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RAFFAELE, VOLANTE USI CNICI E PROPRIETA COLLETTIVA. LA GIURISPRUDENZA AMMINI STRATIVA ALLA RICERCA DI I]NA DEFINIZIONE giuffrè editore - 2015 Estratto al volume: ARCHIVIO SCIALOJA . BOLLA ANNALI DI STUDI SULLA PROPRIETA COLLETTIVA 1.20r5 INDICE Saggi ANDREA LEONARDI, Comunità alpine e capacità di autogoverno ...... GIANFRANCO LIBERATI, La Relazione Pepoli sui demani meridionali. ACHILLE DE NITTO, Umanesimo rurale ........................................ GEREMIA GIOS, Demani civici vivi e vitali per collettività locali sostenibili ........................................................................ ORAZIO CIANCIO, La gestione forestale sostenibile nelle proprietà collettive .......................................................................... CHRISTIAN ZENDRI, Agricoltori fra status personale e reale. I De privilegiis rusticorum libri tres di René Choppin (1537-1600) .. RAFFAELE VOLANTE, Usi civici e proprietà collettiva. La giurisprudenza amministrativa alla ricerca di una definizione ............... 1 19 79 105 121 131 149 Ricerche DANIELE MOZZATO, PAOLA GATTO, EDI DEFRANCESCO, LAURA SECCO e MATTEO FAVERO, Foreste e servizi ecosistemici. Analisi preliminare dei fattori che orientano le scelte gestionali nelle proprietà collettive e comunali del Veneto.................................................. CINZIA MARSEGLIA, Proprietà e contratto nella disciplina degli assetti collettivi fondiari............................................................... 173 191 Materiali FRANCESCO NUVOLI, SANDRO MARCHI e SALVATORE NOLIS, Realtà e prospettive delle terre civiche in Sardegna: analisi di un caso di studio.............................................................................. CIRO AMATO, Fondamenti giuspubblicistici di un “diritto per i beni comuni naturali”. Una prospettiva giuridico-personalista ........ SANDRO CIANI, Funzioni e prospettive delle associazioni agrarie e dei diritti di uso civico in Umbria ............................................. 219 237 261 VI INDICE LORENZO PERTICONI, L’Università Agraria di Bagnara per storia e per statuto opera a favore della comunità ................................... FRANCESCO e VINCENZO MASTROMARCO, La puntuale individuazione catastale delle terre civiche in Puglia: fase preliminare per una consapevole e corretta gestione strategica collettiva dei beni civici. RITA MICARELLI e GIORGIO PIZZIOLO, Le strategie di gestione contemporanea, partecipata e solidale, del patrimonio civico e comunitario. Un modello per le comunità civiche rinnovate, verso un ambiente di vita come bene comune ..................................... CECILIA NATALINI, Brevi riflessioni sugli usi pubblici: in parere pro veritate ........................................................................... 299 Gli autori del volume 1.2015..................................................... 321 271 279 285 USI CIVIU E PROPRIETA COLLETTIVA La giurispruden za amministrativa alla ricerca di una definizione di RneeagI-p VoleNrp La deflnizione degli assetti collettivi in due serie di pronunce 2. ll tema: la tendenza delle amministrazioni regionali a dettare statuti e recenti. 3. Lo statuto-tipo della per gli enti di gestione di terre civiche. regolamenti-tipo - enti amministrativi. Un 4. Statuti-tipo e subordinazione tra Regione Marche. I poteri di controllo e gestione della modello inapplicabile alla proprietà collettiva. - -5. l. n.1766 del 1927 e le competenze regionali. Primi prolìli di illegittimità della delibera. 6. La censura dei ricorrenti e la motivazione del Tar Marche. La proprietà collettiva -definita a partrre dal modello di gestione dei beni. Critica. 7. La deflnizione di 8. Conclusioni. proprietà collettiva in alcune sentenze recenti del Consiglio di Stato. Un criterio perdente: I'intensità dei poteri sulla cosa. Sovrnaanr«r: 1. Introduzione. 1. Introduzione. La definizione degli assetti collettivi in due serie di pronunce recenti. La giurisprudenza amministrativa manifesta una costante difficoltà a rapportarsi con la proprietà collettiva, figlia dei ripetuti tentativi degli enti territoriali di omologare questi assetti proprietari al proprio modello orgaflrzzativo e di farne organi subordinati, ignorandone il naturale pluralismo e perciò stesso andando contro il dettato della Costituzione. Un disagio interpretativo di cui abbiamo molte testimonranze recenti. affrontare con precedenza è sicuramente Ia sentenza del Tar Marche, Sez. I, 9 gennaio 2074 n. 33, che pone una distinzione netta tra "enti che amministrano terre civiche" (Comuni e Amministrazioni separate dei Beni di Uso civico) e "organtzzazioni montane per la gestione di beni agro-silvopastorali, in proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile". I primi non sono, secondo Ia sentenza, "proprietà collettive di diritto pubblico" per come altrimenti le seconde. I1 caso da SA(ìCìI 1-50 Tar era stato adito da una serie di comunaflze e di università agrarie presenti sul territorio regionale contro una delibera (t) della giunta regionale delle Marche che adottava una "proposta di statuto e regolamento tipo per gli enti che amministrano terre civiche". Con questa distinzione il Tar ha affermato che la delibera semplicemente non riguarda le università agrarie ricorrenti le quali, in quanto "proprietà collettive di diritto pubblico", restano fuori dal campo d'applicazione dell'atto impugnato, che concerne solo (giusta evidentemente il titolo della sua rubrica) gli enti di gestione delle terre civiche. In questo sta la vittoria sostanziale delle trrarti ricorrenti, che hanno visto sì dichiarare inammissibile il proprio ricorso, ma con una decisione che le ha liberate dall'ossequio al provvedimento impugnato, notevolmente lesivo dei loro diritti. Nella tecnica adottata, la sentenza non desta particolari sorprese: la giurisdizione amministrativa, anche se rivendica oggi di essere giurisdizione "di diritto soggettivo" e pertanto legata al principio della domanda (') e alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato ('), si esercita funzionalmente attraverso censure specifiche, proposte contro un atto determinato. Ne consegue che ove sia possibile dire che l'atto in realtà non si applica ai ricorrenti, il ricorso può ben essere respinto senza essere esaminato approfonditan:Lente nel merito. Per giungere a questa soluzione, il Tar ha dato però una sua deflnizione di "uso civico" e di "proprietà collettiva" che ripropone un dilemma mai risolto e forse mai completamente risolubile: quello della deflnizione legale degli assetti col.lettivi, nati in ordinamenti in cui la legge e le sue definizioni erano del tutto sconosciute, quando non inutili. Un problema che non trova nella decisione del Tar di Ancona una soluzione, quanto il segno della crisi ormai irreversibile di un sistema, centrato sulla l. 16 giugno 1921 n. 7766 e il r.d. 26 febbraio I9ZB n. 332 da una parte e la varia legislazione, statale come regionale, che comunque disciplina aspetti rilevanti della proprietà collettiva, dall'altra. lJna crisi conclamata da altra giurisprudenza recente del Consiglio di Stato, la quale parte da una deflnizione di I1 (') (t) Delibera della Giunta regionale delle Marche n. 1-595 del 19 novembre 2012. La centralità del principio della domanda nel processo amministrativo è stata di recente ribadita dal Consiglio di Stato nell'ormaicelebre Adunan.za plenaria 7 aprile 2011 n. 4. sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale. (.) Cons. Stato, Sez. V, Sentenza 8 febbraio 2011 n. 8-54. T,ISI ('IVI('I E PROPRIETÀ COLLEI'TIVA 151 proprietà collettiva diametralmente opposta rispetto a quella del Tar Marche. 2. Il tema: la tendenza delle amministrazioni regionali a dettare statuti e regolamenti-tipo per gli enti di gestione di terue civiche. Per comprendere appieno questa pronuncia dobbiamo innan- zitutto condurre una sia pur minima analisi del provvedimento impugnato e dei vizi addotti dalle parti ricorrenti. La delibera n. 1595 del 19 novembre 20L2 della Giunta regionale delle Marche aveva appunto ad oggetto l'adozione di uno statuto e regolamento tipo per tutti gli enti che variamente amministrano terre civiche. Una tendenza all'uniformazione ricorrente nelle legislazioni di molte regioni, le quali raramente sembrano volersi rendere conto delle intrinseche peculiarità delle singole proprietà collettive. Ciascuna proviene da una sua propria storia, che ha strutturato un proprio, specifico, paesaggio. Nel momento in cui questo paesaggio deve stante anche essere tutelato proprio perché sede di diritti diffusi la norma dell'art. l4Zlettera h) del d.lgs .22 gennaro 2004 n. 42 (Conon appare del tutto ovvio dice dei beni culturali e del paesaggio) togliere alle comunità dei legittimati l'autonomia di cura e di gestione del territorio dal quale hanno in esclusiva il diritto di trarre risorse. Eppure questo è l'effetto precipuo di molte normative regioattraverso strumenti di questo tipo nali, le quali impongono degli organi esponenziah, -le norme cogenti circa la formazione modalità di espletamento delle loro funzioni, il regime degli acquisti, le norme di bilancio. Strumenti che, lungi dal fornire semplici indicazioni di massima, fi.niscono per disciplinare direttamente l'esercizio, da parte dei singoli utenti, delle facoltà che a loro spettano come membri di quella data comunità. La realtà mostra come spesso la predisposizione di statuti e regolamenti-tipo venga data quasi come il naturale corollario dell'approvazione di una legge regionale in materia, a prescindere da quanto la lettera di questa disponga effettivamente. Un primo esempio è quello della Regione Piemonte, la cui legge sugli usi civici (a) dispone all'art.9l'obbligo per i Comuni e per i Comitati (.) L.r. Piemonte n.29 del 2 dicembre 2009 (Attribuzioni di funzioni amministrative e disciplina in materia di usi civici). Sr\(ì( iI 152 direttivi delle ASBUC di adottare un regolamento per I'orgatltzzazione e I'esercizio delle funzioni loro delegate, o di integrare quello eventualmente esistente per conformarlo alle proprie prescrizioni (,). La norma prosegue dettando un capillare contenuto obbligatorio per questi regolamenti, concernente aspetti essenziah della gestione delle terre civiche (u). L'inade,mprenza dell'ente legittima la Regione a imporgli un proprio regolztmento, in virtù de1 potere sostitutivo che spetta generalmente alla Regione per I'inadempienza degli enti locali verso le funzioni loro conferite (z). Per un apparente paradosso, la Regione Piemonte non ha ancora predisposto il regolamento regionale di attuazione (*), ma ha da tempo fornito un regolamento-tipo per i Comuni e le ASBUC, che contiene delle precise scelte di gestione dei beni civici, le quali vengono conseguentemente sottratte all'autonomia delI'ente che rappresenta la collettività proprietaria. I1 regolamentotipo decide così che i diritti civici presenti in 6,gni Comune siano solo il pascolo e il legnatico (e), con esclusione di qualsiasi altro, e si stabilisce che il primo venga esercitato mercé I'individuazione di "comprensori pascolivi", ciascuno dei quali in grado di ospitare un dato numero di capi di bestiame (t0), mentre il riecondo è di libero esercizio flnché si tratta di "legna secca giacentt: a terra avente un (.) Funzioni che vengono indicate all'art. 6 per i Comuni : all'art. 7 per le ASBUC frazionali. L'art. 6. in particolare, devolve ai Comuni tutte le competenze della Regione in materia di usi civici. ivi incluso quello di alienare i beni. prevria sdemanializzazione. Ai Cornuni spetta il rilascio di ogni concessione amministrativa. (o) Art. 9 comma 2 l.r. Piemonte n. 29 del 2 dicembre 2009: "ll regolamento di cui al comma 1 disciplina: a) l'esercizio dei diritti di uso civico da parte della comunità locale determinandone il contenuto. i limiti e l'eventuale corrispettivo a ,:arico degli utenti, nonché le modalità di imposizione e riscossione dei canoni: b) le modalitrì. le forme e le condizioni anche economiche ai fini del rilascio delle concessioni per l'uso esclusivo delle terre civiche; c) le modalità con le quali avviene la reintegrazione dei beni di uso civico nel possesso comunale: d) le modalità di emissione e riscossione dei ruoli relativi ai canoni enfiteutici derivanti da quotizzazioni". (r) Secondo il disposto dell'art. 18 della le_ege. che rimanda all'art. 14 della 1.r.20 novembre 1998 n. 34 (Riordino delle funzioni e dei compiti amministrativi della Regione e degli Enti locali). Anche l'adozione da parte di un Comune di un regolamento difforme dal dettato della legge regionale lo espone alla surroga della Regiorle. con conseguenti oneri finanziari. (*) sessanta Previsto dall'art. 8 della 1.r.2912009, e che avrebbe dovuto essere predisposto entro giorni dall'entrata in vigore della legge. termine evirJentemente ritenuto non perentorio. (,) Art.2 del regolamento-tipo: "Definizione. 1. Gli usi civici riconosciuti sulla proprietà originaria del Comune di ............. sono il 'legnatico' ed il 'pascolo"'. (1')) Vedi gli artt.7 e 9 del regolamento-tipo. Llst ('tvI('t F_ PlìoPlìIL,_'fA coLLF_ltlvA 153 diametro massimo di 10 cm" (ti;. La prima disposizione sarebbe ovviamente inutile di fronte a un giudicato commissariale che individuasse diritti di diversa specie, e la seconda pretende di sostituirsi alle consuetudini proprie dei singoli territori. Di fronte a una normativa tanto specif,ca è quantomeno dubbio tpotrzzate un'autonomia dell'ente gestore, Comune o ASBUC che sia. Presidiata dal potere sostitutivo della Regione, la "bozza dr regolamento-tipo" è disciplina da cui non è lecito discostarsi, a meno di non impugnare dinanzi aL giudice amministrativo il provvedimento con cui la Regione esercita questa sua funzione, ma sul presupposto di poterne dimostrarne i vizi propri: cosa ardua, se non improba. 3. Lo statuto-tipo della Regione Marche. La delibera della Giunta della Regione Marche n. 1595 del2012 va nella stessa direzione. Essa pone uno statuto-tipo che descrive, in modo indifferenziato per le singole proprietà collettive, le finalità tassative che l'ente di gestione deve perseguire, e stabilisce ulteriormente l'obbligo per l'ente di dotarsi di un regolamento conforme al tipo, in mancanza del quale si applicherà direttamente quest'ultimo 1tz). Lo statuto indinzzal'aztone del soggetto gestore (13), e ne stabilisce imezzi flnan(,,) Art. 4 comma 2 regolamento-tipo: "Il godimento del'uso civico di legnatico si articola in due forme: a) raccolta a titolo gratuito di legna secca. E concessa a titolo gratuito a tutti gli utenti residenti nel territorio comunale la possibilità di raccogliere in qualsiasi momento la legna secca giacente a terra avente un diametro massimo di 10 cm. Qualora la legna risultasse già accatastata nel bosco (a seguito di operazioni forestali), è fatto obbligo agli utenti di non scompigliare le cataste. b) assegnazione a pagamento. Gli utenti di uso civico possono richiedere, per le esigenze del proprio nucleo familiare, assegnazioni a pagamento di legname ad uso focatico". (t.) Art.5 (Finalità): "1. L'ente civico cura l'amministrazione del suo patrimonio e provvede al godimento dei beni da parte degli utenti ed ispira la propria azione al iaggiungimento delle seguenti lìnalità: a) persegue gli interessi pubblici della collettività; Ò) regola i diritti di uso civico degli utenti nel rispetto del Regolamento degli usi civici, conforme at Regolamento tipo regionale. Il Regolamento è adottato entro 120 giorni dall'entrata in vigore del presente Statuto. In assenza del Regolamento si applica il Regolamento tipo regionale [...]". (r.) Art.5letterafl: "['ente civico] valorizza ogni tipo di risorsa, attuale e potenziale, nel quadro di una nuova economia integrata delle aree montane fondata sulla gestione e lo sviluppo sostenibile, nel rispetto del quadro normativo vigente". 154 SA(iGI ziart (1a), subordinando all'approvazione dell"',3nte competente in materia di esercizio delle funzioni amministrative in materia di usi civici" le alienaziom e qualsiasi atto estintivo o interruttivo dell'uso civico (,.).La stessa autorrzzazione è richiesta per I'aff,tto dei pascoli o la vendita della legna 1t0). I1 dirigismo regionale: arriva fino al punto di prevedere la riscossione di un "corrispettivo per I'esercizio degli usi civici consentiti" in vraeccezionale, nel caso in cui I'ente non abbia risorse sufflcienti per far fronte alle imposte o a altre spese. Lo statuto-tipo stabilisce che questo contributo do,vrebbe essere deliberato dall'assemblea degli utenti, ma ciò non è: sufflciente per dissipare i dubbi sulla sua base giuridica (1?). Lo statuto-tipo scorre per un totale di sessantaquattro articoli,, (,t) Art. -5-bls (mezzi finanziari): "1. I mezzi per provveder,: ai bisogni dell'ente civico si ricavano dalla concessione in affitto dei pascoli esuberanti rispetto all'esercizio dell'uso civico di pascolo degli utenti. dai proventi ricavati da altre concessioni temporanee in utenza. a turno fra gli utenti. dei terreni seminativi, dalla vendita del leqname nei casi previsti dal successivo art. 6. c. 2. e dal Regolamento. dalle tasse di legnatico e pascolo a carico degli utenti, dalla tassa sul bestiame allevato oltre il numero eventualrnente indicato nel Regolamento sull'uso civico. dalla vendita di eccedenze di erba e fieno derivanti dallo sfalcio dei pascoli e da qualsiasi altra fonte di entrata. quale. ad esempio. i lasciti. le donazioni ed il cofinanziamento di attività, lavori. servizi od investimenti conc,:sso dall'Unione europea. dallo Stato. dalla Regione. dagli Enti gestori delle aree naturali protette statali e regionali e dagli enti locali territoriali [...]". (,.) Art -5-bls c. 1: "Costituiscono altresì fonte di entrata i corrispettivi derir,anti da alienazioni. permute. mutazioni di destinazione d'uso. affrancazioni. liquidazioni di usi civici. reintegre o legittimazione di occupazioni. espropriazioni per pubLrlica utilità. servitù imposte da enti gestori di servizi pubblici. contratti onerosi. affitto di immobili e concessioni temporanee: le predette casistiche sono tutte soggette a delibera;zione dall'Assemblea degli utenti. proposta dal Consiglio direttivo. che deve essere trasn:lessa. per I'approvazione, all'ente competente in materia di esercizio delle funzioni amministrative in materia di usi civici''. (t6) Art. -5-bls c.3: "La concessione in affitto dei pascoli e la vendita dei boschi o della leqna eccedente. nei casi previsti dal Regolamento. deve essere deliberata dall'Assemblea degli utenti ed essere trasmessa. per I'approvazione. all'ente competente in materia di esercizio delle funzioni amministrative in materia di usi civici: tali concessioni od alienazioni sono possibili soltanto nel caso in cui tali terreni o prodotti eccedano i bisogni essenziali degli utenti. dopo aver assicurato cioè, a ciascuno di questi, l'eserciz,io dei diritti di uso civico contenuto ner limiti stabiliti dall'art. 1021 del Codice Civile...". (,,) Art. -5-Drs c. 4: "Nel solo caso in cui le rendite e le entrate non fossero sufficienti per sopperire al pagamento delle imposte e delle spese necessarie per l'amministrazione dell'ente civico si imporrà agli utenti. in via del tutto eccezionale. e con provvedimento da sottoporsi all'approvazione dell'Assemblea degli utenti su proposta del Consiglio direttivo. un corrispettivo per l'esercizio degli usi civici consentiti". Delle <Jue l'una: o il contributo è frutto di un accordo tra eli utenti. e quindi non può essere riscosso altro che da chi concretamente esercita il proprio diritto, o viene riscosso da tutti i legittimati in astratto sulla base dello Statuto. In questa seconda ipotesi esso è sicuramente illeeittimo. sostanziandosi in un tributo non imposto da una legge. LISI CIVI('I h PR()PRIE'|A ('OLI.l:TTIVA 155 che disciplinano nei dettagli la composizione degli organi, l'elezione dei rappresentanti, la contabilità e finanche il patrimonio dell'ente, assegnando a questo anche "i beni demaniali su cui si esercita il diritto di uso civico in favore degli utenti", con evidente contraddizione di principio. Il motivo di questa pletorica normazione è presto detto: la massima parte di questa disciplina ripete pedissequamente quella di uno statuto comunale e intende creare nell'ente di gestione delle terre civiche quasi una replica dell'ente Comune. La miglior prova è data dal fatto che quasi tutti gli articoli dello statuto-tipo sono detti "non necessari per i demani civici comunali", appunto perché già contenuti nello statuto dell'ente che li amministra, le cui caratteristiche si assumono a modello. Così facendo, la delibera individua due regimi differenziati, uno per i "demani comunali", l'altro per tutte le altre situazioni di proprietà collettiva. Il primo regime è gratificato di una disciplina più semplice del secondo, ottenuto facendo eccezione ad una lunga serie di norme via via indicate dalla delibera come "non necessarie", perché replicano pedissequamente le eguali norme attinenti alla formazione e al funzionamento degli organi del Comune. Attraverso una tecnica normativa non limpidissima, l'effetto della delibera n. 1595 del2072 è dunque quello di riportarela tipica organizzaz\one del Comune come unico modello perseguibile dagli enti esponenziali di tutte le proprietà collettive di diversa titolarità, quasi che questi debbano necessariamente replicare i primi nella modalità di costituz\one degli organi, nel riparto di competenze, nei criteri di legittimità della loro azione amministrativa, eccetera. Ciò conferma la veridicità dell'assunto delle università agrarie ricorrenti: per come è stato scritto nella delibera, Io statuto-tipo era fatto per imporsi innanzitutto a loro, visto che la gestione delle terre civiche titolate al Comune, per avvenire attraverso le procedure individuate dagli statuti comunali, era formalmente eccettuata dal rispetto delle norme di questo strumento uniforme. Allo statuto segue poi nella delibera un regolamento-tipo, che menziona espressamente le comunanze agrarie e che, pur in soli sette articoli, detta una disciplina parimenti stringente circa l'esercizio dei diritti col- lettivi (18). (,t) L'art. 3 dispone ad esempio che gli aventi diritto presentino istanza per I'uso del il3l dicembre di ogni anno. L'istanza viene poi vagliata dal Comune o, per le pascolo entro 156 4. Statuti-tipo e subordinazione tra enti amntin,istrativi. Un modello inapplicabile alla proprietà collettiva. La predisposizione da parte di un ente di nrodelli per le norme di funzionamento di altri enti è chiaro indice della subordin azione amministrativa di questi rispetto ai primi, anche quando la materiale redazione delle norme flnali spetti loro. Ciò vuole la logica, e ciò specifica oggi la giurisprudenza amministr:ltiva (,r), seguendo un percorso tracciato dalla Corte costituzional: (20). E lecito che gli enti di gestione della proprietà collettir,'a siano subordinati alla Regione, attraverso la posrizione di statuti e regolamenti-tipo? Ovviamente no: ciò condurre:bbe alla totale con.formazione della proprietà collettiva, e quindi alla scomparsa del soggetto titolare, che è indissolubile dal proprio diritto. Nella proprietà privata la relazione giuridica che legzr il soggetto al bene è autonoma tanto dal soggetto che dal titolo di acquisto, poiché risponde a una struttura di legge quella 832 del Codice - le voltedell'art. civile cui viene ricondotta tutte in ,cui si possa riconoscere al proprietario pienezza e assolutezza di poteri sulla cosa. ASBUC. dal Consiglio direttivo determinando per ciascun utente l'area di pascolo che potrà adoperare per I'anno a venire. Norme non meno dettagliate soncl quelle disposte dall'art. 2 per il legnatico. ('') Si veda la recente Tar Lazio Roma. Sez. Il-bls. 10 ottobre 2014 n.10263. Con questa sentenza il Tar ha respinto il ricorso proposto dal COREIPLA (Consorzio nazionale per la raccolta. riciclaggio e recupero degli imballaeei in plastica) contro un decreto del Ministero dell'Ambiente. adottato di concerto col Ministero dello Sviluppo economico. che approvuì\'a lo schema tipo dello statuto dei consorzi per la qi:stione degli imballaggi. Il - di imprese- riteneva ricorrente un consorzio tale schema-tipo lesivo delli sua autonomia. Il Tar del Lazio riqetta il ricorso come infondato. perché, derivando la subordinazione clel consorzio al ministero dalla stessa norma che ne presiede la costituzione obbligatoria. consegue chiaramente il potere del ministero stesso di esercitare la propria vigilanza su cli esso non solo attraverso un controllo a posteriori della sua attività, ma anche attraverso la predisposizione a priori di modelli di statuto o di re_eolamento. (r0) C. Cost. Sentenza 24 luglio 2009 n. 217.5i trattava del giudizio in via principale promosso da alcune reqioni per l'illegittimità costituzionale della legge (d.l,es.3 aprile 2006 n. 1-52- norme in materia ambientale) che disponeva tra l'altro la formazione dei consorzi obblieatori di cui alla sentenza della nota precedente. Tra le molte censure sollevate. vi era la contrarietà all'art. 118 Cost. della norma che prevedeva che iconsorzi fossero costituiti a base nazionale e retti da uno statuto redatto sulla base di un modello predisposto dal Ministero dell'Ambiente. escludendo qualsiasi partecipazione delle reqioni. La Corte costituzionale dichiarò infondata la censura argomentando ancora un:r volta in tema di subordinazione: poiché la tutela "dell'ambiente e dell'ecosistema" è rimessa alla potestà leeislativa esclusiva dello Stato dall'art. 117 Cost.. ne consegue che anche le lunzroni amministrative su tali materie possano essere attribuite allo Stato, e rientrano ovvi:Lmente tra queste tanto la predisposìzione di uno schema di statuto-tipo, quanto il controllo sul suo rispetto. LISI CtVI(ll t: PR()PRIE]A (lOlt.F.TllVA 157 La proprietà privata che si acquista per compravendita o donazione banale evidenziarlo è la stessa relazione giuridica che - originario con l'usucapione. Essa si acquista mortis causa o a titolo può conseguire anche da un titolo perfezionatosi in un ordinamento anteriore al Codice: è proprietà privata anche il diritto che si accresce a colui il quale, avendo uno tra i diversi domini possibili sulla cosa rispetto a un ordinamento anteriore al Codice, ha visto estinguere i diritti dominicali diterzi concorrenti sullo stesso bene, per come nella quotidiana esperienza del giudrzio drnanzi al Commissario per la liquidazione degli usi civici. La proprietà collettiva, al contrario, è una relazione giuridica che non è autonoma rispetto al suo titolo di costituzione. Ogni situazione collettiva è flglia della propria consuetudine, che individua i legittimati all'esercizio dei diritti di godimento sulla cosa e stabilisce la latitudine dei loro poteri. Anche per questo la proprietà collettiva è inalienabile: non essendo autonoma dal titolo, essa è una situazione giuridica che non può essere trasferita per come era nel patrimonio del cedente, a differenza della proprietà privata. Soprattutto, la proprietà collettiva non è autonoma dal soggetto titolare. Quella stessa consuetudine che descrive la natura dei diritti individua la collettività che ne è titolare in quanto in essi si identiflca. L'insieme dei legittimati non ha una proprietà, bensì è una proprietà: differenza spesso ignorata dalla pubblica amministrazione, statale come regionale. Vero pertanto che ogni bene è sottoposto a un regime amministrativo nel nostro ordinamento, ma vero anche che il regime amministrativo del bene in proprietà collettiva non può essere della stessa specie di quello concernente il bene in proprietà individuale: entrambi si sostanziano in vincoli all'esercizio del diritto di proprietà, quindi nella compressione dell'autonomia del titolare del diritto, ma ciascuno di essi servé finalità diverse e incontra limiti diversi. Il limite alla conformazione del diritto di proprietà privata è dato dall'espropriazione larvata: il vincolo all'esercizio del diritto del proprietario non può arrivare fino al punto da privarlo del tutto della possibilità di sfruttare economicamente il bene (21). (.t) È qui appena il caso di citare I'ormai consolidata giurisprudenza della CEDU in materia, estrinsecatasi anche in due vicende italiane: sez. II, Soc. Belvedere alberghiera c. 1,58 s,\( ì( ìl Il limite alla conformazione della proprie:tà collettiva è problema più complesso. La proprietà collettiva, si insegna, è alternativa alla proprietà individuale quanto alla possibilità di reahzzazione economica del bene, provenendo da un ordinamento precapitalistico: se così è, il limite tra conformaziorle e espropriazione Iarvata deve disegnarsi diversamente. L'unico criterio disponibile, una volta escluso quello della possibilità di sfruttamento economico del bene, resta pertanto quello dell'autonomia di poteri sulla cosa i termini che individuano la collettività e della sua esclusività, Jproprietarra. E quindi dubbio che sia meramente conformativo un atto amministrativo che in ipotesi si sostituisczr integralmente alle consuetudini della singola proprietà collettiva e descriva minuziosamente e inderogabilmente le norme sui legittimari o sulle modalità di percezione delle utilità della cosa. Il problema non è dato dalla natura dello s;trumento in sé, ma dalla sua pervasività ad escludere ogni autonomia nell'ente esponenziale della collettività. Non sarebbe di per sé illegittimo uno statuto-tipo che indicasse ai singoli enti delle materie da inserire obbligatoriamente nei propri statuti. senza per questo dettare una disciplina specifica, o che contenesse solo direttive o che, ancora, offrisse ai soggetti esponenziah della proprietà collettiva delle alternative di regolamentazione tra cui scegliere. Lo statuto-tipo della Giunta regionale delle Marche, al contrario, contiene norme specifiche e stringenti, che r:spropriano gli enti di gestione delle terre civiche di qualsiasi autonomia nel decidere la propria organtzzazione, la quale resta costrettil in un modello in tutto eguale a quello del Comune e perciò stesso eccessivo e ridondante. Lo stesso deve dirsi per il regolamento-tipo, che raggiunge esiti veramente paradossali allorché detta limiti precisi per I'esercizio dei diritti civici, determinando le quantità mzrssime di legna da ardere per nucleo familiare e indicando addirittura come furto la vendita da parte del singolo utilista della legna percepita oltre questa quota (22). Italia. 31524196 e sez. III. 12 gennaio 2006. Sciarrotta c. Italia. 11793102. A queste sirichiama costantemente la giurisprudenza amministrativa. da ultimo Consiglio di Stato sez. I\'.3 luglio 2014, n.3346 (con nota Pardolesi su Foro it..2014. III. -s90). (t2) Art. 2 c. l1 del reqolamento-tipo: "Qualora risulti che un utente ha cornmercializzalo la lesna derivante dall'esercrzio del diritto di leenatico è sospeso dall'elenco degli utenti ai sensi e con le modalità previste dallo Statuto. In caso di recidiva la sospensione tlst ('lVI('l tr PR()PRItrlA ('()Ll,ti'ITIVA 159 5. I poteri di controllo e gestione della l. n. 1766 del 1927 e le competenze regionali. Primi profili di illegittimità della delibera. La delibera 1-59512072 è innanzitutto illegittima per eccesso di potere rispetto alla stessa l.r. n.37 del 2008, che delegava la Giunta (art. 8) la predisposizione di uno "schema tipo degli statuti e regolamenti previsti dagli articoli 43 e 59 del r.d. 26 f.ebbraro 1928, rr. 332" , quindi solo di un modello generale che potesse servire da guida ai singoli enti nella autonoma redazione dei propri statuti, non di un complesso normativo organico e senza alternative. Occorre sottolineare un aspetto fondamentale della disciplina vigente: il controllo che la legge del 1927 e il suo principale regolamento attuativo costruisce per gli enti esponenziah della proprietà collettiva può avvenire solo su determinate materie e solo a posteriori, atto per atto, e non a priori, come per def,nizione in qualsiasi regolamento-tipo. Le Regioni dimenticano spesso che questi enti hanno potere di gestione delle terre civiche solo perché l'ordinamento ritiene necessaria una veste giuridica per la collettività titolare, la quale resta proprietaria a titolo originario dei beni. Un principio che era ben presente alla legislazione del 1927, la quale è ancora oggi fonte dei poteri amministrativi delle Regioni sulle terre civiche, in un ambito che è pacificamente di legislaz\one concorrente ai sensi dell'art. 117 Cost. Per dimostrarlo, è sufflciente leggere le norme su cui la delibera della Regione Marche fonda la propria legittimazione a dettare lo statuto e il regolamento-tipo: gli artt. 43 e 59 del r.d. n. 332 del 1928. si L'art. 43 stante il disposto del precedente art. 42 1zz7 riferisce alle sole terre di categorra a), ossia a quelle accertate come prevista dallo Statuto è raddoppiata. La vendita abusiva di legna derivante dal taglio della presa che assicura il diritto di legnatico è considerato furto e denunciato all'autorità giudiziaria come tale. Il Consiglio direttivo (Comune nel caso di demani civici comunali) può deliberare ulteriori sanzioni, anche pecuniarie, in relazione alla gravità del fatto commesso". Non è qui la sede per trattare diffusamente delle cd. norme penali in bianco, le quali aflìdano a altre norme la descrizione della fattispecie da esse prevista e punita, ma è ben difficile che a definire una data condotta come di rilevanza penale possa essere l'atto amministrativo di un Comune o di una ASBUC, quale sarebbe il regolamento una volta adottato. Che poi I'abuso del diritto del partecipante integri in sé la fattispecie del turto, è cosa assai discutibile, visto che comunque il soggetto attivo del reato non prenderebbe una cosa altrui, ma si servirebbe oltre modo di una cosa (anche) propria. (..) ll quale stabilisce l'obbligo per il Commissario, una volta approvato il piano di massima per la destinazione delle terre, di emanare un decreto nel quale indicherà gli usi civici accertati sulle terre assegnate alla sola categoria a) (bosco e pascolo). 160 SACiCìI di bosco e pascolo dal provvedimento commissariale. La norma dispone che i comuni e le associaziont agrarie, dopo aver ricevuto comunicazione del decreto con cui si accerta I'esistenza di determinati diritti delle popolazioni "provvederr nno alla compilazione anzi "in armonia"dei regolamenti di uso civico'" in conformitiì - per il godimento con i piani economici dei boschi e dei regolamenti dei pascoli montani di cui alla legge forestale, la n. 3267 del 1923. Gli stessi regolamenti avrebbero dovuto poi essere sottoposti all'esame dei Consigli regionali d'economia. I-'art. 59 dispone invece per le associazioni agrarie: queste provvedono all'amministrazione dei beni di loro spettanza "in conformità cti statuti e regolamenti loro particolari". La norma li voleva sottopo,sti a revisione entro un anno dall'approvazione del regolamento al flne, ancora una volta, di "armonrzzarne" le disposizioni con quell,e di legge. Anche il legislatore totalitario non parti'ra quindi dall'ipotesi di schiacciare sotto una regolamentazione caprillare consuetudini diverse, le quali avevano costituito nel temp o paesaggi diversi (per come direbbe oggi il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio) o, ancora, modi diversi dt resilienza rrspetto a uno specifico territorio, come direbbe I'odierna teoria economica. Non che ciò fosse per motivi nobili: all'ordinamento corporativo era semplicemente indifferente il pluralismo delle proprietà collettive quanto a organizzazione e funzioni. L'intervento dello Stato giungeva in un momento successivo, a stabilire prezzi, acquisti obbligatori e limiti alla produzione, e in questo non faceva differenze tra proprietari privati e proprietari collettivi. La disciplina degli usi civici era quindi zrccuratamente lontana da libertà e autonomia quanto ogni altro aspretto dell'ordinamento fascista: lo Stato era lì per controllare e annullare senza rimedio le norme di statuti e regolamenti i quali fossero per avventura contrari alle leggi e ai regolamenti generali. Si trattava però di un controllo a posteriori, caso per caso, il cui scopo non era quello di annichilire la specificità delle singole situazioni di diritto collettivo in una struttura artiflciale e eguale per tutte. Inutile pertanto cercare il potere per la Regione di imporre statuti-tipo nella legge statale di riferimento: esso non esiste né nella lettera degli artt.43 e 59 del r.d. n. 332 c\el1,928, né può essere recuperato in via di interpretazione dalle tante norme della 1. n. 1766 del 1927. che ponevano altri poteri di controllo nelle mani dello Stato, sotto la varia specie del Ministero dell'Economia, dei TISI ('IVI('1 E PIì,OPI{II:TÀ C'OI-I,ET'IIVA 161 Consigli regionali di economia e di tutte le altre manifest azioni dell'economia corporativa debellata fin dai decreti luogotenenziali del 7944, per l'ovvia ragione che detti poteri non esistono più nell'ordinamento costituzionale repubblicano. Ad essi si sostituiscono altri poteri, in parte espressamente conferiti alle Regioni dalle leggi statali successive, in parte derivanti da una lettura costituzionalmente orientata della l. n.1766 de|1927, tutti accomunati da una finalità opposta a quella perseguita dall'ordinamento corporativo fascista: tutelare la situazione collettiva in sé, come parte di quel pluralismo che è naturale dinamica dell'ordinamento democratico. 6. La censura dei ricorrenti e la ntotivazione del Tar Marche. La proprietà collettiva definita a partire dal modello di gestione dei beni. Critica. I ricorrenti dinanzi alTar Marche hanno invocato la violazione l'art. 3 della l. n.97 del 1994 (c.d. ultima legge sulla di una legge montagna) - tra le più importanti nel riconoscere le peculiarità degli ordinamenti originari della proprietà collettiva, ritenendo che questa censura fosse assorbente di ogni altro rilievo. La norma impone alle regioni di riordinare la disciplina delle "organtzzazioni montane anche unite in comunanze" ai fini della valortzzazione dei "beni agrosilvopastorali in proprietà collettiva indivisibile ed inusucapibile". Sulla base della stessa norma, le regioni devono conferire alle organtzzaziont la "personalità giuridica di diritto privato". Le regioni devono quindi disciplinare con propri provvedimenti taluni aspetti rilevanti di queste organizzaziom, fermo restando che le stesse sono rette anche da antichi laudi e consuetudini e godono di piena autonomia statutaria, e che alle proprie deliberazioni deve essere rimessa la disciplina dei requisiti oggettivi di apparten enza. La norma ricomprende nel concetto di "organizzazione montana" le comunioni familiari disciplinate dalla precedente legge sulla aspetto rilevante nel montagna, la n. 1102 del 3 dicembre 1971, e le associazioni di cui alla legge n.397 del 1894, ove caso di specie - in territorio montano. I ricorrenti ricadono quasi ovviamente poste tutti in quest'ultima categoria: naturale quindi attaccare la delibera per violazione della legge n.97 del1994, atteso che con essa la Regione si sarebbe sostituita totalmente alle organtzzazioni montane 162 s.\(ì(;I non solo nella regolamentazione dell'esercizio degli usi, ma anche, come abbiamo visto, nell'enucleazione dei criter:i oggettivi di appartenenza degli utenti alla collettività proprietarira. Il Tar di Ancona respinge il ricorso perchti infondato: la delibera non viola I'articolo 3 della l. n. 97 del1994, poiché la fattispecie presa in considerazione da questa norma sarebbe intrinsecamente diversa da quella degli articoli 43 e 59 del r.d. n.332 del 1928, come richiamati dalla l. n.37 del 2008 della Re$one Marche, i quali riguardano gli enti di gestione delle terre di us,o civico. La motivazione della sentenza, invero scarna sul punto, soggiunge che (corsivi nostri): "gli usi civici, a differ,enza della proprietà collettiva, configurano diritti di godimento spettanti ad una determinata collettività su beni destinati ad uso civ,[co. Tali diritti collettivi di godimento sono enucleati e tutelati rJalla l. n. 7766 del 1927, che li distingue in essenzialt e utili, disciplinando, altresì, il procedimento di verif,ca e liquidazione degli usi civici, previa denuncia degli usi esercitati. Gli ttsi civici, amministrati dall'ente di riferimento della collettività alla quale tali diritti spettano, non configurano, tuttaviu, Ltna proprietà collettiva di atiritto pubblico. Per tale ragione!, I'ambito di applicazione dell'art. 3 della l. n. 97 del L994, in quanto concernente le organtzzaziont montane per la gestione di beni in regime di proprietà colletliva indivisibile ed inusucapibile, è da ritenersi estraneo ed eterogeneo rispetto all'oggetto della deliberazrone impugnata con I'attrl introduttivo del giudizio, concernente piuttosto gli enti che amministrano terre destinate ad usi civici, nella surrichiamata accezrone". La nozione di proprietà collettiva di diritto pubblico ha una sua autorevole e consolidata tradizione dottrinale, che il Tar di Ancona sflora soltanto, per arrivare a conclusioni antitetiche (2a). Per questa dottrina, è proprietà collettiva di diritto pubblico tanto quella delle terre di bosco e pascolo (categoria a) assegnate al Comune o alla frazione e gestite da questi stessi organi ammin,istrativi come enti esponenziali della comunità cittadina o frazionale, tanto quella (t-') Il riferimento è ovviamente a V. Cerulli lrelli, Proprietò ptubblica e dirirti colletriv'i. Padova, Cedam 1983, soprattutto pp. 265-26'7, ove si sostiene la tesi della proprietà pubblica. amministrata dal Comune, tanto per i beni che originariamenrte appartengono a una comunità d"abitanti, tanto per quelli che giungono al Comune in virtir dc'lle procedure di affrancazione e di scioglimento delle promiscuità. TISI []IVI('I I PITOPRIT1TÀ COLLIII'TIVA 163 delle terre, di qualsiasi categoria, di proprietà di una comunione agnatizia o comunque chiusa, che trova il suo ente esponenziale in un'associazione agraria. Per il Tar di Ancona, la proprietà collettiva di diritto pubblico si identiflca solo in quest'ultima ipotesi, mentre le terre civiche gestite dai comuni o dalle amministrazioni separate frazionali sfuggono alla nozione. Da qui il duplice regime che iI Tar Marche individua nella delibera impugnata e, a fortiori, nella 1.r. n. 37 del 2008. malgrado la motivaUna soluzione che sembra procedere zione nulla dica sul punto - da una diversa intensità della relazione - avrebbe sui beni in ciascuna delle due giuridica che la collettività situazioni: maggiore nella proprietà collettiva dell' organtzzazione montana,, in cui l'ente esponenziale sembrerebbe avere la prenezza di poteri sulla cosa che spetterebbe al proprietario privato, ove questa non fosse inalienabile e indivisibile; minore nell'altra, ove il bene è collettivo perché aperto a un insieme esteso di legittimati, ma solo per l'esercizio di diritti specifici e determinati. Questi, seguendo il lessico della pronuncia, spettano alla collettività e "sono amministrati" dall'ente di riferimento di questa (il Comune o l'ASBUC); quelli sono invece in un regime di proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile, e trovano nell'or garlrzzazione montana il soggetto "gestore". La tesi può sembrare corretta solo a una vista assai superflciale. Essa parte da un dato indubbio: l'associazione agrafia è una persona giuridica appositamente costituita per la gestione di un compendio in proprietà collettiva, mentre il Comune gestisce le terre civiche in quanto rappresentante legale della comunità a qualsiasi flne. La differelza tra queste due situazioni è tuttavia ravvisabile solo sull'ordinamento particolare deLla proprietà collettiva, non su quello generale della legislazione statale di disciplina, che non contiene alcuna base normativa che autor\zzi tale distinzione. Per "associazioni agrarie" la legge del 1927 intendeva difatti tutte quelle entità organizzative "diverse e separate" dalla frazione o dal Comune costituite appositamente per la gestione dei beni civici. Al \927 l'esempio di gran lunga preponderante per qualità e quantità era quello delle università agrarie di cui alla legge n.397 del 1894 per gli ex domini pontifici, specie cui appartiene del resto la massima parte dei ricorrenti davanti al Tar di Ancona. La legge t64 SA(i(iI n. 1766 del7927 non ha immediatamente soppresso le associazioni agrarie, ma ne ha proibito la costituzione di nuove, lasciando in realtà alla discrezionalità (al tempo pressoché assoluta) del Ministero dell'Economia nazionale di mantenere o sciogliere le singole associazioni esistenti (25). Era un regime prodromico alla soppressione degli assetti collettivi, che portava in sé la totale indifferenza verso i loro ordinamenti particolari: ove la singola associazione agraria fosse stata in concreto strumento efflcace dell'economia corporativa, essa sarebbe sopravvissuta fino a quando non si fosse lrovata una migliore sistemazione per quel territorio, altrimenti sarebbe stata sciolta alla prima occasione, e la gestione dei diritti civici sarebbe passata al Comune, per subire poi Ia liquidazione nei ter:mini ordinari della legge n. 1766. Proprio per questo, tuttavia, la legislazione del 7921 non poneva la distinzione tra terre destinate all'esercizio di usi civici e proprietà collettive di diritto pubblico: tutte erano proprietà collettive, essendo costituite dalla titolarità originaria di terre da parte di una collettività, e tutte avrebbero dovutc, seguire lo stesso destino, la liquidazione funzionale alla creazione di un'economia corporativa. La legislazione della Repubblica non a c:aso ha invertito sostanzialmente la tendenza, riconoscendo personalità giuridica a altre formazioni, quali le regole cadorine con il c[.lgs. 3 maggio 1948 n. 1104 e le "orgafirzzazroni montare", prima con la l. 25 luglto 1952 n. 991, e poi con la 1. 3 dicembre 1977 n. 11,02, tutte richiamate dal disposto dell'art. 3 della l. n.9l del 1994. Si è quindi venuto a creare un secondo regime di personalità giuridica per qli enti che, diversi dai Comuni e dalle ASBUC, gestiscono beni di p,rsplietà collettiva, ma non si è ovviamente scalfito il principio di lbndo: la proprietà dei beni è originariamente della collettività, né può essere trasferita alla persona giuridica che l'amministra. Qui è l'errore del Tar di Ancona: defìnire la proprietà collettiva a partire, dalle scelte che il legislatore ha variamente fatto per la gestione di assetti il cui pluralismo ordinamentale egli non ha mai inteso considerare. T]SI 7. (]IVI(-I E PRoPRIIiTÀ (]OI-LE'|TIVA 165 La definizione di proprietà collettiva in olcune sentenze recenti del Consiglio di Stato. Un errore cui il Tar Marche è stato tuttavia costretto dalla mancanza di definizioni normative della proprietà collettiva adatte alla legislazione attuale che, in ossequio alla Costituzione, tutela gli o almeno non assetti collettivi in quanto tali, e non li destina alla liquidazione e alla trasformazione in proprietà privata. La prova, come dicevamo in premessa, è in una vicenda che solo recentemente ha trovato conclusione, quella della ricostituzione della Regola di Gallio, sull'Altopiano di Asiago, in cui si notano significative analogie col percorso argomentativo tenuto dal Tar di Ancona, che hanno condotto tuttavia a un esito opposto (26). La ricostituzione fu chiesta da un comitato promotore, che riuniva i membri di famiglie le quali asserivano di far parte dell'anil n. 225 del25 tica Regola, sciolta come le altre da un decreto novembre 1806 del Vicerè del Regno italico, Eugenio di Beauharnais. La Regione Veneto l'ha negata, ritenendo che i proponenti abbiano mancato si legge nella pronuncia di primo grado (") - condizioni essen-la "produzione dimostrativa dell'esistenza delle ziali richieste dalla l.r. n. 26 del 19 agosto 1.996". Tra queste condizioni vi è la ricognizione dell'antico patrimonio regoliero, a cui, per disposto dell'art. 5 della legge regionale, appartengono "i beni agro-silvo-pastorali intavolati nel libro fondiario o iscritti nel registro immobiliare a nome della stessa o che risultano comunque di sua pertinenza al31 dicembre 1.952" anche se la Regola non ne risultasse intestataria ad oggi,nonché i beni "attualmente amministrati dai comuni in base al decreto vicereale n. 275 del25 novembre 1806, se riconosciuti". Su questo inciso si basava la difesa del Comune di Gallio, interveniente nel giudiziol. i ricorrenti non potevano fornire prova dell'appartenenza alle antiche famiglie dei beni oggi intestati al Comune, i quali sarebbero stati di spettaruza orrginaria dt ttttte le popolazioni che vivevano sul territorio comunale. necessariamente (,o) Cons. Stato Sez. V. Sentenza 4 agosto 201,4,n.4134. Si vedano anche, con eguale motivazione,le sentenze n.41,31e n.4138 dello stesso qiorno. riguardanti rispettivamente le ricostituende Regole di Roana e di Asiago. (t') Tar Veneto Sez. I. Sentenza 29 gennaio 2010, n.202. 166 SA(ì'iI Pendente il ricorso in primo grado, giunge in Consiglio di Stato I'appello verso una precedente sentenza dellc, stesso Tar Veneto, con cui si respingeva il ricorso di taluni originari di Gallio contro la vendita, disposta dal Comune, di terreni di uso civico. Il comitato promotore per la ricostituzione della Regola si costituì nel giudizio d'appello affermando di essere stato ingiustamente pretermesso in primo grado. Il Consiglio di Stato dichiarò inammissibile I'interlocuzione del Comitato promotore per la ricostituzione della Regola, affermando la totale estraneità della proprietà regoliera all'ambito degli usi civici (2s1. Il Tar Veneto richiamò questa statuizione del Consiglio di Stato nella sentenza con cui successivamente respinse il ricorso contro la delibera regionale che negava la ricostituzione della Regola, ma arrivò a questa decisione su basi diverse. Segnatamente. il Tar ravvisò che non fosse stata "dimostrata certe z:za dell' esistenza in Gallio di una proprietà collettiva privata ed ereditaria, di origine regoliera, dotata di un proprio statuto o laudo che, per effetto ed ai sensi del decreto vicereale 25 novembre 1806 n.225 sia passata in amministrazione al Comune di Gallio". Il Consiglio di Stato conferma, con la pronuncia del 2014, Ia sentenza del Tar Veneto, ma rilegge il difetto rJi prova dell'antica esistenza di una Regola di Gallio sulla base del principio asserito peraltro interlocutoria nella sua sentenza del 2009 afferma - allodialeedei che "...per il riconoscimento della proprietà beni rivendicati dall'appellante Comitato promotore della Regola di Gallio, manca certamente la prova decisiva e documentale, non risultando essere stati reperiti nei vari archivi esistenti atti di riconoscimento dichiarativo o di acquisto cli terre a fovore di ttna antica collettività c:hittscr stanziata sul territorio di Gallio. Agli atti, dunque, non sussistono elementi documentali risolutivi che possano attestare 1'effettiva sussistefiza dei presupposti per la sottoposizione dei terreni oggetto del giudizio ad un regime giuridico prit,a(:t) "Tali elementi non trovano alcuna corrispondenza con quanto previsto dalla legge reeionale Veneto 22 luglio 19r)1,n.31, dedicata, invece. alla materia degli usi civici. Si tratta di anrbiti sostanzialmente distinti, come il comma 3 dell'articolo 2 della legge regionale n. 3l del 1994 in pratica conferma, assegnando il titolo di godimento alla ueneralità degli abitanti di un comune o di una frazione: ciò testimonia come la distinzione concettuale sopra richiamata sia stata tenuta ben presente sia dal legislatore nazionale sia da quello regionale, che hanno usato categorie diffèrenti per inquadrare i due diversi istituti". Cons. Stato Sez. V, Sentenza )3 marzo 2009. n. 7745. nn.11 e 42. tlSI ('I\/I('l E PIìOPRIL:TA ('OLI.ETTIVA r67 tistico con godimento a .favore di una collettività chiusct composta di soggetti oggettivamente determinati quali discendenti dei fuochi famiglia originari". I corsivi sono nostri, e mostrano chiaramente le conseguenze cui il Consiglio di Stato arriva nel tentativo di separare nettamente uso civico e proprietà collettiva: questa diventa proprietà privata allodiale di una comunità agnatrzia, di cui occorre perciò dimostrare la preesistenza rispetto alla situazione, altrimenti naturale, di uso civico. Una soluzione che contrasta con i principi di legge e, in parte, con la realtà storica di queste esperienze. Con la legge, perché dinanzi ad essa queste due specie di proprietà collettiva sono eguali: la proprietà regoliera è indivisibile, inalienabile, inusucapibile e sottoposta a vincolo ambientale al pari di quella della popolazione del comune o della frazione sui propri demani civici (e nei fatti ben di più, perché tali vincoli sono più efficacemente implementati). Se guardiamo al regime amministrativo di esercizio della proprietà non troviamo delle differenze sensibili tra la proprietà collettiva della comunità aperta gestita dal Comune o dalla Frazione e quella delle Regole. A rigore, queste sono tutte "associazioni agrarie" per la l. n. 1766 del 1921, e traggono da questa la loro disciplina finché non arrivi un'altra legge a dettarne una diversa, come è stato per le Regole del Cadore con la legge statale del 1948 e per come è ora per tutte le Regole variamente esistenti nel territorio veneto con la l.r. n. 26 del 7996 (2e), nei limiti, ovviamente, in cui un regime amministrativo può essere dettato dalla legislazione regionale. Con la realtà storica, perché la proprietà collettiva per famiglie (rr) L'esame della legislazione statale fatto dal Consiglio di Stato nella sentenza n. porta, del resto, agli stessi esiti. Il Consiglio di Stato rileva come il regime delle Regole fosse in tutto indistinguibile da quello degli usi civìci prima del d.lgs.3 maggio 1948 n. 1104, che dispone solo per il Cadore, e che non era estensibile ad esse la deroga alla liquidazione prevista in sostanza per le Partecipanze emiliane dall'art.6-5 del r.d.26 febbraio condivisibile del Consiglio di Stato, è stata la successiva 1928 n. 332. A giudizio - a queste organizzazioni montane un regime legislazione nazionale e -regionale a dare speciale. che tuttavia non prescinde dall'attribuzione in concreto a ciascuna di esse della personalità giuridica di diritto privato. Ove questa non sia stata ancora conferita, il regime non si distingue da quello degli usi civici. principio che il Consiglio di Stato utilizzò per escludere il Comitato promotore della Regola di Gallio da una controversia amministrativa che aveva ad oggetto I'impugnativa della delibera di sdemanializzazione e vendita di un terreno gravato da usi civici. Il Consiglio di Stato affermò in quella sede che un possibile conflitto si sarebbe potuto avere solo con una Regola già ricostituita, non con una ancora in fieri secondo il procedimento regionale. 174512009 168 sA( ì(ìl e la proprietà universale dei naturali residenti possono apparire radicalmente diverse solo da una prospettiva moderna. Se osserviamo queste situazioni nella prospettiva offer:ta dall'ordinamento che le ha formate, la differenza è spesso destinata a sfumarsi, flno a diventare irriconoscibile. La storia mostra che dove la proprietà collettiva si è organrzzata per famiglie, queste comprendevano tutti i naturali di un luogo e che, in taluni casi, la proprietà agnatizia è la forma in cui si è sviluppata la proprietà universale, di cui ha mantenuto lo statuto fondamentale dell'inalienabilità e dell'indivisibilità (:o). 8. Conclttsioni. []n criterio perdente: I'inten:sità dei poteri sulla COSA. Il Tar Marche esclude pertanto la proprietà collettiva dall'uso civico dicendo I'esatto contrario della V sezione del Consiglio di Stato. Per il Tar di Ancona la proprietà colletti'va pubblica è quella della comunità chiusa, mentre per il Consiglio di Stato è solo quella del Comune, visto che la proprietà della comunità chiusa è, proprio per questa caratteristica, una proprietà privata. Non è qui rilevante che il Tar di Ancona non segua il Consiglio di Stato, o viceversa. Il punto da evidenziare è che entrambe le tesi sono egualmente lontane dalla lettera della legge e entrambe sono suggerite alla giurisprudenza dalle necessità deflnitorie che I'ordinamento costituzionale pone in misura crescente riguardo alla proprietà collettiva. La deflnizione di un oggetto giuridico fa parte della sua disciplina. Se dalla legislazione murattiana del 1806 flno alla l. n.7766 del7927 si è fatto ricorso unicamente alla dizione di "usi civici" per designare le situazioni di proprietà collettiva, ciò non è stzrto per caso, ma per evitare nel modo più assoluto la parola "proprietà" e (ro) Come nella vicenda della proprietà collettiva di Lr:vigliani di Stazzema. in provincia di Lucca, nata da un contratto det 1795 con cui gli utenticli una proprietà universale acquistarono [e terre civiche all'esito delle leggi di riforma del Gra,nduca Pietro Leopoldo, e si impeenarono reciprocamente a tenerle sempre pro irtdiviso, generando così una proprietà collettiva agnatizia. Mi permetto di rinviare al mio articolo su questo stesso Arcltivio (R. Volante, I Berti Sociali eli Levigliatti. Una singolare esperienza di proprietti collettit'tt. in Archivio Scialoja-Bolla, 1, 2012, p 175). tiSI ('lVI(lI L PR(lPIlIIffA ( ()l.t.Iil"flv^ 169 tutto ciò che questo termine avrebbe portato con sé, dalla prenezza dei poteri sulla cosa alla loro esclusività al titolare, che il legislatore non voleva fossero riservate a situaziont non alienabili né divisibili. Definire gli assetti collettivi come "usi" consentiva poi di ricostruirne la natura giuridica come qualcosa di esterno al diritto di proprietà, di cui non sarebbero riusciti a scalfire l'essenza neanche dopo secoli di coabitazione. Mere incrostazioni sull'assolutezza det poteri proprietari,, gli "usi" sarebbero stati immediatamente e facilmente "liquidabili", almeno quanto sarebbe stato concettualmente difflcile "dividere" una "proprietà collettiva". Orientata unicamente alla loro estinzione, questa definizione si disinteressava programmaticamente della genesi dei singoli assetti collettivi, come della loro struttura di diritti 1:i;. Pienamente autorizzato nel 1927, questo schema ricostruttivo non è più ammissibile nell'attuale ordinamento costituzionale, ed è stato messo concretamente in crisi dai tanti interventi legislativi tutti meritori, ffia tutti inevitabilmente settoriali che tutelano le situazioni collettive in quanto tali. Non è stato però ancora superato attraverso la posizione di nuove definizioni di legge: da qui i contrasti giurisprudenziali sulle definizioni esistenti, che non sono in grado di comprendere appieno le nuove discipline e colmarne le lacune. questione cenUn modello di gestione dei diritti collettivi trale in tutte Ie sentenze sin qui esaminate manca alla 1. n. 97 del 1994 come alla 1.r. Veneto n.26 del 1996 e, ancora, alla 1.r. Piemonte n.29 del 2009. Ricostruirlo in via di interpretazione dalla l. n. 1766 del1927 e dal r.d. n. 332 del1928 è tuttavia operazione impossibile. L'intento liquidatorio di questa legislazione, insito nella deflnizione degli assetti collettivi da essa adottata, la portava a dettare (.t) Un'impostazione, questa. ben illustrata da Paolo Grossi in tutti i suoi numerosissimi contributi sul tema della proprietà collettiva. Dovendo scegliere, preferisco citare da Il problenru storico-giuridico della proprietà collettiva in ltalia rn Demani civici e risorse ambientali. Atti del con.vegno, Viareggio 5-7 aprile I991 (a cura di Franco Carletti) Napoli, Jovene. 1993: " Il risultato è la Legge del'27 con tutto il suo carico pesante di artificiosa e forzosa unifornrità. Vogliamo darne un esempio manifesto'? La perniciosa dizione "usi civici" che, da allora. raccogliendo in sé realtà troppo varie e diverse. per di più sotto un'impronta nettamente pubblicistica, ha servito soltanto a confondere le nostre idee e ha contribuito allo snaturamento e alla falsilìcazione di tante situazioni fraintese nella loro peculiarità storica e giuridica. Il risultato concreto fu l'incardinamento della ricchissima esperienza italiana su un autentico letto di costrizione". (p. 12). 110 SA(i(iI non un regime per l'esercrzio dei diritti civici, bensì una disciplina per la valorizzazione economica dei beni su cui essi insistevano: il frazionamento e la concessione in enfiteusi per i terreni utilizzabili per la coltura agraria da una parte, la disciplina del capo II del titolo IV del r.d. 30 dicembre 7923 n. 326,7 (Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani) per i terreni "collvenientemente utthzzabili come bosco o come pascolo permanente". Il decreto formalmente ancora in vigore non dettava una disciplina speciale per i boschi e i pascoli di uso -civico, altro che per pochi aspetti di dettaE;lio. Tutti avrebbero dovuto essere lutthzzatt in conformità a un piano economico approvato dal Comitato forestale. Gli usi civici sarebbero stati esercitati sulla base di uno specifico regolamento, il quale però avrebbe dovuto redigersi tenendo conto "dello stato attuale" del loro godimento, allorché il Comune avesse costituito un'Azienda speciale per la gestione del patrimonio forestale. In questi termini, il regolamento si limitava a regolare I'esercizio dei diritti collettivi in modo che non intralciassero la gestione economica dei boschi e dei pascoli. Aziende forestali potevano essere costituite anche da università agrarie, comunanze, partecipanze e società di antichi originari per i boschi e i pascoli in loro proprietà. Le r;celte sulla gestione sarebbero state prese a maggioranza degli aventi diritto, e un legislatore conscio del peso storico dell'unanimitas ebbe cura di disporre che le stesse si imponessero anche allil "minoranza dissenzrente". Per il resto sarebbero state osservate Ie norme degli statuti delle singole proprietà collettive. La successiva legge del 1921 non ebbe dilficoltà ad accogliere questo simulacro di autonomia, perché, attribuendo la possibilità al Ministero dell'Economia nazionale di sciogliene tali "associazioni" allorché vi fossero motivi per ritenerle "inutili o dannose", di fatto subordinavano gli assetti collettivi alla comple:ssa architettura dell'economia corporativa. I "domini collettivi" che il r.d. del 1923 accettava come un dato di fatto dell'organi:zzazione sociale del territorio montano diventavano per la legge del 1927 una forma transeunte di proprietà, che poteva istantaneamente trasformarsi nella titolarità comunale del bene civico. Una trasmutazione sicuramente illegittima in un ordinamento costituzionale che tutela i diritti collettivi in quanto tali: essa si risolverebbe comunque nella I]SI ('IVICI E PROPRIEI-A COI-I-E-I'TIVA 171 liquidazione imperativa di una proprietà, e non farebbe differenza il fatto che ciò andasse a vantaggio non di una proprietà privata, ffia di una proprietà pubblica. È questo il problema della giurispru denza,, quanto al modello di gestione dei beni collettivi: dover considerare quel pluralismo degli assetti proprietari che la legislazione statale necessariamente non considera, nella certezza, data dalla Costituzione, che ciascun diritto collettivo viene riconosciuto e tutelato in sé dall'ordinamento. Cercare in una diversa intensità dei poteri sulla cosa un criterio distintivo degli assetti collettivi è stata, per il giudice amministrativo, la cosa più ovvia. Deriva da qui l'uso di strumenti interpretativi come la contrapposizione tra la comunità aperta e legittimata solo a diritti specifici e quella chiusa degli agnati, proprietari pro indiviso di un bene sul quale, eccettuati i poteri di disposizione, avrebbero quantomeno una pienezza di godimento analoga a quella del proprietario Privato. Un approccio tuttavia limitato, che procede da un'errata ricostruzione della proprietà collettiva. La dipendenza della situazione collettiva dal proprio titolo costitutivo implica che di esso si tenga conto nella definizione. Il diritto di legnatico del residente di un Comune è diverso dal diritto omonimo che spetta al partecipante di una proprietà collettiva agnatrzia non perché si sostanzi in una attività diversa o perché esprima una diversa intensità di poteri sul bene collettivo. Quest'ultimo non è parte di un diritto assoluto sulla cosa, almeno quanto il primo non è una servitù su una proprietà pubblica: entrambi sono derivazione dello statuto consuetudinario del bene, quello statuto che descrive il titolo di proprietà. È ta consuetudine a legittimare in alcuni contesti i residenti e in altri i membri di antiche famiglie, per come è ancora essa a escludere dall'esercizio gli uni e gti altri se non risiedono effettivamente sul bene collettivo. Una definizione dei diversi assetti collettivi che possa rispondere alle esigenze dettate dalla loro tutela non può che partire da questo dato, ma sarebbe ingiusto caricare di quest'onere solo la gìurispru denza. Il compito è del legislatore statale, il quale domettere mano a una nuova disciplina della flnalmente vrebbe proprietà collettiva, superando l'angusta prospettiva degli "usi 112 SA(i(ìI civici", che è il vero elemento perturbatore del sistema di tutela degli assetti collettivi legittimato dalla Costituzione (..). Non abbiamo tuttavia segni che ci convincano del suo interesse. (") Nuova disciplina che. beninteso, non dovrebbe passare attraverso la posizione di nuove definrzioni, ma dal riconoscimento dell'autonomia delle singole situazioni cti proprietà collettiva, le quali possono essere solo conosciute in concreto. non qualificate in astratto. Soccorre ancora I'insegnamento di Paolo Grossi: "È ora di as:;umere un atteggiamento di rispetto per questi pianeti diversi, una accettazione della loro e:;istenru u..onto i quella del diritto ufficiale. L'ipotesi teorica plurìordinamentale è, per così dire. una stracla irta di difficoltà. Su questo non v'è dubbio. E molto più semplice aftidare tuto a una legge del Parlamento nazionale. la quale, adoperando criteri della cultura giuridica utficiale, diiciplina i nostri assetti collettivi, magari liquidandoli. Io vorrei che si ric,:rdasse però il monito di un grandissimo giurista nostro, Salvatore Pugliatti, che scriveva felicemente: 'noi abbiamo il difetto di credere che tutto si possa rimediare con la falce della legge"'. I! problema storico-giuridico della proprietò collettit,a... cit., pp. 2i-28.