il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro96 e il suo luogote-
laltäre posti sopra alla mensa88 che, in effetti, hanno la for-
nente Agostino Bruno s’imbatterono spesso in opere di scuo-
ma di “armari”, ma in tal caso non avrebbe senso né l’in-
la tedesca di cui lasciarono delle descrizioni molto succinte
giunzione di ingrandirli (anche perché molti misurano ben
ma significative per comprendere il valore che assegnavano a
87
284
più di 7 piedi!) né soprattutto di usare a tale scopo la pie-
queste opere. A proposito del Flügelaltar eseguito da Miche-
tra e i mattoni (querelli).
le Parth nel 1524 per la chiesa di Sant’Osvaldo a Sauris di
Se dunque è vero che, nei primi decenni del Seicento, alcu-
Sotto si legge: “Sull’altar maggiore, sufficientemente alto ed
ni Flügelaltäre dell’Agordino vennero sostituiti con altari di
ampio, si trova un bellissimo altare ligneo dorato ed intaglia-
tipo “moderno”, non bisogna dimenticare che nelle visite
to, alto fino alla sommità della volta, contenente fra le altre
pastorali di quegli stessi anni vi sono molti passi che atte-
la statua raffigurante sant’Osvaldo… ”97. Sull’altare realizza-
stano l’ammirazione dei prelati italiani verso queste opere.
to da Michele Parth nel 1534 per la chiesa parrocchiale di
Infatti, sia dalle notizie d’archivio che dalle modificazioni
Prato Carnico è scritto: “L’altar maggiore, di pietra, che si
subite dai Flügelaltäre risulta che gran parte di queste ope-
trova sotto l’arco del presbiterio è sufficientemente largo ed
razioni vennero effettuate nei secoli successivi e furono
alto ed ha [sopra] un grande altare ligneo intagliato e dora-
o quantomeno di discreta fattura (“iconae pulcrae, perpul-
4. Michele Parth (1541),
scrigno, portelle e predella
dell’antico Flügelaltar
posto sull’altar maggiore
della chiesa di Sant’Orsola
a Vigo di Cadore inserito
nell’altare ligneo barocco
realizzato dai fratelli Chiantre
nel XVII secolo
crae o decentes”). Qualche rara volta, a tali giudizi, viene
aggiunta la definizione “antico” (“icona antiqua”) che tuttavia non ha alcun intento spregiativo;
c. tali descrizioni sono sempre molto succinte al punto che
non vengono neppure citati tutti i santi raffigurati (neppure
quelli dello scrigno): il più delle volte infatti, vengono menzionate solo la statua della Vergine e quella del santo titolare della chiesa senza precisare né la forma dell’altare, né i
soggetti eventualmente dipinti sulle portelle;
d. dalla terminologia usata risulta infine chiaramente come la
parola “altare” si riferisca sempre e soltanto alla mensa,
mentre quello che noi oggi chiamiamo altare (il dossale) – sia
che si tratti di un altare a portelle sia che si tratti di un’ancona di tipo italiano –, veniva definito “icona lignea insculpta
et aurata”. Questo, a mio avviso, costituisce una riprova del
fatto che quando il vescovo Lollino raccomandava di chiudere i fori degli “altari” per impedire che vi venissero conservate le reliquie si riferiva senz’altro alla mensa.
Le medesime considerazioni si possono fare riguardo alla visita pastorale effettuata nel 1604 dall’arcivescovo Ermolao
Barbaro103 (come coadiutore del fratello patriarca) nelle chiese del Cadore. Ermolao Barbaro, che era il fratello minore del
già citato Francesco, venne accompagnato dallo stesso Agostino Bruno che già aveva scortato il patriarca nella preceto, antico [ma] piuttosto bello, in cui, fra le altre sculture,
dente visita in Carnia. La visita pastorale in Cadore ebbe ini-
sono raffigurati il Crocifisso e i santi Canzio, Canziano e Can-
zio il 6 settembre del 1604104 dalla chiesa di Santa Fosca dove
zianilla ha inoltre uno paliotto98 decoroso, le balaustre e il
si conservano ancora diverse opere di scuola tedesca fra cui
baldacchino” .
lo scrigno dell’antico altar maggiore, eseguito da Vito da
Il Flügelaltar eseguito, sempre da Michele Parth, per la chie-
Tesido alla fine del Quattrocento e attualmente inserito in un
sa di Santa Margherita a Sappada, di cui restano attualmen-
fastoso altare barocco (fig. 3)105. Agostino Bruno scrisse di
te solo due statue, viene definito “un bell’altare ligneo dora-
quest’opera: “L’altare maggiore si trova nella cappella princi-
to e intagliato in cui, fra le altre sono raffigurate la beata Ver-
pale alla quale si accede salendo un gradino sormontato da
gine e santa Margherita e, nel coronamento, nostro Signore
un arco ed ha il pavimento realizzato con pietre intere; il
Crocefisso” .
paliotto dell’altare, realizzato in legno, è un po’piccolo e
Da questi pochi brani – ma se ne potrebbero citare molti
[sopra l’altare] v’è un’ancona lignea scolpita e dorata in buo-
99
100
altri –
101
ne condizioni, ove sono rappresentate fra le altre immagini la
si deduce che:
a. quasi tutti i visitatori, pur essendo di cultura italiana, non
Beata Vergine e Santa Fosca, per il resto l’altare è piuttosto
avevano alcun pregiudizio nei confronti degli altari “tede-
ben eseguito. Il Signore [Ermolao Barbaro] ordinò di allarga-
schi”, la cui presenza in queste chiese doveva apparir loro
re da entrambi i lati di mezzo palmo il paliotto…”106. Nel
così naturale da non segnalarne neppure la diversità; infatti
resoconto della stessa visita a proposito dell’altare realizzato
soltanto nelle visite pastorali del vescovo Lollino è talvolta
da Ruprecht Potsch alla fine del Quattrocento per la chiesa di
precisato che si tratta di altari “cum portellis depictis” . Nel-
Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore si legge: “sopra l’al-
le visite pastorali dei due Barbaro è impossibile capire se gli
tare c’è una ancona lignea, eseguita in maniera corretta, alta
102
altari descritti sono di scuola italiana o di scuola tedesca; tan-
fino alla volta, dorata e intagliata contenente le immagini
to che, per capire il giudizio dei visitatori nei confronti dei
della Beata Vergine e dei santi Pietro e Paolo”107.
Flügelaltäre, ho dovuto verificare il loro giudizio sugli altari
Dell’altare della chiesa di Sant’Orsola a Vigo di Cadore, rea-
“tedeschi” sopravvissuti;
lizzato nel 1541 da Michele Parth, Agostino Bruno scrisse:
b. i visitatori italiani apprezzavano senza riserve gli altari
“ha una mensa in pietra liscia che, sebbene piuttosto picco-
tedeschi poiché li definiscono quasi sempre belli, molto belli
la è stata adeguatamente ingrandita col legno affinché l’al285
tare risulti sufficientemente alto e largo e, sopra di esso si
prassi consueta in questa zona fra la fine del Settecento e l’i-
trova un’ancona lignea dorata e intagliata con, fra le altre, le
nizio dell’Ottocento, quando in seguito all’ingrandimento di
immagini quelle della Beata Vergine e di sant’Orsola. Per il
molte antiche chiese diversi altari lignei (sia italiani che tede-
resto l’altare fu trovato in buone condizioni ed è dotato di un
schi) che fino ad allora erano rimasti intatti114 furono dispersi.
paliotto adeguato” .
Nel caso di Pieve la documentazione è particolarmente ricca
Anche i giudizi riportati da Tamis su alcuni altari tedeschi del-
perché la costruzione della nuova chiesa fu al centro di
l’Agordino confermano l’apprezzamento verso queste opere
un’accesa polemica che indusse alcuni studiosi locali a pren-
da parte dei prelati italiani che effettuavano le visite pastora-
dere posizione in merito, fornendo così indirettamente qual-
li. Il Flügelaltar della chiesa di San Simon di Vallada Agordi-
che notizia anche sugli altari.
na, ad esempio, viene definito “di fattura tedesca e di gusto
Rientra fra le già ricordate ricerche sulla storia locale l’Historia
antico ma elegante e bello”, così come “in buono stato e di
della provincia di Cadore composta da Don Antonio Barnabò
pregevole fattura” venne giudicato il perduto altare di
verso il 1730115 (rimasta manoscritta), che contiene alcune
Ruprecht Potsch per la chiesa di sant’Antonio abate a Cen-
interessanti considerazioni sull’altar maggiore della chiesa
cenighe mentre l’altar maggiore (perduto) della chiesa arci-
arcidiaconale di Pieve. Barnabò annotava infatti che “L’altar
diaconale di Agordo viene descritto come “pregevole, ben
maggiore poi è bellissimo e grande, con una bellissima custo-
eseguito, antico e di fattura tedesca”109.
dia grande dorata adorno al pari di Chiesa cattedrale. Vi è la
108
pala maggiore delle belle e singolari che siano nella nostra
Concludendo mi sembra dunque improbabile che siano sta-
patria, nella quale evi fatta in bellissima scultura l’immagine di
te le disposizioni della Controriforma e lo spirito antitedesco
Nostra Signora con due altre sculture alli di lei lati de’gloriosi
indotto dalla guerra antiasburgica del primo Cinquecento a
SS. Apostoli Pietro e Paulo opere bellissime e di gran prezzo
causare la distruzione di numerosi Flügelaltäre ; non dob-
tanto espressive che paiono vive, la qual palla si chiude con le
biamo dimenticare infatti che in questo periodo c’era un
sue portelle dipinte co’pittura alla greca et all’antica”116.
grande rispetto per le opere d’arte, non solo per il loro costo,
Da questa testimonianza si viene dunque a sapere che, nel
che era enorme se confrontato al potere d’acquisto di un
1730, il Flügelaltar di Pieve di Cadore era ancora intatto nel-
normale cittadino, ma anche per il riguardo dovuto ai com-
la sua ubicazione originaria. In un altro manoscritto, sempre
mittenti ai quali esse appartenevano giuridicamente111. A ciò
di Barnabò, si legge: “In luoco di pala v’è un grande arma-
bisogna aggiungere il valore devozionale degli altari per cui,
dio incassato nel muro del coro al didietro dell’altare, ma ele-
anche quando venivano smembrati, si conservavano di nor-
vato in modo di vederlo senza impedimento dal tabernaco-
ma le sculture a cui la devozione popolare era maggiormente
lo. Contiene esso nel mezzo un elevato magnifico trono su
legata, come ad esempio quelle dello scrigno, inserendole in
cui venerasi seduta l’immagine di Maria Vergine con Bambi-
110
nuove strutture architettoniche di gusto aggiornato (fig. 4).
no Gesù, che ignudo le sta ritto sulle ginocchia. Nei lati entro
Tale prassi del resto venne spesso seguita anche nel Trentino
due uguali […] intere ed ornate nicchie stanno riposte le sta-
che presentava forti analogie etniche e culturali col bellune-
tue in piedi dei beatissimi apostoli Pietro e Paolo compatroni
se112. Mi sembra, infine, significativo che nelle due principali
della chiesa. È festeggiata la Vergine da vari angeli pure scol-
chiese della zona (al di fuori di Belluno), e cioè nelle chiese
piti ed elegantemente disposti, ed inoltre tutto il recipiente è
arcidiaconali di Pieve e Agordo, l’esecuzione dell’altar mag-
arricchito di rabeschi di fine intaglio, e tutto profusamente
giore fosse stata affidata all’artista brissinese.
dorato, tranne le carni che sono a color naturale. Le due porte che lo chiudono sono dipinte sulle due intere facciate da
Per trovare nuove testimonianze scritte sui Flügelaltäre biso-
pennello non spregevole, benché di gusto e di maniera anti-
gna arrivare ai primi decenni del Settecento tuttavia, a diffe-
ca. Vi sono rappresentate quattro storie: l’Annunciazione, la
renza delle visite pastorali, le testimonianze dei secoli XVIII e
Nascita di Gesù, la Circoncisione e l’Adorazione dei Magi,
XIX riguardano quasi esclusivamente le opere conservate nei
due per cadauna [portella]. Lo stile è alquanto secco ma la
centri maggiori e, come in altre regioni italiane, sono legate
composizione magnifica, le vesti abbondanti più del conve-
allo sviluppo dell’erudizione locale.
nevole e ricche di fior[ami], lavori e dorature. Il fondo dei
Mi limiterò a prendere in esame la documentazione inerente
quadrati è pure in oro. Oltre al dipinto queste porte sono in
il Flügelaltar della chiesa di Pieve di Cadore poiché esso costi-
alto al mezzo e in fondo ornate di rabeschi e d’intaglio dora-
che
ti. Stanno d’altronde sovrapposte a quest’armadio le altre
per l’importanza di questa chiesa, in quanto pieve matrice e
nicchie di lavoro gotico con entro angeli grandi e piccini inta-
sede dell’arcidiacono del Cadore.
gliati, ma non dorati, le quali compiono l’altare e formano un
Il caso di Pieve è importante anche perché documenta una
tutto e tal che non si trova pari nella nostra patria”117.
tuisce un caso emblematico sia per la qualità dell’opera
113
286
5-6. Bottega di Ruprecht
Potsch, scene raffiguranti
l’Annunciazione e i santi
Bartolomeo e Tommaso
che si trovano rispettivamente
all’interno e all’esterno
delle portelle dipinte
che chiudevano lo scrigno
(perduto) del Flügelaltar
già sull’altar maggiore
della chiesa arcidiaconale
di Pieve di Cadore (1498)
In entrambi i brani, si percepisce un sostanziale apprezza-
la sua provenienza, anche se evidentemente se n’era scorda-
mento verso quest’opera, a cui viene mosso l’unico appun-
to l’autore. Quanto il Sampieri scrive dell’altare di Lienz a mio
to, espresso peraltro con estrema indulgenza, di essere
avviso segnala soltanto il corretto avvicinamento di quest’o-
“all’antica”. È interessante notare come alcuni giudizi di Bar-
pera agli altari tirolesi che tuttavia a un abate italiano del Set-
nabò, come quello su “le vesti più abbondanti del convene-
tecento dovevano apparire tutti uguali. Interessante infine la
vole “o quello sull’estremo realismo delle figure,“tanto
definizione “alla greca” riservata da Sampieri alle decorazio-
espressive che paiono vive”, compaiano, quasi identici, nel
ni mentre Barnabò usava questo termine per le portelle che
saggio Arte italiana e arte tedesca scritto nel 1942 da Rober-
egli definiva dipinte “co’pittura alla greca et all’antica”. È
to Longhi. L’illustre critico stigmatizzava infatti i “panneggi
probabile che con tale definizione entrambi gli studiosi inten-
che si snodano e si ammonticchiano ad infinitum” e il reali-
dessero semplicemente sottolineare il gusto antiquato di
smo “più vero del vero” che, a suo avviso, caratterizza tutta
questi ornati.
l’arte tedesca e sembra più prevenuto dell’erudito settecen-
Segue infine la testimonianza di Taddeo Jacobi che, verso il
tesco nei confronti dei Flügelaltäre tardo gotici che egli giu-
1810, scrisse: “ La palla dell’altar maggiore è formata da un
dica frutto di un artigianato “possente e paziente” piuttosto
grande armadio, nel quale si trovano esposte all’adorazio-
che vera e propria arte118, mentre Barnabò ammirava since-
ne le statue della Vergine e degli apostoli Pietro e Paolo in
ramente la straordinaria perizia tecnica e la qualità artistica di
legno. La B.V. è collocata nel mezzo sopra un magnifico
questo altare.
trono, ove sta seduta con Gesù ritto sulle di lei ginocchia
Un’ulteriore testimonianza su quest’opera è quella, di poco
[…] sono gli apostoli in piedi. Tutto il resto è composto alla
successiva, dell’abate Giuseppe Sampieri119 che nel 1761 scri-
gotica con abbondanza di ornati lavorati con maestria, e
veva: “L’altar maggiore è tutto di legno dorato dall’alto in
profusamente dorati. Sopra l’armadio vi sono altre statue
basso e lavorato con somma finezza d’interi rilievi, con in
non dorate. Continuando le porte per chiuderlo sono entro
mezzo la statua della beatissima Vergine e dalle parti san Pie-
e fuori dipinte di gusto tedesco, di disegno scorretto, ma
tro e san Paolo con moltissime ‘decorazioni alla greca’. Que-
diligenti e magnifiche pitture. Le interne contengono i fat-
sto fu fatto in Bresenone, e nella città di Lienz nella Carintia
ti dell’Annunziazione, della Nascita, della Visita dei Magi, e
vi è un altare similissimo allo stesso”120. Da questo scritto si
della Circoncisione: esternamente poi vi si vedono alcuni
desume dunque che, nella seconda metà del Settecento, l’al-
santi (fig. 5-6)”121.
tare veniva ancora apprezzato e non s’era persa notizia del-
Il concorde apprezzamento degli eruditi locali non bastò tut287
esempio la soffitta della sacrestia o della canonica) ma forse,
7. Bottega di Hans Klocker (?),
scultura lignea raffigurante
san Paolo (?) proveniente
da uno smembrato Flügelaltar
tirolese databile tra la fine
del Quattrocento e i primi decenni
del Cinquecento, Oslo,
Museo Nazionale
quando vent’anni dopo i lavori della chiesa furono terminati,
esso appariva ormai obsoleto o era stato semplicemente
“dimenticato” dai fedeli. Approfittando di questa situazione
qualche prelato poco colto o poco onesto avrebbe potuto
vendere la parte più importante dell’altare senza sollevare le
proteste dei cittadini. Sebbene si tratti soltanto di un’ipotesi,
mi pare che l’incomprensibile sparizione delle tre sculture
principali e la sopravvivenza di parti secondarie, unita all’assoluto silenzio dei documenti su quest’opera, che era stata
oggetto di tanta ammirazione, nasconda qualcosa di poco
chiaro come forse una vendita clandestina. Tale vendita
avrebbe potuto avvenire fra il 1813 e il 1886, anno in cui
Brentari vide nella sagrestia le portelle, che egli definì “fiamminghe”, assieme a un “altarino di legno dorato” (che era
probabilmente la predella) e non fece parola delle tre sculture dello scrigno124. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, come in molte provincie italiane, anche nel bellunese s’aggiravano numerosi antiquari senza scrupoli che
comperavano opere d’arte per i collezionisti italiani e stranieri125; in questi anni infatti vennero venduti – ma fortunatamente recuperati – l’altare della chiesa di San Nicolò a Bribano (nel 1895)126 e quello di Michele Parth della chiesa di
Santa Caterina a Campo (Cortina)127. Se, come penso, anche
le statue dello scrigno di Pieve vennero vendute, è possibile
che, prima o poi, esse riemergano in qualche collezione pubblica o privata come è spesso accaduto per i Flügelaltäre del
Sudtirolo128. Per tale ragione segnalo due sculture poco note
(fig. 7), raffiguranti rispettivamente san Paolo (?) e san Volfango (?), che si trovano attualmente nel museo nazionale di
tavia a preservare quest’altare dallo smembramento che
Oslo129 e provengono verosimilmente dal Sudtirolo. Credo sia
avvenne probabilmente nel 1813 quando fu distrutto il coro
utile pubblicare queste immagini, anche se con le sculture di
dell’antica pieve . Tale distruzione venne osteggiata da
Pieve hanno in comune solo l’ambito genericamente klocke-
alcuni studiosi, primo fra tutti lo Jacobi123, perché il coro era
riano (il che non contraddice, come dirò nella scheda, l’attri-
decorato con affreschi attribuiti a Tiziano e tale opposizione
buzione a Potsch), poiché provengono sicuramente da un
suscitò anche un vivace dibattito scritto in cui tuttavia non
Flügelaltar smembrato di cui qualche studioso potrebbe rico-
122
288
venne mai menzionato il Flügelaltar.
struire la collocazione originaria.
I lusinghieri giudizi dei contemporanei e il fatto che siano
Riguardo al commercio antiquariale di questi anni, mi sem-
giunte fino a noi anche parti “secondarie” di quest’opera
bra infine importante riprodurre un’immagine fornitami da
(come le portelle e la predella) inducono a pensare che l’al-
Milena Dean che, nell’archivio dell’intagliatore Valentino
tare non venisse immediatamente disperso; ci si aspettereb-
Panciera Besarel130, ha trovato la fotografia di un Flügelaltar
be infatti che, almeno per le tre statue dello scrigno, princi-
smontato che sembra eseguita a Venezia alla fine dell’Otto-
pale oggetto della devozione popolare, venisse trovata una
cento (fig. 8). Questa foto riproduce lo scrigno dell’altare di
dignitosa collocazione, magari entro un nuovo altare come
Ruprecht Potsch oggi conservato al Victoria and Albert
era spesso accaduto in precedenza. Probabilmente la demo-
Museum di Londra131 che, in base ai documenti conservati al
lizione della chiesa ed il lungo protrarsi dei lavori di ricostru-
museo, risulta acquistato nel 1866 da Antonio Salviati132. Sta-
zione, impedirono di adottare tale soluzione, né resta alcuna
bilito dunque che quest’opera venne acquistata sul mercato
notizia di una temporanea sistemazione dell’altare in qual-
antiquario di Venezia, resta da chiarire il ruolo avuto da Besa-
che chiesa filiale. L’altare smembrato avrebbe potuto anche
rel in tale acquisto: si potrebbe infatti supporre che egli abbia
essere collocato in qualche ricovero temporaneo (come ad
fatto da tramite per la vendita di questa o altre opere di
dopo il 1877142. Fra le opere dell’agordino, ove si trova la
8. Fotografia conservata
nell’archivio dello scultore
e mobiliere, d’origine zoldana,
Valentino Pancera Besarel,
che raffigura lo scrigno
di un Flügelaltar
(probabilmente di Ruprecht
Potsch), eseguita a Venezia
alla fine dell’Ottocento
gran parte dei Flügelaltäre bellunesi, furono inseriti nell’elenco solo due monumenti: la chiesa di San Simon di Vallada
Agordina (ove è conservato il Flügelaltar attribuito ad Andrè
Haller) e la chiesa dei Santi Cipriano e Cornelio di Taibon
Agordino.
Ancora più interessante è tuttavia una lettera di Osvaldo
Monti al prefetto di Belluno, databile poco dopo il 1877143, in
cui è contenuta un’interessante descrizione dell’altare di
Ruprecht Potsch conservato nella chiesa parrocchiale di Rocca Pietore. Scrive infatti Monti: “In questa chiesa sovra l’altare maggiore evi una grandiosa ancona che tutta occupa l’abside e tutta decorata di quelle sculture in legno dorato e
dipinte che in quell’epoca si usavano, di stile e carattere
affatto Germanico dure, però delle migliori relativamente a
quelle delle altre chiese dei altri paesi, probabilmente contemporanea all’ancona di S. Tiziano di Goima”. Monti unì
alla lettera anche un disegno (figg. 9-10) in cui specificava la
posizione delle statue e dei dipinti, precisava inoltre che una
delle statuette dello scrigno era stata rubata e concludeva:
“queste portelle erano sempre tenute aperte e, argomenPotsch ma al momento è impossibile giungere a una conclu-
tando io che vi potevano essere pitture come nelle altre
sione certa . Nel catalogo della recente mostra su Besarel
ancone di Goima e S. Simon di Vallada Agordina, feci muo-
Fabrizia Lanza scriveva: “Da un piccolo depliant pubblicitario
vere le irruginite ferramenta e trovai al didietro delle pitture
[…] che si riferisce ad una data prossima agli anni Novanta,
a tempera oscurate dalla umidità guaste anche dagli sfrega-
la ditta Besarel viene presentata come una specie di Galerie
menti sul muro […] trattasi di nobilissima opera d’arte di
La Fayette in piccolo, una sorta di grande magazzino anti-
stretta scuola tedesca: non ardisco nomi ma certamente uno
quariale dove è possibile trovare tutto ciò che di bello e ‘arti-
dei più forti tedeschi di quel epoca”. Osvaldo Monti propose
stico’ offrono le manifatture veneziane […] per soddisfare
quindi al prefetto d’inserire nell’elenco dei monumenti da
una clientela per lo più inglese e americana che assedia
tutelare anche il Flügelaltar di Rocca Pietore, quello della
Venezia” . Sappiamo che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio
chiesa di San Tiziano a Goima e la tavola di Antonio Rosso
del Novecento, questi altari erano molto richiesti sul merca-
della chiesa di Selva. Come si vede dunque, neppure le lotte
to antiquario europeo, tanto è vero che anche in Trentino si
risorgimentali provocarono incomprensione o disprezzo ver-
verificarono diversi episodi analoghi135, tuttavia è possibile
so le opere d’arte tedesche come invece accadde nel XX
che Besarel conservasse quest’immagine anche solo per con-
secolo soprattutto nelle zone del confine nordorientale d’Ita-
frontarla con altri Flügelaltäre agordini, ora dispersi, che for-
lia che furono teatro di violenti scontri fra italiani e austriaci
133
134
se egli ebbe ancor modo di vedere come, ad esempio, quel-
durante la prima guerra mondiale e soprattutto di una rab-
lo che si trovava nella chiesa arcipretale di Agordo136.
biosa propaganda antitedesca negli anni immediatamente
Ma torniamo alle testimonianze documentarie: per trovare
precedenti e successivi al conflitto. Mi pare significativo a tal
nuove informazioni scritte sui Flügelaltäre bisogna arrivare al
proposito riportare quanto scriveva nel 1962(!) Benedetto
1866, quando il bellunese entrò a far parte del Regno d’Ita-
Civiletti, Soprintendente ai beni storico artistici del Friuli
lia e, come nelle altre regioni (a partire dal 1876), la tutela del
Venezia Giulia, in occasione della “Mostra delle restaurate
patrimonio artistico venne affidata alle Commissioni provin-
ancone lignee del Friuli”144: “Dinanzi a questi altari, che ritor-
ciali per la tutela dei monumenti d’arte e d’antichità137. L’i-
nano ringiovaniti e rimessi dal tedio dell’abbandono, noi
spettore provinciale per il bellunese fu, per oltre un venten-
vediamo sì, la ripetizione di forme non sempre nostrane, ma
nio, Osvaldo Monti138 che, ottemperando alle leggi naziona-
in esse gorgoglia e vive quello spirito italiano che nessuna
li , s’occupò in primo luogo di stilare un elenco dei monu-
vicinanza barbara, nessun esercito straniero, nessuna ammi-
menti e degli oggetti d’arte da tutelare.
nistrazione politica forestiera hanno mai potuto occultare o
Tale elenco , che comprendeva le opere conservate nei
sopprimere”. Queste parole si riferiscono evidentemente alle
distretti di Belluno, Feltre ed Agordo141, venne realizzato
sculture lignee tedesche del Friuli, ma non v’è dubbio che
139
140
289
9-10. Recto e verso del
disegno eseguito, circa nel
1880, da Osvaldo Monti, che
raffigura il Flügelaltar
realizzato nel 1518
da Ruprecht Potsch
per la chiesa di Rocca Pietore
(Archivio Storico
del Comune di Belluno,
b. 1321, fasc. Belluno)
questi stessi sentimenti venissero condivisi anche nel bellu-
di negazione delle ragioni dell’altro, nella rivendicazione del-
nese che, durante le due guerre mondiali, subì la stessa sor-
la superiorità della propria nazione o, nel caso più semplice
te del Friuli. A tal proposito mi sembra particolarmente signi-
nell’ignorare ciò che stava oltre il proprio confine. Se da qual-
ficativo quanto ha scritto recentemente Alessandro Sacco
che decennio un certo avvicinamento è avvenuto il passato
riferendosi proprio a questa zona: “Il XIX secolo vedrà nasce-
pesa ancora”145.
re in Italia delle correnti nazionalistiche che, cresciute nel
Saluto dunque con gioia questa mostra che, per quanto
secolo successivo, prepareranno la prima guerra mondiale
riguarda gli altari tedeschi, ha contribuito non solo al recupe-
[…] se nel dopoguerra le strade delle persone comuni s’in-
ro materiale e storico-critico delle opere, ma anche al supera-
croceranno quelle degli intellettuali no. Storici, geografi, lin-
mento di una mentalità distorta, più legata alle recenti vicen-
guisti dall’una e dall’altra parte, s’impegneranno in un’opera
de dell’arco alpino orientale che alla sua storia passata.
Ringraziamenti
Ringrazio monsignor. Ausilio Da Rif, direttore dell’Archivio della Curia Vescovile di
Belluno (ACVB), e don Sandro Piussi, direttore dell’Archivio della Curia Arcivescovile
di Udine (ACAU), per la cortesia con cui mi hanno messo a disposizione il materiale
documentario conservato presso tali archivi. Un particolare ringraziamento va a Vittoria Masutti per l’aiuto prestatomi nella consultazione dei documenti conservati
all’ACAU. Ringrazio inoltre Noemi Nicolai, direttrice della Biblioteca Storica Cadorina di Vigo, per il costante aiuto e gli utili consigli bibliografici e Ester Cason Angeli
ni, direttore del “Centro studi per la montagna Giovanni Angelini” di Belluno, Giovanna Galasso, conservatrice del Museo Civico di Belluno, Luca Majoli e Rita Bernini della Soprintendenza per i Beni Storico Artistici e Demoantropologici del Veneto
per la cortese disponibilità e la continua collaborazione. Un cordiale ringraziamento
infine va agli amici e ai colleghi che, con i loro suggerimenti, hanno contribuito al
miglioramento di questo saggio: Donata De Grassi, Flavio Vizzuti, Milena Dean,
Lucia Sartor e Alessandro Sacco.
Abbreviazioni usate:
ACAU - Archivio della Curia Arcivescovile di Udine
ASCB - Archivio Storico del Comune di Belluno
APPC - Archivio Parrocchiale di Pieve di Cadore
290
Per quel che riguarda le tecniche, l’unico lavoro che resta ancora da fare è quello
di raccogliere i risultati ottenuti in appositi prontuari per poter così confrontare
modelli decorativi, materiali impiegati, caratteristiche di lavorazione eccetera di questi e altri Flügelaltäre dell’area alpina.
2
Mi riferisco qui non alle ricerche su singole opere (pubblicate solitamente su riviste)
ma alle monografie riguardanti la scultura lignea di alcune regioni italiane (come ad
esempio i libri di Rotondi 1952; Marchetti, Nicoletti 1956; Causa, Bologna 1950
eccetera). Costituiscono un’eccezione le ricerche sulla scultura lignea senese che
datano dall’inizio del Novecento (cfr. Spalletti 1995, vol. I, pp. 8-30) e, ovviamente,
le ricerche su alcuni capolavori o particolari gruppi di opere (come ad esempio Körte, 1937 o De Francovich, 1938).
3
Marchetti 1942b, pp.12-29; Marchetti 1942a, pp. 9-14; Marchetti 1955b, p. 3;
Marchetti 1955a, p. 27; Marchetti, Nicoletti 1956, pp. 91-100; Marchetti 1957,
pp. 1-6.
4
“Il Cadore passò alla Diocesi di Belluno appena nel 1847. L’appartenenza al Patriarcato aquileiese fu stabilita da Carlo Magno, ma bisogna tener presente che fin dai
tempi dei romani il Cadore era aggregato al municipio di Julium Carnicum il che
dimostra ancora una volta come le circoscrizioni ecclesiastiche spesso ricalcassero
quelle tardo romane. Dalla dominazione carolingia il Cadore passò successivamente
sotto i duchi del Friuli e della Carinzia e solo nel 1077 i patriarchi di Aquileia vi esercitarono anche il dominio. A sua volta il patriarca Sigeardo subinfeudò quasi tutto il
Cadore a vari suoi vassalli tra i quali c’era Gabriele da Camino che, circa un secolo
dopo (1175) riusciva riunire sotto di sé l’intera regione eccetto qualche località rimasta sotto la dipendenza diretta dei Patriarchi…” (cfr. Zimolo, 1958, p.14). Sui legami fra queste due zone si vedano inoltre: Fiocco 1951-52, pp. 6-11; e Zanderigo
Rosolo 1993, pp. 93-155.
5
Rasmo 1950a, p. 159; Rasmo 1952, pp. 34-35; Fabbro 1954, pp. 18-20 (scoperta
del documento relativo all’altare della chiesa della Difesa a Lorenzago); Rapozzi
1955, pp. 137-141; Fabbro 1957, pp. 51-57; Rapozzi 1957, pp. 139- 140; Egg
1962, pp. 99 ss.; Fiori 1966; Ringler 1967, pp. 430-433; Fabbiani 1970b; Biasuz
1971, pp. 124-128; Murer 1977; Tiozzo et al. 1989 .
6
Come ad esempio l’attribuzione ad Hans Multscher avanzata da G.B. Tiozzo per
l’altare di San Simon di Vallada Agordina (cfr. Tiozzo 1989a, p. 48).
7
Egg 1985.
8
L’altare di Livinallongo (Buchenstein) attribuito da Egg ad Andrè Haller (1524) è
attualmente conservato nel Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck (cfr.
Egg 1985, pp. 142, 157).
9
È vero che Egg esamina le opere del Tirolo, ma nella sua ricostruzione del corpus
dei singoli artisti egli prende in esame anche opere poste fuori dei confini tirolesi
come appunto gli altari di Rocca Pietore e Livinallongo.
10
Dopo il terremoto del 1976 ebbi modo di partecipare alla vasta campagna di studio e restauro organizzata dalla locale Soprintendenza sulla scultura lignea friulana
che ebbe inizio poco prima della grande mostra del 1983 (cfr. Rizzi 1983) e si concluse circa 20 anni dopo con il convegno del 1997 (cfr. Perusini 1999a). In quegli
anni mi occupai spesso anche di altari lignei tedeschi come ad esempio del magnifico Flügelaltar di Pontebba (cfr. Bonelli 1994) e, per tale ragione, mi fu assolutamente naturale continuare l’indagine sulle opere “tedesche” presenti nel Bellunese.
11
L. Tazzer, Scultura tedesca nel bellunese nei secoli XV e XVI, tesi di laurea, università di Udine, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990-1991, relatore professoressa
Giuseppina Perusini.
12
Tazzer 1991, pp. 70-77; Tazzer 1992a, pp. 93-106.
13
Tale restauro fu reso possibile dal generoso contributo della CariVerona (grazie
all’interessamento di Luigi Cavalet) e della parrocchia di Selva di Cadore e venne eseguito sotto la supervisione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto.
Su quest’altare si vedano Perusini 1996, pp. 353-367 e la relativa scheda in questo
volume.
14
Al convegno su Bellunello nel 1995 segnalai le due sculture di Presenaio e approfondii le ricerche sull’altare di Pieve ribadendo l’attribuzione a Klocker già avanzata
da Rasmo (Perusini 1998, pp. 43-52). Nel 1997 grazie al contributo del Soroptimist
Club di Cortina-Cadore potei effettuare il restauro (sempre con la supervisione di
A.M. Spiazzi) dei due busti superstiti che si trovavano della predella dell’antico altar
maggiore (oggi smembrato) della chiesa di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore;
pochi mesi fa infine ebbi l’occasione di segnalare la splendida Madonna in trono col
Bambino della chiesa di Santa Giuliana ad Alverà (Cortina).
15
Nel convegno friulano del 1997 la Spiazzi segnalò le due sculture di Sappada attribuendole a un intagliatore pusterese (cfr. Spiazzi 1999a, p. 122) e, due anni dopo,
negli atti dello stesso convegno, la Castri le attribuì a Michele Parth (cfr. Castri 1999,
p. 151, nota 46).
16
Ringrazio Milena Dean per la cortese comunicazione orale e le ulteriori informazioni riguardanti queste opere. La scultura raffigurante san Floriano si trova nel timpano di una casa di Sappada in borgata Cretta (si veda l’immagine di quest’opera in
Rosina 1995, p. 247).
17
Quest’altare venne restaurato in due tempi fra il 1991-1992 (restauro conservativo) e il 1993-1995 da Milena Dean (con la collaborazione di Michela Buttignon e di
Roberto Bonomi che eseguì le analisi chimiche) con la direzione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto che finanziò il restauro. Su quest’intervento si
veda: Spiazzi 1993b, pp. 189-197 e Dean 1993, pp. 207-213.
18
L’altare della chiesa di San Candido a Campo (Cortina) venne eseguito da F. Vellu1
ti, L. Tomesani e O. Passarella fra il 1992 e il 1993 sotto la supervisione di A.M. Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto.
19
L’altare della chiesa di San Simon di Vallada Agordina è in restauro dal 1996 presso il laboratorio di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure (OPD) di Firenze. Il restauro venne eseguito da Maria Donata Mazzoni coaudiuvata da, Ute Raderer e Carolina Ros, con la supervisione di Giovanna Rasario e, successivamente, di Cecilia Frosinini e di Laura Speranza. Sul restauro di quest’opera si veda Mazzoni 1999, pp. 127132 e il contributo in questo catalogo.
20
Gli altari della chiesa di Santa Caterina a Vigo di Cadore e quello della chiesa di
San Tiziano a Goima di Zoldo vennero restaurati nel laboratorio della scuola regionale di restauro dell’ENAIP/Lombardia di Botticino (Brescia) fra il 1994 e il 1997. Tali
restauri vennero eseguiti nell’ambito del corso triennale per tecnico del restauro di
opere lignee diretto da Elisabetta Arrighetti, sotto la supervisione da A.M. Spiazzi
della Soprintendenza PSAD per il Veneto.
21
La predella dell’altare di Michele Parth e la statua di san Rocco della chiesa della
Difesa di Lorenzago vennero restaurate fra il 1997 e il 1999 dalla ditta “Arrighetti e
Tomasoni s.n.c.” di Corticelle Pieve di Dello (Brescia) sotto la supervisione di A.M.
Spiazzi della Soprintendenza PSAD per il Veneto.
22
Le tre statue di quest’altare vennero restaurate nel laboratorio della scuola regionale di restauro dell’ENAIP/Lombardia di Botticino (Brescia) fra il 1999 e il 2003. Tale
restauro venne eseguito nell’ambito del corso triennale per tecnico del restauro di
opere lignee diretto da Elisabetta Arrighetti, con la supervisione di Rita Bernini della
Soprintendenza PSAD per il Veneto.
23
Queste due sculture vennero restaurate a Verona fra il 1998 e il 2000 nel laboratorio di restauro della Soprintendenza PSAD per il Veneto da Guglielmo Stangherlin e Angelo Nigro sotto la direzione dapprima di A.M. Spiazzi e quindi di Fabrizio
Pietropoli.
24
Naturalmente la mancanza di firma, date e documenti per gran parte di queste
opere impedisce di fare un ordinamento cronologico esatto; molte datazioni, come
si può vedere nelle schede relative alle singole opere, sono state infatti eseguite
esclusivamente su base stilistica.
25
Nel 1998 la Castri attribuì questi dipinti a due artisti diversi: uno allievo di Klocker
e uno, sempre di quell’ambito ma meno esperto, e le datò agli ultimi anni del XV
secolo (cfr. Castri 1998, pp. 53-64). Nel 2004 Claut (2004a) ribadì l’appartenenza
alla bottega di Klocker della tavola raffigurante la Vergine con quattro santi (esposta alla mostra su San Floriano a Illegio) sottolineando inoltre l’affinità fra questo
dipinto e le portelle, sempre di scuola klockeriana, che si conservano nella chiesa
arcipretale di Pieve di Cadore (Claut 2004a, p. 78). Si veda infine la scheda a cura di
Luca Majoli in questo stesso volume.
26
Su quest’opera, che mi è stata cortesemente segnalata da Milena Dean, si veda Belli 1987, pp. 66-67. Belli attribuisce giustamente quest’opera a una bottega tedesca
ma ritiene che sia stata eseguita nel Seicento o addirittura nel Settecento. Più correttamente aveva invece scritto Richebuono nel 1974: “È probabile che si debba alla sua
[Benedikt Hebenstreit] munificenza anche la bellissima pala d’altare, certamente del
1500 con la Madonna fra san Biagio e San Nicolò. Nel 1572 infatti il vicecapitano del
castello di Botestagno, Benedikt Hebenstreit, aveva fatto ingrandire e decorare con
affreschi la chiesa di Ospitale ed è probabile che anche la pala sia stata commissionata da lui e si collochi attorno a questa data (cfr. Richebuono 1974, p. 269).
27
Su quest’opera si veda la scheda a cura di chi scrive in questo stesso volume.
28
Quest’opera, attualmente inserita in una nicchia entro il timpano (datato 1727) di
una casa della borgata Cretta, mi è stata segnalata da Milena Dean ed è stata pubblicata da Marcello Rosina (cfr. Rosina 1995, p. 247). La scultura, che sembra chiaramente ascrivibile a Parth, è probabilmente un resto (forse del coronamento) dell’altare eseguito attorno al 1530 da Michele Parth per la chiesa parrocchiale di Sappada di cui ancora si conservano nella stessa chiesa le due statue di santa Margherita e santa Caterina su cui si può vedere la scheda, a cura di T. Perusini, in questo
volume.
29
Su queste due opere si veda il saggio di Tiziana Franco in questo volume; sulla scultura di Feltre si veda inoltre la scheda n. 6 in Coden 2002, pp. 562-565.
30
Per ulteriori notizie su queste opere si veda la nota 61 e il saggio di Rita Bernini in
questo stesso volume.
31
Castri 1999, p. 133.
32
Castelnuovo 2002a, p. 17. Castelnuovo si occupò per la prima volta di tale argomento nella sua lezione inaugurale alla facoltà di Lettere di Losanna (Castelnuovo
1967, pp. 13-26); seguì quindi il saggio del 1979 (cfr. Castelnuovo 1979, pp. 4-12)
e infine il saggio L’autunno del medioevo nelle Alpi in Castelnuovo 2002a, pp. 1733. Mi sembra significativo che anche un convegno di archeometria che ha avuto
luogo quest’anno abbia riproposto lo stesso tema: “The linking role of the Alps in
the past cultures: an archeometric approach”, Bressanone, 13-14 febbraio 2004.
33
“Con il trionfo dell’arte italiana nel XVI secolo e, di conseguenza, con la fine della feconda dialettica formale che si era stabilita fra nord e sud dell’Europa, non si
potrà più riprodurre né prolungare la situazione di privilegio dell’area alpina. D’altra
parte diminuisce l’importanza politica ed economica della regione man mano che il
centro di gravità dell’Europa si sposta verso il nord.” (cfr. Castelnuovo 1979, p. 10).
34
Cammarosano 1992, pp. 71-92; Degrassi 1988.
35
Una conferma sulla committenza popolare dei Flügelaltäre viene anche dal già
citato saggio di Castelnuovo (2002a, p. 21) che riprendendo un’affermazione di Egg
fa notare come solamente una committenza di questo tipo può spiegare la realizza-
291
zione nel solo Tirolo di ben duemila altari fra il 1400 e il 1525 (in questo caso tuttavia si tratta di committenti tedeschi e di artisti tedeschi).
36
Cozzi 2002, pp. 179-199; Dolcini 2002, pp. 123-129. Il pellegrinaggio al santuario
di Sant’Osvaldo a Sauris di Sotto (zona di lingua e cultura tedesca dove peraltro Parth
eseguì nel 1524 un magnifico Flügelaltar), che coinvolgeva anche gente proveniente
dal Veneto e dal Cadore, e durò fino all’Ottocento (cfr. Zimolo1958, pp. 93-94).
37
A ciò contribuì anche la diffusione di xilografie devozionali di origine tedesca che venivano acquistate in tali occasioni e che comunque erano assai diffuse nei domini della
Serenissima. Si veda in proposito l’articolo di Goi 1985, p. 191. Mi pare significativa a
tal proposito anche la bella ricerca della Spiazzi sui ricami tedeschi del piviale di Pieve di
Cadore ove fra le fonti iconografiche la studiosa riporta anche alcune xilografie devozionali come quella diffusissima della Madonna in sole (cfr. Spiazzi 1990, pp. 23-25).
38
Nel 1990 la Spiazzi sottolineava giustamente la permanenza in queste zone di forti legami con l’arte nordica (almeno fino al primo decennio del Cinquecento) e come
la frequente presenza di preti tedeschi avrebbe rinforzato tali legami (cfr. Spiazzi
1990, p. 24). Nel 1995 al convegno su Bellunello sottolineai assieme alla Castri l’importanza degli insediamenti di lavoratori tedeschi, addetti alle miniere o ai forni dell’alto bellunese, per la diffusione dell’arte nordica in queste zone (cfr. Castri 1998,
p. 54; Perusini 1998, p. 46). Devo dire comunque che il problema della committenza di queste opere non è stato mai seriamente affrontato fino a ora.
39
Bisogna soprattutto evitare di semplificare le cose in modo eccessivo come fa ad
esempio Anton Draxl in una recente pubblicazione ove scrive: “I commercianti di
legname di queste zone situate al crocevia fra le vie commerciali importanti […] possono aver anche intrapreso l’attività di commercianti di oggetti d’arte. Si spiega così
come altari gotici a battenti provenienti dal Tirolo e soprattutto dalla Pusteria possano esser giunti in Cadore” (Draxl 2002, p. 110).
40
Marchetti, Nicoletti 1956, p. 88.
41
Nel caso dei lavoratori stranieri la cosa più verosimile è che le eventuali commissioni provenissero dalle confraternite o dalle corporazioni che essi avevano fondato;
del resto in molte città del nordest come ad esempio Udine e Treviso esistevano confraternite nazionali di tedeschi che avevano scopi soprattutto assistenziali e devozionali (cfr. Di Biasio 1983, pp. 383-393 e Perusini 1994b, pp. 151-161).
42
La presenza di pievani parroci e cappellani forestieri (fra cui almeno un terzo era
di origine tedesca) in tutto l’arco alpino orientale è documentata da numerose ricerche che tuttavia riguardano prevalentemente l’area friulana (cfr. De Vitt 1983; De
Vitt 1988; De Vitt 1990).
43
Nel corso del Quattrocento furono arcidiaconi del Cadore: Sigismondo (14161424) già vicepievano di Pieve; Nicolò (1424-1426) di origine tolmezzina e già
pievano di Ampezzo; Tommaso (1426-1427); Gianbattista Palatini (1427-1433)
originario di lì e già pievano di Pieve; Giovanni Macioti (1433-1445) di origine
siciliana e già pievano a Santo Stefano; Vittorio de Ulmis (1452-1453) originario
di Treviso già pievano d’Ampezzo; Andrea da Colonia (1453-1455) già pievano a
Santo Stefano; Odorico (1455-1457), originario di Domegge e già pievano a Pieve, la cui nomina non venne ratificata dal patriarca di Aquileia; Rizzardo Costantini (1457-1461), originario di Ampezzo e già pievano a Pieve, anche nel suo caso
il patriarca di Aquileia non volle ratificare la nomina; Giovanni Krauss (14621473), già pievano di Pieve; Bucio (Bortolo) de Palmulis (1473-1480), canonico di
Aquileia e già pievano di Pieve. De Palmulis non si recò mai a Pieve e lasciò tutte
le sue incombenze a Giovanni di Montalto, nominato vicepievano, che gli successe infine anche nella carica di arcidiacono; Giovanni di Montalto (1481-1488)
oriundo della diocesi di Cosenza e già pievano a Pieve, Vendramino Soldano
(1488-1515) originario di Laggio, già pievano di Pieve. Dai documenti riportati da
Da Ronco risulta che il nome dell’arcidiacono veniva quasi sempre proposto dal
Consiglio della Magnifica Comunità del Cadore ma non sempre il prescelto veniva accettato dal patriarca di Aquileia, a cui spettava la ratifica della nomina. I
cadorini tuttavia non volevano rinunciare alla loro scelta e ricorsero spesso al
senato di Venezia affinchè, tramite il luogotenente di Udine, imponesse al
patriarca il loro candidato. Col passare del tempo dunque la nomina dell’arcidiacono del Cadore fu soggetta sempre più spesso all’approvazione del senato veneziano (cfr. Da Ronco 1936, pp. 22-43).
44
Secondo Da Ronco Johannes Krauss fu arcidiacono del Cadore dal 1462 al 1475,
ma in realtà dai documenti che ho rinvenuto all’ACAU egli risulta aver mantenuto
questa carica fino al 1473. L’arcidiacono aveva sicuramente una notevole influenza
politica, religiosa e culturale: avrebbe quindi potuto avere un significativo influsso
sull’arte locale (cfr. Da Ronco 1936, pp. 26-28). Da Ronco purtroppo non dice dove
si trovano i documenti che riporta nel suddetto testo ma presumo che si tratti di
documenti conservati presso l’APPC o presso l’Archivio Vescovile di Belluno. All’ACAU si trovano molte altre citazioni riguardanti Krauss sia nel Fondo Cadore (ACAU,
b. 295/Pieve di Cadore, cc. 23 r v) che fra i documenti riguardanti le Collazioni
(ACAU, b. 1457, Registrum Collationum…, cc. 20rv, 31rv, 41bis v) che contengono
le notizie più interessanti. Alla carta 20 è riportato l’atto con cui, il 2 giugno 1473,
Johannes Krauss rinunciò all’incarico di arcidiacono del Cadore a favore di Bucio de
Palmulis, già vicario della Curia patriarcale di Aquileia, due anni prima dunque di
quanto affermava Da Ronco (1475). Il 14 aprile dello stesso anno (1473) Johannes
Krauss, definito di “natione alemanna”, viene nominato cappellano della chiesa di
San Cristoforo a Faedis (in Friuli). Nel 1474 gli viene assegnata la parrocchia di San
Ruperto presso [……..] nella diocesi di Aquileia e quindi viene nominato arcidiacono della Slovenia (“marchie Sclavonice”); infine, il 10 gennaio 1475, viene nomina-
292
to parroco e arcidiacono di Villacco (“Collatio parochialis…de Villaco.d. Johanni
Kraus nationi alemanno” e inoltre “Deputatio eiusdem ad […..] archidiaconat [s….]?
Villacho”).
45
Spiazzi 1990, p. 23. Questa tendenza viene confermata anche dalla nomina come
arcidiacono del Cadore di Pietro Aleandro (1516-1545), originario di Mareno di Piave, e assai gradito a Venezia. Con il prevalere di Venezia vennero anche privilegiati i
rapporti lungo l’asse nord-sud in alternativa a quelli lungo all’asse est-ovest (cioè con
la Carnia e il Tirolo) che avevano caratterizzato il periodo precedente.
46
Zimolo 1958, pp. 93-94.
47
Pellegrini, De Donà Zeccone 1992, pp. 13-64.
48
Come s’è detto, verso il 1530 l’intagliatore di Brunico Michele Parth eseguì per la
chiesa parrocchiale di Sappada un Flügelaltar di cui restano attualmente solo due
sculture.
49
Toller ricostruisce, anche se in maniera incompleta, la sequenza dei curati di Sappada. Per il periodo che qui ci interessa (1450-1550 circa) furono nominati: nel 1440
padre Giovanni, monaco alemanno; nel 1466 un non meglio definito padre Nicolò;
nel 1487 rinuncia alla carica padre Martino da San Candido; nel 1487 padre Giovanni Prandt di Hau (diocesi di Frisinga); nel 1488 Giovanni Kchuttal da Freysacco
(diocesi di Salisburgo); nel 1501 padre Andrea Alemanno; nel 1520 padre Michele
Hanichij di san Candido; nel 1526 padre Gabriele Mens; nel 1529 padre Cristiano;
nel 1539 il vicentino Giovanni Burgamino che se ne va poco dopo; nel 1540 padre
Pietro de Fabricis di Ampezzo; nel 1562 padre Tommaso Maychin eccetera (cfr. Toller, 1969, pp. 98-99).
50
Scrive a tal proposito Daniela Rando: “Fra basso Medioevo e prima età moderna,
quest’area si contraddistingue per diffusi diritti di compartecipazione delle comunità di fedeli alla nomina del proprio pastore” e continua “tali diritti di nomina e di
elezione non si possono comprendere senza tener presenti le libertà politiche godute dalle comunità locali. Accanto al controllo del parroco e degli ausiliari, un elemento importante nel rapporto con la propria chiesa fu la sorveglianza o l’amministrazione diretta dei beni ecclesiastici attraverso i fabbriceri”. La studiosa conclude
dunque: “i tratti che caratterizzano il rapporto dei fedeli con la propria chiesa si possono così sintetizzare: partecipazione alla nomina del proprio rettore e dei suoi ausiliari, amministrazione del patrimonio ecclesiastico, ampio campo d’intervento dei
fabbriceri” (cfr. Rando 2002, pp. 55-57).
51
“Fra Tre e Quattrocento questa zona (l’alto bacino del Piave) troverà una sistemazione territoriale stabile, che prescinde dal modello urbanocentrico, nel confronto e
nell’assestamento fra i due poteri territoriali ‘esterni’, demograficamente, economicamente e politicamente robustissimi come la dominazione veneziana e quella
asburgica. Per certi versi simile la linea di tendenza che si manifesta più a oriente in
Friuli ove il peso dei centri urbani è debole; si tratta inoltre di un contesto nel quale
persistono anche forme di autonomia comunitaria” (cfr. Varanini 2002, p. 43). In
alcuni paesi queste antiche norme prevedevano anche l’elezione del curato da parte degli abitanti del paese che non erano assolutamente disposti a rinunciare a questo “privilegio” che, assieme agli statuti, contribuiva a tutelare la loro autonomia. Fu
così che, nel 1486, gli uomini del paese di Rocca Pietore mandarono un loro rappresentate dal vescovo di Belluno per rivendicare il rispetto di tale antica consuetudine (cfr. Spiazzi, Toffoli 1993, p. 39).
52
Il contratto di Potsch per l’altare di Rocca è riportato in Murer 1977, pp. 43-44.
53
Il paese di Rocca Pietore faceva parte della diocesi di Bressanone anziché di quella di Belluno e inoltre, a partire dal 1417, aveva un suo proprio statuto e i paesani
rivendicavano il diritto di eleggere il curato (cfr. Spiazzi, Toffoli 1993, pp. 28-51, 59).
Per quel che riguarda la presunta influenza del clero tedesco si può notare infine che
quando venne commissionata quest’opera (nel 1516) era cappellano di Rocca Pietore il genovese Santino da Brugnato (1499-1521) e non un tedesco sebbene nel XV
secolo vi fossero stati in paese ben tre curati tedeschi.
54
Il contratto per la chiesa della Difesa a Lorenzago venne pubblicato da Fabbro
1954, pp. 18-20 e Rapozzi 1955, pp. 137-141, e quello per la chiesa di Sant’Orsola a Vigo venne pubblicato da Fabbro 1957, pp. 51-57 e Rapozzi 1957, pp. 51-58,
101-109.
55
Sacco 2004, p. 10.
56
Si tratta dei valichi del Gottardo, del Moncenisio, del Grande e Piccolo San Bernardo, del Brennero, del passo di Monte Croce Carnico, della sella di Camporosso
(val Canale) eccetera.
57
Cito qui solo quelli di maggiore interesse per le Alpi orientali. Per una bibliografia
completa rimando al saggio di Guido Castelnuovo che è anche l’ultimo in ordine di
tempo: Castelnuovo 2002b, pp. 61-77; e inoltre: Degrassi 1999, pp. 13-32; Castelnuovo 2000, pp. 447-464; Cason 2002. Sul Friuli si veda inoltre: Paschini 1924, pp.
123-135; Leicht 1954, pp. 232-233.
58
Dal concetto di strade principali si è quindi passati al concetto di “fascio di strade”, Varanini 2002, pp. 40-41.
59
Alessandro Sacco fa notare come già nel XIV secolo ci fosse un interesse generale per l’apertura di nuove strade e per il miglioramento di quelle esistenti. “Così il
podestà di Pieve impose che s’aprisse una strada per Monte Croce [Comelico] e la
Pusteria” e aggiunge “su questa strada si commerciavano bestiame, pelli d’agnello,
cereali, lino e lana, grezzi o filati, utensili domestici e da lavoro, armi, candele latticini ecc”. Egli fa notare infine come il forte aumento demografico della prima metà
del Quattrocento “ebbe come conseguenza una ricerca spasmodica di cereali
soprattutto in Pusteria e in Tirolo” (cfr. Sacco 2002, pp. 157 e 161).
Fino alla prima guerra mondiale i rapporti fra gli italiani e i tedeschi di queste zone
furono sempre molto intensi anche se, soprattutto per questioni di confine, furono
spesso soggetti ad alti e bassi. Il 1° novembre del 1448, ad esempio, in seguito al
continuo verificarsi di scorrerie e prepotenze da parte dei tedeschi lungo i confini “il
Consiglio della magnifica Comunità del Cadore decise l’espulsione di tutti i tedeschi,
che erano numerosi e ben inseriti e taluno cittadino a tutti gli effetti” (cfr. Sacco
2002, p. 152).
61
Si tratta per l’esattezza dei Vesperbilder in arenaria (o Gußstein?) che si trovano
nella pieve di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore (di area salisburghese e databile alla seconda metà del XV secolo), di quello della chiesa dell’Addolorata a Pieve
di Zoldo affine per provenienza e datazione a quello di Pieve (cfr. Vizzutti 1995a), di
quello dell’oratorio di San Rocco a Pescùl e di due Vesperbilder conservati in area feltrina e precisamente quello della chiesa dell’Addolorata a Mel, (cfr. Francescon, Sartori 1991, p. 101) e quello della chiesa di San Dionisio a Zermen (databile alla prima
metà del XV secolo) a cui va aggiunta la piccola Pietà conservata nella chiesa di Santo Stefano a Grun. In Friuli vi sono addirittura otto Vesperbilder (in arenaria e in Gußstein) fra cui ricordo quelli di Gemona, Venzone, Cividale, Aquileia, San Vito al
Tagliamento, Sesto al Reghena, Sacile e Castel d’Aviano) che testimoniano l’enorme
diffusione che tali opere di produzione salisburghese o boema ebbero nel nord Italia. Anche la grande diffusione di queste sculture conferma, a mio avviso, l’apprezzamento di cui era oggetto l’arte tedesca nelle zone alpine orientali. Su queste opere si veda Tazzer 1991, p. 76 e inoltre Perusini, Spadea, Casadio 1994, pp. 73-93;
Castri 2002, pp. 171-185 e il saggio di Rita Bernini in questo stesso volume.
62
A questi paesi del Cadore bisogna aggiungere oggi Colle Santa Lucia che però in
quel periodo faceva parte dei possedimenti del vescovo di Bressanone.
63
Cucagna 1961; Squarzina 1963, pp. 216-220; Braunstein 1965, pp. 530-531; Vergani 1975, pp. 371-383; Angelini 1975, pp. 136-158; Balestra 1979, pp. 41-115;
Vergani 1983, pp. 613-648, Cason 1988, pp. 279-291; De Toni, Zanetti 1991, pp.
193-208; Baldin 1997c, pp. 61-63.
64
Baldin 1997b, p. 126.
65
Credo sia utile riportare per intero il brano da cui ho estrapolato questa frase: “Nel
1483 sono in piena funzione in valle Imperina miniere e forni per l’estrazione del
rame: imprenditori, tecnici, lavoranti sono in questa prima fase prevalentemente
tedeschi: nel corso del Cinquecento subentrarono presto imprenditori bellunesi e
veneti, mentre la manodopera permane in gran parte tedesca almeno fino agli anni
80, tra la comunità veneta e la colonia tedesca si stabilisce così un rapporto di scambio materiale e culturale che avrà conseguenze indelebili sulla configurazione della
zona. Molti sintomi fanno ritenere che tra Cinque e Seicento gran parte dei tedeschi
fossero ormai rifluiti verso i luoghi d’origine. Una delle cause è il maggior controllo
politico e religioso che si instaura a partire dagli anni 1580 sui lavoranti d’oltralpe,
sospetti di protestantesimo” (cfr. Vergani 1975, pp. 371-383). Del resto la presenza
di manodopera tedesca viene confermata anche dalle testimonianze coeve, scriveva
ad esempio Marin Sanudo nel 1483: “et è poi le buse (gallerie), le quali le vidi, et
era cussì intitolate: san Michele, santa Barbara, San Zorzi, Santa Trinita; et vi andai
per entro et vidi uno maestro chiamato sboicer (fonditore) todesco, con una barba
longa” (cfr. Sanudo 1483 ed. 1847, p. 123).
66
Come ad esempio la presenza di continui rapporti commerciali e di strade che collegavano questi paesi a quelli oltralpini oltre che, ovviamente, la vicinanza geografica con i domini asburgici e quelli del vescovo di Bressanone. V’erano inoltre situazioni particolari come ad esempio quella di Rocca Pietore che faceva parte della diocesi di Bressanone e inoltre godeva di una certa autonomia amministrativa. Scrive in
proposito Tamis: “Gli uomini della Rocca di Pietore hanno giurisdizione separata dalla città di Belluno, si governano secondo i loro statuti (del 1489) e antiche consuetudini, non sottostanno alle leggi e provvisioni della città [di Belluno], non pagano
collette, né ordinarie né straordinarie, non concorrono ad alcuna angaria o imposizione, sia della città che del dominio veneto […] mai avevano acquistato il sale dalla città e dal dominio veneto, ma dai tedeschi” (cfr. Tamis 1983, p. 179).
67
Forse si trattava di un maestro proveniente dal paese di Villönss (?) presso Brunico
ma i nomi dei luoghi sono stati italianizzati da chi stese il contratto che era evidentemente di lingua italiana.
68
“Gli Huomini di Pescùl sono venuti e concordati cum mastro Sigismondo de
Vischogna da Bornicho di riedificare la chiesa dietro al pagamento di 245 (ducati?
Lire rainesi?) e quaranta conzi di vino (cfr. Baldin 1997a, pp. 111-112). L. 1 rainese
= L. 4,10 venete; 1 ducato = L. 6,4 venete. Il conzo è una antica unità di misura in
volume per i liquidi che corrisponde all’incirca a 79 dm cubici.
69
Si veda la scheda su quest’opera, a cura di chi scrive, in questo stesso volume.
70
“Fuit dictum quod altare maius pertinet ad ecclesiam, et nulla est in eo fraternitas”, in Visitatio localis omnium ecclesiarum Cadubri aquileiensis diocesis habita ab
ecc.mo et r.mo D.D. Hermolao Barbaro Dei et Apostolicae sedis gratia Archiepiscopus Tyri et Coad.re Aquileiensi, Anno 1604 [Visita pastorale di tutte le chiese del
Cadore, facenti parte della diocesi di Aquileia effettuata dal rev.mo ed ecc.mo D.D.
Ermolao Barbaro per grazia di Dio e della chiesa arcivescovo di Tiro e coadiutore del
patriarca di Aquileia. Anno 1604], c. 2r. Questo fascicolo (di 98 cc.) è conservato
attualmente nell’ACVB ma si trovava anticamente nell’ACAU; di esso ho esaminato
le parti relative alle chiese dove ancora si conservano altari tedeschi (santa Fosca, Pieve, Vigo, Lorenzago eccetera). Su tale visita pastorale si veda anche Fiori 1981, p.
17. Bisogna tuttavia fare attenzione perché le trascrizioni della Fiori, indubbiamente
meritorie e antesignane, contengono alcuni errori.
60
Ciò significa neppure cent’anni dopo la loro realizzazione poiché la gran parte di
questi altari vennero realizzati nei primi due decenni del Cinquecento. Questo vuol
anche dire che, all’inizio del Seicento, gran parte di queste opere erano ancora in
buono stato di conservazione e le testimonianze di questo periodo sono quindi particolarmente attendibili.
72
Su tali disposizioni si vedano: l’esemplare volume di Zeri 1957; Scavizzi 1981;
Menozzi 1995 (in particolare i capitoli XXI- XXVII, pp.175- 228), Belting 2001 (in particolare il capitolo XX, pp. 557- 596).
73
Luigi (Alvise) Lollino, nato a Creta nel 1557 e morto a Belluno nel 1625, fu vescovo della città dal 1596 alla morte, cioè per ben ventinove anni, che coincidono fra
l’altro con il periodo cruciale della Controriforma. La sua famiglia era una delle più
nobili e ricche di Venezia e questo gli permise di dedicarsi agli studi a cui lo portavano il suo singolare ingegno e il suo temperamento. Nel 1577, quando egli aveva
aveva circa vent’anni, a causa dell’avanzata dei turchi, la sua famiglia decise di ritornare a Venezia e qui Lollino riprese i suoi amati studi laureandosi in utroque iure nel
1583 all’università di Padova dove, quando nel 1596 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica, conseguì anche la laurea in teologia. La sua fama di studioso
venne accresciuta anche dalla straordinaria collezione di libri greci che alla sua morte lasciò in eredità alla Biblioteca Vaticana. Fu amico di fra Paolo Sarpi e di Agostino Valier, vescovo di Verona, il quale, quando nel 1584 venne nominato cardinale,
si fece accompagnare a Roma da Lollino che si fermò due anni nella città eterna
ove, fra gli altri, conobbe anche Carlo Borromeo (morto nel 1584). Lollino ritornò
quindi a Roma nel 1591-1592, all’inizio del pontificato di Clemente VIII (papa dal
1592 al 1605) che lo stimava sia come studioso che come uomo. Nel 1596 Gianbattista Valier, vescovo di Belluno, essendo vecchio e malato, chiese al papa di sollevarlo dall’incarico e indicò Lollino come suo successore. Nel 1596 dunque Lollino
prese gli ordini e venne consacrato vescovo di Belluno. Egli avrebbe potuto, come
tanti altri vescovi, recarsi solo saltuariamente nella sua sede ma invece decise di fissarvi stabilmente la sua dimora e si dedicò alla cura del suo gregge con uno zelo
degno del miglior spirito controriformista. Le sue numerose visite pastorali, anche
nelle zone più impervie della diocesi, costituiscono una preziosa testimonianza di
questa attività. Tuttavia già Alpago Novello nella sua dettagliata biografia del vescovo (cfr. Alpago Novello 1933a, p. 81) lamentava il fatto che nelle relazioni di tali
visite sia dedicato poco spazio alle opere d’arte conservate nelle chiese e in effetti
non si può dargli torto poiché, anche confrontando le visite di Lollino con quelle dei
due Barbaro, le relazioni del vescovo bellunese sembrano piuttosto incentrate sugli
aspetti pastorali, sebbene vi compaia anche qualche succinta notazione sui Flügelaltäre dell’Agordino. Qui mi preme soprattutto sottolineare la sua completa adesione ai dettami della Controriforma, che egli ebbe modo di conoscere direttamente dalla bocca e dagli scritti dei suoi più importanti fautori come ad esempio il
cardinale Carlo Borromeo.
74
Ericani 1997, p. 10-11. “In nessuna delle altre diocesi venete” scrive inoltre la Ericani si ritrovano “disposizioni così precise e così drastiche”.
75
ACVB. Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4/1-B fasc. II, cc. 4v5r; ibidem, b. 4/112 (1613), c. 9; su altari scomparsi: fasc. IV, c. 1v, c. 3r.
76
Mi conforta in tale interpretazione anche il parere di Flavio Vizzutti che credo
meglio d’ogni altro conosca le visite pastorali del bellunese.
77
L’elenco che segue, riportato anche Ericani (1997, p. 98, nota 7) è tratto, in gran
parte dal libro di Tamis 1981.
78
La chiesa “aveva un unico altare e una pala di legno artistica e molto antica: nel
mezzo c’era l’immagine della Vergine, ai lati san Vittore e santa Corona, in alto il
Crocifisso con san Francesco e sant’Antonio. Chiudevano lo stipo due battenti. Nel
1647 la vecchia pala veniva sostituita da un’ancona più decente” (cfr. Tamis 1981a,
p. 238).
79
Di questa chiesa Tamis scrive “aveva un unico altare e una pala di legno scolpita,
che portava nel mezzo la statua della Vergine col Bambino, a destra san Nicolò e a
sinistra san Giovanni Battista: lo stipo era chiuso da sportelli dipinti […]. Verso il
1630 il vecchio Flügelatar venne sostituito con un nuovo altare che racchiudeva una
pala del Frigimelica raffigurante gli stessi santi” (cfr. Tamis 1981a, p. 262).
80
Ericani 1997, p. 98, nota 7 e Tamis 1981a, p. 211.
81
Tamis 1981, p. 254.
82
Qualcosa di analogo (ma quasi un secolo prima) venne fatto nella chiesa di San
Tommaso Agordino dove l’altare a battenti che prima del 1630 si trovava sull’altar
maggiore della chiesa venne spostato in una cappella della stessa chiesa mentre sull’altar maggiore veniva collocata la grande pala di Frigimelica.(cfr. Vizzutti, Dalla
tabula picta alla pala moderna: indagini d’archivio e considerazioni, in questo stesso volume). Vizzutti sottolinea inoltre come nel diario di visita del 1619 il prelato che
effettuò la visita pastorale del 1619 nella pieve di San Floriano a Zoldo non ebbe nulla da eccepire sull’altare a battenti che troneggiava sull’altar maggiore.
83
Si veda il contributo di Vizzutti, Dalla tabula picta alla pala moderna: indagini d’archivio e considerazioni, in questo stesso volume. Tamis scrive che: “sovrastava l’altar
maggiore [della chiesa di san Tommaso Agordino] un’ancona di legno con figure
scolpite rappresentanti la vergine Madre col Bambino sulle ginocchia ai lati san Giovanni Battista, san Pietro apostolo, sotto san Francesco, santa Caterina e il santo titolare” e continua “verso il 1620 la chiesa veniva restaurata: si costruivano due cappelle o altari laterali; nella cappella di Mezzogiorno si collocava l’ancona dell’altar
maggiore, sostituita da un dossale nuovo, e in quella di settentrione, un altare in
onore di sant’Antonio Abate, san Francesco e san Rocco con pala di legno e figure
71
293
scolpite (1646)” (cfr. Tamis 1981a, p. 245). L’altare quindi andò disperso solo in un
periodo successivo, forse in occasione dei lavori di ampliamento della chiesa effettuati nel 1740-1744, o forse nella seconda metà dell’Ottocento quando alcuni di
questi altari vennero venduti.
84
Su queste opere si veda: Tamis 1981a, pp. 85-86 (per l’altare di Agordo), p. 197
(per l’altare di Cencenighe). Tamis ricorda che l’altare di Cencenighe era stato eseguito da Potsch nel 1517, che aveva al centro la statua della Vergine e ai lati sant’Antonio Abate e santa Caterina e che, nelle visite pastorali, quest’ancona era stata definita “decens et honorifica e di autore tedesco”. L’altare della chiesa di San
Bartolomeo a Caprile funse da modello per quello di Rocca Pietore come si legge nel
contratto stipulato nel 1516 per l’altar maggiore della chiesa di Rocca che ancora si
conserva nel suo luogo d’origine. Sull’altare di Agordo si veda anche la nota 136. La
scelta dei camerari e delle confraternite agordine sembra dunque aver privilegiato le
botteghe brissinesi di Haller e Potsch. Quest’ultimo infatti riuscì ad accaparrarsi il
monopolio delle commissioni nell’Agordino dove eseguì gli altari di Rocca Pietore,
Cenceniche (perduto), Caprile (ora a Innsbruck), forse quello della chiesa arcidiaconale di Agordo e magari anche altri di cui non è rimasta alcuna documentazione.
85
Un piede veneto corrisponde a cm. 34,7 (cfr. Marangoni 1974, p. 71), dunque la
mensa degli altari secondo il vescovo Lollino doveva esser lunga da 170 a 240 cm e
larga circa un metro (l’altezza era quella che permetteva di celebrare la messa in piedi a un uomo di media statura, cioè 80-100 cm circa). Si vedano inoltre Tucci 1973,
pp. 583- 612, Ferraro 1951.
86
Il termine veneto querelli o quarei, significa “mattoni” e Flavio Vizzutti mi ha cortesemente informato di aver trovato questo termine in una documento del 1585
relativo all’ingrandimento di alcuni altari.
87
ACVB. Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4/1-B fasc. II, cc. 4v5r; ibidem, b. 4/112 (1613), c. 9; su altari scomparsi: fasc. IV, c. 1v, c. 3r. La raccomandazione di Lollino affinchè non vi si potesse metter dentro gli altari “cosa alcuna” riguarda soprattutto le reliquie di cui, nei tempi precedenti alla Controriforma,
si era spesso abusato favorendo così il culto idolatrico delle immagini collegate a tali
reliquie (cfr. Baxandall 1989, pp. 64-121). Dopo il Concilio di Trento gli arredi e le
suppellettili ecclesiastiche furono (almeno in parte) adeguati alle minuziose prescrizioni riportate da Carlo Borromeo nell’Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae libri II, Milano 1577, di cui il vescovo Lollino, che conobbe personalmente
Borromeo, era sicuramente a conoscenza.
88
Scrive infatti la Ericani: “Una preoccupazione così insolita, in verità si comprende
meglio scorrendo i resoconti delle sue visite, ove sono accuratamente descritti in
quasi tutte le chiese delle località montane percorse, gli antichi altari conservati: si
tratta quasi sempre di strutture costituite da una cassa, e quindi aperte al centro,
come richiama il prelato, entro la quale sono esposte tre o più sculture lignee generalmente raffiguranti la Madonna con il Bambino e i santi titolari della chiesa, e
munita di portelle dipinte. Al di sopra trovava posto, entro pinnacoli traforati, un
Crocefisso talora affiancato dalle Marie” (Ericani 1997, p. 10).
89
Accadeva esattamente la stessa cosa anche quando si trattava di ancone italiane,
basti pensare alle numerose ancone di Domenico da Tolmezzo, Giovanni Martini e
altri artisti friulani del Cinquecento che nel secolo successivo vennero inserite entro
fastosi altari barocchi.
90
Si tratta per l’esattezza dell’altar maggiore di Santa Fosca e dell’altare della
Madonna addolorata, che si trova nella stessa chiesa ed è collocato in un grande e
fastoso altare barocco, dello scrigno dell’altare di Michele Parth a Vigo e di quello di
Falcade, delle statue superstiti degli altari di Sappada e Presenaio.
91
Castelnuovo 1989, p. 18.
92
Neppure nella celeberrima e accurata visita pastorale del patriarca Daniele Dolfin
del 1736 si trova alcun accenno agli arredi ecclesiastici (ACAU, b. 795 ?).
93
ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602; b. 780/10. Si tratta di un grosso fascicolo di 316 carte (più 20 bianche) che contiene il resoconto della visita pastorale effettuata nelle chiese della Carnia dal patriarca di Aquileia Francesco Barbaro nel 1602.
94
Le annotazioni riguardanti la visita pastorale dell’arcivescovo Ermolao Barbaro con
il luogotenente Agostino Bruno sono raccolte in un fascicolo di 98 cc. con una
copertina in cartone su cui è scritto: Visitatio localis omnium ecclesiarum Cadubri
eccetera (si veda la nota 70).
95
ACVB, Visite pastorali. Vescovo Lollino Alvise (1596-1625), b. 4. Il vescovo Lollino
fece almeno tre visite alle chiese dell’Agordino all’inizio del XVII secolo nel 1600, nel
1607 e nel 1613.
96
Francesco Barbaro, primogenito di Marcantonio Barbaro, bailo della Serenissima
Repubblica a Costantinopoli, nacque a Venezia nel 1546. Dal 1568 al 1573 fu a
Costantinopoli col padre e, dopo aver ricoperto diverse cariche civili per la Repubblica di Venezia (fu console a Damasco nel 1573, quindi ambasciatore presso la corte sabauda dal 1578 al 1581, savio di terraferma nel 1584), si dedicò alla carriera
ecclesiastica a partire dal 1585 quando Sisto V lo nominò arcivescovo di Tiro e
coadiutore e poi vicario generale (dal 1587) del patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani. Del resto la decisione di abbracciare la carriera ecclesiastica appare piuttosto
in linea col temperamento studioso di Francesco Barbaro e col fatto che a trentanove anni fosse ancora celibe. Nel 1592 a causa dell’anzianità del patriarca di Aquileia
Giovanni Grimani (che morì infatti nel 1593) venne incaricato dal papa Clemente VIII
di ispezionare la vastissima parte asburgica della diocesi di Aquileia e di questa visita resta l’importante Relazione della visita apostolica in Carniola, Stiria e Carinzia fatta da F.B. patr. Eletto d’Aquileia l’anno 1593 e presentata a papa Clemente VIII
294
(stampata a cura di V. Joppi, Udine 1862) che documenta l’infiltrazione in queste
zone della dottrina riformata, ma anche lo zelo controriformista di Barbaro nel combattere l’eresia e nel moralizzare la vita del clero. Questa relazione tuttavia non contiene quasi nessun accenno agli arredi ecclesiastici delle chiese visitate poiché l’attenzione di Francesco Barbaro è evidentemente incentrata sul problema del luteranesimo e del comportamento del clero. Benzoni scrisse giustamente del patriarca:
“Gli austeri costumi, il fervore e l’attivismo che contraddistinsero il suo patriarcato
fanno di lui una figura di rilievo nell’Italia della Controriforma, accostabile allo stesso san Carlo Borromeo per lo zelo dimostrato nell’applicare le norme del concilio tridentino”. Fu il primo patriarca a fissare la residenza a Udine, dove fece costruire il
palazzo patriarcale, fondò il seminario udinese e organizzò quattro sinodi diocesani
fra cui quello celeberrimo del 1596 a cui parteciparono personalmente o per procura tutti i vescovi suffraganei del patriarcato di Aquileia e durante il quale venne
imposto anche nella diocesi di Aquileia l’osservanza della liturgia romana che sostituiva l’antica liturgia aquileiese (cfr. Benzoni 1964b, pp.104-106).
97
“..in altare maiori satis ampio et alto est icona lignea aurata, insculpta, perpulcra
cum insuper imagines inter alias Santi Osvaldi alta usque ad fornicem.. non habet
balaustra nec umbrella.” ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602; b. 780 /10, c.
121v. Su quest’altare si veda: Perusini, Castri 1999, pp. 173-188; più in generale su
Michele Parth si veda il recente contributo di T. Perusini 2003, pp. 15-60.
98
Per quanto possa sembrare banale la traduzione del termine scabellum è stata tutt’altro che semplice (anche per i diversi contesti in cui risultava impiegata) e ha comportato numerosi consulti con diversi amici e colleghi che ringrazio sentitamente:
don Giuseppe Peressutti, Andrea De Marchi, Valentino Pace, don Sandro Piussi,
Lucia Sartor, Flavio Vizzutti, Sible de Blaauw, Maria Luisa Delvigo. La soluzione è
venuta dalla lettura del testo del cardinale Carlo Borromeo, Instructionum fabricae
et suppellectilis ecclesiasticae libri II, Milano 1577 (che rientra nello stesso periodo
cronologico e contesto culturale dei nostri visitatores) ove questo termine è impiegato col significato di paliotto. Da questo libro emerge chiaramente come l’attenzione di Borromeo s’appuntasse in maniera quasi maniacale su ogni minimo dettaglio dell’arredo e della liturgia ecclesiastica. Nel cap. XI del I libro intitolato De altari
maiori è scritto: “Sit autem altare maius à scabelli solo altitudine cubitorum duorum
et unciarum octorum et ad summum decem, longitudine cubitorum quinque ac plurimum, pro ecclesiae cappellane magnitudinis ratione, latitudine vero cubitorum
duorum et unciarum duodecim, ac plurimum item pro longitudinis et situs modo”
(p. 19). Nel cap. XV del I libro intitolato De cornice lignea altaris è scritto: “Unicuique scabello, etiam maioris altaris, coronix lignea tribus digitis, nec vero amplius, alta
adiungatur qua a tribus item partibus illud cingatur, ita ut a parte anteriori palij, et
a lateribus mantiliu tobalearum extremitas, eiusdem cornicis opere, usque occultetur, etiam ubi altaris scabellum à fronte tantum extat” (p. 33). Alla fine del testo è
riportata graficamente la misura di un cubito (43, 5 cm circa) suddiviso in oncie (1,
8 cm circa) sotto cui è scritto “cubiti qui ex uncijs vigintiquattuor constat mensura
haec est, unciatim delineata”. Nel secondo brano si legge: “Ogni paliotto anche
quello dell’altar maggiore va decorato con una cornice lignea alta tre dita e non di
più che va messa su tutti e tre i lati dell’altare cosicchè la sommità di tali cornici risulterà coperta dalla tovaglia dell’altare nella parte anteriore e dai mantilia sui lati,
anche quando il paliotto dell’altare è visibile solo di fronte”.
99
“altare maius est sub fornice cappillae maioris lapideo…satis amplium et alto
habet icona alta aurata lignea insculpta, antiqua, satis pulcra cum imaginibus inter
alias crucifixi domi nst. et sct. Canzio, Canziano et Canzianilla…habet scabellum
satis decens et balaustris et umbrella.” (ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 16021602; b. 780 /10, c. 226v). Su quest’altare si veda Rizzi A. 1983, pp. 182-185.
100
“iconam pulcram auratam ligneam insculptam in qua inter alias imagines est imago beatissime Virginis et sct. Margherita et in superiori parte crucifixi Domini nostri
[…] non habet balaustram neque umbrellam” (ACAU, Visite pastorali-Cronistoria
1602; b. 780 /10, c. 191v). Su quest’opera di cui restano attualmente solo le due
statue delle sante Margherita e Caterina si veda la scheda a cura di T. Perusini in questo stesso volume.
101
Riguardo all’altare realizzato, forse da Parth, nel 1545 (?) per la chiesa di San Floriano a Mediis si legge: “Super altari est icona lignea aurata, insculpta cum imaginibus inter alias Sct. B. Virginis et sct Floriani” (cfr. ACAU, Visite pastorali-Cronistoria 1602-1602; b. 780 /10, cc. 156v-157. Su quest’altare si veda Rizzi 1983, pp.
186-187).
102
Nella visita pastorale del vescovo Lollino, a proposito dell’altare di Falcade è scritto che poteva essere chiuso “cum portellis pictis” (cfr. Ericani 1997, p. 10).
103
Ermolao Barbaro, fratello minore del già ricordato Francesco, nacque a Venezia
nel 1548 e, nel 1596, Clemente VIII lo nominò coadiutore del fratello con diritto di
successione e, assieme a tale carica, gli venne anche conferito il titolo di arcivescovo di Tiro. Quando nel 1516 Francesco Barbaro morì, Ermolao gli successe sul seggio patriarcale ma a differenza del fratello non fissò mai la sua dimora a Udine preferendo continuare a risiedere a Venezia.. Ermolao Barbaro morì nel 1622 ed è
sepolto assieme al fratello nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Udine (cfr. Benzoni
1964a, pp. 100-101).
104
Il paese di Pescùl, dove si trova la chiesa di Santa Fosca, è il più lontano fra quelli del Cadore e proprio per questo i visitatores iniziavano proprio da là e si avvicinavano poi progressivamente al passo della Mauria che era il valico attraverso cui rientravano in Friuli.
105
Su quest’opera si veda la scheda a cura di scrive in questo stesso volume.
“Altare maius est in capite ecclesiae, in cappella ad quam ascenditur per unum
gradum fornicatum et pavimentatam integrum lapidum, aliquantulum angustum
habet scabellum ligneum, iconam ligneam insculptam, auratam decentem cum imaginibus inter alias B.V. et S.ta Fusca, in reliquis fuit repertum satis bene instructum..
Dominus mandavi a cornibus epistulae et evangelij produci cum tabulis decenter per
dimidium palmum ab unuquoque latere”, ACAB, Visitatio localis…, cit., c. 2v.
107
“Icona est super altari lignea aurata, insculpta, decens cum imaginibus B.V.ne
S.ma, Apostoli Petri et Pauli alta? usque ad fornicem”, ACA.B, Visitatio localis…,
cit., c. 65 v.
108
“Mensa est lapidea aequa et licet angusta decenter aucta ex ligno ita ut altare
sit convenienter altum atque amplum, et super eo est icona lignea aurata insculpta cum imaginibus inter alias B.B. et Sct. Ursulae, in reliquis altare fuit repertum
satis bene instructum et paratum cum scabellum decenter”, ACAB, Visitatio localis…, cit., c. 5-7r-v.
109
Per l’altare di San Simon di Vallada Agordina è scritto: “opus germanicae manus
et ingenii antiquum, sed elegans ac politum”, mentre l’ancona di Cencenighe viene
definita “decens et honorifica” e quella di Agordo viene detta “decens et honorifica, bene culta, antiqua, germanici opus artificis”. Purtroppo Tamis non cita le visite
pastorali da cui ha tratto queste informazioni (cfr. Tamis 1981a, pp. 86, 156 e 197).
110
Così pensa ad esempio Ericani che scrive: “Le decisioni vescovili potrebbero forse
rientrare in un diffuso spirito antitedesco alimentato nell’area da motivi religiosi e
dalle razzie e dalle incursioni e battaglie di Massimiliano d’Asburgo di primo Cinquecento più genericamente da una necessità liturgica di assicurare una lettura più
immediata delle immagini sacre […] o anche dipendere come spesso succede, nei
cambiamenti epocali, da tutte queste componenti. Di fatto qualsiasi fosse la motivazione le disposizioni del Lollino modificarono nell’ultimo decennio del XVI secolo
e agli inizi del Seicento tutti gli interni delle chiese bellunesi […] con una significativa differenza rispetto alle chiese trentine ove la presenza di Flügelaltäre è ancora
consistente anche se relegata in luoghi non più eminenti delle chiese” (cfr. Ericani
1997, pp. 10-11).
111
Ciò accadeva ad esempio nel caso di opere poste in cappelle su cui cittadini o confraternite avevano diritto di giuspatronato oppure nel caso di singoli altari, sculture
o dipinti commissionati da famiglie, associazioni di lavoratori eccetera. Non bisogna
dimenticare che in quest’epoca il rispetto della proprietà privata era così forte che
persino i riformati in alcuni casi non osarono distruggere le opere che non appartenevano alla chiesa ma a qualche privato cittadino, come dimostrano le vicende dell’Englische Gruss di Veit Stoss nella chiesa di San Lorenzo a Norimberga (cfr. Taubert
1978, pp. 60-72; AA.VV., Der Englische Gruss… 1983).
112
Passamani rilevando la diffusione di tale prassi notava come spesso “l’originario
contesto altaristico […] era distrutto e le statue venivano inserite in un altare barocco […] come possiamo constatare in numerosi esempi di recupero sei settecenteschi
che hanno interessato in particolare (perché più numerosi ma forse anche perché
divenuti estranei al gusto, particolarmente in aree non tedescofone o ormai non più
tali) i Flügelaltäre: si vedano i casi di Arsio, Mastellina, Comasine, Cogolo, Segonzano, Fiera di Primiero, ma anche quello di un’ancona all’italiana come quella della
‘scola’ di Stefano lamberti a Condino”, egli dunque conclude che “questa prassi è
un importante testimonianza sul significato ed il ruolo che talune immagini lignee
[…] detenevano nella pratica liturgica e devozionale delle diverse comunità. Le quali, coinvolte nei mutamenti imposti dal gusto ed in particolare dalla più spettacolare
liturgia postridentina e barocca, lungi dal disfarsi degli antichi simulacri, ne rinverdivano la funzione con rinnovate policromie e ridistribuzioni simboliche in nuove macchine altaristiche” (cfr. Passamani 1989, p. 32).
113
Su quest’altare, eseguito negli ultimi anni del Quattrocento dall’intagliatore
brissinese Ruprecht Potsch, si veda la scheda a cura di chi scrive in questo stesso
volume.
114
Fra le numerose chiese parrocchiali che vennero ingrandite fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento in Cadore ricordiamo, oltre a quella di Pieve,
la chiesa parrocchiale di Santa Giustina ad Auronzo, realizzata alla fine del Quattrocento e ricostruita dopo il 1772 su disegno degli architetti tolmezzini Angelo Fabbro
e Domenico Schiavi; quella di San Lucano a Villapiccola (Auronzo) costruita nel Quattrocento e ricostruita nel 1856 su disegno di G. Segusini; la chiesa di San Biagio di
Calalzo, costruita sempre del XV secolo e ricostruita nel 1852 da Segusini; la chiesa
di San Lorenzo a Cibiana, del XIV secolo, di cui venne rifatto il coro nel 1729 e fu
quindi ricostruita nel 1852 da Segusini; la chiesa di Santa Maria Assunta a Candide,
di fondazione antichissima (1186) e ricostruita nel 1762-1800 su disegno di Domenico Schiavi; la chiesa di San Giorgio a Domegge costruita nel XV secolo e rifatta nel
1861; la chiesa dei Santi Ermacora e Fortunato di Lorenzago costruita nel Quattrocento e ricostruita nel 1756 da Angelo Fabbro e Domenico Schiavi; la chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenza di San Vito di Cadore di fondazione antichissima (114)
e ricostruita nel 1764 su disegno di Domenico Schiavi; la chiesa di Santa Margherita a Sappada del XII secolo e ricostruita nel 1779; la chiesa di San Martino a Valle di
Cadore sempre del XII secolo e ricostruita nel 1739 (cfr. Fabbiani 1964a).
115
Il manoscritto originale, che s’intitola esattamente Historia della provincia di
Cadore composta da Don Antonio Barnabò sacerdote di valle di Cadore. Composto negli anni 1729 e 30, terminato l’anno 1732, è attualmente conservato nella
biblioteca del seminario di Vittorio Veneto. Ho consultato una copia dattiloscritta
(realizzata nel 1943) conservata nella Biblioteca Storica Cadorina di Vigo di Cadore (ms. n. 2899).
106
116
A. Barnabò, Historia…, cit., c. 175. Barnabò continua quindi: “Ad ambedue i lati
dell’altare sono eretti due altarini ne’ quali sono collocati alcuni vasi e mani dorate
e croci diverse reliquie, ma non insigni con le loro portelle dipinte, co’ quali si chiudono, con due piccole lampade d’argento dinnanzi” (c. 175). Una conferma dell’esistenza di tali reliquie ci viene anche da una breve nota manoscritta di monsignor
Biasutti, attualmente conservata presso la biblioteca del seminario di Udine, in cui lo
studioso riporta la notizia trovata in un documento del 19 novembre 1498 ove si legge che era stata portato nella chiesa un pezzetto del legno della croce e il vicario
generale Mason ne aveva proibito la venerazione rimettendo però il caso al canonico Giovanni Grimani (cfr. schedario di monsignor Guglielmo Biasutti, biblioteca del
seminario di Udine, voce Pieve di Cadore).
117
Spiazzi 1999a, p. 119. La Spiazzi non riportò la collocazione del manoscritto da
cui trasse questo brano ma la Cusinato nel 2000 trascrisse il testo per esteso e ne
citò esattamente la collocazione: Descrizione della chiesa di santa Maria di Pieve
come la vide nel 1730 il sacerdote Giovanni Antonio Barnabò di Valle. Sec. XVIII.
Attribuito [a Barnabò] da Taddeo Jacobi Pieve di Cadore, APPC, busta Fabbricerie
varie, cc. 1r- 4r (cfr. Cusinato 2000, pp. 119-122).
118
“Orgoglio di tecnica eroica, mirabilia dell’artigianato possente e paziente, sono gli
altari su cui si sacrifica ampiamente la produttività artistica tedesca tra il Quattro e il
Cinquecento. […] è certo che lo Stoss, Nicola Gerhart, il Riemenschneider e tanti altri
hanno sostanza creativa. Di ognuno è concesso isolare un diverso timbro sentimentale. Quando dall’altare di Cracovia dello Stoss si estraggono i particolari come le
teste della Maddalena e del san Giovanni egli può battere il nostro Mazzoni, per citare un italiano comprensibilissimo anche lassù. Ma il significante è che subito si pensi ad estrarli quei particolari. Si è perché essi aggallano sull’acervo dei panneggi che
si snodano e si ammonticchiano ad infinitum. Si dice che questi dovrebbero servire
all’astrazione ritmica: ma qui non era più luogo alla certezza dialettica del migliore
Trecento. Sono ormai questi panni troppo consistenti di materia, troppo certi di tessuto, per girovagare a quel modo. Ho anche letto che essi diano il pathos a tutta l’opera. Ma il pathos non si regge con una interiezione sola ripetuta a metri quadrati.
[…] i due aspetti opposti di una naturalezza curiosa e instancabile e di una lirica folle e vagante s’affiancavano e talora s’intrecciavano [nell’arte tedesca] […] era s’intende una via pericolosa, strapiombante da un lato sul caos naturalistico di una verità troppo vera, troppo curiosa quasi indiscreta, dall’altra sulle forre di un ritmo troppo irreale, troppo frivolo, troppo giocato su una linea ormai mistificante” (cfr. Longhi 1973, pp. 14 e 19).
119
Giuseppe Sampieri era cappellano della chiesa di santa Caterina del castello di Pieve, su questo suo scritto si veda Palatini 1951, pp. 94-103.
120
Si tratta di un quaderno di 49 cc. sul cui frontespizio in cartone si legge: Libro per
la nuova fabbrica della v.nda Chiesa Nostra Matrice e Arcidiaconale. A.M.D.G. 1761,
conservato nell’APPC. I primi 6 fogli contengono il piano dell’antica chiesa nostra
arcidiaconale, ossia una descrizione della chiesa antica accompagnata da una pianta fuori testo. Nei fogli successivi è invece compendiata la storia della riedificazione
della chiesa arcipretale. Già nel 1754 infatti si era pensato di riedificare l’antica chiesa che appariva da tempo rovinata, tanto più che tale intervento era stato suggerito dallo stesso patriarca Daniele Dolfin nelle due visite pastorali del 1736 e del 1745.
121
Taddeo Jacobi, Memorie parziali e rispettive delle chiese esistenti nel Cadore e di
quanto contengono, p. 3 (APPC). Io ho consultato una copia dattiloscritta conservata nella Biblioteca Cadorina di Vigo. Si tratta di un ms. di 132 cc. sul cui frontespizio si legge Memorie parziali e rispettive delle chiese esistenti nel Cadore e di
quanto contengono supposta volgarmente degna di qualche considerazione ed è
posto entro una busta d’archivio su cui è scritto: Carte attribuite a Taddeo Jacobi
notaio sec. XVIII- XIX. Tale manoscritto venne rivendicato per la prima volta a Taddeo Jacobi (1753-1841) da Attilio Giacobbi (cfr. Giacobbi 1978, pp. 48-53), che propose di datarlo attorno al 1810 e ipotizzò che dovesse la sua origine al desiderio di
Jacobi, che visse in prima persona i drammatici momenti della fine della Repubblica
veneta e del dominio napoleonico, di mantener viva la memoria di tante opere d’arte distrutte in questo periodo. Jacobi, originario di una cospicua famiglia di Pieve,
s’era laureato a Padova in utroque iure nel 1786 e a 33 anni venne eletto vicario del
Cadore, carica che mantenne fino al 1788. Durante il periodo napoleonico fece parte di molte commissioni sia presso Bonaparte che presso la corte di Vienna per cercare di mitigare le funeste influenze delle ripetute incursioni e ricoprì anche diverse
cariche onorifiche. Fu consigliere del tribunale d’appello sotto il regno italico e fu
inviato a Parigi da Napoleone per l’applicazione del nuovo codice. Infine però preferì “la quiete dei suoi monti” dove venne nominato “ispettore ai boschi”. Nel 1811
si ritirò dalla vita politica per dedicarsi interamente agli studi locali coll’intento di preparare una moderna storia del Cadore. Morì a Pieve nel 1841 alla veneranda età di
ottantotto anni ma la sua storia non era ancora completata e tutti i documenti che
aveva prelevato dagli archivi a tale scopo (ben diciassette contenitori!) andarono in
seguito dispersi. Di tutto questo lavoro rimane soltanto un copiosissimo Indice cronologico rimasto allo stadio di abbozzo che, secondo Attilio Giacobbi, è questo
manoscritto. Giacobbi conclude infatti il suo articolo scrivendo: “Questo opuscolo
manoscritto è una stesura provvisoria e ancora incompleta del Catalogo sulle opere
d’arte del Cadore che il dott. Taddeo Jacobi andava preparando già dagli anni della
Rivoluzione francese e che non riuscì a portare a termine, pur avendolo costantemente aggiornato fino al 1841 quando morì”. Ma ancor più interessante mi pare
l’ultimo capoverso: “[il manoscritto] riporta molte notizie raccolte con diligenza, cita
le fonti d’informazione, spesso riferisce cose viste e riscontrate personalmente pro-
295
prio negli anni in cui sparirono alcune di quelle chiese, passate al demanio o vendute, con la soppressione delle scuole, e negli anni in cui si rinnovarono in stile neoclassico molte altre, col fervore edilizio delle nuove fabbricerie parrocchiali. In breve
si perse anche il ricordo delle vecchie chiese e di tante opere d’arte disperse qua e
là dai nuovi profeti. Il manoscritto di Jacobi ce ne conserva una traccia” (cfr. Giacobbi
1978, pp. 52-53) .
122
Alla metà del Settecento era stato deciso di abbattere la vecchia chiesa ormai molto rovinata e troppo piccola per la popolazione di Pieve per costruirne una nuova il
cui progetto (nel 1754) venne affidato all’architetto friulano Domenico Schiavi. In
questo primo progetto l’architetto tolmezzino aveva previsto di rifare solo la navata
lasciando intatti il coro e il transetto poiché vi si trovavano degli affreschi attribuiti a
Tiziano. Tale progetto tuttavia venne scartato dall’ispettorato alle opere pubbliche di
Venezia; fu così che Schiavi fornì un secondo progetto (nel 1763) che prevedeva
anche l’abbattimento del coro e la creazione di una chiesa a navata unica con cupola centrale. I lavori di Domenico Schiavi ebbero inizio nel 1765, ma vennero sospesi
nel 1780 e furono ripresi appena nel 1805 sotto la direzione del figlio Angelo Schiavi il quale a sua volta lasciò il cantiere nel 1812. A tal punto subentrò, come direttore lavori, l’architetto feltrino Sebastiano De Boni che nel 1813 fece “finalmente”
abbattere l’antico coro e fu in tale occasione che venne probabilmente rimosso e
smembrato l’altare a portelle. Nel 1837 venne inaugurata la nuova chiesa che tuttavia era ancora priva della facciata per cui venne bandito un concorso nel 1859 che
fu vinto dall’architetto vicentino Giovanni Miglioranza; ma la realizzazione della facciata, di gusto neorinascimentale, venne terminata appena nel 1876. (cfr. Cusinato
2000, pp. 33-43; Guzzon 2003, pp. 7-14).
123
Fra questi fu nuovamente in prima linea Jacobi che in tale occasione scrisse un
saggio intitolato Descrizione del coro della chiesa matrice di S. Maria di Pieve e delle pitture e delle sculture che vi esistono, ad oggetto soltanto di conservarne la
memoria in ogni futuro evento ed è citato nell’articolo di Fabbro 1962, pp. 177-181.
124
Brentari 1886, p. 110.
125
Non dobbiamo dimenticare infatti che, grazie alla diffusione del romanticismo, in
Germania e in Francia a partire dal terzo decennio dell’Ottocento le opere d’arte
medioevali cominciarono a essere apprezzate e ricercate dai collezionisti pubblici e
privati, mentre in Italia esse vennero trascurate ancora per diversi decenni (cfr. Spalletti 1995, pp. 8-30, e inoltre Perusini 2001, pp. 19-61).
126
Il trittico di san Nicolò (dipinto da Agostino da Lodi, con la cornice intagliata da
Vettor Scienza) si trovava nella cappella Buzzatti della chiesa di Bribano (presso Sedico) e la famiglia Buzzatti, che sosteneva di avere il giuspatronato su quest’opera, lo
vendette all’antiquario veneziano Antonio Carrer. La gente del paese s’oppose strenuamente alla vendita ricorrendo infine alla giustizia (per dimostrare che l’opera non
era di proprietà della famiglia Buzzatti) sicché alla fine si giunse a un concordato per
cui il comune ricomprò l’altare all’antiquario (al prezzo che aveva pagato alla famiglia Buzzatti) e s’impegnò a vigilare in perpetuo sulla sua conservazione (cfr. Bentivoglio 1975, pp. 431- 436). Purtroppo si tratta di un caso isolato ma pur sempre
significativo per dimostrare come la conservazione delle opere d’arte è sempre e
comunque legata in primo luogo all’interesse e all’affezione della gente a cui tali
beni sono affidati.
127
Scrive infatti Richebuono a proposito di quest’altare: “È una vera fortuna che della chiesa di santa Caterina ci sia rimasto almeno l’altar maggiore, conservato ora nella cappella di Campo. Sul giornale ‘Tiroler Stimme’ N° 71 del 1910 il benedettino
padre Adelgott Schatz scrisse che l’altare era stato ritrovato l’anno prima da antiquari, che volevano comprarlo e portarlo via” (cfr. Richebuono 1974, pp. 268-269).
128
Basti pensare, per citare solo le opere di Klocker alle tre sculture dello scrigno dell’altare di Kaltern/Caldaro finite in una collezione privata e poi disperse, e alle portelle dello stesso altare divise fra una collezione privata di Hall e il convento dei francescani a Kaltern; oppure alle sculture dello scrigno dell’altare di San Leonardo in val
Passiria ora divise fra le Österreichische Galerie e la chiesa parrocchiale di Seefeld;
oppure alle sculture dell’altare di Schalders conservate nel Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, e ancora allo scrigno dell’altare di Kastelfeder ora nel museo civico di Bolzano (cfr. Egg 1985, pp. 97-121).
129
Le due sculture sono alte 120 cm (le misure che avevano solitamente le sculture
poste nello scrigno di un Flügelaltar di grandi dimensioni) e nella scheda d’ingresso
al museo è scritto che provenivano da una chiesa presso Ulma, ma già nel 1922
Harry Fett le assegnò alla scuola di Pacher. Ernst Haverkamp, senior curator della collezione di scultura del museo, ha giustamente rigettato questa attribuzione, ma credo sia esatto affermare che provengono dal Sudtirolo. È certo infine che queste sculture provengono dal mercato antiquario (forse anche per questo la provenienza è
stata falsata come spesso accadeva in questi frangenti): facevano parte infatti della
collezione del pittore Eilif Peterssen (1852-1928) che verosimilmente le acquistò nella seconda metà dell’Ottocento ed entrarono quindi nella collezione di Christian Langaard, già direttore di questo museo a cui egli le donò nel 1923. Ringrazio per queste informazioni Ernst Haverkamp e ringrazio soprattutto Giovanni Ferrin al quale
devo la segnalazione e le fotografie di queste due sculture.
130
Questa fotografia si conserva attualmente in un archivio privato (di Padova). Ringrazio la restauratrice Milena Dean per questa e altre notizie riguardanti il commercio di opere d’arte nel bellunese nella seconda metà dell’Ottocento.
131
Quest’altare era già stato pubblicato da Kaufmann 1973, n. 343; Müller 1976,
foto 162-163; Egg 1985, pp. 134-137; Jopek 2002, pp. 137-144. In tutte queste
pubblicazioni l’altare, che doveva essere di notevoli dimensioni (altezza dello scrigno
296
416 × 465 cm a portelle aperte), venne correttamente attribuito alla bottega di
Ruprecht Potsch (affiancato per l’esecuzione dei dipinti da Philip Diemer) e datato
fra il 1500 e il 1510. Si tratta di un altare mariano che contiene nello scomparto centrale dello scrigno la Madonna in trono col Bambino (108 cm) affiancata da san Giovanni Battista (185 cm) e san Floriano (175 cm). Nel lato interno (intagliato) delle
portelle sono raffigurate quattro scene della vita della Vergine (Annunciazione, Presentazione al tempio, Natività, adorazione dei magi). Sul lato esterno sono dipinti (in
quattro riquadri) i santi Albuino e Ingenuino, Lucia e un’altra santa martire, san Giorgio e san Martino. Sulla faccia esterna delle portelle della predella sono dipinte le
sante Barbara, Dorotea, Caterina e Margherita mentre manca il gruppo scultoreo
(raffigurante l’adorazione dei magi) che stava nella predella. Ai lati dello scrigno (e
quindi visibili solo a portelle chiuse) si trovavano due sculture a tutto tondo raffiguranti san Pietro e san Paolo (112 cm).
132
Jopek 2002, p. 137. Ringrazio Diane Bilbey del Victoria and Albert Museum di
Londra per le informazioni che mi ha fornito su quest’altare.
133
Egg ipotizzò la provenienza di quest’opera dalla val Isarco (cfr. Egg 1985, p. 143)
probabilmente perché sulle portelle sono raffigurati i santi Albuino e Ingenuino che
erano i patroni di Bressanone. Tale iconografia rende improbabile la provenienza di
quest’opera dall’Agordino, ma resta il fatto che Potsch lavorò moltissimo in questa
zona, eseguendo fra l’altro il perduto altare di Cencenighe (nel 1516-1517) che
però, dalla descrizione riportata da Tamis, non può essere quello di Londra. Lo scrigno dell’altare di Cencenighe conteneva infatti le statue della Madonna, di sant’Antonio abate e di santa Caterina e, all’interno delle portelle, in bassorilievo, erano raffigurati san Martino e san Sebastiano (cfr. Tamis 1981a, p. 197).
134
Lanza 2002, pp. 79- 89.
135
Castelnuovo scrive che nei primi decenni del XX secolo il mercato straniero preferiva “le sculture di ambito germanico” (cfr. Castelnuovo 1989, p. 17).
136
Il Flügelaltar che stava sull’altar maggiore della chiesa arcidiaconale di Agordo
doveva essere molto simile a quello di Londra e, secondo Tamis, andava anch’esso
attribuito a Potsch. Si trattava infatti di “una pala di legno, d’arte tedesca, con figure di fine intaglio colorate; al centro c’era l’immagine grande della Vergine col Bambino, a destra l’apostolo san Pietro, a sinistra san Giovanni evangelista sotto una
corona di angeli. Lo stipo veniva chiuso e protetto da portelli, dei quali il primo aveva nella parte interna san Floriano, san Martino, san Lucano e un ignoto, nella parte esterna la Visitazione, e la nascita di Gesù, l’altro all’interno portava san Giacomo
e sant’Antonio, san Rocco e l’arcangelo Michele, all’esterno l’Annunciazione e l’adorazione dei magi. In alto un coronamento architettonico rappresentava l’Assunzione di Maria: la statua della Vergine era addossata a una tavola dipinta, di forma
circolare, sostenuta da colonnine dorate e le facevano corona un’aureola di graziosi spiriti celesti: ai piedi i dodici apostoli miravano lo sguardo al cielo. Sulla predella
dello stipo era scolpito il mistero della Natività della Madonna e le immagini di due
santi. Nelle relazioni delle visite pastorali [ma purtroppo don Tamis non precisa di
quali visite si tratti!] la pala è detta “decens et honorifica, bene culta, antiqua, germanici opus artificis”. Era simile a quella di Rocca Pietore, di proporzioni più grandi,
e forse si doveva attribuire allo stesso autore, Ruprecht Potsch di Bressanone, che
lavorava per le nostre chiese nella prima metà del XVI secolo” (cfr. Tamis 1981, pp.
85-86). Purtroppo è impossibile sapere quando venne smontato quest’altare; probabilmente esso rimase al suo posto fino all’inizio dell’Ottocento (com’era accaduto
per l’altare di Pieve di Cadore) quando venne iniziata la costruzione della nuova chiesa. Purtroppo dalle pubblicazioni riguardanti la chiesa di Agordo non è possibile
capire quando venne sostituito l’antico altare, dopo aver ricordato la sostituzione
dell’altare dei Santi Giacomo e Cristoforo nel XVII secolo, Tamis scrive infatti: “In
seguito (quando?) vennero fatti altri lavori ingombrando gli spazi e togliendo la semplicità dell’interno: si aggiunsero due altari laterali e quello dell’abside, ricostruito,
apparve un ammasso di materia e colonne ammonticchiate”; continua quindi ricordando le vicende della ricostruzione ottocentesca (cfr. Tamis 1981, p. 87). In base a
questa testimonianza sembrerebbe che l’antico altar maggiore fosse già andato
distrutto prima dell’Ottocento ma sarebbe necessario effettuare ulteriori ricerche
nell’archivio parrocchiale di Agordo (sulle vicende della chiesa di Agordo si veda il
quaderno n. 4 di “Ricerche e studi sulla chiesa arcidiaconale di Agordo”: Guida alla
arcidiaconale… 1989). Nel 1849 Valentino Pancera Besarel lavorava assieme al padre
all’interno della chiesa di Agordo; a quest’epoca probabilmente il Flügelaltar era già
stato smontato ma forse si trovava ancora in paese (sull’attività dei due Pancera ad
Agordo si veda: Angelini, Cason Angelini 2002, p. 58 e inoltre Cason Angelini, Gambaretto 2002, pp. 19-30).
137
Nel bellunese v’era all’epoca una Commissione conservatrice dei monumenti e
degli oggetti d’arte e di antichità (di cui era presidente il prefetto e di cui facevano
parte nel 1885 Francesco Pellegrini, Carlo Zasso, Luigi Tonelli e Angelo Sperti) e poi
gli Ispettori agli scavi e ai monumenti che dal 1881 al 1884 erano, oltre a Osvaldo
Monti, Carlo Zasso, Valentino De Lorenzo, Jacopo Facen, Valentino Berton (cfr. Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 313-314).
138
Osvaldo Monti (1819-1904), di origine cadorina ma residente a Belluno, si laureò in
legge a Padova nel 1845 ma non esercitò mai la professione di avvocato e durante gli
studi frequentò il pittore padovano Vincenzo Gazzotto (seguace del De Min) dove probabilmente conobbe il restauratore padovano Antonio Bertolli che in seguito chiamò
a restaurare i dipinti della chiesa di Lentiai. A questi anni padovani potrebbe risalire
anche la sua conoscenza con Cavalcaselle (che studiò ingeneria a Padova dal 1840 al
1844) e Selvatico. Egli sposò la sorella del poeta Arnaldo Fusinato conosciuto all’uni-
versità. Non fu un grande pittore ma fu invece un ottimo illustratore di libri (Gerusalemme lberata, Orlando furioso, Decamerone eccetera). Fu amministratore del Monte
di Pietà di Belluno fino al 1883 e poi direttore della Banca del Popolo dal 1867 al 1869.
Fu, come s’è detto, ispettore agli scavi archeologici e condivise con Pellegrini la responsabilità del Museo Civico di Belluno (si veda Lucco 1991, p. 926).
139
Ciò era infatti previsto nell’art. 7 del R.D. del 7 agosto 1874.
140
ASCB, b. 1321, fasc. Disposizioni. Ringrazio Orietta Ceiner del Comune di Belluno
per aver messo cortesemente a disposizione questo materiale. Su tale argomento si
veda la tesi di laurea di Alessandra Delle Vedove, La Commissione provinciale conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità in Belluno. Storia, attività, restauri, università di Udine, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2002-2003, relatore R. Fabiani.
141
Alla fine di questa relazione Monti fece anche un accenno al Cadore citando fra le
opere degne di valore e artistico la chiesa di sant’Orsola e il santuario di Pieve di Cadore.
142
Non è possibile sapere con sicurezza quando venne realizzato questo inventario
poiché nessuno dei fogli che lo compongono riporta una data, ma si può considerare come termine post quem il 1877 giorno in cui la Commissione provinciale si
riunì per decidere quali monumenti inserire nell’elenco.
143
Questa lettera è conservata nel fascicolo ove sono raccolti i documenti riguardanti
l’attività della Commissione conservatrice nel distretto di Belluno: ASCB, b. 1321,
fasc. Belluno.
144
Civiletti, Belluno 1962, p. 4.
145
Sacco 2002, p. 135.
297