Provincia di Pordenone
Comune di Sesto al Reghena
Fondazione
Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone
L’ABBAZIA
DI SANTA MARIA DI SESTO
NELL’EPOCA MODERNA (SECOLI XV-XVIII)
a cura di
Andrea Tilatti
* * *
• 2012 •
Lithostampa
Con il contributo di
Comune di Sesto al Reghena
Provincia di Pordenone
Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone
L’abbazia di Santa Maria di Sesto nell’epoca moderna (secoli xv-xviii)
a cura di Andrea Tilatti
Testi di Giuseppe Trebbi, Andrea Tilatti, Flavio Rurale, Michela Catto, Giuliano Veronese,
Claudio Lorenzini, Furio Bianco, Alex Cittadella, Nadia Boz, Gian Paolo Gri.
Referenze fotografiche / Immagini
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autorizzazione all’utilizzo del 16 gennaio 2012.
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per i Beni Culturali e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia - Archivio di Stato di Pordenone, n. 4 del 28 marzo 2012.
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Archivio della Curia Arcivescovile di Udine, con l’autorizzazione della Direzione.
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Museo diocesano d’Arte sacra della Diocesi di Concordia-Pordenone, per gentile concessione.
Museo diocesano e Gallerie del Tiepolo di Udine, per gentile concessione.
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Venezia Giulia. Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli Venezia Giulia; le riprese e le riproduzioni dei beni
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riproduzione e duplicazione con ogni mezzo senza l’autorizzazione della Soprintendenza.
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ulteriore riproduzione.
Fotografi
Gianni Cesare e Giuliano Borghesan, Spilimbergo (pn)
Riccardo Viola, Mortegliano (ud)
© Comune di Sesto al Reghena (2012)
Impaginazione e stampa
Lithostampa
via Colloredo, 126 - 33037 Pasian di Prato [Udine]
tel. 0432.690795; www.lithostampa.it
L’abbazia di Santa Maria di Sesto nell’epoca moderna : (secoli xv-xviii) / a cura di Andrea Tilatti. –
Pasian di Prato : Lithostampa, 2012. – xiii, 400 p. : 31 cm.
In testa al frontespizio: Provincia di Pordenone; Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone; Comune di Sesto al Reghena
1. Abbazia di Santa Maria <Sesto al Reghena> - Sec. 15.-18. I. Tilatti, Andrea
945.3943207 (22.)
ISBN 978-88-97311-16-4
Alex Cittadella
Nel secolo dei Lumi
Il dibattito accademico sugli usi civici e sul possesso collettivo
1. Agricoltura ed economia tra modernità e permanenza: il caso di Sesto
Una ricostruzione dell’evoluzione in chiave di storia economica dell’abbazia di Sesto, in
particolare durante il xviii secolo, deve tentare di inserirne le vicende all’interno di quel vasto
movimento di riforma economico-agraria che caratterizzò in modo profondo alcune aree
del continente europeo durante il secolo dei Lumi. La parabola settecentesca della gestione
economico-amministrativa del complesso sestense, caratterizzato da un’abbazia che vantava
censi e diritti feudali su una considerevole quantità di immobili situati soprattutto in Friuli,
si colloca, infatti, in un quadro ben più ampio di quello limitatamente locale1. A partire dai
primi decenni del xviii secolo, nella patria del Friuli e nella Serenissima tutta una schiera
di “economisti”, agronomi e proprietari illuminati iniziarono ad interessarsi attivamente e
a propagare le nuove soluzioni agronomiche, tecniche e colturali, provenienti in particolar
modo dalla Francia, dall’Inghilterra e dai territori imperiali.
Nello stesso periodo, è più precisamente in quel lasso di tempo che va dal 1707, data di
elezione alla dignità di abate commendatario di Giovanni Alberto Badoer (1707-1714), al
1790, anno in cui l’abbazia di Sesto venne concessa in feudo ai nobili Bia dopo la legge di
soppressione2, il panorama economico-agrario dell’intero complesso sestense e delle ville
annesse, pur viziato da evidenti arretratezze, subì l’influsso delle novità agronomiche, culturali, tecniche, commerciali che, in quel medesimo periodo, e in modo più marcato dagli
anni Cinquanta in poi, stavano trasformando in profondità l’economia europea.
Un’accelerazione del processo innovativo avvenne nel momento in cui un gruppo di persone “illuminate”, nella patria del Friuli e nel più ampio contesto veneto, iniziò ad interrogarsi
sulle idee riformiste e ad avviare alcuni intensi dibattiti accademici sulle funzioni e valenze
dell’agricoltura, concepita come il comparto trainante dell’intera compagine economica.
Ciò avvenne grosso modo a decorrere dalla metà del Settecento, in seguito alla diffusione
delle idee illuministe e del connesso pensiero fisiocratico, stimolando un rinnovamento del
settore agrario, più o meno marcato ed esteso a seconda delle aree italiane interessate. Nel
1753 sorse a Firenze la prima società agraria della penisola, detta dei Georgofili, che promosse formali e nutrite discussioni sull’ammodernamento dell’agricoltura, l’insegnamento
agrario, la condizione dei contadini, le nuove pratiche agronomiche, le colture da introdurre
e, per quanto maggiormente interessa il presente contributo, la modificazione degli assetti
caratterizzanti la proprietà fondiaria, gli usi civici e i vincoli che gravavano sulla terra3.
Anche in ambito veneto-friulano si affermò un vero e proprio movimento agronomico
di matrice accademica e si diffuse un vivo interesse verso problematiche e discussioni simili4.
Le tematiche discusse furono molteplici e trovarono spazio esplicativo soprattutto nelle sale
delle accademie agrarie, sorte in quasi tutte le città della Terraferma. In tale frangente, a
Udine spettò il ruolo di capofila fra le città della Serenissima. Infatti, grazie all’azione di
personalità illuminate come Fabio Asquini ed Antonio Zanon, era stata fondata in seno
all’accademia cittadina5 una sottosezione esplicitamente e significativamente denominata
Società di agricoltura pratica, raggruppante al suo interno alcuni fra gli esponenti più colti e
brillanti della nobiltà e della borghesia friulane, i quali erano spesso direttamente interessati
alle discussioni, poiché possidenti di tenute di medie e grandi dimensioni6.
273
Furono innanzitutto costoro ad interrogarsi coscientemente e con cognizione di causa
circa le problematiche che affliggevano l’agricoltura friulana e i modi migliori per affrontarle e risolverle. Una breve analisi dei concorsi banditi sui “temi georgici” può aiutare a
comprendere meglio gli interessi alla base del sodalizio7. Tra il 1765 e il 1774 le principali
questioni esaminate sono la mancanza di foraggio, la penuria di legname, il dissesto idrologico dell’intera regione friulana, la mancanza di irrigazione, la situazione complessiva
dell’agricoltura della patria, la produzione della seta, la connessa coltivazione dei mori e
l’allevamento dei bachi. Tra il 1783 e il 1790, dopo che per quasi un decennio l’attività
concorsuale era stata sospesa a causa della mancanza di studiosi interessati a concorrere,
le tematiche affrontate risultano invece le seguenti: la situazione del patrimonio boschivo
e il suo sfruttamento, la limitazione e l’abolizione del pensionatico e delle altre servitù di
pascolo, la penuria di bovini e l’aumento dell’allevamento, l’individuazione di nuove fonti
di energia quali per esempio il carbon fossile8.
Pur non figurando espressamente fra i quesiti accademici, una speciale attenzione
venne riservata, sulla scia di quanto stava avvenendo nell’agronomia francese, ai problemi
più strettamente giuridici e amministrativi. «Servitù collettive, beni comunali, recinzioni,
diritti feudali, distribuzione e frammentazione della proprietà» erano al centro
dell’interesse degli accademici friulani, che puntavano il dito soprattutto sulle
diverse servitù di pascolo, sulla mala gestione del patrimonio boschivo e, in
generale, sul danno economico causato dalla presenza di ingenti estensioni
di beni comunali e comuni mal gestiti ed economicamente poco sfruttati9.
Vennero presi in esame nel complesso tutti i vincoli gravanti sulla
terra, che limitavano fortemente la libertà di coloro i quali auspicavano
un ammodernamento dell’agricoltura attraverso interventi radicali. Mettere
in discussione tali vincoli significava però, inevitabilmente, cozzare con una
serie di consuetudini e tradizioni, che facevano dei beni di uso collettivo una
delle componenti fondamentali della struttura economica e sociale delle
comunità rurali.
L’utilizzo di questi beni, così come la possibilità di usufruire di determinate risorse attraverso una politica di usi civici regolamentata, avveniva
in seno alle comunità e secondo norme ben precise, che ne disciplinavano
l’accesso, i tempi e la tipologia di sfruttamento, in consonanza (a volte in
contrasto) con le prerogative rivendicate dagli enti religiosi, dai nobili, dai
giusdicenti, dai patrizi veneziani o da altre comunità, tutti impegnati a ritagliarsi una propria
dimensione economica, sociale e politica.
Per quanto riguarda le comunità rurali, esse apparivano caratterizzate da alcune specifiche
particolarità, riscontrabili pure nel caso di Sesto: legame diretto col territorio, forte impronta
agraria e silvo-pastorale, presenza di un reticolo di interrelazioni sociali e familiari il più delle
volte molto articolate, richiamo alle tradizioni e alle consuetudini (basate sui principi di
eguaglianza e di cooperazione)10, radicata presenza del sacro e della ritualità. Concentrando
lo sguardo sulle consuetudini, alle quali la gestione dei possessi collettivi e degli usi civici
si ricollegava inevitabilmente, esse vanno interpretate, come ha ben sottolineato Claudio
Povolo, come «un sistema giuridico aperto», le cui norme di base «non sono distinguibili
dalle altre norme sociali» e i cui «canoni di ragionamento sono l’esperienza e il buon senso»11.
Consuetudini iscritte tuttavia in una situazione sociale ben delineata, caratterizzata da
comunità munite di proprie strutture di autogoverno e di organismi federativi aventi fra le
loro funzioni il compito di stabilire le regole di sfruttamento dei beni collettivi.
Pure nel caso di Sesto, dunque, come si noterà nelle pagine seguenti, appare centrale la
questione degli usi civici e dei beni collettivi, presenti in modo relativamente esteso nelle
terre sottoposte all’influenza e al controllo abbaziale. Essa fu viva soprattutto nel corso del
secondo Settecento, quando prese corpo un acceso dibattito sulla valenza economica e sociale
degli usi civici e del possesso ed utilizzo dei beni collettivi, considerati dalla quasi totalità
dei riformatori (pur con diverse sfumature) un freno al libero sviluppo agricolo e un segno
evidente di arretratezza e stagnazione economica.
274
2. Una fotografia di fine regime: il territorio sestense
nella carta di Anton von Zach
Lasciamo ora i discorsi generali per inoltrarci nel caso sestense; e lo facciamo partendo
dalla fine della parabola abbaziale e, più precisamente, dagli anni immediatamente successivi
alla caduta della Repubblica di Venezia. Tra il 1798 e il 1805, il Consiglio aulico di guerra
austriaco (Hofkriegsrat), per sopperire alla mancanza di carte militari accurate dei territori che
sarebbero di lì a poco divenuti il Regno Lombardo-Veneto, incaricò un corposo gruppo di
topografi (circa una trentina), coordinati dal colonnello Anton von Zach12, della redazione
di una carta dei territori veneti, la cui denominazione completa è Topographisch-geometrische
Kriegskarte von dem Herzogthum Venedig. La Kriegskarte è nel suo complesso una “carta di
guerra” raffigurante il Ducato di Venezia. Nata per esigenze prettamente militari, la mappa
appare ricca tuttavia di interessanti informazioni sul territorio e sulla sua organizzazione
antropica e dona una fotografia d’insieme abbastanza accurata della consistenza di boschi,
paludi, incolti e ambienti umidi. Per quanto concerne in particolare la zona di Sesto, essa
può aiutare a delineare una prima localizzazione e quantificazione di quella parte consistente di beni rientranti sotto l’etichetta di possesso collettivo e quelli soggetti a vari usi
civici attestati nel corso dell’età moderna e messi in discussione durante gli ultimi decenni
della Serenissima.
Suddivisa in centoventi tavole, più due di supporto di carattere generale, disegnate con
una scala di 1:28.80013 (in diretta relazione con la scala scelta per la Carte générale de la
France di Cassini), essa è nel complesso una mappa di oltre trenta metri quadrati. Ogni
tavoletta, disegnata a penna e colorata in acquerello, misura all’incirca 485x690 millimetri
e ricopre nella realtà un’area rettangolare di circa 12 km per 18 km. La tavoletta relativa al
territorio di Sesto venne realizzata nell’ottobre-novembre del 1801 da Leopold Bechinie,
capitano del reggimento Wilh. Schröder14, e contiene, oltre a diverse altre indicazioni, una
descrizione sommaria di tutte le paludi e dei boschi presenti in questa porzione di territorio.
La nostra attenzione si focalizza innanzitutto su due componenti fondamentali di questi
territori: le paludi e i boschi. Per quanto riguarda le paludi, la prima si estende tra gli abitati di Braida e Bagnarola ed è attraversata dai ruscelli denominati Cava, Bricca (o Briga),
Solvata (o Salvata), Sestiano e Versiola (o Varsiola). Essa è in realtà a sua volta divisa in due
diverse paludi: la palude Sacilot, estesa ad ovest dei corsi d’acqua della Cava e della Bricca,
e la palude Malmose, estesa invece ad est. All’interno della porzione di territorio paludoso,
non lontano dal castello di Sbroiavacca, sono presenti tre piccoli laghetti o stagni: il lago
Bricco, il lago Fontana (o Fontanon) e il lago Bianco. Mentre nella palude Sacilot, sono
segnalate una serie di risaie, che sfruttavano l’ingente quantità d’acqua presente in questi
territori. Le due paludi segnalate erano solcate da fossati, utili sicuramente a regolamentare
il deflusso delle acque, ricoperte da ampie distese di canne e falciate regolarmente durante
la stagione secca, specialmente ad uso comunitario e per le esigenze delle varie famiglie di
comunisti. Le paludi venivano, infatti, da tempo immemorabile utilizzate come un ricco
serbatoio di foraggio da parte delle famiglie coloniche, che facevano ad esse riferimento per
l’approvvigionamento necessario al soddisfacimento del fabbisogno personale. Un’altra
palude di significativa ampiezza si estendeva nei pressi degli abitati di Taiedo e Villutta;
denominata Paludi Comuni, essa era solcata da fossati e distava pochi centinaia di metri
dalla comugna di San Vito, localizzabile a nord-est della palude stessa. Un’ultima piccola
palude denominata Basse Ponzanis era situata alla confluenza del corso d’acqua Venchiaredo
nel fiume Lemene, non molto distante dall’abitato di Cordovado.
Per quanto attiene ai boschi, nella zona di Sesto i tecnici capitanati dal von Zach ne
identificarono ventisette: tredici boschi veri e propri e quattordici boschetti. La maggior
parte di essi aveva un’estensione che variava da 400 a 1.500 passi (all’incirca dai 700 ai 2.600
metri) ed era caratterizzata da alberi ad alto fusto (più di tutto querce e ontani) e da una
copiosa presenza di cespugli. Naturalmente non tutti quelli segnalati nel xviii secolo erano di
pertinenza pubblica e di uso collettivo; tuttavia un elenco di massima ci può aiutare a comprendere la dimensione della componente boschiva in queste zone e in parte il suo utilizzo.
275
Sesto e il territorio circostante nella carta di Anton von Zach, Das
Herzogtum Venedig, Kriegskarte,
1798-1805; XV.12 [Azzano].
Österreichisches Staatsarchiv Wien, Kriegsarchivs.
Nello specifico, per la zona di Sesto viene segnalato un grande bosco dell’estensione «di 1
ora e ¾», diviso in due distinte parti, la Sponsera e la Bandita, localizzato immediatamente a
sud degli abitati di Ronco e Pramaggiore. Ad esso si andavano a sommare altri boschi, quasi
tutti in realtà di modestissime dimensioni, localizzati nelle pertinenze delle ville di Cinto
(la Ronciata, la Rotta del bosco di Cinto, il boschetto Banduz), di Sesto (bosco di Bando
Marcello, bosco di Sesto, bosco la Cucca presso Ca Cremon, boschetto di Sesto, boschetto di
Versiola e boschetto di Conte Athemis), di castel Sbroiavacca (bosco di Sbrojavacca, bosco delle
Torate, bosco Pagnarol, boschetto delle Monache, boschetto di San Vitto).
A questi boschi vanno poi affiancati almeno quelli rintracciabili nelle pertinenze di
Corbolone, villa soggetta alla giurisdizione di Sesto. Essi rientravano in un complesso di
superficie boschiva, sparsa a macchie di leopardo lungo quella linea ideale che collega le
ville di Oderzo, Motta, Lorenzaga e Corbolone, nella maggior parte di proprietà erariale,
e venivano utilizzati per ricavare legname da costruzione per le imbarcazioni. All’epoca in
cui fu redatta la Kriegskarte, tali boschi erano caratterizzati da una vegetazione molto folta,
composta in prevalenza da querce, castagni e faggi. A sud di Corbolone esisteva altresì una
palude abbastanza estesa, che veniva probabilmente utilizzata in maniera molto simile a
quelle precedentemente segnalate, vale a dire soprattutto per lo sfalcio di fieno e canne, la
raccolta di legna, la pesca. Avremo modo di tornare in seguito ampiamente sulla questione
boschiva, soprattutto riguardo ai boschi pubblici di Corbolone e di Cinto.
276
Uno sguardo invece un po’ più approfondito merita la dimensione geografica del territorio
preso in esame, dato che la sua particolarità idrologica, pedologica e orografica influenzò
fortemente in passato la tipologia di sfruttamento posta in essere. Segnaliamo subito che il
territorio ad essere preso in esame non riguarda tutti i beni facenti un tempo capo dell’abbazia, bensì solamente quelli geograficamente più vicini ad essa e, nello specifico, localizzabili
in quella determinata porzione di pianura delimitata dal fiume Livenza ad ovest, dal fiume
Tagliamento ad est, e dagli abitati di San Vito al Tagliamento a nord e Portogruaro a sud.
Un territorio caratterizzato da un reticolo idrico molto ricco e dalla presenza di ampie
zone umide, paludi, boschi planiziali, pascoli e plaghe ghiaiose e sabbiose, dove a farla da
padrone sono i corsi d’acqua di origine sorgiva. In questo quadro ambientale, l’abbazia di
Sesto, posta grosso modo al centro del territorio, assume su di sé per tutta l’età moderna la
funzione, oltre che di centro religioso, anche di polo sociale ed economico.
Per scendere ancor più nel dettaglio, il complesso abbaziale si inserisce all’interno del
ramificato sistema fluviale del Lemene, composto da un fitto reticolo di piccoli e minuscoli
corsi d’acqua e da alcuni fiumi relativamente più grandi, quali il Loncon, il Reghena e il
Caomaggiore15. Il Lemene nasce nei pressi di San Vito al Tagliamento e fino all’altezza
dell’abbazia viene identificato con un secondo idronimo, roggia Versa, per poi assumere il
nome di Lemene. In esso confluiscono praticamente tutte le rogge, i fiumiciattoli e i rii che
scorrono fra Livenza e Tagliamento, se si escludono quelli che fan capo alla roggia Lugugnana. Il Reghena nasce invece nella fascia di risorgive posta a ridosso di Casarsa e scorre
quasi perpendicolarmente verso sud, incontrando dapprima Sesto (dove il suo idronimo, già
mutato da roggia Mussa in fiume Sestian, assume il nome di Reghena) e successivamente
Portogruaro, per poi confluire nel Lemene. Il Caomaggiore, affluente del Reghena, scorre
invece nei pressi di Cinto (al quale dà il nome) e viene alimentato da due corsi d’acqua di
piccole dimensioni, ma rilevanti per il territorio sestense, il rio del Molino e il rio Salvata,
le cui sorgenti sono rintracciabili immediatamente a sud di Casarsa. A fianco del Caomaggiore e del Reghena, una certa importanza per l’abbazia rivestono anche la roggia Versiola,
che nasce a nord di Bagnarola e sfocia nel Lemene vicino a Portogruaro, e le rogge Gleris
e Venchieredo16.
Il territorio attraversato dal Lemene può essere inoltre suddiviso in due fasce distinte:
quella superiore, stabilmente popolata e contrassegnata da abitati quali Cordovado, Fratta,
Portogruaro, Concordia e, lungo il Reghena, San Vito, Summaga e naturalmente Sesto.
Quella inferiore occupata da vaste paludi, terminante con l’abitato di Caorle e la sua laguna.
In questo contesto, fin dall’epoca romana, il Lemene funse da importante via d’acqua utilizzata per gli spostamenti e i commerci, unendo la bassa pianura e l’emporio di Concordia
(alla quale si aggiunse alcuni secoli dopo Portogruaro) alla laguna di Caorle, che a sua volta
era collegata al mare Adriatico. Assieme ad esso, la via lungo il Loncon venne sfruttata per
il rifornimento e il trasporto di legname.
La copiosa presenza di acque in questi territori va associata anche allo sfruttamento della
stessa come fonte energetica per l’alimentazione di mulini, fucine e ruote idrauliche. Tale
utilizzo dovette iniziare, in queste zone, abbastanza precocemente, ampliandosi in modo
evidente tra il basso medioevo e l’età moderna, dando vita ad un marcato incremento della
produzione di determinati prodotti (farina, accessori in ferro, lavorati del legno, produzioni
lapidee, manifatture della seta)17.
L’abbondanza d’acqua aveva numerosi risvolti positivi, ma inevitabilmente portava con
sé alcune controindicazioni: il territorio compreso fra il Livenza e il Tagliamento era infatti
continuamente soggetto all’esondazioni dei fiumi, sia quelli maggiori, sia quelli minori,
quali il Lemene o il Reghena. Nel corso dei secoli, le esondazioni arrecarono numerosi
danni all’agricoltura e alle vie di comunicazione, ma esse contribuirono anche (e questo è
un altro degli aspetti positivi, dal punto di vista agrario) a un processo alluvionale, che portò
parte delle terre circostanti ai fiumi stessi e quelle lagunari ad insabbiarsi18, com’è avvenuto,
per esempio, nei dintorni di Caorle, o ancora più a nord. Era un fattore positivo ai fini
agricoli, poiché in seguito all’insabbiamento molte terre divennero più stabili e da incolte
vennero trasformate in appezzamenti sfruttabili per i pascoli e successivamente in arativi,
277
La «Ca’ Tiepolo» in corrispondenza della pianura meridionale
di Lorenzaga, Villanova e Corbolone, dalla carta di Anton von
Zach, Das Herzogtum Venedig,
Kriegskarte, 1798-1805; XIV.13
[Oderzo].
Österreichisches Staatsarchiv Wien, Kriegsarchivs.
tanto da spingere i proprietari dei terreni confinanti con esse ad annetterle ai loro fondi.
È la stessa Serenissima a favorire la privatizzazione e l’alienazione di queste “nuove” terre,
come dimostra il caso di Caorle e della sua comunità di pescatori, che nel 1642 subisce la
confisca di numerosi beni dopo che la Serenissima aveva rilevato un loro ormai consolidato
imbonimento19.
Lungo il percorso dei fiumi era rintracciabile una serie di pascoli e di boschi, situati a
ridosso del fiume Livenza dalla zona di San Stino fin quasi a San Giorgio, e lungo quasi tutti gli
altri fiumi e corsi d’acqua di minore dimensione e portata ubicati fra Livenza e Tagliamento.
Molto significativa era la consistenza dei boschi nella zona fra Bagnarola, Cinto e Sesto; essi
venivano sfruttati direttamente dalle comunità per le loro esigenze, nonostante una parte
di essi, particolarmente quelli di rovere, necessari alle attività dell’arsenale, fosse ben presto
censita e tutelata da parte della Repubblica. Dal catasto redatto nel 1568 da Nicolò Surian,
patrono dell’arsenale, si possono estrapolare alcuni dati: Sesto poteva contare all’epoca su
278
circa 2.325 roveri e 286 semenzali, Cinto rispettivamente su 15.284 roveri e 8.428 semenzali,
mentre Bagnarola su 2.666 roveri e 1.391 semenzali20. Sicuramente, nella seconda metà
del Settecento, tale consistenza mutò in senso negativo; ciò non toglie comunque che una
cospicua estensione di boschi, più o meno ampi, molti dei quali posseduti collettivamente
dalle comunità, fosse preservata fino allo scadere del Settecento.
È in questa situazione geografica e idrica che va affrontata la questione dei beni comunali
e degli usi civici, poiché la particolarità di questa porzione di pianura determinò per secoli le
modalità di sfruttamento del territorio e, soprattutto, di quelle parti di esso che non potevano
essere utilizzate stabilmente per le produzioni agrarie. È noto come, già a partire dagli anni
Trenta del Settecento, in seguito a quel vasto processo di privatizzazione dei comunali avviato
dalla Repubblica veneta, molti dei beni posseduti ed utilizzati collettivamente nel corso del
Cinque e Seicento, furono acquistati dall’aristocrazia veneta, che ebbe modo di accaparrarsi
vasti appezzamenti posti fra il Reghena e il Lemene, zona – come si è visto – ricca di acque
sorgive, affioranti in superficie mediante olle (o polle) e fontanai (o fontanazzi), che davano
vita a rogge, rii e fiumi dalle acque chiare, limpide e fresche (con temperature costanti fra i
10 e i 15 gradi centigradi) e di portata pressoché invariata lungo tutto il corso dell’anno21. La
corposa vendita di beni comunali, nonostante evidenti limitazioni e storture, aveva portato
ad una maggiore antropizzazione del territorio e, seppur parzialmente, a un miglioramento
dello sfruttamento agrario. A subire la più considerevole riduzione e trasformazione furono
le zone paludose e sorgive; ciò favorì, oltre ad un’estensione del suolo coltivabile, pure un
miglioramento e consolidamento di alcune vie di comunicazione terrestre, che assunsero
un’importanza maggiore dal punto di vista commerciale e soppiantarono in parte le vie d’acqua.
In ogni caso, nonostante le consistenti alienazioni, una quota rilevante dei beni si salvò;
anzitutto boschi, incolti, paludi, zone sorgive e ambienti umidi in genere, in prossimità dei
corsi d’acqua, specialmente Lemene e Reghena, dove gli impaludamenti e la presenza di
acquitrini stabili impedivano un’attività agricola continuativa e redditizia22. In molti casi
si tratta di beni comunali siti in depressioni golenali o ridotti a sottili strisce di terreno ai
margini dei fiumi, incastonati molto spesso fra le sponde di questi ultimi e le strade costruite su appositi terragli per evitarne l’impaludamento; di norma, erano terreni ricoperti da
prateria spontanea o esemplari arborei idrofili, quali salici, ontani, platani, olmi.
3. I beni comunali sestensi nel Settecento
Il Friuli di metà xviii secolo appare ampiamente dominato dalla presenza dei domini
collettivi, che a inizi Ottocento ricoprivano ancora circa i due quinti della superficie totale
della patria, con percentuali molto alte nelle zone montuose e in quelle pianeggianti a ridosso
della linea delle risorgive e dei torrenti, come nel caso della villa di Sesto e del territorio ad
essa circostante23.
Già mezzo secolo fa Marino Berengo aveva evidenziato come il Friuli avesse dai monti al
mare oltre il 40% del suo territorio rientrante sotto la dicitura di «proprietà promiscua»24.
Era un’ingente massa di beni, rappresentante grosso modo la metà di tutti i comunali veneti,
che veniva utilizzata in vari modi e secondo diverse tipologie di sfruttamento: uso libero fra
tutti i comunisti, affitto stipulato in denaro con terzi, usufrutto riservato esclusivamente
ai comunisti dietro la corresponsione di un canone, o a terzi dietro corresponsione di una
somma maggiore (di norma pari al doppio di quella pagata da un comunista). Molto meno
diffusa tra le tipologie di utilizzazione appare, viceversa, la quotizzazione dei comunali e la
loro divisione in lotti fra le varie famiglie. Sovente le varie tipologie di utilizzo si sovrapponevano e intersecavano, dando vita a sistemi integrativi di sfruttamento, come per esempio
la conservazione da parte dei comunisti, anche in caso di affitto a terzi, del diritto di sternito,
cioè la raccolta di foglie e di ramoscelli. Tra i vari beni collettivi, i più redditizi per i comuni
erano costituiti dai pascoli e dai boschi. Per questi ultimi, era di norma riservato ai membri
della comunità un certo quantitativo di legna ad uso personale, mentre la parte più consistente del bosco veniva solitamente affittata a terzi. Tutti gli abitanti avevano comunque di
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norma il diritto di raccolta di foglie cadute, secche o ancora verdi, di raccolta di legna da
fuoco e, seppur raramente, la possibilità di fare carbone.
Con queste premesse, il governo della Serenissima non poteva evitare di dare la debita
importanza alla gestione del patrimonio collettivo e alla regolamentazione degli usi civici che
su di esso e in altri contesti venivano esercitati. In ambito veneto, come ha avuto modo di
sottolineare molto accortamente Stefano Barbacetto, la corretta gestione dei vasti e numerosi
beni posseduti collettivamente, identificabili nella quasi totalità con le comugne, si legava,
da un lato, in modo stretto e indissolubile con una politica di preservazione del territorio
volta a difendere il particolarissimo e delicatissimo contesto ambientale nel quale sorgeva
la città di Venezia, dall’altro, corrispondeva alla necessità di ricavare da tali beni alcune
delle materie prime fondamentali per l’economia della Repubblica, a partire dal legname25.
Il termine comugna non è di facile definizione. Per comprenderlo appieno bisogna
innanzitutto segnalare la distinzione, attuata dalla Repubblica veneta, fra beni comunali (demaniali) e beni comuni (allodiali) che fu stabilita di fatto a partire dal 1476,
quando il Consiglio dei Dieci, con ducale datata 18 marzo, sancì l’acquisizione
e l’incameramento di tutti quei beni collettivi per i quali i beneficiari non erano
in grado di fornire una documentazione relativa al loro legittimo possesso. I
beni incamerati vennero da allora compresi sotto la denominazione di comunali
e dati in concessione alle comunità, che potevano utilizzarli secondo precise norme
e vincoli. Una certa differenziazione, peraltro non categorica, va fatta poi fra beni
comunali da un lato e comugne dall’altro: i primi essendo terreni paludosi, boschivi
e pascolivi lasciati in usufrutto ad una singola comunità; le seconde, fisicamente
della stessa tipologia dei primi, lasciate in uso collettivo congiunto a più comunità
o a più villaggi, dunque beni utilizzati in modo consortile. Seppure, in area friulana,
il termine comugne assunse una valenza un po’ diversa rispetto al resto del territorio
veneto, poiché includeva molto spesso l’intera compagine dei beni comunali26.
Per il Friuli, in particolare, l’ingente massa di beni comuni e soprattutto di beni
comunali copriva, come si è visto, una parte cospicua di territorio, con quote percentuali
che potevano variare considerevolmente da zona a zona, dall’80% di Zoppola al 3% di San
Michele al Tagliamento27. Oltre ad oscillare in percentuale da zona a zona, essi variavano
anche per tipologia; se in montagna infatti a prevalere era il bosco, affiancato dal pascolo,
in molte aree della pianura ad essi potevano affiancarsi, con quote talvolta proporzionalmente molto maggiori, i cosiddetti “ambienti umidi”, particolarmente estesi lungo i grandi
fiumi, nella fascia lagunare e nelle zone paludose della medio-bassa pianura friulana. Sesto
in questo senso non faceva eccezione. Il suo territorio, pur non direttamente interessato da
grandi fiumi (il Tagliamento corre all’incirca dodici km ad est dell’abitato, mentre il fiume
Livenza poco più di quindici km ad ovest) e relativamente lontano dalle zone lagunari (quali
quelle di Marano e Caorle), è caratterizzato da una copiosa presenza d’acqua, alimentata
dalle risorgive e, in particolare, dai fiumi Reghena e Lemene con tutti i canali annessi. Tali
ambienti umidi, poco adatti ad essere sfruttati per l’agricoltura, se non dopo ampi e dispendiosi interventi di bonifica, vennero usati lungo tutta l’età moderna come vere e proprie
riserve di prodotti per la comunità: dal legname a varie tipologie di canne, dalla selvaggina
a diverse specie di pesci e molluschi, senza contare la possibilità di sfruttarne alcune zone
per il pascolo (raramente per l’agricoltura), come potevano essere quelle particolari porzioni
di territorio, definite col termine di quori – al singolare quoro, cuoro, toro – che altro non
erano che fertili isole emerse dalla laguna periodicamente sfruttabili per la coltura, o ancora
le anse fluviali, facilmente raggiunte e coltivate in determinati periodi dell’anno.
Dunque, il territorio di Sesto, come in genere la bassa pianura friulana, era caratterizzato
dalla presenza, a fianco di prati e boschi, di una porzione di incolti sfruttati collettivamente
dai singoli e dalle comunità, che ne rivendicavano il godimento dietro concessione esplicita
del principe oppure in base a un diritto acquisito ab antiquo, con la consuetudine. I beni
d’uso collettivo erano di diretto interesse per le comunità, ma rivestivano un importante
ruolo nella gestione territoriale della Repubblica veneta, soprattutto quando, in seguito ad
un disboscamento sregolato ed eccessivo, iniziarono ad essere presi in seria considerazione
280
interventi di politica ambientale volti a controllare e regolamentare l’accesso alle risorse
naturali. Ad essere disciplinato fu più di ogni altra cosa l’accesso al bosco: di montagna
innanzitutto, ma anche di pianura, dato che per le necessità edilizie della città
di Venezia e per la sua preservazione e manutenzione costante, furono sfruttati
soprattutto i boschi planiziali della pianura circostante le zone lagunari, che agli
inizi del Settecento si erano ormai notevolmente ridotti, in seguito all’intenso
sfruttamento avviato tra Cinque e Seicento28.
Per ovviare al problema e al connesso attacco alle terre collettive provocato
dagli usurpi dei privati (e, fra questi, in prima linea v’erano i patrizi veneti e i nobili
di Terraferma), il Senato era intervenuto in modo diretto già dagli anni Settanta
del Quattrocento. Con la parte del gennaio 1476, oltre al divieto imposto alle comunità
di alienare, affittare e disboscare in modo sregolato i beni collettivi, si tracciava una prima
importante divisione, attuata secondo gli schemi del diritto comune, fra i beni propri o comuni
(communi) acquisiti dalle comunità, che potevano essere alienati pur mantenendo i vincoli
forestali, e i beni specificamente communali, posseduti da una comunità ab immemorabili
per concessione graziosa del principe e soggetti al divieto di alienabilità e al rigido vincolo
di destinazione colturale, che ne impediva normalmente la messa a coltura29. Naturalmente
diverse per acquisizione e per normativa, le due tipologie si differenziavano per le imposte,
alle quali i beni communi erano soggetti (si pensi al campatico), mentre i communali di norma
risultavano esenti, tanto da non essere registrati nei documenti fiscali. Era un motivo in più
che avrebbe dovuto preservarli dagli usurpi, poiché oltre a non gravare fiscalmente sulla
comunità e sui singoli, potevano offrire una risorsa a cui attingere per sostenere i gravami
fiscali imposti dalla Serenissima sia alla comunità sia ai singoli componenti della stessa.
Intersecate con la gestione dei possessi collettivi, anche se non sovrapponibili ad essa,
ritroviamo poi numerose tipologie di usi civici, che più o meno consistentemente gravavano
sul territorio e sulle sue risorse: il pensiero va al pensionatico (da non confondere con il vago
pascolo o col pascolo ad erba morta), ai vari diritti e concessioni d’uso delle acque, dei boschi
e dei pascoli, al legnatico e a diversi altri diritti rivendicati il più delle volte dalle comunità,
aventi molto spesso la funzione di integrare i magri bilanci familiari, fornendo materiale da
costruzione e riatto per le case, cibo per il bestiame e diverse altre risorse materiali, oppure la
funzione, una volta coperto il fabbisogno interno alle famiglie, di assolvere almeno in parte le
imposte dovute all’erario. Fondamentale appare soprattutto la base foraggiera ricavata dallo
sfruttamento dei pascoli e dei prati naturali, che in un certo senso, come ha avuto modo di
ricordare Furio Bianco già per il Cinque e Seicento, assicurava alle comunità di villaggio
e alle singole famiglie un quantitativo di prodotto sufficiente alle immediate necessità di
allevamento, con un risvolto negativo, però, poiché scoraggiava gli investimenti per creare
prati artificiali, impedendo nella pratica la creazione di aziende agricole più moderne e
associate ad una più razionale zootecnia30.
Da questo punto di vista il possesso collettivo e gli usi civici assumono la dimensione di
vincoli che limitavano fortemente la piena proprietà della terra, cristallizzandone l’utilizzo
e diminuendone il rendimento. Gli esiti erano drammatici, secondo alcuni economisti e
agronomi settecenteschi, che accusarono a più riprese la perniciosità degli usi comunitari a
danno dell’economia rurale, e ne proposero la privatizzazione (per lo meno parziale) al fine
di trasformare vasti appezzamenti di territorio mal gestiti, in porzioni adatte all’agricoltura
e molto più redditive economicamente.
Sarebbe desiderabile che in tutti i paesi ove si trovano terre inutilizzate, incolte e comuni
che appartengono al re, sua maestà le volesse dare in censo ai particolari della parrocchia,
affinché essi le posseggano in proprietà; il re ne ricaverà una rendita annuale; queste terre
saranno dissodate e procureranno in seguito diritti di mutazione che si acquistano; invece
se tali terreni restano posseduti dalla comunità, non producono che un quarto di quello
che renderebbero se fossero divisi. […] Ci sono inoltre terre incolte; ce ne sono molte che
verrebbero coltivate; ma nessuno osa seminare grano in un campo comune, bisognerebbe
dissodare e recintare, c’è [infatti] troppa indecisione finché uno non è proprietario [del
281
Il territorio paludoso di San Stino
di Livenza nella parte sinistra del
corso del fiume fino al mare, in
una carta di Francesco Fiorini e
Gio Batta Bagatella, vice proti
al magistrato, 9 agosto 1660. La
persistenza delle aree palustri, è
testimoniata anche dal Nievo. Il
bandito Spaccafumo, in un concitato colloquio con Leopardo Provedoni, afferma che per muoversi si
avvaleva «per turno dei puledri di
razza che pascolano in laguna», e
che all’altezza di Lugugnana aveva ritrovato «un ragazzetto», ossia
Carlino, «che si era smarrito nel
palude» (Nievo 1973, p. 137).
ASVe, Savi ed esecutori alle acque, Livenza,
disegno 7.
terreno]. Se un signore condivide boschi comunali con i suoi censuari, può chiedere che
vengano divisi in tre parti, tenendone un terzo per sé, col fine di amministrarlo personalmente, rinunciando a qualsiasi pretesa sul resto, anche se avesse il fondo minore e
più deteriorato. Se fa tagliare tutto [tagliare gli alberi al livello del suolo per ridare forza e
vigore, n.d.r.] e se la mantiene indivisa, la sua parte varrà di qui a trent’anni di più che
la porzione doppia della comunità. È incredibile dire con quanta poca intelligenza e con
quanti abusi la comunità della parrocchia utilizzi i suoi boschi comunali. Il signore ha
ad ogni modo un sensibile interesse a sovrintendere al buono sfruttamento dei boschi
comunali di una parrocchia […] poiché tali boschi ben amministrati sono una risorsa
infinita per la parrocchia in questione31.
È questa una delle proposte che circola a partire dal sesto decennio del Settecento; essa
porta il nome di François Quesnay, sicuramente uno fra i principali fautori della lotta contro
i vincoli che gravavano sulla terra32. Anche nel Veneto e in Friuli il dibattito accademico
si incentra sul tema della proprietà collettiva, ipotizzandone lo smantellamento e la privatizzazione, nella consapevolezza che la presenza di questi comparti, diffusi in molte aree
del continente, doveva cedere il passo ad un ampio processo di conversione produttiva. Lo
auspica molto chiaramente a inizi Ottocento Giacomo Cavassi, che con parole a dir poco
espressive rivela come a suo parere «l’assoluta inalienabilità della maggior parte dei fondi
del Friuli è una delle cause tendenti a tenere negletta l’agricoltura»33. Fondi molto spesso in
mano a comunità incapaci di farli sfruttare proficuamente e, per questo motivo, soggetti alle
282
critiche degli economisti che ne sollecitavano la vendita ai privati. La Società di agricoltura
pratica di Udine, attraverso le memorie dei suoi soci, lo richiede continuamente: «Tanti beni
comunali di pubblica ragione sparsi con poco vantaggio per la Terraferma potrebbero in
ragion di estimo distribuirsi a’ possidenti» col solo vincolo di migliorarli e renderli economicamente sfruttabili, e di elargire «un qualche leggero canone in cassa dei respettivi comuni,
per cui si renderà anco più facile alli stessi il pontual pagamento delle loro imposizioni»34.
Una ingente massa di beni che, attraverso la concessione ai particolari e la loro riduzione
per esempio «a erbose praterie», avrebbe potuto essere utilizzata anche per l’incremento
dell’allevamento bovino, in vista di una riduzione del deficit di approvvigionamento con
l’estero, nota dolente dell’economia della Serenissima.
Le posizioni degli accademici al riguardo, fra le quali emergono quelle espresse da Francesco Maria Stella, Filippo Florio, Giuseppe Antonini e Bartolomeo Del Covolo, sono
quanto mai chiare: ridurre drasticamente la massa dei possessi collettivi, indirizzare buona
parte di essi alla coltura dei prati artificiali, dai quali poter ricavare foraggio sufficiente
per allevare un numero più elevato di capi di bestiame in modalità stabulare35. Con i non
secondari vantaggi di eliminare in contemporanea molte delle liti in corso fra le comunità
e nelle comunità stesse e di aumentare gli introiti dell’erario.
Se si analizza il caso di Sesto, nel tentativo di farsi un’idea dell’ampiezza del problema, il
risultato è sicuramente interessante. Da un documento degli anni Quaranta del Settecento,
ove si trovano elencate le località della giurisdizione di Sesto nelle quali erano presenti dei
campi «inutili, e pustotti», in buona parte dei casi gestiti collettivamente, si evincono le
283
Particolare di mappa dei beni
comunali goduti promiscuamente dalle comunità di Cordovado,
Stalis, Venchiaredo, Ramuscello
e Gleris, in una mappa del perito
Giorgio Morsuro, 26 luglio 1666
(ma in copia del 7 maggio 1788
del perito Giovanni Maboni).
ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe
e disegni, 90.
seguenti proporzioni: «Boldara campi 8; Bagnara campi 166; Bagnarola campi 336; Cordovado campi 200; Cinto campi 192; Fagnigola campi 189; Gruaro campi 79; Giai di Sesto
campi 284; Sumaga campi 214; Sesto campi 370; Taiedo di Porcia campi 40; Versola campi
229»36. Particolarmente interessante è la situazione di Versiola e Bagnarola, caratterizzate
complessivamente da una corposa presenza di incolti, ammontanti a 565 campi. Da una
nota degli inizi del Settecento (con ogni probabilità del 1704), si possono individuare anche
alcuni nomi dei possessori della parte di tali terreni e appezzamenti non soggetti al dominio
collettivo, anche se molte volte situati immediatamente a ridosso delle comugne, come è il
caso per esempio di un «pezzo di terra detto le Frattiselle», posseduto da «Vincenzo e fratello
Tagliafero di Venezia», ubicato nei pressi di Versiola e confinante per buona parte con la
«comugna del Boschialedo»37. Fra i possessori figurano cognomi importanti: i Gradenigo,
i Dorigoni, i Savorgnan, i Cordovado, gli Attems. Famiglie la cui presenza nella zona di
Sesto appare rilevante e decisamente influente.
E dal punto di vista più specifico dei beni comunali, com’era la situazione sestense?
Secondo quanto ricostruito da Antonio De Cillia, tra xvii e xviii secolo il complesso patrimonio collettivo di Sesto e delle ville contermini subisce certamente una decurtazione, non
tale tuttavia da stravolgere totalmente il paesaggio agrario esistente, dato che la consistenza
dei beni comunali, nonostante le vendite compiute, continua a rimanere significativamente
ampia38.
Eloquenti appaiono le situazioni di Bagnarola e di Sesto al Reghena. A Bagnarola la gran
parte dei beni comunali era rappresentata da ampi pascoli estesi per circa mille campi, la
cui maggior parte era goduta in compartecipazione con le comunità di Gleris, Ramuscello,
Stalis, Venchiaredo e, in modo più ridotto, Savorgnano. Mentre gli oltre novecento campi
delle comugne intestate a Sesto erano goduti da questa comunità insieme con Marignana,
Savorgnano, Bagnarola, Versiola, Bagnara, Gruaro, Boldara, Giai e Mure, a testimonianza di quanto fossero complessi ed articolati la gestione e l’utilizzo dei
beni stessi. Un caso fra tutti può essere indubbiamente
quello del paludo del Vescovado, non molto distante
dalle comugne summenzionate, composto da 8.333
campi, 7.786 dei quali erano goduti collettivamente
da un ente apposito, definito come Sindacato di Cordovado, raggruppante ben sedici villaggi, fra i quali
figuravano Teglio, Fratta, Fossalta e Lugugnana39.
Risulta interessante a questo punto, per una maggiore comprensione dei termini della questione, la
lettura del privilegio stilato in favore della comunità di
Sesto per l’utilizzo dei beni comunali; privilegio molto
simile, per contenuti e tipologia, a quelli rilasciati alle
altre ville del distretto, redatto sotto l’egida di «Paulo
Antonio Crotta, Zuanne Molin et Zuanne Sagredo,
proveditori sopra beni comunali». Dopo aver constatato che il documento originario era
andato perduto, i provveditori dichiarano:
avendo tolto per mano il loro catastico abbiamo trovato posseder esso comun li sottoscritti campi dentro li sottoscritti confini, sicché restano del tutto separati dal terreno
de’ particolari confinanti, quali consegniamo a voi uomini e comun predetto, perché li
abbiate a godere unitamente in comun a pascolo et a uso di pascolo, e facendo ubertoso
il paese et allevando delli animali, sicché tutti voi dobbiate asentire con la munificenza di
sua serenità il benefizio insieme di detti comuni; con le infrascritte però condizioni: che
quella parte che si trovasse a bosco sia conservata in legni buoni per la casa dell’arsenal, et
il resto in alcun tempo non possa esser da voi affittato, livellato, permutato in qualsivoglia
occasione, o sotto qualsivoglia pretesto ad alcuna persona così del vostro comun, come
fuori del vostro comun. Medesimamente non possi alcuna minima parte di detti comunali
esser arata, né coltivata, né sopra quelli esser fatta alcuna escavazione, né alcuna fornasa
284
da calcina o pietre da qualsivoglia persona così dal vostro comun, come fuori, sotto pena
a voi uomini suddetti di privazione per anni dieci di detti beni comunali, et a chi terrà
ad affitto, ovvero livello, ovvero caverà, permuterà, o altrimenti goderà in uso particolare
detti beni, et contra li ordini prescritti di lire 300 per cadauno, et cadauna volta, un terzo
della qual pena sia dell’accusator, un terzo chi farà l’esecuzion, e l’altro terzo della casa
dell’arsenal; potendo però voi uomini del presente comun et villa d’anno in anno dalla
festa di san Giorgio fino san Michele, se così parerà alla maggior parte della vostra regola,
bandir per far fieno la terza parte del detto pascolo, et far et renovar pur d’anno in anno
le prese, e sopra di quelle gettar ogni anno le sorti, et non altrimenti perché alcuno non
possi mai appropriarsi alcuna minima parte di detti comunali, non potendo per mezzo
di essi far alcun fosso o altro segno di divisione, con dichiarazione che li fieni di dette
prese siano goduti dalli contadini, o coloni, cioè massieri e repetini, o bracenti che hanno
loco et fondi in detta villa, ma non di quelli che abitano fuori di detta villa, nemmeno
delli patroni de’ terreni, se però non facessero boaria. Sia in obbligo quel meriga che di
tempo in tempo si troverà nel carico quando occorrerà che sia contravenuto in alcuna
minima parte a quanto è predetto o che da confinanti, o da qualsivoglia altra persona sia
fatta alcuna usurpazione, o intacchi usurpando, ovvero viziando confini di detti comunali
et etiam strade pubbliche di volta in volta doverà venir al magistrato nostro a denontiar
dette usurpazioni, et intacchi sotto quelle stesse pene che è tenuto denontiar le risse che
seguono col sangue nel nostro regolato et questo tante volte quante mancherà di eseguire
quanto è predetto. E perché il presente nostro documento sia conservato et non abbia per
qualche accidente a smarrirsi volemo et così vi commettemo che sia da voi posto in una
cassetta nella vostra chiesa con due chiavi differenti, una detenuta dal vostro reverendo
curato, et l’altra dal più vecchio del comun40.
Come si può evincere dal documento, la gestione dei beni comunali di Sesto (così come
per le altre ville venete) era accuratamente regolamentata sia dal punto di vista dell’utilizzo,
indirizzato quasi esclusivamente a pascolo e bosco, sia da quello della prevenzione e risanamento di eventuali usurpi e intacchi al patrimonio collettivo41. Ma qual era la consistenza
e la tipologia dei beni? L’elenco in calce al privilegio, datato 20 giugno 1782, permette una
quantificazione di massima. Innanzitutto vi era una «comugna detta Boscaletto», localizzabile
fra il Reghena e la villa di Versiola, dell’estensione di circa 587 campi, goduta congiuntamente
dalla villa di Sesto con Mure, Giai, Boldara, Gruaro, Bagnara e Versiola. Ad essa andavano
a sommarsi una porzione di beni comunali, denominati Melmosa, di circa 348 campi,
sfruttata come pascolo in modo congiunto da Sesto, Marignana, Savorgnano, Bagnarola,
Versiola e Braida; e altri piccoli appezzamenti, che portavano il totale complessivo a 964
campi. Da essi vanno però detratti, oltre agli usurpi (che sono in realtà molto limitati), le
vendite effettuate tra il 1648 e il 1688, a dir poco consistenti, che generarono una decurtazione massiccia e la perdita di buona parte del patrimonio collettivo della comunità, con
le immaginabili conseguenze sul tessuto sociale ed economico.
Versiola poteva invece contare su una serie di comugne,
alcune delle quali in uso quasi esclusivo, come Pra Bandito e Fornasette di tipologia «prativa e pascoliva»,
mentre altre erano condivise con Sesto e altre
ville. Si pensi per esempio al Boschialetto
o alla Malmosa, citate in precedenza, utilizzate a pascolo,
oppure a le Fornase o a
la Melma42.
Bagnarola vantava
un privilegio molto
simile a quello di
Sesto e poteva contare
su una «comuna detta
285
Altro particolare dei beni comunali goduti promiscuamente dalle
comunità di Bagnarola, Stalis,
Venchiaredo, Ramuscello e Gleris,
in una mappa del perito Massimiliano Mandola, 22 aprile 1691
(ma, analogamente alla mappa
nella pagina a fianco, in copia del
7 maggio 1788 del perito Giovanni
Maboni).
ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe
e disegni, 89.
la Campagna» (confinante con la comugna di Bagnara), di oltre seicento campi, condivisa a
pascolo con le ville di Gleris, Ramuscello, Stalis e Venchiaredo; su di una seconda porzione
di comunali denominata «il Magredo et Pra bandito», confinante da un lato con la stessa
Campagna, estesa per circa 156 campi e condivisa parte con Stalis e Venchiaredo, in parte con
Bagnarola; su «una comugna detta il Sagilotto, qual pascola insieme con Braida e Savorgian»
e su altre piccole porzioni di comunali, quali la «comuna detta li Bari», la «comugnara delle
Bambole», la «comugna detta Regenaz» e «tre pezzetti de comun dette le Pase». A queste
ultime si affiancavano porzioni ridotte di comunali, di modeste o modestissime dimensioni,
che portavano il totale complessivo a campi 1.00243. Somma considerevole, ridottasi però
nel corso della seconda metà del Seicento, in linea con la situazione delle altre località, a
causa delle vendite, che fecero scendere la quota dei comunali a poco più di seicento campi.
Per Marignana si segnalano «campi duesento cinquantasei, quarti uno, e tavole dusento
settanta, compreso l’usurpi», dei quali faceva parte una «comugna detta l’Albaredo, il Ronchiat, la Cargnia e il Savelons qual è boschiva, prativa, paludiva et pascoliva de campi 193,
quarti 1, [tavole] 224»44. Essa era goduta in condivisione con Villotta, comunità con la
quale si erano aperte diverse diatribe di gestione, soprattutto per quanto riguarda i pascoli
e i boschi45, esacerbate dal fatto che, oltre ad essere gestita in condivisione, la comugna
confinava a nord con il bosco di Villotta, con conseguenti e prevedibili sconfinamenti
nell’utilizzo da una parte e dall’altra. Sempre a nord, essa confinava con alcune porzioni di
usurpi effettuati dal «signor Sipion Sbrogiavaccha», a testimonianza di quanto fosse diffusa
tale pratica, soprattutto da parte di famiglie di rango. C’erano inoltre un’altra comugna
«detta Mania et Boscho pascoliva bassa» ed una «comugna detta Raganazzo», di tipo pascolivo e sfruttata anche da Settimo. Tra gli usurpi, oltre a quello di Scipione Sbroiavacca, che
aveva occupato una porzione di comunali arativa e prativa denominata il Boschiato, di circa
24 campi, si segnalano un’altra porzione di comunali occupati da «Zorzi Gradenigo, [che]
gode una comugna detta Roncharedo arativa piantà e videgià» di circa 14 campi, oltre ad
un «orto e casamento», sempre goduti dal Gradenigo, il quale però aveva dato in cambio al
comune di Marignana l’accesso ad una strada per la comugna di Albaredo, in sostituzione
di quella precedente, oramai affondata e inutilizzabile. Una grossa fetta di questi beni era,
infine, stata venduta tra il 1647 e il 1689, con una serie di incanti ai quali avevano partecipato le famiglie Sbroiavacca, Gradenigo, Roncalli e Basadonna46.
La villa di Gleris e la sua comunità potevano, invece, contare su di «una comugia contra
Ramuselo, confina da un capo la comugia detta la Campagia, pascola insieme Bagiarola,
Gleris et altre villette» di circa otto campi, un’altra comugna di circa 58 campi «che per
anticho à pascolato insieme con il comun di San Vito», che all’epoca in realtà ne rivendicava
totalmente il possesso; un’altra comugna detta la Coda, di circa 61 campi di estensione,
un’altra detta le Rivis di 14 campi, più altre ancora di piccole o piccolissime dimensioni,
come per esempio il Boschetto (sette campi) e la «comugietta detta le Paluse», di nemmeno
un campo di estensione. Beni comunali che pure nel caso di Gleris tra il 1648 e il 1690,
a causa delle vendite a privati, subiscono una netta decurtazione pari a circa 113 campi,
passando così da un totale di 201 a 88. Un taglio abbastanza evidente, che ridusse di molto
i beni a disposizione della comunità di Gleris, nonostante essa potesse contare anche su altri
fondi goduti in promiscuità con San Vito al Tagliamento, vale a dire «un pezzo di comunale
detto la Gravezza pascolivo» di circa 38 campi di estensione.
La villa di Giai aveva la possibilità di utilizzare beni comunali per un totale di oltre 154
campi, «quali godevano insieme con Gruaro, Bagnara e Boldara»47. Essi erano divisi in tre
grosse porzioni: una «comugna detta Palù d’inverno» di circa 54 campi di estensione, lasciata
a prato e pascolo, ma di tipologia paludiva, quindi poco utilizzabile perché quasi completamente ricoperta di acque; una «comugna detta il Palù della Regina paludivo e pascolivo» di
circa 88 campi; una «comugna detta Reganazzo prativa e pascoliva» di 12 campi; oltre ad
«una comugna chiamata il Roschialot et un’altra Colmedo et una chiamata la Arbara quali
sono tutte sotto le giurisdition di Sesto e pascolano in comun».
Tralasciando la situazione di Claut, Erto e Casso, ubicati in un contesto territoriale
diverso, occorre fare un breve riferimento alla situazione di Ramuscello, dove, prima delle
286
alienazioni seicentesche, esistevano circa 162 campi comunali, fra i quali rientrava una
«comugna grande» (29 campi) e una comugna «detta la Comugnosa», di poco meno di
quattro campi. Anche questi beni comunali subirono un drastico ridimensionamento con
le vendite sei-settecentesche, riducendosi a meno di un terzo (49 campi).
4. La Società d’agricoltura pratica e il dibattito agronomico
in ambiente veneto
Quanto ricostruito riguardo ai beni comunali spinge ad affrontare il dibattito accademico
svoltosi nel corso della seconda metà del Settecento sui problemi dell’agricoltura friulana e,
in particolare, sulla questione del possesso collettivo e degli usi civici. Prima di farlo, però,
bisogna dare una definizione per lo meno indicativa dei termini in questione. La nozione
di usi civici rimanda ad una fattispecie giuridica complessa e variegata, mutevole nel corso
del tempo e, cosa ancor più interessante, rispetto allo spazio fisico nel quale effettivamente
si trova ad essere esplicitata. Per comodità e chiarezza, sarà utile citare una fra le definizioni
più recenti, ma applicabile tranquillamente in chiave storica. Gli usi civici sono quei
diritti spettanti ad una collettività (espressione di un comune o di una frazione di esso),
consistenti nel trarre utilità elementari dal demanio di un determinato territorio, composto non solo da terre, ma anche dai pascoli, dai boschi e dalle acque. Il loro contenuto
è il godimento di detti beni a favore di un comune o di una frazione, godimento che
viene esercitato uti singuli dai componenti di quella comunità, proprio in virtù della loro
originaria appartenenza ad essa48.
Si tratta, dunque, di diritti acquisiti in vario modo, soprattutto attraverso l’uso ripetuto
e la consuetudine, ed esercitati da una comunità su terre di propria o di altrui proprietà,
ma in ogni caso godute collettivamente dalla comunità stessa, in modo per lo più solidale
dai singoli appartenenti, anche se in forme molto diverse da caso a caso. Tali diritti hanno
attualmente, e avevano in passato, soprattutto finalità di tipo agro-silvo-pastorali49.
Specificato il senso della locuzione uso civico, l’attenzione si sposta ora su alcuni aspetti
connessi più o meno direttamente a tale concetto, che chiamano in causa il secondo punto
della trattazione, vale a dire i beni collettivi. La presenza di un possesso collettivo, che va a
cozzare contro il principio cardine del possesso individuale di un bene50, sancito in modo
sempre più marcato a partire dall’emanazione del Code civil (1804), ma già al centro dei
dibattiti nei decenni precedenti, chiama infatti in causa direttamente le modalità e le tipologie
di utilizzazione del bene stesso, con tutta la loro marcata variabilità normativa e applicativa,
a seconda dei tempi e degli spazi nei quali occorre analizzarle. La definizione dei contenuti
del possesso collettivo pone dunque l’accento sul lungo e frastagliato (e non sempre chiaro)
processo di acquisizione dei diritti di utilizzo, rientrante il più delle volte sotto il concetto
fondamentale di consuetudine.
Come ha avuto modo di ricordare Fabrizio Marinelli, «la materia degli usi civici e dei
demani civici si è sviluppata attraverso le stratificazioni di situazioni appropriative perduranti nel tempo», per le quali la consuetudine, riuscendo a porsi progressivamente come
«fonte di produzione normativa», consolida situazioni reali di utilizzo di un bene o di un
territorio da parte di una comunità (rurale o cittadina), talvolta addirittura contrastanti con
principi normativi esistenti, dando credito e consistenza a quell’autorità della tradizione, che
fu largamente e acremente avversata da una parte dei giuristi seicenteschi e settecenteschi51.
La normativa consuetudinaria, molto spesso priva di una documentazione scritta originaria,
a partire dalla metà del Settecento fu progressivamente messa in discussione e superata in
nome di due princìpi fondamentali: in primo luogo, il principio esclusivo di proprietà e la
possibilità da parte del proprietario del bene di disporre dello stesso in modo pieno ed assoluto; in secondo luogo, il principio di utilità, esprimibile anche come utile coltivazione delle
terre, dove l’interesse tipicamente medievale di disporre del bene in favore della dimensione
287
Frontespizio di una delle opere
dell’economista Antonio Zanon,
nella quale si motivava l’«utilità
morale» delle accademie.
Antonio Zanon, Della utilità morale,
economica, e politica delle Accademie di
agricoltura, arti e commercio. Opera postuma, in Udine, per li Fratelli Gallici, 1771
(esemplare in BCU).
comunitaria viene sostituito dal vantaggio economico rispondente alle leggi del mercato,
per le quali prevalgono innanzi tutto la rendita e il profitto. Il singolo proprietario dovrebbe
pertanto poter disporre in modo pieno ed esclusivo delle sue terre al fine di procedere ad
adeguati investimenti e farle fruttare, sia per il proprio benessere, sia, di riflesso, per l’accrescimento della ricchezza generale, proporzionalmente più consistente a seconda della loro
migliore e più redditizia conduzione. Inoltre, una proprietà libera da vincoli e da legami
giuridici favorisce le compravendite, stimolando il mercato immobiliare legato all’agricoltura.
Queste posizioni cominciarono ad affermarsi nel corso del Seicento, con il diffondersi
delle dottrine giusnaturaliste, e trovarono ampio accoglimento ed esplicazione nel Settecento
illuminista di Victor de Riqueti de Mirabeau e François Quesnay. In particolare quest’ultimo, famoso per aver ricoperto l’incarico di medico personale di Luigi xv e di Madame de
Pompadour, fu fra i più tenaci assertori dell’individualismo proprietario e dell’utilità del
singolo di contro alle pretese delle comunità, oltre che uno dei più accorati sostenitori della
centralità dell’agricoltura nell’economia, considerata come l’unica componente capace di
creare effettivamente reddito, ossia di generare un surplus utile (prodotto netto) da impiegare
in altri comparti produttivi. In questa dimensione, lo sviluppo del settore agrario diveniva
il fulcro dell’intero sistema economico, al quale erano subordinati sia il commercio sia la
manifattura/industria, mentre l’unica classe effettivamente produttrice appariva quella dei
coltivatori, poiché tutte le altre erano essenzialmente classi trasformatrici e dunque, in un
certo senso, sterili. Date queste premesse, il passo successivo era individuare gli interventi
da compiere per permettere all’agricoltura non solo di acquistare il ruolo dominante nel
settore economico, ma anche di superare i propri limiti intrinseci, al fine di aumentare la
produttività delle terre e, con essa, il rendimento totale da esse ricavato.
Non vi è dunque da stupirsi se «i fisiocrati, i filosofi, gli studiosi del Settecento, non a
caso definiti a volte genericamente come économistes, misero proprio in quegli anni in luce
le difficoltà che i limiti giuridici alla proprietà recavano all’economia; una economia che,
indirizzata ormai ad un mercato sempre più ampio e diffuso, rifiutava i sistemi economici
medievali, assai spesso collegati (per il vero in modo discontinuo e difforme da stato a stato)
ad un colpevole parassitismo o comunque ad uno statico immobilismo»52. Uno dei cardini
di tale immobilismo appare la questione della proprietà della terra, troppo spesso limitata
da una serie di vincoli, diritti, usurpi e prelazioni, che ne inficiavano lo sfruttamento; essa
andava affrontata radicalmente, con l’obiettivo di giungere ad una proprietà piena ed assoluta, affinché il possessore della terra potesse disporne liberamente e pienamente e, in questo
modo, essere fortemente stimolato a renderla il più possibile produttiva.
La coltivazione [delle terre] non può esplicarsi con successo che sotto le leggi della proprietà. Non è possibile immaginare una coltura eseguita in comune tra un ampio numero
di famiglie: poiché per coltivare con successo, ci vuole ben altro che le braccia; ci vuole
qualcuno che ha il diritto e l’interesse di dirigere i lavori […]. La proprietà fondiaria è
dunque un istituto di primaria necessità, conforme alla giustizia e all’interesse comune
della società…53
Siamo nel 1777 e questo pensiero, esplicitato da Guillaume François Le Trosne
(1728-1780), si pone come cardine e punto di riferimento delle riflessioni successive. Nel
processo di ammodernamento economico e, di conseguenza, giuridico e sociale, sostenuto
tenacemente da filosofi ed economisti e contemporaneamente fatto proprio, per lo meno
in parte, da diversi governi europei, una delle questioni chiave riguardava proprio la liberazione della terra da molti vincoli giuridici e consuetudinari che risultavano un freno allo
sviluppo economico e sociale, nonché causa di un marcato rallentamento della crescita
economica. Tali idee giunsero ben presto in Italia, traghettate da una schiera di intellettuali,
tecnici ed economisti e dalla circolazione di monografie e di periodici. Sulla scia di quanto
stava avvenendo oltralpe e in alcune città della penisola, anche l’ambiente friulano iniziò
ad interessarsi alla “nuova agricoltura”. I dettami innovativi propugnati dalle accademie
economico-agrarie nel resto del continente spinsero alcuni Friulani ad impegnarsi affinché,
288
anche nella città di Udine, fosse istituita una Società agraria capace di farsi portavoce della
crescente richiesta di modernizzazione in ambito agrario. Fondata nel 176254, ma operante
effettivamente solo dal 1765, essa si richiamava direttamente ad esempi europei ed italiani,
quali la Società economica di Berna o quella dei Georgofili di Firenze.
La necessità di trovare risposte concrete ai problemi che affliggevano l’agricoltura
veneto-friulana spinse una cerchia di illuminati possidenti a guardare agli economisti e
agronomi d’oltralpe e al dibattito apertosi in ambito europeo. Ciò valeva per cercare soluzioni direttamente applicabili al caso friulano e capaci di superare i limiti annosi dell’agricoltura della patria. A metà Settecento le questioni alla base della mala agricoltura dell’area
veneto-friulana erano grosso modo le seguenti: mancanza di bovini, carenza di prati artificiali
e di foraggio (connessa direttamente, e inevitabilmente, col precedente punto), svegro di
boschi e pascoli per far posto a colture cerealicole, diffusa pratica del pensionatico e vago
pascolo, brevità delle affittanze ed eccessiva quantità di campi per ogni singolo contadino,
disordini nell’uso e nella concessione delle acque, ignoranza riguardo ai sistemi di rotazione55.
Ad essi si potrebbe aggiungere anche la presenza di grosse fette di territorio gestite collettivamente e, per questo, quasi sempre male e al di sotto delle possibilità. Come si è accennato,
il patrimonio collettivo rimaneva cospicuo, nonostante le vendite compiute fino al 1727.
Nel corso del trentennio 1764-1797, prese così corpo un acceso dibattito generato «sulla
scia delle suggestioni fisiocratiche e delle teorie agronomiche divulgate dagli inglesi Brunet
e Tull, e dai francesi Duhamel de Monçeau e de la Salle de l’Étang, le opere dei quali raggiunsero larga fama nei principali centri italiani dove fiorirono gli studi e le sperimentazioni
di agraria, ossia, oltre alla Repubblica, la Toscana e la Lombardia»56. In modo speciale, in
ambiente veneto le riflessioni agronomiche furono inizialmente stimolate da un problema di
carattere mercantilistico, vale a dire, come si è accennato, la cronica carenza di carne bovina
alla quale erano soggetti i territori e le città della Serenissima, che determinava una forte
importazione dall’estero, con un esborso economico ingente, ammontante a circa 600.000
ducati annui. Il problema era particolarmente sentito in Friuli, soprattutto dopo l’epizoozia
del 1759, che portò alla perdita di 12.000 capi, favorendo più o meno direttamente anche
l’istituzione ad Udine della Società agraria.
La discussione sull’incremento dei bovini e sulle trasformazioni necessarie per attuarlo si
innestò, però, all’interno di un più ampio e generale processo di rinnovamento economico e
finanziario che, tra gli anni Sessanta e Settanta del xviii secolo, trovò in Andrea Tron e nella
sua cerchia il punto focale di esplicazione e nella Deputazione ad pias causas un forte motore
di rinnovamento per tutto il territorio veneto57. A fianco della Deputazione, nell’attuazione
delle riforme rurali (assai parziali, in verità) e nell’avvio della cosiddetta «grande e beata
rivoluzione» (con riferimento all’ammodernamento in agricoltura), un ruolo fondamentale
fu svolto, da un lato, dalla Deputazione all’agricoltura, magistratura peraltro molto debole
sorta in seno ai Provveditori ai beni inculti, dall’altro, dalle accademie agrarie nate un po’
ovunque, a partire dal 1768, nelle città del dominio veneto58.
Non a caso nel luglio del 1764 iniziò anche la pubblicazione del Giornale d’Italia spettante alla scienza naturale e principalmente all’agricoltura, alle arti ed al commercio59, che in
breve tempo divenne l’organo di divulgazione privilegiato delle accademie agrarie, nonché
un ideale luogo di dibattito per tutti coloro (accademici, agronomi, economi, intellettuali,
proprietari terrieri) che si stavano interrogando sul futuro dell’agricoltura e sui mezzi e le
scelte necessari ad un suo ammodernamento e miglioramento. Il Giornale fu affiancato dal
1789 dalla Raccolta di memorie delle pubbliche accademie di agricoltura, arti e commercio dello
Stato veneto. Nel maggio del 1765, a rimarcare la centralità assunta nel contesto della Serenissima dal settore primario, venne creata la prima cattedra di agricoltura sperimentale presso
l’università di Padova. L’insegnamento fu affidato a Pietro Arduino60, e la sua istituzione
(anticipata dal riformatore dello Studio di Padova Bernardo Nani nel 1761, che volle una
cattedra ad rem agrariam, peraltro completamente teorica61) cadde a pochi mesi, non senza
ragione, dal 26 settembre 1765, data di emanazione delle leggi limitanti il pensionatico.
Per alcuni decenni, fu proprio nell’ambiente delle accademie che si confrontarono le
esigenze dello Stato, le idee illuministe e fisiocratiche, e le proposte concrete e gli esperimenti
289
posti in essere dagli stessi membri. In esso si vennero esplicando anche alcuni fra i temi
precedentemente trattati, primi fra tutti il problema della persistente presenza di vasti possedimenti collettivi e quello dell’eliminazione di pratiche obsolete ed enormemente dannose
per il settore agrario, quali il pensionatico e il vago pascolo. Tutto questo in un periodo
segnato da una svolta importante e significativa: per la prima volta infatti, grosso modo dalla
metà del secolo, il governo marciano aveva accordato il suo benestare alla privatizzazione
di alcuni possessi collettivi non solamente, come si suole dire, per “fare cassa”, bensì al fine
di sostenere attraverso la privatizzazione delle terre nuove iniziative economiche in campo
agrario, attuate nella maggior parte dei casi dagli stessi accademici attivi in seno alle società
agrarie62. Una scelta, quest’ultima, che cozzava con le esigenze di preservazione dei beni
comunali e delle consuetudini avanzate da quasi tutte le comunità friulane.
A difesa di tale scelta, anche in Friuli, intervennero personalità di indubbio spessore
culturale e di grande respiro, a partire da Antonio Zanon. Negli anni Sessanta del Settecento il mercante friulano si schierò per l’appunto in favore della vendita dei comunali,
contrastando con forza le posizioni di coloro i quali sostenevano che la loro messa a coltura
aveva portato ad un aumento delle piogge e delle grandinate, all’esondazione di fiumi e
torrenti (causata dal disboscamento dei comunali boschivi), e alla riduzione dei pascoli con
conseguente carenza di nutrimento per i bovini.
Se l’Inghilterra, ricca di tante arti, di tante manifatture e di tanto commercio, riconosce
come base della sua opulenza e della sua potenza l’agricoltura, e principalmente il parteggiamento e la chiusura e coltura dei beni comunali, molto più dobbiamo riconoscere
e confessare anche noi, che la provincia nostra ha accresciuta la sua popolazione e
migliorata la condizione e lo stato de’ compratori de’ comunali. In Inghilterra
operò questo bene l’intelligenza e la forza armata della ragione; e al Friuli
procurarono questo vantaggio, contro i voti tutti degli stessi Friulani, le pubbliche indigenze. Voglio concedere a’ fautori de’ beni comunali, che questi
nutriscano un maggior numero di buoi: devono però essi concedere a me,
che diminuiscono la popolazione. Resta dunque a vedere, se vogliano
preferire la moltiplicazione de’ buoi a quella degli uomini63.
Ritratto di Antonio Zanon.
Antonio Zanon, Della utilità morale,
economica, e politica delle Accademie di
agricoltura, arti e commercio. Opera postuma, in Udine, per li Fratelli Gallici, 1771;
antiporta (esemplare in BCU).
Il caso inglese dava allo Zanon lo spunto per sostenere apertamente la
privatizzazione delle terre collettive, pur esortando cautela nell’attuazione
delle nuove vendite. Per lo Zanon era evidente come «la coltivazione
de’ beni comunali contribuì, e contribuisce non solo all’antica e nuova
popolazione, ma rende e seta e grani e vini in tanta abbondanza, che
ne resta da venderne agli stranieri»64. La vendita degli stessi, come era
avvenuto per il passato, avrebbe inoltre avuto il vantaggio di aumentare
il valore delle terre e generare numerose ricadute positive, sia dal punto di
vista produttivo, sia da quello del mercato fondiario. E questo nonostante lo
Zanon fosse cosciente di come le vendite attuate tra fine Seicento e inizi Settecento
avessero gonfiato soprattutto i patrimoni di casate aristocratiche e nobili, affermatesi
nel contesto della patria anche attraverso l’acquisto di tali immobili65. La situazione è stata
segnalata nel paragrafo precedente per il contesto sestense, ma è ben rintracciabile anche
nel resto della patria del Friuli.
Connessi direttamente con la vendita dei comunali e la ristrutturazione dell’assetto agrario
c’erano poi altri temi cardine della pubblicistica del secondo Settecento: la diffusione dei
prati artificiali a leguminose e foraggio (in sostituzione di quelli naturali) e l’avvicendamento
delle colture con essi66, l’introduzione e diffusione di nuove colture, l’adozione di nuovi
metodi di coltivazione (primo fra tutti la rotazione continua, di contro alla monocoltura
cerealicola e al deleterio binomio mais-frumento), la revisione dei contratti di affittanza (in
genere troppo brevi per generare migliorie significative), il riassetto delle aziende agrarie e la
creazione di nuovi equilibri fra estensione dei poderi e lavoranti, la diffusione dell’istruzione
agraria e delle nuove nozioni agronomiche67. Oltre a questi temi, in Friuli ebbe grande riso290
nanza il dibattito sull’abolizione dei diritti di pascolo e sulla conseguente acquisizione della
piena proprietà della terra, limitata fortemente soprattutto dallo ius pascendi o pensionatico.
Uscendo dall’ambito più strettamente accademico, un ultimo aspetto da sottolineare
nella politica veneziana di riordino del sistema agrario, intersecato con la parallela politica
giurisdizionalista, riguarda il ridimensionamento degli ordini religiosi presenti e attivi
sul territorio della Dominante. I provvedimenti che ne derivarono investirono in pieno
anche l’abbazia di Sesto. Fra gli obiettivi prioritari delle soppressioni vi era la riduzione del
patrimonio fondiario posseduto dagli istituti religiosi e l’eliminazione di tutti quei diritti e
privilegi che facevano capo a monasteri, abbazie ed enti affini68.
5. Il bosco fra pubblico e privato
Ho più volte ricordato come tra le due componenti primarie del possesso collettivo si
debba annoverare il bosco69. Varrà la pena considerarne alcuni aspetti specifici, prendendo
in esame i boschi pubblici e mettendone in evidenza la valenza economica e sociale, il tipo
di gestione attuata ed i diritti e gli usi a essa connessi. Grazie alla lettura della Kriegskarte,
per quanto riguarda Sesto e le ville contermini, sono già state espresse alcune considerazioni
di massima sull’estensione e sulle tipologie dei boschi in queste zone. Alcuni documenti
settecenteschi permettono tuttavia di riprendere e di approfondire ulteriormente il discorso.
Il primo riferimento, seppur non esclusivo per l’area sestense, è una relazione datata 1790
realizzata grazie a un’indagine compiuta da Francesco Maria Stella e Giobatta Orgnani70,
basata a sua volta sul catastico dei boschi pubblici del Friuli redatto nel 1745 da Antonio
Savorgnan, provveditore generale di Palma, nel quale è contenuto l’elenco dei boschi pubblici
presenti nella patria71. Tra i boschi segnalati nel catastico e controllati da custodi pubblici,
raggruppati in quella che viene definita come prima classe, molto interessanti risultano quelli
localizzati in due ville soggette alla giurisdizione abbaziale: Corbolone, da un lato, dove
si trovano quattro boschi, «bosco detto il Banduzzo, bosco detto il Pressacon, boschi due
contigui detti uno Martinuzzo, altro Prà delle Grue»; dall’altro, Cinto, dove sono presenti
altri tre boschi, «bosco detto Sponzera, bosco detto Bandido, bosco detto Banduzzo». Per
quanto attiene la seconda classe, comprendente boschi di pubblica ragione affidati però ai
comuni, troviamo a Pradipozzo il «bosco detto Cauriollo dato in custodia al comune», e a
Corbolone il «bosco detto le Fratuzze» dato anch’esso in custodia al comune. A questi poi si
aggiungeva una moltitudine di piccoli boschi e boschetti di ragione privata, sui quali molto
spesso gravavano diritti d’uso in favore di singoli, enti religiosi e comunità.
Tramite un secondo catalogo, di poco anteriore rispetto al catastico del Savorgnan, si
riesce anche in parte a ricostruire la situazione di questi appezzamenti privati72. Tra i boschi
di quarta classe, quelli cioè «di libera proprietà de’ privati possessori», sono segnalati per
il territorio di Portogruaro i seguenti appezzamenti boschivi: a Versiola un «bosco detto
Versiola del nobil huomo Francesco Zorzi procuratore»; a Sesto un «bosco detto di sopra
di Fagion di Gio Maria Ceresato», una «boschetta detta Boschettina delli signori Maschi»,
un «bosco detto dell’Acqua del nobil huomo Tiepolo e signori Micheluzzi», ed un quarto
«bosco detto Contarini delli nobili huomini Foscarini e Zorzi»; a Corbolone un «bosco detto
Brisigata delli signori fratelli Magalucci», e un «bosco detto Fachinetti del signor Francesco
Triesti»; a Bagnara un «bosco detto di Bagnara delli nobili huomini Zen, Tiepolo, Michieli
e consorti»; a «Claut sotto Sesto» altri due boschi, entrambi di pubblica ragione, il primo
«detto Monte di Ferron», il secondo «in monte detto Bettia»; a Cinto un «bosco detto di
Bando Scodelle del nobil uomo Marcello»; a Pradipozzo un «bosco detto di San Martin
della chiesa di San Martin», probabilmente di utilizzo pubblico; a Pramaggiore un «bosco
detto del Capello del nobil uomo Capello» e un secondo «detto Gaudin del conte Fabricio
Frattina»; infine a Versiola un «bosco detto dell’abbazia di San Moro e Zanettino» ed un
secondo «detto del nobil huomo Zen e consorti»73.
Dunque, secondo quanto si può ricostruire da queste testimonianze documentarie, la
situazione risulta abbastanza complessa e variegata, con una considerevole estensione di boschi
291
Particolari di boschi e colture arbustive tratti da una mappa che
descrive la braida Le Piancate (in
alto), seconda metà del Settecento; ed un’altra che riguarda una
porzione di territorio prativo «del
signor Enrico Attimis» a Sesto, prima metà del Settecento.
ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe e
disegni, 37 e 160.
292
in buona parte delle ville del territorio facente capo a Sesto. Di peculiare interesse, come
accennato, sono i casi di Corbolone e Cinto, da prendere ad esempio per una descrizione
della situazione e gestione della compagine boschiva. Un documento del 1790 permette di
ricostruire in modo abbastanza dettagliato la tipologia dei boschi, il loro utilizzo, i diritti
su di essi esercitati dalle comunità e dalla Serenissima, e diverse altre notizie relative al loro
sfruttamento74. La relazione, prodotta in seno alla Società di agricoltura pratica di Udine,
prende in considerazione per Cinto sei distinti boschi pubblici di prima classe, affidati al
controllo diretto della Serenissima, ma soggetti allo sfruttamento delle comunità, soprattutto di Cinto75. Il primo bosco è detto Spongeva, di qualità considerata mediocre, custodito da un pubblico guardiano; esso era caratterizzato all’epoca dalla presenza di un buon
numero di piante, abbastanza ben distribuite, ma ancora non utilizzabili per le costruzioni
navali e, dunque, non immediatamente di pubblica utilità. Il secondo bosco è detto Bandito; anch’esso custodito da un guardiano alle pubbliche dipendenze, risultava di buona
qualità ed «uniformemente fornito di piante di [piedi] 3 e 3½ di bella venuta», anche se
nella quasi totalità privo di novellami. Il terzo bosco è detto Banduzzo; in cattivo stato di
utilizzo, probabilmente a causa di una gestione poco accurata nei decenni antecedenti e di
uno sfruttamento massiccio da parte dei privati, risultava pressoché privo di legnami atti
alle costruzioni navali e caratterizzato da un «abbondante novellame di cattiva venuta»,
forse a seguito dei danni causati dal pascolo di animali. Il quarto bosco era detto Pressiana e
considerato pressoché inutile. Nonostante la presenza di un guardiano, esso appariva infatti
privo di roveri di grosse dimensioni e «incapace a dar alberi per l’arsenale, perché gli stessi
alberi esistenti mostrano di essere pervenuti alla loro maturità, e perché non v’ha zocche,
che indichino avervene un tempo avute; e perché finalmente il poco novellame che v’ha è di
mala venuta». Il quinto bosco, detto Giliarotta, risultava invece abbastanza buono, anche se
più in potenza che di fatto, prospettiva che esigeva, secondo i tecnici dell’accademia, molto
lavoro per renderlo fecondo e per poter da esso ricavare legname per l’arsenale. Controllato
dallo stesso guardiano preposto alla gestione del bosco precedente, era caratterizzato dalla
presenza di molte piante mal distribuite e, nella maggior parte, non utilizzabili per i «lavori
forti, perché mal formate, decrepite e sottili». Tuttavia aveva le potenzialità per produrre
buoni esemplari, dato che ad un esame accurato erano state rintracciate diverse «zocche, delle
quali ne abbiamo vedute di piedi 8 e più di volta». L’ultimo bosco, denominato di Biancada,
era anch’esso di qualità mediocre e controllato da un pubblico guardiano, uniformemente
fornito di piante ben distribuite, della circonferenza «di piedi 3½ circa, poche di piedi 4
crescenti», ma quasi completamente privo di novellame.
Per la zona di Corbolone, il documento menziona gli stessi boschi segnalati in precedenza, vale a dire «Martinuzzo, Pra delle Grue o Grive, contigui Pressacon, Banduzzo e le
Frattuzze, questo di classe ii, gli altri di classe i». Anche in questo caso nella prima classe
rientravano i boschi di pubblica ragione controllati direttamente dalla Repubblica, mentre
nella seconda i boschi pubblici affidati alle cure dei comuni76.
Andando nel dettaglio, i boschi Martinuzzo e Pra delle Grue vengono segnalati espressamente come “inutili”, ossia inutilizzabili da parte della Serenissima per costruzioni navali.
La motivazione è presto detta: essi si trovano «in uno stato di sommo deperimento e per
mancanza di piante, le quali sono rarissime e queste stesse non atte ai lavori forti; e perché
il terreno sembra essere di una indole non propria a somministrarle; e perché infine privi
quasi del tutto di novellami e quelli che esistono sorgono intisichiti e crespi»77. Il giudizio è
sommamente negativo sia per lo stato presente, sia per la mancanza di potenzialità future,
considerate praticamente nulle, data la quasi totale assenza di nuove piante (naturalmente
roveri). Situazione che spinge l’accademia a proporre di convertire «que’ terreni a uso di
foraggi», poiché come bosco tale appezzamento di terreno risulta «decisamente di aggravio
al principato».
In condizioni leggermente migliori appare il bosco Pressaccone, «fornito di picciolo numero
di piante di piedi 3½ circa». Migliore non tanto per il numero di roveri presenti, tutt’altro
che significativo, quanto per le potenzialità insite nel terreno, «che di un numero di gran
lunga maggiore sarebbe capace». Questo perché le piante apparivano mal distribuite, oltre
293
Un articolo di Giacomo Cavassi
sulla conservazione dei boschi di
rovere nel territorio veneto tratto
dal «Nuovo Giornale d’Italia» del
marzo 1794.
Del governo e coltivazione bisognevole ai
boschi di roveri, e d’altri legnami, del nobile
e chiarissimo signor Giacomo Cavassi di
Udine, pubblico assistente alla soprintendenza boschiva […], memoria da esso
rassegnata all’eccellentiss. Inquisorato
dell’Arsenale, in «Nuovo Giornale d’Italia», 45 (1794), p. 361 (estratto conservato
in BCU).
che abbastanza rarefatte, a causa della mancanza
di cura riservata nei tagli periodici delle stesse.
A tali difetti si sommava la presenza di «luoghi
assai ampi bassi e paludosi, dai quali non s’alzano piante di sorta». La causa del dissesto era
da imputarsi all’interramento pressoché totale
del canale Molon (o Melon), destinato allo scolo
delle acque, così come quasi inesistenti erano
oramai i fossi circostanti il bosco. Ciò precludeva il deflusso delle acque in eccesso e favoriva
l’ingresso nel bosco agli animali al pascolo negli
appezzamenti confinanti, con conseguenti danni
soprattutto ai novellami.
Considerati mediocri sono invece gli altri
due boschi. Il Banduzzo o Bandizziol era molto
simile per situazione e potenzialità al bosco Pressaccone, un po’ più curato di quest’ultimo, ma
per un terzo della sua estensione completamente
«danneggiato dalle acque, che vi stagnano, ciò
che deriva dalle medesime cause, che si sono
addette parlando del bosco Pressaccone». Il
bosco Frattuzze, invece, era «in maggior disordine di Pressaccone e Banduzzo sì per riguardo
alle piante adatte, che per conto dei novellami»,
ma privo di luoghi bassi dove stagnano le acque
e, per questo motivo, maggiormente sfruttabile
per la coltura di nuove piante.
Sempre su Corbolone, un secondo documento offre un quadro ancora più dettagliato
della situazione. Il riferimento è alla relazione
presentata da Giovanni Arduino ai «provveditori e patroni all’arsenale», datata 20 novembre
1769, nella quale vengono descritti i boschi
presenti in zona, forse fra i più sfruttati per le
necessità navali della Serenissima78. La visita
dell’Arduino ai «pubblici boschi della villa di Corbolone del Friuli, nominati Prassaccone,
Pra delle Grive, Martinuzzo e Frattuzze», aveva un duplice obiettivo: da un lato controllare
dettagliatamente la consistenza, tipologia, ricchezza e lo sfruttamento dei boschi in esame,
dall’altro «riferire a pubblico lume le ragioni delli discapiti, che ne’ boschi stessi appariscono
dall’una all’altra catasticazione ed i posteriori degradi»79.
Lo stato in cui ritrovò i boschi non era molto dissimile da quello descritto in precedenza. In particolare, il bosco Pressaccone risultava caratterizzato da alcuni «siti bassi e
paludosi», così come gli era già stato segnalato dal locale capitano, i quali erano pressoché
privi di alberi e venivano ormai da tempo immemorabile goduti in parte dalla comunità e
in parte dal guardiano del bosco, ricavandone innanzitutto fieno palustre per gli animali
d’allevamento e legname per le costruzioni. Uno sfruttamento collettivo che non inficiava
l’utilizzo pubblico del bosco il quale, al di là delle zone paludose, risultava ricco di legname
di ottima qualità, con roveri «in molto numero e per la maggior parte vegeti, alti e belli»,
che potevano raggiungere in alcuni casi anche i sei piedi di circonferenza, affiancati da una
«quantità di rovereti giovani di buona venuta, cioè di novellami rinati dalle zocche di roveri
stati tagliati, e di semenzali nati da ghiande, de’ quali ne sono d’ogni grossezza, dalla più
sottile fino ad un piede e mezzo, ed alcuni fino a due crescenti di volta»80.
Anche per quanto concerne i due boschi contigui di Pra delle Grive e Martinuzzo,
l’Arduino rileva la presenza di numerosi siti bassi e vallivi, privi totalmente di alberi e utili
294
solo a produrre fieno palustre, goduti parte dalla comunità e parte dal guardiano dei boschi
stessi. Entrambi erano caratterizzati da un fondo magro e di bassa fertilità, poco favorevole
alla produzione di roveri per le costruzioni navali, lasciando così alle comunità la possibilità
di sfruttarli maggiormente per i bisogni familiari e domestici, oltre che per il riatto di ponti
ed opere pubbliche.
A questi boschi si aggiungeva quello detto «delle Frattuzze, ch’esiste a sera delli sopraddetti e che da’ medesimi è distante». Considerato dall’Arduino particolarmente «magro e
tristo», la sua qualità variava considerevolmente da zona a zona, passando da porzioni infime
a porzioni abbastanza buone. È il caso per esempio di alcune aree interne dello stesso bosco,
ricche di «roveri vecchi mezzanamente alti e buoni, dalli due piedi in tre e mezzo circa di
volta». Dato positivo era anche la presenza di «numerosi novellami e semenzali, molti de’
quali sono vegeti e di buona venuta».
Una situazione, dunque, che presentava notevoli difformità di utilizzo da bosco a bosco;
se infatti il Pressaccone e le Frattuzze mantenevano all’epoca e manterranno effettivamente
fino alla caduta della Repubblica un marcato interesse pubblico, gli altri erano praticamente
nella loro totalità assoggettati all’utilizzo collettivo della comunità di Corbolone e di alcune
comunità circostanti. Fatto quest’ultimo segnalato anche dall’Arduino, su testimonianza di
«Stefano Stefanato d’anni sessanta circa, guardiano delli boschi Pra delle Grive e Martinuzzo
e Frattuzze», il quale affermava come già da diversi decenni e certamente molto «prima
dell’anno 1740 da’ comuni si pascolava liberamente nei boschi sopraddetti».
Tale sfruttamento poteva risultare dannoso per i boschi, poiché cagionava danni alle piante
arboree, specialmente a quelle più giovani, senza contare che le comunità avevano molte volte
l’interesse a debellare i novellami al fine di ridurre a prato o addirittura ad arativo alcune
zone precedentemente boschive, praticando in tal modo dei veri e propri usurpi. È proprio
su quest’ultimo punto che verte la seconda parte della relazione dell’Arduino, focalizzata
295
Tipo dimostrante il taglio della
svolta del fiume Lemene nella
località detta la Fratuzza nella
comune di Concordia e serve
di allegato alla stima del relativo
fondo, mappa della seconda metà
del Settecento.
ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe
e disegni, 59.
sulle «ragioni delli discapiti de’ boschi suddetti, apparenti dall’una all’altra catasticazione,
e dei posteriori degradi», molto spesso associati esplicitamente all’erroneo sfruttamento da
parte delle comunità locali e all’incuria riservata dal custode alla preservazione dei boschi
assegnatigli. In realtà, però, secondo la ricostruzione dell’Arduino la situazione è ben diversa,
dato che le divergenze tra i due catastici del 1726 e del 1741 non andrebbero ricercate
in uno sfruttamento improprio del bosco, né tanto meno negli usurpi, quanto piuttosto
nell’imprecisione e nella non comparabilità dei due catasti stessi. Scrive l’Arduino:
Per rilevare da che possono essere derivate le insigni differenze, spezialmente nella quantità tra il catastico 1726 e quello del 1741, io ho attentamente incontrato e confrontato
il circondario e figura di ciascuno de’ suddetti quattro boschi, colli rispettivi disegni del
catastico del 1741, de’ quali a quest’oggetto mi ho formate fedeli copie prima di partire
dall’inclita Dominante. Gli disegni di Pressaccone esistenti nel detto catastico a carte 151,
del Pra delle Grive a carte 189, di Martinuzzo a carte 190 e delle Frattuzze a carte 153
(sono costretto di dirlo a lume del vero) gli ho trovati, confrontandoli con la faccia de’
luoghi da essi rappresentati, talmente difettosi ed erronei, che la quantità ne’ medesimi
enunziata, per mio sentimento, non è punto attendibile. Oltre ch’essi non mostrano gli scoli
maestri ed i fossi circondanti e conterminanti i boschi, né i siti vallivi ed altre particolarità
[…]. La quantità de’ boschi suole rilevarsi dalla figura planimetrica, che con misure e col
mezzo di stromenti geometrici se ne forma sopra luogo dagl’ingegneri quando la figura di
qualsiasi estesa di terreno, rilevata in carta, non sia precisamente simile a quella dello stesso
terreno, ma non se ne può sapere al giusto la quantità; e perché una figura planimetrica
sia simile a quella del terreno rappresentato, è di tutta necessità che (come s’esprimono
i geometri) abbia gli angoli uguali ed i lati proporzionali. Ora questo appunto è ciò che
manca enormemente nei predetti disegni, che si veggono quasi per tutto molto dissimili
dal circondario e figura de’ rispettivi boschi. Quindi non è maraviglia che le loro quantità
enunziate nel catastico 1726 tanto differiscano da quelle del catastico 1741 nel quale Prassaccone si fa minore di campi 61, e tavole 61; Pra delle Grive e Martinuzzo insieme minori
poco meno di campi 11 e le Frattuzze minori di campi 47 e tavole 349½. L’antichità e
stato de’ fossi circondanti e che servono di confine a detti boschi non danno sospetto che
tale minorazione di quantità dal primo al secondo catastico sia causata da usurpi, e ciò
conferma tanto maggiormente ch’essa dipende da inesattezza delle misurazioni81.
Risolta la questione relativa all’estensione boschiva, l’Arduino elenca gli interventi da
realizzare per aumentare la redditività dei boschi esaminati. Il primo punto segnalato dal
tecnico veneto, data la copiosa presenza di acque, riguardava la necessaria limitazione delle
esondazioni di fiumi e torrenti. Tali boschi erano effettivamente «soggetti a innondazioni
alte e lunghe, causate dalle grandi escrescenze e rotte d’argini della Livenza», peggiorate
anche dal fatto che quasi tutti i canali di scolo e i fossi interni agli appezzamenti boschivi
risultavano interrati e quelli rimanenti erano assolutamente insufficienti a drenare le ingenti
quantità di acque che si riversavano in alcuni periodi dell’anno, quali per esempio i mesi
autunnali di ottobre e novembre, e quelli primaverili di marzo e aprile. Il miglioramento
degli appezzamenti doveva dunque passare inevitabilmente attraverso la realizzazione di
nuovi scoli e canali, a partire «dalli boschi Pressaccone e Bandiziolo, che hanno quantità
di roveri buoni e vegeti» e che risultavano, nel momento della visita dell’Arduino, «quasi
interamente perduti e senza utilità né pubblica, né privata». A fianco agli interventi idraulici,
il tecnico veneto consigliava anche
di nettarli da’ spini e cespugli, dai quali il suolo è sommamente occupato, e di tagliare
tutti i roveri tristi e decrepiti, epiteti che li comprendono, se non tutti, almeno la massima
parte, [...] di tagliare vicino a terra tutta la moltitudine di novellami e di semenzali di
pessima e stentatissima venuta, affinché producessero nuovi germogli, […] di rompere il
terreno, dov’essi semenzali mancano o sono troppo rari, e di seminarvi ghiande a stagione
opportuna e nei modi convenienti82.
296
Erano interventi solo apparentemente dispendiosi, ma facilmente affidabili alle cure di
poche famiglie locali83. Essi erano basati sui più aggiornati sistemi della nascente silvicoltura europea e avrebbero potuto produrre di lì a pochi anni ottimi risultati, fornendo non
solamente alla Serenissima ottimi roveri per la costruzione di navi, ma anche buoni introiti
alle stesse famiglie occupate nella gestione del bosco.
Sebbene i documenti ne omettessero quasi sempre la citazione, pure la villa di Sesto
aveva un bosco di ragione pubblica, che era tuttavia sfruttato anche privatamente dagli
abitanti secondo usi antichi e consuetudinari84. Esso era volgarmente detto comugna, e pur
essendo praticamente inutile per l’arsenale, era affidato alle cure di un guardiano. A tale
bosco, come segnalato in precedenza, si univa una serie di altri boschi, fra i quali figuravano
la «boschettina de signori Maschj», «il bosco detto Contarini», il «bosco detto di Sopra di
Fagion», il «bosco detto dell’Acqua de’ nobili uomini Tiepolo e Micheluzzi», ritenuti di
buona qualità, e il «bosco detto del Cucco del commune», di qualità mediocre e sfruttato
collettivamente dalla comunità di Sesto.
6. Prati e pascoli fra diritti d’uso e abusi
La seconda componente fondamentale del patrimonio collettivo è quella dei pascoli. In
effetti, come si è potuto vedere in precedenza, i Privilegi di concessione dei beni ai comuni
relativi all’area di Sesto rivelano un’ampia componente prativa e pascoliva, preponderante
rispetto a quella boschiva, salvo l’eccezione di alcune zone. Questo era dettato essenzialmente dalla conformazione del territorio che, rientrante in piena zona di risorgive e dunque
ricco di acque per tutto il corso dell’anno, favoriva il mantenimento di pascoli naturali. Il
problema essenziale di questa tipologia di beni era che su di essi, fin da tempi immemorabili, incombevano numerosi diritti di utilizzo, soprattutto legati allo ius pascendi, che ne
limitavano fortemente ogni altro tipo di destinazione e naturalmente anche la vendita. I
diritti di pascolo e gli usi civici, gravanti non solo sui comunali ma anche su fondi privati,
frenavano le proposte e le direttive di riforma pensate dagli accademici e sottraevano a ogni
miglioramento una buona fetta del patrimonio immobiliare friulano. Infatti, come ha
297
Disegno e configurazione delli
beni arrativi, prativi nec non
fondi di case di ragione delle venerande chiese di San Giacomo
e Santa Petronilla della villa di
Savorgnano sotto Sesto del Friuli,
mappa del perito Giacomo Scodellari, 28 settembre 1790.
ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe
e disegni, 147.
sottolineato Furio Bianco, «a paralizzare il progresso del sistema agricolo e ad impedire la
realizzazione di nuovi rapporti di proprietà concorrevano anche le consuetudini di pascolo,
in particolare il pensionatico e il pascolo ad erba morta. Il pensionatico, il pascolo invernale
delle pecore, fondato su consuetudini di epoca antichissima e di origine incerta, era la più
importante tra le servitù di pascolo»85.
Esso prevedeva la divisione delle zone ad esso soggette in poste, che venivano gestite di
norma da un ente ecclesiastico, da un membro dell’aristocrazia veneziana o da un feudatario
di Terraferma; nel caso di Sesto, esse facevano direttamente capo all’abate. Al titolare delle
poste spettava il diritto di concedere, di norma dal 29 settembre al 25 marzo, «il pascolo su
tutti i terreni aperti non seminati, dando la precedenza alle pecore terriere, ossia appartenenti a quel determinato comune amministrativo e ospitando poi – quando ne rimanesse
la possibilità – le forestiere che erano per lo più montane»86. Con questo sistema, paradossalmente, il proprietario di un fondo non poteva condurre su di esso il proprio gregge senza
corrispondere al titolare della posta un canone calcolato o sull’ampiezza della posta stessa
o, molto più spesso, sul numero di capi di bestiame cui era consentito l’accesso al fondo.
In effetti, ogni singola posta poteva accogliere un numero ben determinato di pecore,
variabile a seconda della tipologia, posizione e caratteristiche del terreno. Questo
limite prestabilito di capi per ogni singola posta aveva il fine di evitare un eccessivo
sfruttamento e impoverimento dei terreni. Tuttavia, il più delle volte il limite non
veniva rispettato, poiché sulla preservazione e tutela dei fondi prevaleva l’interesse
del beneficiario delle poste, naturalmente propenso ad aumentare i capi per singola
posta al fine di incrementarne gli introiti. Una legge veneta del 1765 all’incirca
fissava gli introiti a cinque soldi per pecora, anche se ben presto in diverse zone si
erano venuti triplicando se non quadruplicando. Benché apparentemente regolata
con precisione, la gestione delle poste era viziata da numerose illegalità. Spesso,
infatti, i pastori provenienti dalla montagna verso la pianura per pascolare il loro
gregge erano disposti a pagare somme più elevate pur di ottenere il permesso di
pascolo per un numero di capi maggiore a quello previsto e in modo da evitare
lo smembramento del gregge. Alle pecore, poi, si aggiungevano diversi muli, a
volte un cavallo, alcuni cani, qualche mucca e molto spesso, frammiste al gregge
di pecore e in esso ben nascoste, numerose capre, invise ai contadini per la loro
proverbiale voracità87.
Proprio il pensionatico (e con esso il pascolo promiscuo o comune) era uno degli oggetti
polemici che coinvolgeva maggiormente le comunità soggette al controllo dell’abbazia di
Sesto. Nello specifico, da una nota dell’agosto del 1765 concernente i «proprietarii delle
poste di pecore esistenti nelle pertinenze dei infrascriti comuni» facenti parte della «giurisdizione di sua eminenza monsignor Giovanni Corner abbate della badia di Sesto» si
evincono il numero delle poste esistenti, il nome degli affittuari che le avevano a carico e
il prezzo pagato per le stesse:
Sesto: Affittata a Valentin Sutto per lire 24; Casarsa: Affittata al comun per lire 4 oltre
l’obbligo di condur materiali e legnami in Sesto occorrenti alla badia suddetta; Gleris, e
Bagnarola: Affittata a S. […] Maria Zorzi per lire 60; Savorgnan: Affittata al comun per
lire 48; Versiola: Affittata al comun per lire 15; Stalis, e Venchiaredo: Affittata al comun
per lire 12; Bagnara: Innafitata ricava da circa lire 30; Gruaro: Affittata al comun per
lire 84; Boldara: Affittata alli consorti Daneluzzi per lire 28; Gaio della Siega: Affittata
al comun per lire 60; Mure di Sesto: Affittata al S. […] Lorenzo Loredan per lire 28;
Marignana: Affittata alli signori conti Roncali per lire 24; Barco: Affittata alla veneranda
chiesa per lire 12; Fagnigola: Affittata al signor Carlo Zanchi per lire 36; Corbolon:
Affittata alla veneranda chiesa per lire 588.
Ogni villa menzionata, secondo quanto specificato nella Nota, aveva un’unica posta da
rintracciarsi più o meno nelle vicinanze dei rispettivi abitati. Il diritto di gestione della stessa
era in mano all’abate che periodicamente tramite un suo preposto (di norma con contratti
298
della durata di tre anni) l’affittava ricavando il corrispettivo specificato singolarmente89. Un
esempio fra i tanti, per rendere un’idea della tipologia di contratto che veniva stipulato, è
quello relativo alla posta della villa di Savorgnano. In un atto datato 26 ottobre 1749 si legge:
Io sottoscritto faccendo come sopraintendente generale dell’eminentissimo e reverendissimo signor cardinale Girolamo Colonna promaggiordomo di nostro signore abbate, e
perpetuo commendatario della reverendissima abbazia di Sesto, a cui compete il titolo
e godimento del ius pensionatico delle ville componenti, e soggette alla giurisdizione
medesima, come prerogative del feudo giurisdizionale in ordine all’antico uso, ed alla
terminazione 16 maggio 1746 degl’illustrissimi, ed eccellentissimi provveditori alle rason
vecchie della città dominante di Venezia, ho dato e ad affitto semplice concesso all’illustrissimo signor conte Antonio di Polcenico e Fanna la posta delle pecore, e degli animali
minuti di Savorgnan per anni 3 che terminerà alla festa di san Giorgio dell’anno 1752
avendo il suo cominciamento nell’anno corrente, e ciò con tutte le prerogative, azioni,
ragioni, e titoli a detta abbazia competenti, e per affitto annuo da pagarsi al san Giorgio di
cadaun anno, principiando nel prossimo venturo 1750, e così negli altri due susseguenti
danari 44, ed un buon agnello alla santissima pasqua promettendo sotto l’obbligazione.
Francesco conte Bonisoli sovraintendente generale della suddetta reverenda abbazia90.
Il pensionatico non era tuttavia la sola servitù di pascolo alla quale erano soggetti i fondi,
fossero essi pubblici o privati. Molto diffuso in tutta la patria del Friuli era infatti anche il
vago pascolo o pascolo ad erba morta, che consisteva nella possibilità riservata ai terrieri di
pascolare il bestiame (in questo caso soprattutto cavalli e bovini, ma anche suini e a volte
pure le temutissime capre) su prati sia comunali sia privati. Considerato non un diritto reale
(qual era per esempio il pensionatico), ma un semplice e dannosissimo abuso, il vago pascolo
durava di norma dal giorno di san Matteo (21 settembre) al giorno di san Marco (25 aprile),
non era regolamentato da nessuna specifica legge, aveva un’applicazione molto variegata e,
per questi motivi, rimaneva aperto a molteplici abusi. Esso fu abolito con la legge veneta
del 24 aprile 1790, ma perdurò e fu nuovamente vietato dal governo austriaco nel 1821.
Un’altra servitù di pascolo, presente anche nella zona sestense, era il pascolo promiscuo, da
non confondersi col vago pascolo anche se per alcuni versi era simile. Esso consisteva nella
possibilità, dietro reciproco accordo, da parte dei comunisti di condurre al pascolo le pecore
proprie sui fondi altrui e viceversa. In questo caso, diversamente dal vago pascolo, non si
configurava un abuso, bensì un reciproco accordo e una mutua concessione91.
Ritornando però al pensionatico, la discussione relativa alla sua regolamentazione ed
abolizione fu affrontata in modo ampio a partire dalla seconda metà del Settecento e, in
modo ancora più approfondito, nel corso degli anni Ottanta del secolo, quando, in seguito
ad una richiesta avanzata dal deputato all’agricoltura Angelo Querini, fu avviata una nuova
inchiesta (la terza in ordine di tempo dopo quelle del marzo del 1773 e del maggio del 1775)
e avanzato un invito a quattro accademie agrarie (Udine, Conegliano, Vicenza e Verona)
a predisporre un concorso sul tema: «Quali provvidenze e quali allettamenti si potrebbero
immaginare a persuadere li pastori montani a stazionare fuori delle pianure anche nell’inverno con le loro pecore alimentate nelle stalle»92.
Fu una riflessione generale che portò di lì a poco a interrogarsi in modo esteso sulla
possibilità di abolire totalmente il pensionatico. Il dibattito proseguì ampiamente negli
anni intercorrenti tra la caduta della Repubblica e l’avvento del Regno d’Italia, anche se
effettivamente gli interessi da colpire risultavano ancora troppo alti, dato che lo ius pascendi
era quasi sempre detenuto da enti ecclesiastici e patrizi veneziani. Per l’abolizione del pensionatico bisognò attendere addirittura una legge emanata il 25 giugno 1856, che fissò
l’ultimo periodo utile per l’esercizio del pensionatico all’anno 1859-1860. Si estingueva
così un diritto esercitato da molti secoli.
Già i decenni finali della Repubblica veneta erano stati segnati da innumerevoli memorie
volte alla limitazione e all’abolizione di tale diritto, e in genere di tutti i diritti di pascolo,
insistenti sulla piena proprietà della terra e considerati altrettante remore allo sviluppo
299
agrario. In una prolusione del 31 luglio 1772, letta presso l’Accademia di Udine, il conte
Giulio Asquini, figlio di Fabio, affrontò in prima persona la questione, connettendola in
modo diretto con l’incremento della pratica dell’allevamento e l’aumento del numero dei
bovini93. Nel testo, l’Asquini non si fa remore nel considerare il diritto di pascolo, nella sua
accezione più ampia, ma soprattutto il pascolo ad erba morta, uno «jus quanto pieno di
allettamento in se stesso, altrettanto rovinoso a qualunque stato. Tale e non altro per mio
sentimento è il principio della dannosa pratica che ancora sussiste fra noi, come in vari altri
stati, di far pascolare il bestiame su beni altrui». I beni in questione erano quelli di pianura,
dove gran parte del bestiame ovino dei monti scendeva per svernare, giungendo anche
dall’estero. E pastori tesini si ritrovavano in tutta la Terraferma veneta e, con particolare
copiosità, nel basso Friuli, fra la linea delle risorgive e le paludi circumlagunari di Grado,
Marano, Portogruaro e Caorle. In questo quadro rientrava il territorio di Sesto, ricco di
prati e di incolti, che attirava da secoli i pastori discendenti dai monti. Per quanto riguarda
gli incolti un documento del 174594, intitolato Numero de campi inutili, e pustotti, che si
trovano del 1745 nelle infrascritte 239 ville della patria del Friuli, consente di ricostruire la
loro consistenza nella zona di Sesto e nel territorio ad essa circostante. In ordine alfabetico
si segnalano alcune fra le località principali, quantificando immediatamente di seguito il
numero di campi inutili o pustoti rilevati: Barco campi 221, Boldara campi 8, Bagnara campi
166, Bagnarola campi 336, Cordovado campi 200, Cinto campi 192, Fagnigola campi
189, Gruaro campi 79, Giai di Sesto campi 284, Summaga campi 214, Sesto campi 370,
Taiedo di Porcia campi 40, Versiola campi 229. I numeri sono considerevoli e illuminano
sulle prospettive di soluzione e di sviluppo.
Oltre all’Asquini, negli stessi anni anche lo Zanon si schierò contro i diritti di pascolo
che causavano la rovina dei fondi, specie privati, ma anche di pubblica utilità. Il riferimento,
come era stato a proposito dei beni comunali, è ancora alla situazione inglese, dove a dire
del mercante
i pastori pretendevano che tutte le terre de’ proprietarj stessero aperte ai loro greggi ed
armenti, com’era delle terre comuni, che tutti i villaggi possedevano in grande estensione:
onde tutte queste terre venivano abbandonate, per così dire, alla natura, calpestate e smunte
nove mesi dell’anno dal bestiame, ch’essendo affamato ed affaticato, e ritrovando poco
alimento, veniva ad irritare piuttosto, che a saziare la fame. Ora svelte continuamente le
più minute erbe, che vanno giornalmente spuntando, che può sperarsi ne’ tre mesi cocenti,
in cui si lasciano in pace le pasture, acciocché maturino i fieni? Quest’uso, o piuttosto
abuso è nella più verde osservanza nella nostra provincia, e continue liti cagiona, e perpetue risse; onde meriterebbe di essere preso in considerazione. L’antica consuetudine, le
leggi municipali difendono e sostengono a favore de’ villani questi diritti; ma potendosi
ridurre a dimostrazione, che questi sono più perniciosi che utili a’ villani stessi, non sarebbe
difficil cosa l’indurli con l’esperienza a toccare con mano, e però ad esser convinti, che
maggior vantaggio loro deriverebbe se si operasse diversamente. Già da molti uomini
dotti in questa materia si studia molto sopra l’introduzione de’ prati artifiziali, e si fanno
degli sperimenti, per dimostrare essere molto più vantaggioso il nodrire gli animali nelle
stalle, che lasciarli erranti devastar le campagne95.
La città di Portogruaro solcata dal
Lemene che raggiunge Concordia,
ed il territorio circostante nella
carta di Anton von Zach, Das
Herzogtum Venedig, Kriegskarte,
1798-1805; XV.13 [Portogruaro]
Österreichisches Staatsarchiv Wien,
Kriegsarchivs.
Anche per lo Zanon, dunque, la pratica di pascolare liberamente il bestiame sopra le terre
private o pubbliche, oltre ad essere la causa di un depauperamento del suolo, martoriato dal
continuo e incontrollato passaggio di animali, era una fortissima limitazione alla trasformazione in senso razionale dell’agricoltura. La libera proprietà e il pieno sfruttamento della
terra erano per l’appunto pesantemente limitati da diritti che si opponevano alla prosperità
stessa dell’agricoltura, causando la perdita parziale o talvolta totale dei prodotti ricavabili dai
fondi, senza in cambio dare all’allevamento la necessaria spinta propulsiva e il giusto stimolo
per estendersi in modo significativo. Ad essere compromessa era soprattutto la fertilità del
terreno, il quale si trovava per tutto l’autunno e l’inverno e fino ad aprile o addirittura a
maggio inoltrato ad essere calpestato dal continuo passaggio degli animali.
300
301
In realtà gli interventi sul tema dei pascoli, dell’utilizzo dei terreni incolti e della
privatizzazione e messa a coltura di quelli comunali si susseguirono per decenni in
modo abbastanza serrato, senza tuttavia intaccare o modificare in profondità la
situazione esistente, che rimase immutata fin oltre la caduta della Repubblica di
Venezia. Saranno gli anni napoleonici e post napoleonici a portare i primi progetti complessivi di riforma in ambito agrario e nel particolare settore dei beni
collettivi e degli usi civici96. Lo testimonia per esempio Francesco Rota con la
sua Memoria per la riduzione a coltura dei beni comunali: «il proteggere l’agricoltura è l’unico mezzo di accrescere la popolazione» e «l’agricoltura protetta sarà
quando tolti li beni comunali, venghino accordate e stabilite le proprietà»; «la
distinzione del mio, del tuo, se suscitò l’origine dei particolari litigi, delle civili
discordie, affezionò ancora l’uomo al buon ordine che richiedevasi nel godere
dei suoi possedimenti; e nel sentire l’utile delle sue fatiche, impegnarono l’uomo
stesso a consacrare tutti i suoi studi nel coltivare ed aumentare questa sorgente»97. Ma
questa è un’altra storia che non si interseca cronologicamente con la vita dell’abbazia e della
sua plurisecolare signoria.
302
Note
1 - Sulla pratica della commenda nella Repubblica
di Venezia cfr. Pizzati 1997. Sulla consistenza e
gestione dei patrimoni e degli enti ecclesiastici si
vedano in particolare: Stella 1958; Landi 1996;
Pastore, Garbellotti 2001; Todeschini 2002;
Landi 2004; Landi 2005.
2 - Per approfondimenti si rimanda al saggio di Giuliano Veronese contenuto nel presente volume.
3 - Si veda al proposito: Pazzagli 2008.
4 - Sul tema: Berengo 1985, p. 865-890; Del
Negro 1992, p. 25-34; Georgelin 1978; Pasta
1993, p. 484-501.
5 - Nel corso di una seduta accademica, ben prima
che venisse fondata la Società d’agricoltura pratica,
Prospero Antonini aveva recitato in data 11 giugno 1759 un Discorso sopra i mezzi di accrescere e di
migliorare l’agricoltura nella patria del Friuli; in esso,
partendo da una riflessione sulle opere agronomiche
classiche e moderne (Varrone, Plinio, Columella, Strabone, Gallo e Tarello), venivano sviscerati i problemi
che affliggevano l’agricoltura friulana, senza tuttavia
aprire coscientemente alle nuove idee agronomiche
d’oltralpe, viste ancora con diffidenza.
6 - Sulle accademie agrarie nella Repubblica veneta
e, in particolare, a Udine si vedano: Del Negro
1996, p. 451-489; Fanfani 1979, p. 287-307; Gullino 1985, p. 379-410; Gullino 1992, p. 371-384;
Morassi 1980; Morassi 1992; Simonetto 2001;
Tonutto 1997.
7 - Morassi 1980, p. 33-43.
8 - Segnaliamo i seguenti quesiti: «Ottavo quesito.
Quali provvidenze e quali allettamenti si potrebbero
immaginare a persuadere i pastori montani a stazionare fuori delle pianure anche nell’inverno con le
loro pecore alimentate nelle stalle. E per quali premi
e con quali penalità facili da verificarsi, si potessero
condurre i possessori o comunisti a rimettere a prato
ed a bosco li terreni svegrati con il pubblico divieto,
non che a conservare quelli che restano ancora in
essere» (1783); «Quesito nono. Estendere in forma
di dialogo nello stile più semplice e chiaro col titolo
di Dottrina agraria la migliore istruzione i contadini
ne’ principi generali di una buona agricoltura pratica
e nei particolari più propri alle circostanze di questa
provincia, dirigendo singolarmente l’istruzione a promuovere, con l’evidenza dell’interesse privato, il bene
pubblico nella moltiplicazione e miglior governo della
specie bovina e delle pecore» (1784-1785); «Quesito
decimo. Indicare la cagione della mancanza di animali
da macello in Friuli e suggerire quei mezzi da rimediarvi, i quali col secondare la migliore agricoltura
siano anche tali, che per la loro facilità ed utilità,
invitino gli abitanti a metterli in pratica» (1786);
«Quesito duodecimo. Una chiara e piena istruzione
della più utile e più adattata piantagione delle siepi,
tanto per la parte alta del Friuli, quanto per la bassa»;
«Quesito decimoterzo. 1. Indicare le cagioni del decadimento de’ boschi nel Friuli sì di pubblica che di
privata ragione, e spezialmente di quelli di quercia.
2. Dichiarare il danno che ne è quindi venuto e ne
viene alle arti, al commercio ed all’agricoltura. 3.
Suggerire i rimedi per la restituzione e rinnovazione
dei boschi medesimi, con una esatta informazione
del modo di piantarli, governarli e conservarli». Il
giorno stesso della pubblicazione del quesito viene
letta la memoria del padre Stella (1790); «Quesito
decimoquarto. Si domanda dove si trovino nel Friuli
veneto le più copiose e più agevoli miniere di carbon
fossile e di quale indole e natura siano ed a qual classe
appartengano» (1792-1793). (ASUd, Archivio Florio,
b. 60, Fascicolo senza nome, Elenco dei quesiti proposti
dalla società agraria di Udine, dal quesito sesto al quesito
decimoquarto…).
9 - Morassi 1980, p. 55-56.
10 - I concetti di eguaglianza e cooperazione non
vanno intesi nel senso di una democraticità diffusa
dove ogni membro della comunità aveva lo stesso
valore sociale, bensì, pur nella permanenza di disparità economiche, di ruolo e di mestiere, come una
profonda affinità di status fra tutti coloro che erano
coinvolti nella gestione delle dinamiche comunitarie.
Una partecipazione collettiva allo sfruttamento dei
beni, per esempio, che vedeva ogni membro della
comunità, o meglio ogni cittadino originario (poiché
la distinzione con i foresti permane forte ed invariata ed è alla base della vita comunitaria), assumere
un ruolo ben determinato e paritario nel confronto
degli altri individui. E questo avveniva nonostante «la
gestione delle risorse e dei beni comuni si svolgesse
all’insegna dei reticoli parentali» (Povolo 2002).
11 - Povolo 2002.
12 - Anton von Zach nacque a Pest in Ungheria il 14
giugno 1747, nel 1760 entrò nell’Accademia militare
di Vienna e vi rimase fino al 1765, quando terminò
gli studi. Tra il 1772 e il 1783 (data in cui venne
nominato capitano) ricevette una serie di incarichi,
sia di rilevazione che di insegnamento. Nel 1792
partecipò col grado di maggiore alle campagne contro
la Francia e, quattro anni dopo, come colonnello
diventò il quartiermastro generale del comandante
dell’armata austriaca in Italia, generale Beaulieu.
Nel 1798 guidò i rilevamenti delle province veneziane acquisite dopo il trattato di Campoformio (17
ottobre 1797), ricevendo l’anno seguente la nomina
a generalmaggiore e, successivamente, a capo di Stato
maggiore dell’armata imperiale in Italia. Nella battaglia di Marengo (14 giugno 1800) fu fatto prigioniero
con tutto lo Stato maggiore. Rilasciato, fino al 1805
condusse il rilevamento del Ducato di Venezia, fino
a quando, dopo aver ripreso il suo ruolo di capo di
Stato maggiore, nel dicembre del 1805 (dopo la pace
di Presburgo) divenne governatore di Trieste. Morì
a Graz il 22 novembre 1826.
303
13 - Venne scelta una scala che fosse relativamente
dettagliata, ma non troppo ridotta, al fine di garantire
la raffigurazione di un territorio abbastanza ampio
finalizzata a soddisfare una molteplicità di esigenze.
Per questo motivo il disegno venne eseguito in seguito
ad un lavoro contemporaneamente topografico e
geometrico, onde unire la precisione geodetica con
la cura nei confronti dei dettagli.
14 - Al riguardo si veda: Kriegskarte 2005, p. 12-13,
18-27, 493-504, 587-600, nonché le tavole xiv.13,
xv.11 e xv.12.
15 - Sulla questione si vedano in particolare: Vallerani 1992; Il Parco 2003.
16 - Vallerani 1992, p. 25-29.
17 - A solo titolo di esempio, si ricorda come il
Lemene veniva sfruttato in diversi punti del suo corso
per azionare mulini e ruote d’acqua, così com’era in
parte anche per gli altri corsi d’acqua. A Bagnarola
c’erano ben quattro salti d’acqua, a Cinto funzionava
un importante mulino, e bene o male tutta la zona
di Sesto era caratterizzata da ruote e mulini di più o
meno grandi dimensioni, utilizzati non solo per la
macinazione, ma anche per fornire energia ad alcune
attività artigianali, soprattutto battiferro, segherie e
manifatture tessili.
18 - Era un sistema che veniva usato per bonificare le
zone umide. Due le tipologie di bonifiche utilizzate
soprattutto a partire da metà Seicento: la bonifica per
prosciugamento e la bonifica per colmata. Quest’ultima era in realtà applicabile solo in prossimità di
fiumi in grado di trasportare notevoli quantità di
torbide, le quali si sarebbero depositate successivamente sul terreno. Negli anni Cinquanta del Seicento, per esempio, Francesco Mocenigo richiese alle
magistrature venete di poter bonificare una porzione
di territorio mediante l’escavazione di un canale di
scolo parallelo alla roggia Lugugnana. Un intento
illuminato, che poco più di un secolo dopo animerà
il suo successore Alvise Mocenigo che organizzerà
proprio in queste terre un’azienda agraria modello.
Si veda nello specifico: Bellicini 1983, e il saggio
di Furio Bianco nel presente volume.
19 - Vallerani 1992, p. 75-79.
20 - ASVe, Provveditori sopra i boschi, b. 131.
21 - Vallerani 1992, p. 114.
22 - Vallerani 1992, p. 130.
23 - Sulla questione e su quanto si segnalerà in seguito
si veda: Bianco 1994, p. 151-178.
24 - Berengo 1963, p. 127-138.
25 - Barbacetto 2008, p. 15-24.
26 - Si vedano al proposito soprattutto: Dal Borgo
2003, p. 11-34; Ferrari 1918, p. 5-64; Pasa 1997, p.
135-149; Pitteri 1985, p. 57-80. Per quanto riguarda
la valenza del termine comugna e la sua diffusione si
segnala il recente paragrafo stilato in Duca, Dorsi,
Cosma 2009, p. 176-177.
304
27 - Per un quadro d’insieme: Morassi 1997, p.
160-178.
28 - Illuminante in materia è Appuhn 2009.
29 - Barbacetto 2008, p. 15-24. In realtà, come
segnala Furio Bianco, «per la mentalità collettiva
non era agevole distinguere, sul piano giuridico e
nell’organizzazione del lavoro agricolo, i terreni di
proprietà allodiale del comune – chiamati nel linguaggio comune e cancelleresco beni comuni, acquistati,
ottenuti da donazioni e suscettibili di essere affittati, coltivati o livellati – da quelli di proprietà regia,
destinati per lo più al pascolo e a pratiche colturali
consuetudinarie: molto spesso all’interno della giurisdizione del villaggio identici erano lo sfruttamento,
la gestione collettiva e le modalità di accesso» (Bianco
1994, p. 62).
30 - Bianco 1994, p. 54. Sulla questione si veda
anche: Ciriacono 1981, p. 123-158.
31 - «Il seroit à désirer que dans tous les Pays où il y
a des Communes & des Terres vaines & vacue qui
appartiennent au Roi, sa Majesté voulût les accenser aux Particuliers de la Paroisse, pour être par eux
possédées en propriété; le Roi en retireroit une rente
annuelle; ces Terres se défricheroient, & procureroient
ensuite des Lods & Ventes; au lieu que ces Terreins
étant possédés par la Communauté, ils ne produisent
pas le quart de ce qu’ils rendroient s’ils étoient divisés.
[…] Il en est de même des Terres en friche; il y en
a beaucoup qui seroient cultivées; mais personne
n’ose mettre du grain dans un champ de Commune,
il faudroit défricher & clôre, c’est trop d’embarras
lorsqu’un n’est pas propriétaire. Si le Seigneur a des
Bois communaux avec ses Censitaires, il peut demander qu’ils soient divisés en trois parts, & en retiner le
tiers pour lui, afin de l’administrer par lui-même, en
renonçant à rien prétendre dans le reste, quand même
il auroit le moindre fond & le plus détérioré. S’il le
fait receper à blanc & s’il le conserve, sa partie vaudra
au bout de trente ans mieux qua la double portion
de la Paroisse. On ne peut exprimer avec quelle peu
d’intelligence & avec combien d’abus, une Communauté de Paroisse exploite ses Bois communaux. Le
Seigneur a ce pendant un intérêt sensible à tenir la
main à la bonne exploitation des Bois communaux
d’une Paroisse […] parceque ces Bois bien administrés sont une ressource infinie pour cette Paroisse»
(traduzione dell’autore): Quesnay 1759, p. 200-202.
32 - Finzi 1995, p. 11-25.
33 - ASUd, Archivio Comunale Napoleonico, b. 276,
fasc. 324, Memoria di Giacomo Cavassi datata 1805.
34 - ASUd, Archivio Florio, b. 60.
35 - Per approfondimenti si rimanda alle relazioni
contenute in ASUd, Archivio Florio, b. 60.
36 - BCU, FP, 989, fascicolo 4, Numero de’ campi
inutili, e pustotti, che si trovano del 1745 nelle infrascritte 239 ville della patria del Friuli.
37 - ASUd, CRS, b. 476, fascicolo 141, f. 16r.
38 - Per i dati si rimanda a De Cillia 2001, p. 125.
Nonostante la situazione di Sesto veda una buona
preservazione dei beni comunali, bisogna tuttavia
sottolineare come la vendita delle comugne, con lo
scorporo di pascoli, boschi e paludi, generò uno scossone nella vita economica e sociale delle comunità
della patria, modificando più o meno profondamente,
da zona a zona, il regime fondiario, la composizione
del paesaggio agrario, l’organizzazione produttiva,
l’equilibrio tra proprietà e coltivatori, tra le varie
comunità e, all’interno di esse, tra i molteplici nuclei
familiari (Bianco 1994, p. 81-82). Per la situazione
precedente alle vendite, interessante appare: Guaitoli
1984, p. 33-55. Maggiori dettagli sulle vendite sono
contenuti nel saggio di Furio Bianco contenuto nel
presente volume.
39 - Sul Paludo del Vescovado: De Cillia 2001, p.
40-41; si veda inoltre il saggio di Furio Bianco nel
presente volume.
40 - Il documento è conservato presso l’Archivio della
Direzione centrale delle risorse agricole, nella sede di
Udine della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.
Tra le varie documentazioni l’archivio conserva sei
volumi rilegati contenenti le copie dei privilegi dei
beni comunali concessi in utilizzo dalla Repubblica
di Venezia ai comuni del Friuli. Per quanto attiene
al documento citato e agli altri privilegi riguardanti
l’area di Sesto al Reghena, si rimanda al secondo
volume, intitolato Provincia del Friuli. Investiture
di beni comunali in tempo veneto. Giurisdizione di:
Spilimbergo Sesto Cordovado Savorgnano. Altri tre
volumi rilegati riguardano lo stato dei beni comunali
nell’anno 1818 (Provincia del Friuli. Stato dei beni
comunali. 1818). La scelta di utilizzare le copie anziché
gli originali, conservati presso l’Archivio di Stato di
Venezia, è stata dettata da un lato dalla conformità
delle copie stesse rispetto agli originali, dall’altro dal
più accessibile e facile utilizzo delle copie udinesi.
41 - A proposito della gestione politica dei beni comunali si rimanda a: Pitteri 1985.
42 - Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Archivio Direzione centrale risorse agricole, Investiture di
beni comunali in tempo veneto, vol. ii, Giurisdizione di:
Spilimbergo Sesto Cordovado Savorgnan, documento
intitolato Versiola.
45 - Oltre a Marignana e Villotta, alcune comugne
erano condivise con Braida. Si legge infatti, in una
copia di un documento del 1606, la comunità di
Braida: «comunar con Marignana nel Sacilot, nell’Albaredo, nella Malmosa sotto Sesto, nel Ronchiat e
nella bassa detta Cargnia la qual tutte comugne hanno
posseduto con quelli sotto Sesto, eccetto il Ronchiat
nel qual hanno pretension che sia suo libero» (Regione
autonoma Friuli Venezia Giulia, Archivio Direzione
centrale risorse agricole, Investiture di beni comunali
in tempo veneto, vol. ii: Giurisdizione di: Spilimbergo
Sesto Cordovado Savorgnan, documento intitolato
Marignana).
46 - La consistenza e formazione dei patrimoni di
alcune fra queste famiglie sono state ricostruite in:
Morassi 1995, p. 27-41.
47 - Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Archivio Direzione centrale risorse agricole, Investiture di
beni comunali in tempo veneto, vol. ii: Giurisdizione di:
Spilimbergo Sesto Cordovado Savorgnan, documento
intitolato Giai (l’inventario dei beni comunali è datato
12 marzo 1789).
48 - Petronio 1992, p. 931. Per una chiarezza maggiore si rimanda inoltre a: Marinelli 2003, p. 1-71.
49 - «Storici ed addetti ai lavori hanno coniato una
vasta gamma di sinonimi, di espressioni, di dizioni e
di perifrasi per designare tali realtà: così “beni comuni,
beni collettivi, beni comunali”. Ma anche usi civici,
termine attribuito nell’età moderna; “beni pubblici
o beni demaniali”, per qualificare la loro matrice
erariale; “domini collettivi”, per rimarcare i diversi
livelli di titolarità; “risorse collettive”, per designare
l’insieme delle risorse utilizzate dalle diverse Comunità. Ed inoltre, “Regole, Comunanze, Partecipanze,
Consorterie, Consortele”, appellativi tutti rivolti
all’individuazione e/o all’indicazione di situazioni
particolari, caratterizzate da normative e statuti propri» (Duca, Dorsi, Cosma 2009, p. 23).
50 - Secondo il pensiero di François Quesnay,
«dal diritto di proprietà “mantenuto in tutta la sua
estensione naturale e primitiva” risultavano necessariamente tutte le istituzioni che costituivano la
forma essenziale d’una società agricola» e, dunque,
esse potevano funzionare ed esplicarsi correttamente
solamente se tale diritto veniva rispettato: Longhitano 1993, p. 28.
51 - Marinelli 2003, p. 1-71.
43 - Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Archivio Direzione centrale risorse agricole, Investiture di
beni comunali in tempo veneto, vol. ii, Giurisdizione di:
Spilimbergo Sesto Cordovado Savorgnan, documento
intitolato Bagnarola.
52 - Marinelli 2003, p. 28; sul pensiero fisiocratico
e la fisiocrazia si vedano in particolare: Miglio 2001;
Meek 2003; Labriola 2004; Candela, Palazzi
1979; Maffey 1987; Longhitano 1988; Albertone
1979; Zagari 1984.
44 - Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Archivio Direzione centrale risorse agricole, Investiture di
beni comunali in tempo veneto, vol. ii: Giurisdizione di:
Spilimbergo Sesto Cordovado Savorgnan, documento
intitolato Marignana.
53 - «La culture ne peut s’exécuter avec succès que
sous le loix de la propriété. Il n’est pas possible d’imaginer une culture exécutée en commun entre un grand
nombre de familles: car pour coultiver avec succès, il
faut autre chose que des bras; il faut quelqu’un qui
305
ait droit & intérêt de gouverner les travaux. […] La
propriété foncière est donc une institution de première nécessité, conforme à la justice & à l’intérêt
commun de la société […]» (traduzione dell’autore):
Le Trosne 1777, p. 35-37 nota.
54 - I Capitoli e memoriale della Società d’agricoltura
pratica dell’Accademia di Udine vennero sottoscritti
in data 14 settembre 1762 da Fabio Asquini, Antonio di Montegnacco, Giuseppe Sabbadini, Antonio
Zanon, Pietro Someda e Giovan Fortunato Bianchini,
significativamente divisi fra tre appartenenti al ceto
nobile e tre laici.
55 - Gullino 1986, p. 394.
56 - Gullino 1986, p. 381.
57 - Sulla sua figura: Tabacco 19802; Pitteri 2007.
Interessante anche il volumetto: Tron 1994.
58 - Del Negro 1992, p. 25-34; Del Negro 1996,
p. 476; Simonetto 2001.
59 - La prima serie, diretta dal Griselini, copre il
periodo 1764-1776; la seconda, denominata «Nuovo
giornale d’Italia», è diretta da Alberto Fortis e poi
da Alvise Milocco e va dal 1776 al 1784; mentre la
terza e ultima, diretta da Giovanni Arduino, copre
gli anni 1789-1797.
60 - Sulla sua figura e attività si veda: Vaccari 1992,
p. 129-167; Simonetto 1998, p. 9-44.
61 - Del Negro 1996, p. 453-454; Del Negro
1986, p. 112 e 130. Si segnala anche: Leicht 1922.
62 - Barbacetto 2008, p. 259-274.
63 - Zanon 1828, vi, Lettera X (sui beni comunali),
p. 332-333.
64 - Zanon 1828, vi, Lettera X (sui beni comunali),
p. 317.
65 - Beltrami 1961.
66 - Particolare risonanza in ambiente veneto riceve
nel secondo Settecento il libretto intitolato Le praterie
artificiali di Simon-Philibert de la Salle de l’Étang,
che tra il 1756 e il 1762 conosce ben tre edizioni e
che, nel 1765, viene stampato a Venezia per i tipi di
Bartolomeo Occhi. Sulla questione si veda: Simonetto 1998, p. 9-44.
67 - Lazzarini 1993, p. 39-76; Lazzarini 1994,
p. 29-40.
68 - Zalin 1982, p. 537-555.
69 - Sul bosco si rimanda soprattutto a: Vecchio
1974; Lazzarini 1998, p. 94-124; Bianco 2001;
Lazzarini 2002; Lazzarini 2002; Bianco, Lazzarini 2003; Lazzarini 2009.
70 - Francesco Maria Stella è anche autore di una
memoria Sui boschi del Friuli, presentata agli Inquisitori all’arsenale e pubblicata nel 1790 nel «Nuovo
Giornale d’Italia», Venezia 1791, ii, p. 41-47.
71 - Morassi 1980, p. 159-196.
306
72 - I riferimenti sono contenuti nella relazione basata
sul Catalogo de’ boschi del Friul di là dal Tagliamento
dedotti dal catastico N.V.Z. Alvise Mocenigo 3.o provveditore generale di Palma Inquisitori Boschi 1743 nel
quale sono in serie disegnati in pianta con terminati
li boschi con la enumerazione delle piante a bosco per
bosco, conservata in ASUd, Archivio Florio, b. 60,
fascicolo rilegato senza nome.
73 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo rilegato
senza nome, Catalogo de’ boschi del Friul di là dal
Tagliamento dedotti dal Catastico N.V.Z. Alvise Mocenigo 3.o provveditore generale di Palma Inquisitori
Boschi 1743 nel quale sono in serie disegnati in pianta
con terminati li boschi con la enumerazione delle piante
a bosco per bosco. Più o meno gli stessi boschi sono
segnalati nella Relazione sullo stato dei boschi del Friuli,
in Morassi 1980, p. 173-174.
74 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo rilegato
senza nome, Riferta de’ boschi del Friuli presentata agli
eccellentissimi inquisitori all’arsenal...[1790].
75 - Il riferimento per Cinto è a: ASUd, Archivio
Florio, b. 60, fascicolo rilegato senza nome, Riferta de’
boschi del Friuli presentata agli eccellentissimi inquisitori
all’arsenal...[1790].
76 - Il riferimento per Corbolone è a: ASUd, Archivio
Florio, b. 60, fascicolo rilegato senza nome, Riferta de’
boschi del Friuli presentata agli eccellentissimi inquisitori
all’arsenal...[1790].
77 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo rilegato
senza nome, Riferta de’ boschi del Friuli presentata agli
eccellentissimi inqusitori all’arsenal...[1790].
78 - Copia della relazione di Giovanni Arduino,
trasmessa alla Società agraria di Udine, è contenuta
in ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo senza nome
contenente documenti sui boschi del Friuli. Per le
citazioni riportate nel testo si fa dunque riferimento
al documento in questione.
79 - Il riferimento è ai due catastici del 1726 e del
1741, che l’Arduino prende come punto fermo per
valutare le modifiche in positivo e in negativo subite
dai boschi di Corbolone. Per una panoramica sui catasti veneti in terra friulana, un riferimento più accurato
è presente in Andreozzi, Panariti 2008, p. 19.
80 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo senza
nome, relazione di Giovanni Arduino datata 20 settembre 1769.
81 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo senza
nome, relazione di Giovanni Arduino datata 20 settembre 1769.
82 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo senza
nome, relazione di Giovanni Arduino datata 20 settembre 1769.
83 - Scrive l’Arduino: «L’usare ai boschi le indicate
attenzioni non sarebbe, a mio credere, una gran spesa,
poiché i guardiani colle loro famiglie, o con pochi
altri assistenti nelle opportune stagioni, potrebbono
supplire quando vi stassero assiduamente occupati
e non avessero bisogno di procurarsi d’altronde la
sussistenza. Qualche proporzionato gastigo alli veramente mancanti, e qualche sicuro premio conveniente
e agevolmente conseguibile alli diligenti, potrebbono
essere stimoli assai efficaci per ottenere l’intento;
non parlando però del taglio e disgombro de’ spini
e cespugli, che non credo loro appartenga e cui non
potrebbono supplire»: ASUd, Archivio Florio, b. 60,
fascicolo senza nome, relazione di Giovanni Arduino
datata 20 settembre 1769.
84 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, fascicolo rilegato
senza nome, Riferta de’ boschi del Friuli presentata agli
eccellentissimi inquisitori all’arsenal...[1790].
85 - Bianco 1994, p. 155. Sulle leggi riguardanti il
pensionatico si consiglia: Gloria 1851.
86 - Berengo 1963, p. 116.
87 - Berengo 1963, p. 117.
88 - BCU, FP, 989, fascicolo 3: Nota dei proprietarij
delle poste di pecore esistenti nelle pertinenze dei infrascriti comuni, e di quanto annualmente venga pagato
(agosto 1765).
89 - Numerosi documenti relativi alle poste di cui era
titolare l’abbazia di Sesto sono contenuti in ASUd,
CRS, b. 477, fascicoli 192, 192a, 192b; b. 480, fascicolo 268.
90 - ASUd, CRS, b. 480, fascicolo 268, Savorgnano:
locazione delle poste delle pecore, 1749.
91 - Berengo 1963, p. 122-127.
92 - Circolare dei Deputati all’agricoltura datata 3
dicembre 1783 alle accademie agrarie di Udine, Conegliano, Vicenza e Verona, in ASVe, Provveditori sopra
beni inculti. Deputati all’agricoltura, b. 9, f. 164v-165.
93 - ASUd, Archivio Florio, b. 60, Memoria per servire di risposta alle ricerche fatte dall’eccellentissima
Deputazione sopra l’agricoltura di 15 gennaio passato.
Letta nella pubblica Società agraria di Udine li 31
luglio 1772 dal conte Giulio Asquino, ed approvata
dalla Società stessa.
94 - BCU, FP, 989, fascicolo 3, Numero de campi
inutili, e pustotti, che si trovano del 1745 nelle infrascritte 239 ville della patria del Friuli, tratte dalle polize
giurate de’ communi 1740 e 1741 esistenti nella cancelleria della patria stessa non comprese in queste le
esenti, et altre, che non presentarono le polize, o non
espressero la summa.
95 - Zanon 1828, i, p. 208-209.
96 - Si segnalano sull’argomento soprattutto: Grossi
1977; Agostini 1998; Bianco 2003; Pitteri 2005,
p. 117-135.
97 - Rota 1798, in Bianco 2003, p. 103-109.
307
Sigle e bibliografia generale
a cura di Andrea Tilatti
Sigle
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= Archivio della Curia Arcivescovile di Udine
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= Archivio Comunale di San Vito al Tagliamento (pn)
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= Archivio Storico Diocesano di Concordia-Pordenone
ASMi
= Archivio di Stato di Milano
ASPn, ANA = Archivio di Stato di Pordenone, Archivio notarile antico
ASTv, ANPS = Archivio di Stato di Treviso, Archivio notarile prima serie
ASUd, CRS = Archivio di Stato di Udine, Congregazioni religiose soppresse
ASUd, NA
= Archivio di Stato di Udine, Notarile antico
ASVe
= Archivio di Stato di Venezia
BCP
= Biblioteca Comunale di Portogruaro
BCU, FP
= Biblioteca Comunale “V. Joppi” di Udine, manoscritti del Fondo Principale
BCU, Joppi = Biblioteca Comunale “V. Joppi” di Udine, manoscritti del Fondo Joppi
BCV
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BNMVe
= Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia
DBI
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IREV
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Una figura di statura europea tra ricerca scientifica ed operare concreto, Atti del Convegno, Sesto al
Reghena-Ramuscello, 13 dicembre 1997, a cura
di C. Zanier, Sesto al Reghena (pn)
Zanin 2004 = L. Zanin, I ricchi amministratori
dell’Abbazia. Il ruolo dei ministeriali di Fagnigola e della piccola proprietà locale nei secoli XIII-XIV
alla luce di alcuni documenti inediti, «Sot la nape», lvi, 5-6, p. 19-25
Zoccolettoc = G. Zoccoletto, Un piviale
paonazzo e nero. L’ultima commenda dell’Abbazia di Sesto, dattiloscritto
Zoff 1991 = R. Zoff, “E qui mi costruirete una
chiesa…”. Leggende e santuari mariani nel Friuli
Venezia Giulia, Gorizia
Zoia 2009 = E. Zoia, Ciamár pan e vin. Invocazioni di prosperità nel falò epifanico di Barco,
«Sot la nape», lxi, 1, p. 59-64
Zonta, Brotto 1970 = Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1406 ad
annum 1450…, ii: 1435-1450, ed. G. Zonta,
G. Brotto, Padova
Zovatto 1977 = P. Zovatto, Il monachesimo
benedettino del Friuli, Quarto d’Altino (ve)
Zuccarello 2005 = U. Zuccarello, I Vallombrosani in età postridentina (1575-1669).
Tra mito del passato e mancate riforme, Brescia
375
Indice delle illustrazioni
a cura di Claudio Lorenzini
I fregi delle pagine di apertura di ciascun saggio, sono
particolari tratti dalla serie cartografica del patrimonio
immobiliare del Capitolo di Concordia, conservata
in ASDPn, Archivio capitolare, vii, Mappe e disegni,
tutte risalenti alla seconda metà del Settecento e riconducibili allo stesso perito. Questi i riscontri: p. 1
(Giuseppe Trebbi): 31, «Concordia». Terreno detto
Basse; p. 29 (Andrea Tilatti): 36, «Concordia in loco
detto Spareda». Braida detta Spareda; p. 83 (Flavio
Rurale): 34, «Concordia». Terreno detto Li Capitoli;
p. 119 (Michela Catto): 42, «Concordia. Loco detto
Pontecasai». Terreno detto Bassi; p. 141 (Giuliano
Veronese): 35, «Concordia in loco detto Urlon». Braida
detta Urlon; p. 173 (Claudio Lorenzini): 40, «Concordia in loco detto il Marango». Porzione di terreno
paludivo; p. 211 (Furio Bianco): 41, «Concordia in loco
detto le Diesime». Braida detta La Bassa; p. 273 (Alex
Cittadella): 37, «Concordia in loco detto San Pietro».
Braida detta Le Piancate e altre due braide; p. 309-310
(Nadia Boz - Gian Paolo Gri): 37, «Concordia in loco
detto San Pietro. Braida detta Le Piancate e altre due
braide» e 32, «Concordia». Braida detta Conta.
Le immagini piccole, corredate il più delle volte da un
regesto di atto notarile e prive di didascalia, sono il
frutto della decorazione della «I» dell’esordio di ciascun
atto – «In Christi nomine amen.» – del registro del
notaio Baldassarre Capra, che rogò i suoi atti a San
Donà di Piave, Camposampiero e San Martino di
Lupari nei primi decenni del Cinquecento. Il registro
conservato in BCU, FP, 1446, fascicolo 1, copre
l’intervallo dal 1519 al 1528. Queste le corrispondenze: Giuseppe Trebbi: p. 10 (f. 281r), 11 (289r), 18
(287v), 22 (194r); Andrea Tilatti: p. 30 (f. 286r), 31
(168v), 43 (153r), 50 (312r), 51 (150r), 58 (265r), 62
(193v), 64 (161r), 65 (159r), 66 (148r), 69 (172r);
Flavio Rurale: p. 86 (f. 190r), 88 (411v), 89 (185r),
99 (172v), 106 (359r), 107 (168v); Michela Catto:
p. 123 (f. 160v), 129 (170v), 135 (199r), 136 (262r);
Giuliano Veronese: p. 147 (f. 175v), 148 (167r), 156
(162r), 161 (270v), 163 (275r), 167 (185v); Claudio
Lorenzini: p. 174 (f. 221r), 184 (154v), 192 (295r),
197 (in alto 184v, in basso 152r), 199 (in alto 211v,
in basso 217r), 204 (173v); Furio Bianco: p. 224
(f. 158v), 225 (180r), 228 (141r), 229 (184r), 246
(188v), 247 (189r), 250 (183v), 251 (185v), 252
(183r), 263 (158v); Alex Cittadella: p. 274 (f. 181r),
275 (189v), 280 (182r), 281 (180v), 288 (143r), 289
376
(188v), 298 (259r), 302 (278v); Nadia Boz - Gian
Paolo Gri: p. 180 (f. 285v), 322 (164r), 324 (176r),
326 (151r), 334 (182v), 345 (in alto 171v, in basso
171r), 346 (in alto 176v, al centro 292v, in basso
291v).
La paternità di ciascuna immagine è segnalata in calce
alle didascalie. Ove non segnalata, come nei rilievi
cartografici e documentari e nelle cartoline illustrate,
viene qui indicata in corsivo nelle corrispondenze di
seguito elencate. Archivi, biblioteche, musei Archivio
della Curia Arcivescovile di Udine: p. 110-111, 132,
344; Archivio Comunale di Sesto al Reghena: p. 37;
Archivio fotografico della Soprintendenza B.S.A.E.
per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso: p. 149, 340, 343; Archivio di Stato di Venezia,
Servizio di fotoriproduzione: p. 16, 32-33, 103, 194,
198, 248-249, 282-283, 330; Biblioteca Comunale
Ariostea di Ferrara, Collezione Riminaldi: p. 102;
Circolo Culturale Menocchio, Montereale Valcellina
(pn): p. 316, 319; Civici Musei e Gallerie di Storia e
Arte di Udine: p. 15, 52; Museo civico di Belluno: p.
152, 178-179, 312, 319, 322, 325, 327-328; Museo
diocesano d’Arte sacra della Diocesi di ConcordiaPordenone: p. 314-315; Museo diocesano e Gallerie
del Tiepolo di Udine: p. 7-8, 12, 101; Österreichisches Staatsarchiv Wien, Kriegsarchivs: p. 239, 276,
278, 301. Fotografi Stefano Barbacetto, Bolzano: p.
230; Gianni Cesare e Giuliano Borghesan, Spilimbergo (pn): p. 56-57, 84, 154-155, 226-227, 337;
Nadia Boz, Barcis (pn): p. 332; Claudio Lorenzini,
Udine: p. 2, 13, 16, 21, 35, 39, 164, 193, 196, 217218, 256, 287, 290, 294; Stefano Padovan, Sesto al
Reghena (pn): p. 4, 40, 42, 48, 60-61, 67, 70, 97,
128, 143-145, 162, 181, 214, 216, 221, 241, 317,
341; Giulietta Papais, Sesto al Reghena (pn): p. 223,
242; Luciano Peschiutta, Savorgnano (pn): p. 249;
Lucio Peressi, Udine: p. 338-339; Luigi Rossi, Sesto
al Reghena (pn): p. 239, 261; Andrea Tilatti, Udine:
p. 47 e le immagini piccole tratte dal registro del notaio Baldassarre Capra; Vittorio Turozzi, Pordenone:
p. 333; Riccardo Viola, Mortegliano (ud): p. 1, 5,
7-8, 12, 29, 45, 49, 67-68, 71, 83, 91-92, 94, 96,
100-101, 105, 108, 112, 119, 121-122, 125-127,
130-131, 134, 141, 151, 158-159, 173, 183, 186,
188-191, 200-201, 211, 220, 232, 234-236, 243,
245, 254-255, 258-259, 273, 284-285, 292, 295,
297, 309-310, 329.
Indice
Presentazioni
Comune di Sesto al Reghena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Provincia di Pordenone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Andrea Tilatti, Premessa generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giuseppe Trebbi, L’inquadramento politico istituzionale dell’abbazia-commenda di Sesto
nella Repubblica di Venezia dopo la dedizione della patria del Friuli (1420)
1. Dopo la conquista veneziana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Contrasti fiscali e giurisdizionali fra Quattro e Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . .
3. I Grimani abati di Sesto, da Domenico a Giovanni (1503-1593) . . . . . . . . . . .
4. Un abate commendatario nel cuore della controriforma:
Antonio Grimani (1582/1593-1628) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Vicende seicentesche dell’abbazia e soppressione
settecentesca della commenda abbaziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Andrea Tilatti, Nascia di un comune. La comunità di Sesto alle sue origini (secoli XIV-XVI)
1. Antefatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Dalla “curtis” ai villaggi e un’istantanea sestense di metà Trecento (circa) . . . . .
3. Sesto capitale: “officia et officiales, edificia et loca” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Dal policentrismo al comune di Sesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Abitare e vivere: case e famiglie di uomini di Sesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Tessiture di rapporti: interferenze e stratificazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Flavio Rurale, Abate, monaci e patriarca. Tra compromessi e conflitti
1. Governatori, capitani, cancellieri, notai, esattori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Feudo e commenda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Un microcosmo religioso, politico, economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La nomina dell’abate commendatario: un compromesso tra Roma e Venezia . .
5. Gli abati patrizi veneziani: i Grimani tra ragion di famiglia e ragion di Stato . .
6. La presa di possesso temporale e i poteri giurisdizionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Diritti e doveri dell’abate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Fiscalità veneziana e nepotismo papale: le pensioni ecclesiastiche . . . . . . . . . . .
9. Giudici abbaziali e comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10. La cancelleria. Liti e discussioni teologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
11. Le confraternite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
12. Tra conflitti giurisdizionali e pericolose devozioni:
l’immagine miracolosa di Pieve di Rosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
13. Il clero secolare e il difficile percorso di emancipazione delle chiese filiali . . . . .
p.
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Michela Catto, Eresia e indisciplina nell’abbazia di Sesto al Reghena in età moderna
attraverso le indagini del tribunale della santa inquisizione
1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. La visita apostolica di Cesare de Nores (1584-1585)
e le prime testimonianze sull’abbazia: “Troverete le tenebre et non la luce” . . . .
3. Un luterano nella cancelleria abbaziale: la vicenda di Paolo di Nebbio (1584) .
4. Il Seicento: altari sconsacrati, liturgia sbeffeggiata
e ancora eresia tra i monaci dell’abbazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Guaritrici e miscredenti: due donne del popolo di Sesto . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Il Settecento: un caso di “sollicitatio ad turpia” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Verso l’allontanamento dei monaci: “la chiesa come una stalla”,
i monaci che non intendono la “lingua friulana” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Giuliano Veronese, Le pratiche della giustizia e delle ufficilità
1. Il “problema” feudale in Friuli. Da abbazia a marchesato . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. I poteri, gli ufficiali, le procedure nel feudo di Sesto. La relazione Ronconi . . . .
3. Gli “statuti criminali” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La “periferia” della giurisdizione abbaziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Un lento processo di ridimensionamento. Leggi feudali e prassi giudiziaria . . . .
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161
Claudio Lorenzini, “Tra chei chu vivin sott la giaiada dell’agna femina
dalle ballancis di Siest”. Vincoli e strutture economiche fra le comunità soggette
e l’abbazia in età moderna, fra pratiche e prassi
1. Prologo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Cominciare dalla fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Proseguire dall’inizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Descrivere e contare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Comunità e comunali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Produrre/consumare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Muoversi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. “Nevouts”/Nipoti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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204
Furio Bianco, Economia e società rurale nella bassa pianura del Friuli occidentale
in età moderna. Le rendite dell’abbazia di Sesto
1. I censi e le rendite feudali dell’abbazia di Sesto (secoli xvii-xviii).
La gestione dei Bia e dei Mocenigo nell’Ottocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il paesaggio agrario. Le terre collettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La privatizzazione dei comunali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La proprietà nel Settecento. Il riordino fondiario e la riorganizzazione aziendale
5. Persistenza delle servitù di pascolo e dei vincoli feudali . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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297
Alex Cittadella, Nel secolo dei Lumi. Il dibattito accademico sugli usi civici
e sul possesso collettivo
1. Agricoltura ed economia tra modernità e permanenza: il caso di Sesto . . . . . . .
2. Una fotografia di fine regime: il territorio sestense
nella carta di Anton von Zach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. I beni comunali sestensi nel Settecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La Società d’agricoltura pratica e il dibattito agronomico in ambiente veneto . .
5. Il bosco fra pubblico e privato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Prati e pascoli fra diritti d’uso e abusi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
398
Nadia Boz - Gian Paolo Gri, “L’ombrena di Siest”.
Le comunità sestensi di montagna e di pianura: aspetti di cultura popolare
Parte prima
Nadia Boz, Tradizione, quotidianità e territorio nelle ville in montibus
1. Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Comunità soggette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Supplicare il cielo per ricevere aiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. “Volemo un prette che facia a nostro modo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. “Viver da christiani” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Comunità vicine e lontane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Dal quartese alla tradizione migratoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Ultima opera santa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Parte seconda
Gian Paolo Gri, Tratti di cultura folklorica nella bassa pianura
1. “A son tris-c’ i sotàns di Siest!” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. “Il luogo è piccolo”; ma dai molti legami . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. “Dio ha lassato i prienti acciò l’omo si possa aiutare” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sigle e bibliografia generale (a cura di Andrea Tilatti)
Sigle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bibliografia generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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355
Indice delle illustrazioni (a cura di Claudio Lorenzini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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376
Indice dei nomi di persona e di luogo (a cura di Andrea Tilatti) . . . . . . . . . . . . . . . . .
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377
399