CHI GUARDA
PENSANDO L’ARTE DI
KISAKO UMINO
FOTOGRAFIE:
TESTO:
NICOLA GRIFONI
FABRIZIO TORRICELLI
Aprile 2011 — Galleria Tannaz, Firenze
Alexander died, Alexander was buried,
Alexander returneth to dust, the dust is earth,
of earth we make loam, and why of that loam
whereto he was converted might they not
stop a beer-barrel?
«Alessandro morì, Alessandro fu seppellito,
Alessandro tornò alla polvere, la polvere è terra,
con la terra noi facciamo argilla, e perché con
quella argilla in cui egli fu trasformato non si
potrebbe turare un barile di birra?» Così
Shakespeare nel suo Hamlet, atto quinto, scena
prima.
Vita e morte si appartengono. Senza la morte
non si dà vita; senza vita, nemmeno la morte.
Questa consapevolezza non è antica quanto il
genere Homo. C’è stata infatti una lunghissima fase
della storia della nostra famiglia, gli Hominidae, in
cui non sapevamo della morte. Prima della specie
Homo habilis non avevamo ancora sviluppato la
nozione del prima e del dopo, del non ancora e del
non più. Morivamo anche allora, certo, ma non lo
sapevamo. Non ce ne curavamo. Prima della specie
Homo neanderthalensis la nozione di sepolcro, o in
generale di culto dei morti, era estranea a noi
umani tanto quanto agli oranghi, ai gorilla, agli
scimpanzé e agli australopiteci. La nascita di quella
consapevolezza, che potremmo rubricare come
primaria per la specie Homo sapiens, compare
insieme ad una domanda: c’è qualcosa dopo la
morte? se sì, che cosa? Il pensiero religioso è lo
sviluppo e la conseguenza di questa domanda.
In quanto cessazione delle funzioni biologiche di
qualsiasi essere vivente, Homo sapiens compreso,
sulla morte ci illumina il sole filosofico di Epicuro,
come riferisce Diogene Laerzio nel decimo ed
ultimo libro del Vitae philosophorum. θall’aperto del
suo giardino, Epicuro rassicura Meneceo che la
morte non è nulla per noi perché,
ὁ
ἡ ῖ ὦ ,ὁ
ο οὐ π
ο π ῇ, ό ’ ἡ ῖ οὐ ἐ
,
.
«Quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando
c’è la morte, noi non siamo più». Ventidue secoli
dopo, il Tractatus di Wittgenstein (6.4311) ci
conferma che
der Tod ist kein Ereignis des Lebens. Den Tod
erlebt man nicht.
«La morte non è un evento della vita. La morte non
si vive». Tuttavia, pur non sapendo della nostra
morte se non immaginando quella di altri, essa
rappresenta un destino ineluttabile e, quel che più
conta, noi lo sappiamo. Essa riguarda ognuno di
noi e ci tiene la mano, a cominciare dal primo
attimo in cui abbiamo visto la luce. Heidegger, in
Sein und Zeit, ha pronunciato parole decisive in
proposito. La nostra esistenza, in quanto essere-
nel-mondo (In-der-Welt-sein), in quanto esserci
(Dasein), si modula su questo nostro essere-per-lamorte (Sein-zum-Tode). L’intimità che abbiamo con
quel nihil che è detto morte ci dà però la misura
della vita che palpita dentro e fuori di noi.
Nessun Homo sapiens può fare a meno di tale
intimità ma, meno di chiunque altro, lo può chi è
chiamato a pensare. Ugualmente, non può il
religioso: quello vero. Per l’artista, in special modo,
costituisce l’ubi consistam. Il loro essere nel mondo
testimonia la straripante bellezza della vita che li
trapassa ogni istante della loro esistenza: l’abisso
che li riempie e che fa dire al Rimbaud delle
Illuminations:
J’ai embrassé l’aube d’été.
«Ho abbracciato l’alba d’estate».
Arte, in greco χ , è ancora per Platone
quanto occorre sapere in qualsiasi attività umana:
un saper fare, insomma. Solamente con Aristotele,
scegliendo di distinguere la scienza dall’arte,
questa viene ricondotta alla sfera del possibile;
quella, del necessario. Unicamente il possibile che
è oggetto di produzione può essere oggetto
dell’arte.
L’arte, dunque, è attività umana, come lo è la
parola che la designa: su questo sono tutti
d’accordo. Quale posizione questo «umano» occupi
nell’universo è invece questione che chiede, forse,
di essere riconsiderata, come sapeva, inascoltato e
scomodo, Leopardi ne La ginestra:
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
Lo invocherebbe, a voler aprire gli occhi, l’entropia
sociale e ambientale in cui questo pianeta e i suoi
abitanti, Homo sapiens incluso, stanno precipitando.
Non fosse troppo tardi, ripensare l’umanismo
sarebbe necessario: ripensandolo a partire da
Protagora il quale, come riferisce Platone nel
Teeteto (152a), stabilisce che
π ω
ῶ
οὐ ἔ
χ
.
ω
ω ὡ ἔ
ο ἄ
, ῶ
ωπο
ἶ ,
ω ὡ
«L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che
sono per ciò che sono, di quelle che non sono per
ciò che non sono». Traspare infatti in questo
pensiero una sorta di formidabile tracotanza
biologica che informa, con poche eccezioni,
l’intera civiltà dell’uomo bianco: una civiltà di cui
il teutonico «Gott mit uns» è il più sinistro
coronamento, mentre il cosiddetto Homunculus
arcorensis ne è la caricatura spettacolare.
Tornando all’arte, un esempio per tutti gli
umanismi; per lo meno, un esempio alto. Hegel,
nelle sue lezioni sull’estetica, insegnava ai suoi
studenti che la bellezza artistica è la bellezza
generata e rigenerata dallo spirito, e, di quanto lo
spirito e le sue produzioni stanno più in alto della
natura e dei suoi fenomeni, di tanto il bello
artistico è superiore alla bellezza della natura.
Formalmente considerando, qualsiasi cattiva idea
che venga in mente all’uomo, sta anzi più in alto di
qualunque prodotto della natura, poiché in esso è
sempre presente la spiritualità e la libertà. Così il
filosofo di Stoccarda. Anch’egli però è morto ed è
possibile che, con la polvere delle sue ossa si turi
un barile di birra.
L’arte, dicevamo, è un fatto umano. L’arte,
aggiungiamo, è fatta per l’uomo: in tutte le sue
forme essendone il più misterioso atto di
comunicazione. In tutte le sue forme abitando la
sfera del possibile, del non ancora, del non, ci parla
segretamente di quel nihil donde l’oggetto d’arte
viene ad essere. Alludendo a quel nihil, essa rende
visibile ciò che non lo è. Pur non potendo
rappresentarlo, rende presente un mistero.
Oggetto, prodotto, manufatto: la nostra storia,
almeno dagli albori del neolitico, è storia di
produzione e di immagazzinamento. Eppure,
quelle forme uscite dalle mani sapienti di Kisako
Umino non sono manufatti, non sono prodotti.
Almeno, non solo. Non stanno di fronte a noi per
essere guardate, per essere ammirate oppure
disprezzate. Parafrasando Magritte, colui che
vuole o cerca in una sua opera ciò che desidera,
non troverà mai ciò che va oltre le sue preferenze.
Ho udito personalmente le voci più disparate
parlare, a proposito di questa o quella delle sue
ceramiche, di una «chiocciola», di un «fico», di
«bondage», eccetera. Come se non fossimo
soddisfatti fin tanto che non siamo riusciti a
stabilire che cosa rappresentano, a decidere di
cosa sono rifacimento stilizzato; che nome hanno.
Forse è anche questa una strada per l’apprezzamento di quanto esce dalle sue mani
sapienti; certamente appare come l’approccio più
banale. Le nuvole in cielo, forme gassose plasmate
dal vento, per essere «belle» non necessitano di
somigliare a cavalli, a draghi oppure ad angeli e
Kisako Umino è una scultrice speciale in virtù della
sua solida formazione matematica. Ha familiarità
con uguaglianze ed equivalenze, ma non si occupa
di somiglianze, se non nel senso matematico.
Queste, per lei, appartengono alla sfera della
chiacchiera e le lascia a vario titolo al politico, al
prete, al piazzista, all’esoterista, al giornalista, allo
psicologo. Che cosa cercano, allora, le sue piccole
mani sapienti? Cercano quello che creano.
Ma chi guarda? Soprattutto: siamo proprio
sicuri che abbia senso parlare di «guardare» in
presenza di un’opera di Kisako Umino? Certo, a
prima vista, abituati come siamo alla tirannide
dell’ovvio, possiamo considerare la domanda sul
«chi» inutile, se non addirittura stupida. È ovvio,
risponderebbe supponente l’Homo oeconomicus,
pronipote di Protagora; è ovvio, direbbe l’uomo
bianco in tutta la sua storica autoreferenzialità: è
ovvio che sono io a guardare l’opera. Essa è
«oggetto» di percezione, di contemplazione, di
collezione o di quel che si vuole; una potenziale
merce, insomma: basta che stia al suo posto!
Solamente un pensiero così «ovvio» ha potuto
creare un dio creatore con funzioni di capufficio
dell’universo o di grande architetto.
In quelle sue piccole terrecotte è invece
presente qualcosa che quasi sempre ci inquieta. Di
più: imbarazza. La loro «riuscita» è, diremmo,
direttamente proporzionale al grado di imbarazzo
che suscitano in chi le guarda. Non si tratta,
naturalmente,
dell’imbarazzo
che
l’Homo
oeconomicus prova perché «non capisce», come se
un’artista di rango quale Kisako Umino ci
chiedesse di essere capita. No, è un altro genere di
imbarazzo quello che la presenza delle sue forme
induce. È l’imbarazzo, semmai, che si prova
quando si è guardati e, come è di solito, si è
giudicati.
Che cosa, allora, ci guarda? Qualcosa sta di
fronte a noi e, nella sua plastica astanza, sembra
bastare a se stessa e ci lascia spaesati.
Può accadere che un pensiero insolito ci
attraversi: non accade, in un certo senso, che sia
l’opera a guardare chi la guarda?
È possibile che la fruizione estetica di un oggetto
d’arte consista proprio nel lasciarsi guardare da
esso? Ci hanno insegnato che è il soggetto a
osservare l’oggetto, ma l’oggetto artistico, se vera-
mente tale, sembra evocare un
incantesimo
ove
l’oggetto,
magicamente, si fa soggetto ed il
soggetto
sembra
liquefarsi:
almeno per un momento, infatti, il
logocentrico soggetto che guarda
e amministra gli oggetti che lo
circondano si avvede di tutta la
sua finitudine e si sveglia: oltre
ogni illusionismo, Arte e magia,
allo stesso modo, praticano incantesimi. Quale poi
sia questo genere di incantamento è argomento da
secoli
dibattuto,
senza
mai
pervenire ad una risposta definitiva. Anzi, ogni risposta prodotta
rivela già l’indomani la sua
contingenza e viene archiviata. Le
terrecotte di Kisako Umino hanno il
carattere di un’apparizione. Sono il
venire ad essere di
qualcosa. Un mistero
ci seduce. Ma quale
mistero? Se pretendessimo di saperlo
non sarebbe più mistero, ma solo una
troppo umana esibizione di ὕ
e,
forse, di quella più patetica: la tracotanza dell’abracadabra.
Dove abita allora l’incanto che le sue opere
trasfondono allo spazio che le circonda? quale
l’humus culturale in cui ha affondato le sue piccole
mani sapienti?
Certamente non è irrilevante che ella sia nata ad
Osaka. Quando poi è venuta in Europa a studiare
arte all’Accademia di Firenze, ha potuto confrontarsi con altre prospettive, altre tecniche. Cono-
scendo se stessa sotto altri cieli ed altri orizzonti,
ha visto che le luci e le ombre delle diecimila cose
sotto il cielo sono relative alla posizione del sole:
quando levante, quando ponente.
La visione di un io contrapposto al mondo, tipica
della cultura d’Europa e dintorni, è ormai egemone
sul nostro pianeta. Essa ha però una storia e, come
il suo sviluppo ha avuto un inizio, così avrà una
fine: è sotto i nostri occhi. In Giappone, almeno
prima di essere sconfitto militarmente e colonizzato culturalmente dagli USA, la distinzione tra
uomo e natura non era così netta, così tragica. La
natura, insomma, non doveva essere dominata.
Solo un impalpabile indizio: la forma che ella
restituisce alle cose che crea compete all’artista,
ma tali cose sono
plasmate in una
materia che Kisako
ben sa quanto sia
viva. Certo, più
viva di noi. Ella sa
infatti che, quando
modella la creta,
sono la terra, l’acqua e il fuoco che
determinano il risultato altrettanto
che la sua mano e
la sua coscienza.
Ecco perché non
rappresentano la
natura. Piuttosto,
sono di per sé
opera di natura.
Ecco l’incanto. Incanto che imbarazza. Incanto che accende l’attenzione. Non attenzione sul movimento
delle sue forme plastiche, ma attenzione in quel
movimento: in sintonia con quanto si dà in ogni
mutamento.
Siamo in presenza di qualcosa che non può
essere presentato al nostro intelletto come questo
o quello, ma ciò non significa che ci sia estraneo.
Ne sentiamo infatti la potente presenza, anche se
non possiamo porlo alla luce del giorno. L’incanto
che ne proviamo e a cui alludiamo è oggetto di
mutua comunicazione fra quanti ne hanno avuto
sentore. Per gli altri, solo parole.
Impenetrabile all’intelletto, l’incanto è nascosto
oltre le nuvole, ma non interamente al di fuori del
nostro sguardo perché ne sentiamo la presenza:
come profumo di una pioggia lontana. L’unico
modo di corrispondere ad esso è quello di
assumerne l’andamento.
Il fascino delle sue terrecotte è indissolubilmente legato alla loro fragilità, alla loro caducità.
Ella ci parla di forme fatte di terra che, una volta
esposte al sole, alla pioggia, al vento, si coprono di
muschio e, gradualmente, tornano la terra che
erano. Il pensiero estetico giapponese ha una
parola per questo: sabi (寂) che, evocando l’incanto
del metallo ossidato, allude al fatto che la cosa più
preziosa nella vita è la sua impermanenza: mujō
(無常).
き 火 た
よき物見せ
雪 ろ
Kimi hi wo take yoki mono misen yukimaruge
«Amico accendi il fuoco. Ti farò vedere una bella
cosa: una grossa palla di neve!». Così cantava nel
1686 Bashō all’amico alludendo al misterioso
stupore che genera la consapevolezza dell’impermanenza. Non troppo diversamente Kisako Umino
ci insegna a cogliere l’emergere di tale impermanenza. Ineffabile finitudine. Ben altro,
dunque, dal sogno di eternità. Di inossidabilità, per
omnia saecula saeculorum. Chimera itifallica da
caserma: potenza e immortalità, immortalità e
potere. Comico più che tragico, dal momento che
gli unici immortali, nel senso che non muoiono,
sono proprio i morti.