Nella selva incantata degli indizi
La selva incantata
Lo ricordavano molto bene, senza ombra di dubbio, anche se ora le
sue sembianze apparivano meno rudi e inselvatichite: l’uomo seduto
in un angolo della cucina dell’osteria, intento a rifocillarsi, era lo stesso
che in quel pomeriggio del 15 aprile, noncurante di tutto e di tutti, aveva dormito sul prato sottostante la chiesa parrocchiale, con quella sua
inseparabile sacchetta poggiata a terra, accanto a sé1.
E così i tre lo afferrarono con foga per il collo e per le braccia, chiedendogli ad uno stesso tempo i documenti. Trafelati, i loro compagni
avevano prudentemente circondato l’osteria nel timore di una sortita
improvvisa dell’uomo. Erano stati subito avvertiti dall’oste, che ne aveva inconfondibilmente individuato le sembianze. Accorsi con prontezza, non avevano avuto dubbi che si trattasse della stessa persona apparsa improvvisamente in paese nella primavera precedente. L’uomo,
pur dimostrandosi sorpreso ed irritato dell’aggressione subita, non
aveva comunque opposto alcuna forma di resistenza. All’interno di
una manica della sua grande giacca scoprirono con stupore che nascondeva una lunga e pesante leva di ferro.
E come potevano dimenticarsi di quel giovane forestiero dalla figura slanciata ed inconfondibile, di circa 28-30 anni? Sembrava uno di loro e parlava lo stesso dialetto, anche se il suo portamento suggeriva che
potesse provenire da qualche lontano villaggio montano. Giunto in
paese si era trattenuto a lungo nell’osteria di Antonio Bicego, giocando
Archivio di Stato di Vicenza (=Asvi), Tribunale austriaco, Penale, busta 303 bis,
protocolli DCCLXXXI-DCCLXXXV.
1
14
La selva incantata
a carte con alcuni di loro. Erano rimasti colpiti dai suoi discorsi, che
sembravano fluire senza interruzioni da quella sua bocca, piccola ma
volitiva, che affiorava da una rada barba bionda disposta tutta attorno
il suo viso largo, sino a confondersi nei capelli castani chiari.
E ricordavano pure quel libretto, dal titolo La selva incantata che, orgogliosamente, aveva loro fatto vedere. Si trattava di un libro con il quale si
poteva fare molti giochi, aveva soggiunto con un atteggiamento misterioso. E ne erano rimasti stupiti, tant’è che, pur a distanza di diversi mesi, ricordavano ancora quel suo parlare senza fine e quel libro misterioso.
Come avevano intuito, si trattava di un contrabbandiere di tabacco
proveniente forse dall’Altopiano d’Asiago e non avevano così fatto più
di tanto caso alla sua presenza in paese, nonostante il suo fare strano e
singolare.
Il giovane si era poi allontanato dall’osteria, chiaramente intorpidito dalla quantità di vino ingurgitato. La sua figura, sormontata da un
grande cappello nero a larghe tese da cui spuntavano ciuffi ribelli di capelli chiari, era stata notata nel prato sottostante la chiesa parrocchiale.
Disteso sull’erba sembrava riposare, con accanto un sacchetto che conteneva, probabilmente, il tabacco da contrabbandare.
Quella stessa notte del 15 aprile qualcuno entrò nella chiesa parrocchiale rompendo il catenaccio della porta laterale. Vennero sottratti tutti gli arredi sacri: un vero e proprio furto sacrilego, che aveva lasciato
sgomento il villaggio.
Avevano appena sospettato di quel giovane forestiero giunto in
paese da chissà dove e poi allontanatosi improvvisamente e misteriosamente, così come era giunto. Ricordavano pure, di quel giorno, come
egli, abbandonato il prato sul quale aveva riposato, fosse poi ritornato
nell’osteria in cui, nello stesso pomeriggio, si era trattenuto per ore. Ed
ivi giunto, si era improvvisamente accorto di aver dimenticato il suo
grande cappello nero sul prato in cui aveva indugiato così a lungo. Un
ragazzo, prontamente inviato dall’oste, glielo aveva recuperato. E così,
infine, aveva lasciato il villaggio. In realtà le prime indagini si erano rivolte verso alcuni individui che nei dintorni non godevano di buona
fama. Senza però alcun esito positivo.
Nessuno aveva comunque potuto mai sapere chi fosse e da dove
provenisse l’uomo che contrabbandava tabacco e portava con sé quel
libriccino intitolato La selva incantata.
Il mistero si svelò la mattina seguente al suo arresto. Da Quargnenta, villaggio posto sulla dorsale collinare che costeggia la vallata
dell’Agno, la sera stessa del 16 novembre 1835, otto degli uomini che
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avevano partecipato alla sua cattura scortarono lo sconosciuto sino alle carceri di Valdagno e il mattino seguente si presentarono al commissariato distrettuale di Valdagno per consegnare tutti gli oggetti che gli
avevano rinvenuto addosso.
Il commissario distrettuale procedette dapprima ad una dettagliata
descrizione dell’individuo che i pattuglianti di Quargnenta gli avevano
consegnato. Una descrizione così meticolosa e precisa, che l’immagine
del giovane, investita di tutta l’intensità del momento in cui venne tratteggiata, sembra ancor oggi emergere vividamente dal fascicolo processuale:
statura piuttosto alta, corporatura scarna, dell’età apparente d’anno 25, capegli biondi lunghi e ricci, fronte alta, sopracciglia bionde, ciglia bionde,
occhi cerulei, naso profilato, bocca piccola, mento acuto, viso largo, barba
bionda, colorito buono. Vestito con giacchetta tonda e braghe lunghe di
panno verdon, gilet simile con rivolte rosse, camicia di tela di canape, fazzoletto di cambrich rosso con fiori gialli, calze di filo nero, capello di feltro
nero con ali larghe, scarpe di vitello nero.
Il commissario distrettuale procedette subito ad un interrogatorio
semplice 2 dell’uomo arrestato. E, con sorpresa, egli apprese così di avere di fronte a sé il famigerato Antonio Caldana di Conco3. E, scrivendo,
il giorno stesso, alla pretura distrettuale di Valdagno annotò un dato
che gli sembrava significativo. Tra gli effetti personali che i pattuglianti
gli avevano sequestrato
haverne tre attinenti al furto, cioè un lungo scalpello da muro, un moccolone di candela di cera da chiesa e quel libro intitolato la Selva incantata4 [che]
nel giorno precedente il detto furto alla chiesa di Quargnenta aveva
l’incolpato fatto vedere nell’accennata bettola dopo aver giuocato alle carte
coi Dani Bortolo fu Santo, Dani Celeste fu Bortolo di Quargnenta e Zano-
Cioè un interrogatorio privo di qualsiasi formalità processuale.
Il giudice Marchesini, cui fu affidata l’istruzione processuale dei numerosi delitti attribuiti al Caldana, annotò come gli uomini di Quargnenta e il commissariato distrettuale, nonostante i verbali stesi inizialmente, che sembravano attestare il contrario, non fossero affatto consapevoli dell’identità dell’uomo che avevano arrestato.
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Sottolineato nel documento.
5
Particolare che i tre si erano ben guardati dal riferire nella testimonianza raccolta dal tribunale subito dopo il furto, cfr. Ibidem, protocollo CCLXXXI.
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telli Giuseppe di Cristoforo5.
Il 18 novembre 1835 due assessori giurati e il cancelliere della pretura di Valdagno procedettero all’interrogatorio sommario di Antonio
Caldana. In realtà si trattò del lungo monologo di un uomo che sembrava aver conservato tutta la sua calma e la sua freddezza. Un monologo interrotto, di tanto in tanto, dalle brevi domande del cancelliere:
Mi chiamo e sono Antonio Caldana fu Andrea e della fu Maddalena Girardi, d’anni ventisei compiuti il 17 gennaio anno corrente, nato e domiciliato
in Conco, libero di stato, cattolico.
Ho un fratello di nome Bortolo d’anni 30, ammogliato con certa Anna Baster
della provincia di Belluno, che abita fino da quasi venti anni in Monticello,
frazione del comune di Lonigo ed è villico di condizione; nonchè una sorella
di nome Maria d’anni 28, maritata con Giuseppe Rancan ed abitante con esso a San Pietro Mussolin sotto Arzignano. Non ho altri fratelli o sorelle e noi
tre possediamo un campo di terra con piccola casa e stalla situata in Conco.
Questa poca sostanza venne mai sempre amministrata dal tutore Giovanni
Culpo detto Marcon di Conco, presso cui ho il mio domicilio e dimora.
Esercito la professione di campagnolo e lavorante in cappelli di paglia e per
tal modo mi guadagnava da vivere, non essendo all’uopo bastanti i frutti
del fondo dell’eredità paterna che vengono dal tutore divisi per terzo. Verso gli ultimi del decorso gennaio, all’oggetto di avere un maggiore guadagno, pensai bene di esercitare anco la professione di contrabandiere, e capitato in Vicenza onde tentare la vendita di tabacco che aveva occultato in
campagna venni arrestato dalle guardie militari di polizia, rimasi per circa
quaranta giorni nelle carceri di San Biagio e tradotto col mezzo di trasporto in Asiago agli ultimi del successivo febbraio, da quel regio commissariato distrettuale venni sottoposto a politico precetto.
Rimesso in libertà due o tre giorni dopo, a fronte del divieto portato dal
precetto per cui non poteva sortire dal comune di Conco, mi assentai senza
alcun permesso onde ricuperare il tabacco che aveva occultato nei campi
presso Vicenza. Seguitone il recupero e fattane la vendita ritornai in Conco
verso il giorno dieci marzo decorso all’incirca, ma avendo rilevato che le
guardie stavano in traccia onde arrestarmi per quello che aveva contravvenuto al precetto politico, pensai bene di sottrarmi all’arresto con la fuga e
quindi, munitomi di miei vestiti, mi allontanai da Conco verso la metà del
detto mese e da quell’epoca in poi mi mantenni mai sempre girovago, vendendo il tabacco che acquistava in Canale di Brenta e provvedendo col guadagno il mio mantenimento...
Aveva quindici anni quando che la pretura di Asiago mi condannò a sette
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giorni di arresto per furto in danno di Girolamo Pozza di San Giacomo di
Lusiana. Due anni dopo all’incirca la stessa pretura mi condannò ad un mese di arresto per altro furto in pregiudizio di Bernardino Caldana di Conco.
Scontata questa pena mi diedi interrottamente alla professione di contrabbandiere e per ben due volte venni arrestato a Treviso per mancanza di ricapiti e tradotto in Asiago sotto scorta, ove venni sottoposto a politico precetto. Trasgredito il precetto nell’anno 1828, la ridetta pretura di Asiago mi
condannò ad un mese di arresto. Cinque mesi dopo ch’ebbi a scontare questa pena venni arrestato e tradotto alle carceri criminali in Vicenza sulla falsa imputazione di furto di una schioppa, ma pochi giorni dopo venni dimesso con dichiarazione di innocenza. Finalmente, nel successivo anno
1829 venni arrestato in Vicenza e da quel tribunale fui condannato a tre anni di carcere duro per furto seguito in San Nazario e scontata questa pena
ebbi a sortire dalla casa di forza in Padova nel 13 settembre 1833. Un mese
dopo venni arrestato e soffersi una detenzione per sei mesi nelle carceri di
Asiago per contrabando di tabacco. Non ebbi poi altre censure.
Antonio Caldana raccontò poi di quei suoi due viaggi che l’avevano
condotto da Conco a Quargnenta, sempre con quella sua saccoccia contenente il tabacco da vendere e gli oggetti personali che aveva con sé
quando venne arrestato. Aggiungendo che la lunga leva di ferro di cui
era stato ritrovato in possesso l’aveva fortunosamente raccolta lungo la
strada, poco prima di entrare in paese.
Viaggi da contrabbandiere i suoi, intrapresi lungo i versanti collinari che tagliano la pianura. Viaggi solitari, interrotti da brevi soste notturne in fienili e stalle ove riposare. Sempre con quella saccoccia e quei
suoi libri6.
L’interrogatorio condotto nella pretura di Valdagno durò più di
quattro ore. Ma non fu che uno dei tanti e ben più serrati interrogatori
cui egli sarebbe stato sottoposto nei mesi seguenti.
Con quell’interrogatorio, in realtà, era iniziata l’avventura processuale di Antonio Caldana, di cui è testimone significativo il voluminoso
Oltre al «libretto intitolato La selva incantata», Antonio Caldana aveva con sé
«altro simile, intitolato Il purgatorio; simile intitolato Via crucis, altro di divozione
intitolato Modo pratico onde confessarsi». Questi ultimi, probabilmente, furono sottratti dal Caldana in alcune delle molte chiese da lui derubate. Di certo è che, a distanza di molti mesi, egli portava ancora con sé La selva incantata.
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Asvi, Tribunale austriaco, Penale, buste 303 bis-307.
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La selva incantata
fascicolo processuale oggi conservato all’Archivio di Stato di Vicenza7.
Di lì a poco, Antonio Caldana si sarebbe ritrovato di fronte al giudice Bernardo Marchesini, cui, in qualità di relatore, era stata affidata
l’istruzione del processo relativo ai furti avvenuti tra la primavera e
l’estate del 1835 in numerose chiese parrocchiali di villaggi del vicentino. La sua verità e le vicende della sua vita avrebbero dovuto raffrontarsi con la verità emergente dall’inchiesta giudiziaria e, soprattutto,
con le convinzioni di un uomo come Bernardo Marchesini che, tra i giudici che facevano parte del tribunale di Vicenza, era conosciuto come
uno dei più severi ed intransigenti.
Premessa
Questo saggio intende esaminare l’attività svolta da un gruppo di
giudici tra il quarto e il quinto decennio dell’Ottocento nell’ambito del
cosiddetto Tribunale provinciale di Vicenza. La documentazione pubblicata in appendice ne costituisce un’esile testimonianza, tratta dai numerosissimi fascicoli processuali penali oggi conservati presso
l’Archivio di Stato di Vicenza. Una scelta, per quanto casuale, andava
ovviamente fatta, ma gli interrogativi suscitati da una documentazione
che, per molti versi, presenta tratti di quasi assoluta novità8, sono molteplici e tali da delineare una serie notevole di problemi che cercherò di
affrontare ricorrendo all’aiuto delle discipline che meglio si prestano
ad affrontare un tema così complesso.
Innanzi tutto alcuni problemi di notevole rilievo sono prospettati dal
valore interpretativo e narrativo di testi che, pur significativi per la loro rilevanza storica, sono stati prodotti da un organo giudiziario il cui fine era
eminentemente quello di assicurare l’ordine pubblico e gli equilibri sociali esistenti. Dai fascicoli processuali emergono vicende, intrecci di fatti e
storie che possono suscitare l’attenzione dello storico e dell’antropologo.
Molto spesso, infatti, il fascicolo processuale filtra in tutta la sua complessità rituale, costituita da testimonianze, confronti, resoconti e quanto altro, pratiche sociali e consuetudinarie di cui non esistono altre tracce, o di
I documenti pubblicati sono essenzialmente costituiti dai referati, cioè dalle relazioni stilate dai giudici nel corso del processo cfr. infra p. 35.
9
Per un’analisi delle possibilità offerte dalla documentazione giudiziaria in questa direzione cfr. il testo curato da Brooks e Gewirtz (1996), anche se, ovviamente, i
8
Nella selva incantata degli indizi
19
cui, pure, si hanno, per lo più, descrizioni che risentono seriamente della
prospettiva culturale diversa di colui che le ha trasmesse sino a noi9.
Il valore, per così dire, istituzionale delle descrizioni trasmesse dal fascicolo processuale implica ovviamente una serie notevole di problemi
interpretativi che derivano dalla natura giuridica e giudiziaria della
documentazione utilizzata. Ma, come vedremo, è proprio la valenza
istituzionale e giuridica di questi documenti che può permettere di valutare la descrizione nella sua effettiva funzione interpretativa rispetto
alla realtà descritta10.
Di certo, si diceva, i testi filtrati dalla documentazione processuale
assumono un indubbio rilievo etnografico. L’attività giudiziaria, infatti,
ci trasmette ex post, una serie di fatti che sono assunti nella dimensione
processuale per la loro qualifica penale. Si tratta di testi che rinviano
dunque ad un’interpretazione condotta da funzionari, che hanno dovuto
occuparsi di reati e quindi di azioni e di comportamenti che sono penal-
saggi ivi compresi sono prevalentemente rivolti al sistema di common law. Come ha
osservato Michele Taruffo, è soprattutto nel contraddittorio che «la dinamica fondamentale del processo sembra essere...quella della contrapposizione dialettica tra posizioni in conflitto, dell’ipotesi e della controipotesi, della tesi e dell’antitesi,
dell’affermazione e della contestazione di ciò che l’avversario afferma», cfr. Taruffo
2002, p. 165. La struttura policentrica del processo, in grado comunque di formulare
narrazioni anche soggettive o comunque strettamente correlate al contraddittorio, si
riduce notevolmente nel processo austriaco, incentrato assai rigidamente sulla dimensione dell’indagine e sull’attività del giudice relatore. Più che di stories e di narrazioni è semmai preferibile parlare di interpretazioni: in primo luogo quella prospettata dal giudice con le sue relazioni; e, in secondo luogo, quella dell’imputato, che
riflette nella sua figura le dinamiche culturali e conflittuali del contesto da cui proviene. Per le implicazioni letterarie e narrative dei testi qui pubblicati rinvio al saggio di G. Pellizzari nel volume collettaneo dedicato all’amministrazione della giustizia penale nel regno Lombardo-Veneto, a cura di G. Chiodi e C. Povolo.
10
Se, come osserva Fabietti, ciò che viene descritto non è tanto una realtà che ci sta
di fronte, «ma delle cose che in qualche maniera sono incastonate in rappresentazioni già nel momento in cui le percepiamo, tanto sul piano dei sensi che sul piano della riflessione», a maggior ragione le descrizioni operate dai giudici con la loro attività,
costituiscono dei testi che, come avremo ripetutamente occasione di esaminare, sono
caratterizzati sia dai loro valori e pregiudizi che, soprattutto, da un insieme di regole
precostituite, anche se più o meno rispettate a seconda dei contenuti che essi veicolano, cfr. sul valore della descrizione in antropologia Fabietti, 2001, pp. 111 e sgg.
11
In questo senso l’indagine etnografica si sofferma in questo saggio soprattutto
sulla dimensione interpretativa svolta da quel ristretto gruppo di giudici qualificati di un sapere e di conoscenze tecniche che entravano costantemente in relazione
con i risvolti penali e criminali del contesto sociale. Tale descrizione etnografica è
20
La selva incantata
mente previsti da un ordinamento giuridico, ma che hanno una loro rilevanza giudiziaria nel momento in cui sono accertati e perseguiti11.
In definitiva fatti descritti e colti nel corso di un complesso iter processuale, ma provvisti di una forte densità narrativa, soprattutto perché filtrati da una procedura come quella austriaca così attenta a definire il valore legale della colpevolezza.
La struttura rigidamente inquisitoria del processo penale austriaco, incentrata sul ruolo del giudice relatore, sull’esclusione dell’avvocato difensore e, conseguentemente, sull’assenza di ogni forma di dibattito che
legittimasse un contraddittorio tra le parti12, sottolineava la marcata dimensione giurisdizionale delle istituzioni giudiziarie nell’individuazione
dei comportamenti devianti (delitti) e l’univocità dell’azione repressiva.
In realtà la spiccata dimensione giurisdizionale del processo austriaco e la sua impostazione decisamente inquisitoria erano fortemente contemperate dal sistema di prove cui dovevano attenersi sia il giudice relatore nella proposizione del suo voto, che il collegio giudicante
nell’esame dei dati probatori emersi nel corso dell’indagine13.
di estremo interesse e, come vedremo, rinvia direttamente ai dati e alle vicende descritte, sollecitando a sua volta l’approccio interpretativo dello storico e
dell’antropologo. In questa direzione è stimolante il lavoro di Garapon 1997. Potremmo pure aggiungere che per lo storico i giudici, con la loro attività, sono dei
veri e propri informatori, in grado di trasmettere una serie cospicua di dati etnografici, filtrati, evidentemente, oltre che dalla specificità della scrittura che li contraddistingue, anche dai criteri tecnico-giuridici che fanno parte del loro bagaglio culturale. Nelle pagine che seguiranno ci si soffermerà soprattutto sulla dimensione
culturale e giuridica di questi informatori (colti nelle loro discussioni) e sulle tecniche da loro utilizzate per rappresentare la realtà emersa dal fascicolo processuale,
mentre la documentazione successivamente pubblicata (i referati) intende presentare al lettore una serie di testi che rinviano direttamente alla realtà descritta. Su
questi problemi cfr. Fabietti 2001, pp. 50-57.
12
Sulla struttura del processo penale austriaco e sulle sue varie fasi che, in questo saggio, sono essenzialmente riprese alla luce del ruolo del giudice relatore e
delle discussioni svoltesi all’interno del consesso giudiziario, cfr. Dezza 1997.
13
L’assenza dell’avvocato difensore e il rigido sistema di prove che sembrava
inibire l’attività giudiziaria, furono all’epoca oggetto di molte polemiche, sia da
parte di avvocati che di giudici. Non mi soffermo su questi aspetti che, in realtà, sono affrontati nella parte centrale del mio saggio. Su queste polemiche rinvio comunque a Raponi 1986, passim. Interessante per cogliere come la percezione dei diversi operatori del diritto sia decisiva nelle valutazioni e nei giudizi espressi nei
confronti del sistema giudiziario e processuale cfr. Sapignoli 1999.
14
Come, ad esempio, due testimonianze concordanti oppure la confessione; cfr.
su questo problema l’ampia disamina di Marchetti 1994, in particolare pp. 155 e sgg.
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21
Di seguito alla crisi del cosiddetto sistema di prove legali positive, che
aveva assegnato un forte valore deduttivo a talune premesse14 e
all’emergere del libero convincimento del giudice15, che nella sostanza
mirava a superare il valore predeterminato della prova16, il sistema giudiziario austriaco aveva accolto alcune delle riflessioni più critiche ed
interessanti emerse nel corso del clima riformatore settecentesco in tema di prove e di accertamento della verità.
Il cosiddetto sistema di prove legali negative previsto dal codice penale austriaco, pur incentrato sul valore legale e predeterminato delle
prove17, aveva comunque come obiettivo primario quello di contenere
la discrezionalità del giudice. Un sistema che, nei suoi significati più intrinseci, è stato ben delineato da Luigi Ferrajoli, accostandolo sia al sistema incentrato sul libero convincimento, che a quello che si reggeva
sulle cosiddette prove legali positive:
Le prove legali positive sono infatti quelle in presenza delle quali la legge
prescrive al giudice di considerare provata l’ipotesi accusatoria anche se tale “prova” contrasta con il suo convincimento; le prove legali negative sono invece quelle in assenza delle quali la legge prescrive al giudice di considerare non provata la medesima ipotesi anche se tale “non prova” contrasta con il suo libero convincimento.
Laddove le prove del primo tipo sono perciò sufficienti a giustificare
l’accettazione della verità dell’ipotesi accusatoria, quelle del secondo sono
invece solo necessarie al medesimo fine; e mentre la presenza delle prime
Sulla prova morale, che si avvale di un paradigma indiziario induttivo e sul libero convincimento del giudice, cfr. Rosoni 1995.
16
Valutato assai negativamente da Ferrajoli che ricorda: «L’abbandono delle
prove legali in favore del libero convincimento del giudice ha però corrrisposto,
per il modo in cui è stato concepito e praticato dalla cultura giuridica post-illuministica, ad una delle pagine politicamente più amare e intellettualmente più deprimenti della storia delle istituzioni penali... La formula del “libero convincimento”,
che di per sé esprime solo un banale principio negativo... è stata infatti intesa acriticamente come un criterio discrezionale di valutazione, sostitutivo delle prove legali... È accaduto così che il rifiuto delle prove legali come condizioni sufficienti della condanna e della pena si è di fatto risolto nella negazione della prova come condizione necessaria del “libero” convincimento della verità dei presupposti dell’una
e dell’altra», cfr. Ferrajoli 2004, pp. 117-118.
17
In particolare sul valore della testimonianza e della confessione, ma, altresì
sulla preconfigurazione dello stesso sistema indiziario. Aspetti, questi, per i quali
rinvio ai numerosi casi affrontati nel corso di questo saggio.
15
22
La selva incantata
rende obbligatoria la condanna, la presenza delle seconde semplicemente
la consente fermo restando l’obbligo, in loro assenza, dell’assoluzione.
Sul piano giuridico, conseguentemente, le prove legali negative equivalgono a una garanzia contro il convincimento erroneo o arbitrario della colpevolezza, assicurando normativamente la necessità della prova e la presunzione d’innocenza fino a prova contraria18.
Un sistema probatorio che, come avremo occasione di esaminare ripetutamente nel corso di questo saggio, costringeva il consesso dei giudici a valutare attentamente gli enunciati probatori emersi nel corso
dell’indagine, anche se il valore deduttivo e predeterminato del sistema di prove cui formalmente dovevano attenersi poteva contrastare visibilmente con il loro libero convincimento.
Questo ordine di problemi, e in definitiva le finalità stesse di questo saggio, mi hanno indotto ad utilizzare nel corso della mia esposizione la distinzione tra verità effettuale o materiale e verità processuale.
Una distinzione che in questi ultimi anni è stata sostanzialmente messa in discussione da diversi autori sulla scorta di acute osservazioni le
quali, in particolare, hanno posto l’accento non tanto sul fatto che in
realtà «non vi sia neppure una differenza concettuale tra la prova giuridica e quella propria di qualsiasi altro ambito dell’esperienza»,
quanto piuttosto sul fatto che il risultato probatorio (più che il teorico
sistema di prove previste dall’ordinamento) dipende essenzialmente
dall’atteggiamento del giudice nei confronti degli enunciati che vengono dichiarati provati19.
È questo atteggiamento, come sostiene Ferrer Beltràn, a determina-
Ferrajoli 2004, p. 127; e pure Marchetti 1994, pp. 157-160.
Per questa serie di problemi rinvio a Ferrer Beltràn 2004, passim. L’autore sostiene ad esempio: «L’unica cosa che si può provare è l’enunciato che afferma
l’esistenza di una scrivania nel mio ufficio, non la scrivania stessa... Se l’oggetto
della prova sono gli enunciati sui fatti formulati dalle parti, sembra chiaro che la
convinzione, la certezza, o qualsiasi altro atteggiamento mentale del giudice che si
voglia indicare quale finalità della prova dovrà essere riferito a questi enunciati.
Non vedo, quindi, altra possibilità se non quella di sostenere che la certezza o la
convinzione del giudice riguardino la verità dell’enunciato... Perciò la prova come
attività ha la funzione di comprovare la produzione di questi fatti condizionanti, o,
che è lo stesso, di determinare il valore di verità degli enunciati che descrivono il
loro verificarsi. Il successo dell’istituto della prova giuridica si produce quando gli
enunciati sui fatti che si dichiarano provati sono veri, così che può sostenersi che la
funzione della prova è la determinazione della verità sui fatti», Ibidem, pp. 81-84.
18
19
Nella selva incantata degli indizi
23
re l’accettazione (sul piano pratico e relativamente al contesto in cui si
situa il processo) da parte del giudice degli enunciati che si dichiarano
provati e, conseguentemente, «la loro relatività rispetto agli elementi di
prova presenti negli atti del processo»20.
La distinzione tra i due tipi di verità, quella effettuale e quella processuale, elaborata dalla dottrina tedesca alla fine del XIX secolo, trae
ragion d’essere non solo da una prospettiva che, per così dire, possiamo definire scettica, ma anche dalla convinzione che regole e procedure siano tali da produrre un risultato che, in definitiva, si allontana sensibilmente da quella che, ipoteticamente, si ritiene verità dei fatti21.
In una dimensione processuale, il fatto, ripreso ex post dall’azione
giudiziaria avviata dal giudice, è costituito da una proposizione giuridica elaborata sulla scorta di quanto previsto dal codice e da enunciati
probatori che mirano ad individuare il soggetto che presumibilmente
ne è stato l’autore22.
Una verità approssimativa, dunque, provvista di limiti ben precisi23
Ibidem, pp. 108-111.
Cfr. Ferrer Beltràn 2004, pp. 70-73.
22
La questione è ben delineata da Luigi Ferrajoli. La proposizione che Tizio ha
o non ha deliberatamente commesso un fatto denotata dalla legge come reato è in
realtà suddivisa in due parti ben precise: «l’una fattuale o di fatto, l’altra giuridica o
di diritto. La prima è che “Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto” (per esempio, “ha colpevolmente cagionato a Caio una ferita guarita in due mesi”); la seconda è che “il tale fatto è denotato dalla legge come reato” (secondo il nostro codice
penale, come “lesioni gravi”). Entrambe queste proposizioni si diranno “assertive”
o “empiriche” o “cognitive” nel senso che – e nella misura in cui – ne è predicabile
la verità o la falsità (ovvero, sono verificabili o falsificabili) sulla base dell’indagine
empirica. Precisamente, la verità della prima è una verità fattuale in quanto sia accertabile la prova dell’accadimento del fatto e della sua imputazione al soggetto incriminato; la verità della seconda è una verità giuridica in quanto sia accertabile tramite l’interpretazione del significato degli enunciati normativi che qualificano il fatto come reato. L’accertamento dell’una è una quaestio facti, risolvibile per via induttiva sulla base dei dati probatori, mentre quella dell’altra è una quaestio iuris risolubile per via deduttiva sulla base del significato delle parole impiegate dalla legge.
L’analisi del concetto di “verità processuale” si risolve conseguentemente in quella
dei concetti ora indicati di “verità fattuale” e di “verità giuridica” nei quali esso
può essere scomposto. Cfr. Ferrajoli 2004, p. 21.
23
Sempre Ferrajoli osserva: «Innanzitutto va rilevato che la verità processuale,
sia essa di fatto che di diritto, non può essere affermata sulla base di osservazioni dirette. La verità processuale fattuale è infatti una forma particolare di verità storica,
relativa a proposizioni che parlano di eventi passati, come tali non direttamente accessibili all’esperienza; mentre la verità processuale giuridica è una verità che pos20
21
24
La selva incantata
e che può riflettere più o meno fedelmente la verità materiale che intende idealmente riprodurre.
La distinzione operata in questo saggio mi è parsa comunque opportuna, al di là della considerazione che nel sistema giudiziario austriaco la corrispondenza tra verità processuale e verità effettuale fosse
non sempre raggiungibile per le peculiari regole probatorie che, consi-
siamo chiamare classificatoria, riguardando la classificazione o qualificazione dei fatti storici accertati sulla base delle categorie fornire dal lessico giuridico ed elaborate
tramite l’interpretazione del linguaggio legale... Tutto ciò che il giudice esperisce
non sono i fatti delittuosi oggetto del giudizio, ma le loro prove. Non diversamente
dallo storico, egli non può dunque esaminare il fatto che ha il compito di giudicare
e che sfugge in ogni caso alla sua osservazione diretta, ma solo le sue prove, che sono esperienze di eventi presenti pur se interpretabili come segni di eventi passati...
Come in tutte le inferenze induttive, anche nell’inferenza storiografica e in quella
giudiziaria la conclusione ha pertanto solo il valore di un’ipotesi probabilistica in ordine alla connessione causale tra il fatto assunto come provato e l’insieme dei fatti
addotti come probatori. E la sua verità non è dimostrata come logicamente conseguente dalle premesse, ma solo provata come probabile o ragionevolmente plausibile in accordo con uno o più principi d’induzione. Cfr. Ibidem, pp. 26-27, ma cfr. anche le osservazioni successive. La posizione di Ferrajoli diverge quindi notevolmente da quella di Ferrer Beltràn, che insiste sul fatto che il vero problema è costituito in realtà dall’accettazione da parte del giudice degli enunciati probatori.
24
Lo stesso Ferrer Beltràn è comunque dell’opinione che il rapporto tra la verità
materiale, che si situa al di fuori del processo, e la verità formale che è invece quella
che si ottiene nel processo come risultato dell’attività probatoria si ponga in maniera diversa a seconda che il principio adottato da un sistema giudiziario sia costituito dalle regole di prova legale oppure, all’incontrario, da regole che sono incentrate sul libero convincimento del giudice. Se in quest’ultimo caso, infatti, le regole prescrivono «all’organo decidente di valutare il materiale probatorio introdotto in giudizio secondo le regole della razionalità generale» e «gli unici limiti
giuridici sono imposti dal contesto processuale nel quale si delimitano gli elementi di prova che successivamente devono essere valutati dal giudice singolarmente
e complessivamente», all’opposto, nel caso delle regole di prova legale, «si prescinde dalla razionalità della decisione del caso concreto e si attribuisce un determinato risultato probatorio a un mezzo generale di prova. In tal modo, si può ritenere che tanto queste regole quanto gli enunciati che fissano i fatti provati al caso
concreto, in applicazione di quelle, sono ipotesi di regole costitutive (generali e applicate rispettivamente). Se le cose stanno così, non è possibile attribuire loro valore di verità». Cfr. Ferrer Beltràn 2004, pp. 69-70. Infatti il cosiddetto sistema di prove legali negative utilizzato nel processo austriaco (cfr. supra) tendeva a coniugare
l’antico sistema di prove legali (in particolare le due testimonianze e la confessione) con il convincimento del giudice. Quest’ultimo, come vedremo, anche a causa
della predeterminazione delle prove e degli indizi, poteva pronunciarsi per una
condanna dell’imputato solo in presenza delle prove accertate in processo. Aspet-
Nella selva incantata degli indizi
25
derato il loro valore essenzialmente predeterminato, limitavano notevolmente il libero convincimento del giudice24.
La distinzione tra una verità effettuale, comunque individuabile
all’esterno dell’ambito giudiziario, e una verità processuale raggiungibile, come già si è detto, attraverso le indicazioni di norme giuridiche e la
valutazione dei dati probatori, è di certo suggestiva perché mette bene
in rilievo, sul piano storiografico e antropologico, la funzione interpretativa svolta dai giudici25.
Inoltre, un altro ordine di considerazioni, strettamente legato alla
precedente riflessione, ma comunque individuabile nello stesso sistema giudiziario austriaco, consiglia di mantenere ben distinte le due verità, per poter meglio coglierne le specificità e le interrelazioni.
Come avremo modo di notare ripetutamente, i giudici che operarono nei cosiddetti tribunali provinciali di prima istanza erano provvisti di
un certo margine di discrezionalità, che poteva, in molti casi, forzare il
rigido sistema probatorio previsto dal codice. Ciò che però sottolineava i limiti, spesso invalicabili, di una verità processuale che, in contrasto
con il loro convincimento, si allontanava talvolta vistosamente da una
to, comunque, come vedremo, che incontrava, in alcune specifiche situazioni, eccezioni anche rilevanti.
25
In questo senso mi sembra appropriato l’accostamento tra il giudice e lo storico prospettato ad esempio da Ginzburg 2000, pp. 66-67 e passim, il quale sottolinea
però una divergenza di fondo tra le due figure, che pure mirano entrambe ad accertare i fatti: «I giudici emettono sentenze, gli storici no; i giudici si occupano soltanto di eventi che implicano responsabilità individuali, gli storici non conoscono
questa limitazione». Una divergenza più apparente che reale, soprattutto se lo storico si rapporta nei confronti del giudice considerandolo essenzialmente come un
informatore in grado di trasmettergli una serie di dati qualitativamente e quantitativamente rilevanti del passato rispetto alla società in cui opera. Il giudice nella sua
ricerca della verità in realtà raccoglie e trasmette dati nell’ambito di un contesto processuale che, come abbiamo visto, è provvisto di una propria verità la quale, non diversamente da quella dello storico, si avvicina più o meno significativamente alla
verità effettuale. E, molto spesso, di fronte all’impossibilità di accertare la corrispondenza e i nessi intercorrenti tra le due verità deve sospendere il giudizio. La documentazione giudiziaria austriaca si prospetta inoltre, rispetto a questo problema,
ricca di informazioni e di dati tecnici sui criteri interpretativi utilizzati dagli stessi
giudici-informatori: dalle loro discussioni è pure possibile evincere il profilo etnografico di un gruppo di funzionari intenti ad interpretare le informazioni filtrate dalla loro attività. Ed infine un’ultima annotazione: la posizione gerarchica in cui le
due figure, quella dello storico e quella del giudice, sono inserite ha un peso non irrilevante nell’imprimere alla ricerca (e nel definire la stessa pregnanza dei dati raccolti) una svolta spesso decisiva, cfr. alcune osservazioni in Povolo 1993, p. 131.
26
La selva incantata
presunta verità materiale, era lo stretto controllo gerarchico esercitato
dalla corte d’appello nei loro confronti.
L’automatismo dell’appello26, previsto per una serie notevole di casi, affidava il valore della verità processuale ottenuta in prima istanza ad
un severo controllo gerarchico, che poteva intervenire soprattutto in
funzione del risultato probatorio ottenuto nel processo.
In tal senso la distinzione tra verità sostanziale e verità formale permette di registrare meglio inclinazioni e valutazioni, ma anche dissonanze e dissensi sia all’interno del collegio giudicante, che nell’ambito
della complessiva struttura gerarchica preposta al funzionamento della giustizia penale.
Il processo penale austriaco, per quanto concerneva le indagini, era
incentrato infatti sulla prima istanza, soprattutto per il fatto che la corte d’appello non aveva il compito di approfondire la ricerca della verità
con l’acquisizione di nuovi atti. Ma l’organo giudiziario superiore non
si limitava solo ad accertare la correttezza della procedura seguita nel
corso delle indagini dalla corte di prima istanza, in quanto svolgeva
pure un compito assai importante nella verifica del sistema probatorio
effettivamente utilizzato per decretare la condanna dell’imputato27.
In realtà, a determinare l’essenza del controllo gerarchico era in particolar modo l’automatismo previsto per la trasmissione alla corte
d’appello del fascicolo processuale e della sentenza pronunciata in primo grado in numerosi casi previsti dal codice. In tal modo l’attività
giudiziaria dei tribunali di prima istanza era spesso sostanzialmente
inibita da un intervento censorio della corte d’appello nei confronti di
sentenze le quali, forzando il rigido sistema di prove previsto dal codice, riflettevano un ampio, se non disinvolto, utilizzo del libero convin-
26
nale.
Non affidato, dunque, al ricorso delle parti o alla decisione dello stesso tribu-
Aspetto, questo, che ha indotto più di uno studioso a sottolineare (a mio giudizio erroneamente) la parità di funzioni dei vari gradi di giudizio e la funzione
determinante del tribunale di prima istanza; cfr., ad esempio, Raponi 1986, p. 110,
sulla scorta di altri autori. Il saggio di Raponi, denso di osservazioni e di dati interpretativi è di grande interesse e si costituisce come il primo, importante, lavoro sull’amministrazione della giustizia nel regno Lombardo-Veneto. A questo
saggio rinvio per tutti gli aspetti che qui sono ovviamente lasciati sullo sfondo.
Come avremo occasione di vedere, il controllo gerarchico esercitato dalla corte
d’appello era tale da influire sulla stessa determinazione della verità processuale
da parte dei tribunali provinciali, anche se questi ultimi avevano un certo grado di
discrezionalità.
27
Nella selva incantata degli indizi
27
cimento del giudice.
Il rilievo etnografico delle descrizioni operate dal gruppo di giudici
di cui si è esaminata l’attività è dunque pure rapportabile alla più complessiva organizzazione giudiziaria austriaca e, evidentemente, agli
obiettivi che è possibile individuare in un’azione repressiva che, per
molti aspetti, sembra essere improntata ad un rigido sistema di legalità
e ad uno stretto controllo del libero convincimento dei giudici.
Dai fascicoli si colgono infatti le indagini concretamente condotte
nei confronti della grande varietà dei delitti previsti dal codice. Ma è la
stessa attività giudiziaria, come già si è osservato, a veicolare pratiche
sociali e riti consuetudinari che, con maggiore o minore visibilità,
emergono dalle descrizioni operate dai giudici.
Le interrelazioni tra previsioni del codice, discrezionalità e ruolo dei
giudici e, infine, l’azione repressiva effettivamente svolta dai tribunali
nell’individuare e reprimere le azioni e i comportamenti considerati
criminosi, pongono una serie di problemi che hanno evidentemente
anche un risvolto narrativo ed etnografico.
In questa direzione è opportuno delineare alcuni aspetti della questione che, possiamo dire, si situa a monte dei problemi qui affrontati.
La caratterizzazione specificamente inquisitoria del processo penale
austriaco, affidato ad un gruppo di giudici-funzionari dell’impero, la
cui discrezionalità, secondo le previsioni del codice, era fortemente delimitata da un rigido sistema di prove legali, pone alcune questioni di
fondo, non solo e non tanto sulle caratteristiche e tipologie di fenomeni sociali che non possono essere facilmente e semplicemente circoscrivibili come criminalità, quanto piuttosto sulle finalità che sottostavano
all’amministrazione della giustizia penale nell’impero asburgico e sul
rapporto tra istituzioni e forze sociali28.
In un testo di grande spessore interpretativo, lo studioso statunitense Mirjan Damaška, sottolineando la stretta correlazione tra forme di
Sulle molte testimonianze coeve che tendevano ad accreditare allo scarso peso esercitato dai tribunali di prima istanza la diffusa criminalità cfr. Raponi 1986, p.
119-120; Di Simone 1999, pp. 142-146. Come ha osservato Lawrence Friedman, non
c’è dubbio che «crime is a legal concept. This point, however, can lead to a misunderstanding. The law, in a sense, “creates” the crimes it punishes, but what creates
criminal law? Behind the law, and above it, enveloping it, is society; before the law
made the crime a crime, some aspect of social reality transformed the behaviour,
culturally speaking, into a crime; and it is the social context that gives the act, and
the legal responses, their real meaning», cfr. Friedman 1993, p. 4.
28
28
La selva incantata
processo ed organizzazione del potere, ha individuato alcuni tipi ideali
di amministrazione della giustizia.
In una forma di Stato che Damaška definisce attivo29, volto cioè a perseguire obiettivi ben precisi e a dirigere la società, l’amministrazione della giustizia ha un’organizzazione gerarchica, costituita di funzionari provvisti di una fisionomia professionale ben distinta dal rimanente della società e predisposti, per cultura e funzioni, ad assumere le loro decisioni in
base a criteri tecnico-specialistici. Le loro attribuzioni sono essenzialmente previste in ordine al livello gerarchico in cui essi sono inseriti: il livello
superiore esercita uno stretto controllo su quello inferiore, determinandone l’indirizzo politico e le forme stesse della decisione. Questo modello,
enucleatosi sin dall’antico regime, si caratterizza, dunque, per la formazione di una burocrazia giudiziaria i cui membri sono dotati di un sapere
comune, ma con compiti e funzioni che sono suddivisi in modo preciso a
seconda della posizione in cui sono inseriti nella scala gerarchica.
Questo tipo ideale, nel corso degli ultimi due secoli, ha trovato ampia
realizzazione nell’Europa continentale, seppure con modalità ed intensità diverse, a seconda della specificità del contesto politico statuale in
cui esso è stato applicato.
Secondo Damaška, al tipo ideale di Stato attivo corrisponde una forma di processo ben precisa. Il processo penale, innanzitutto, è incentrato sul fascicolo, che ne raccoglie tutte le fasi, e rivela, in controluce,
la stessa organizzazione gerarchica di cui è espressione. Il processo
dello Stato attivo è gestito quasi esclusivamente dai magistrati incaricati a tale funzione, i quali considerano con una certa diffidenza ogni
intervento esterno che non sia di semplice collaborazione e subordinazione. Le parti stesse (vittima ed imputato) non svolgono alcuna iniziativa che possa turbare le indagini condotte dal giudice inquirente.
Fase fondamentale del processo gerarchico è soprattutto quella iniziale, gestita da un funzionario appositamente incaricato
dall’amministrazione statuale. Il ruolo dell’avvocato difensore è limitato alla seconda fase del processo ed è comunque escluso da ogni indagine investigativa autonoma. Elemento importante di questo tipo di
processo è l’acquisizione delle prove da parte del giudice inquirente (o
pubblico ministero) che poi sosterrà l’accusa nella seconda fase del
In questa forma ideale, lo stato persegue finalità politiche nei confronti della
società, con l’obiettivo, talvolta, di trasformarla o di migliorarla in alcuni suoi
aspetti.
29
Nella selva incantata degli indizi
29
processo, la quale si apre al dibattito ed è gestita da un giudice incaricato di pronunciare la sentenza. In questo caso si è parlato di processo
misto, per sottolineare come alla fase iniziale, caratterizzata da una
procedura inquisitoria, subentri successivamente un rito accusatorio
incentrato sul dibattito. Il libero convincimento del giudice impronta sostanzialmente tutto l’iter del processo, anche se il giudice che pronuncia la sentenza deve giustificare la sua decisione con una motivazione
che permetta all’organo superiore di verificare quanto da lui operato.
In questo tipo di processo il sistema probatorio è quanto mai agile, disponibile ad accogliere le cosiddette testimonianze de relato30 se sono
tali da rafforzare il libero convincimento del giudice. Il sistema probatorio è di tipo indiziario (si parla infatti di prova morale31), non predeterminato nei suoi dettagli e contrapposto all’antico sistema di prove legali, incentrato prevalentemente sulla prova testimoniale e sulla confessione.
Appare evidente che nel modello processuale di Stato attivo il rispetto della procedura non è così decisivo rispetto alle finalità politiche
perseguite dall’amministrazione e inoltre ogni decisione conserva un
certo grado di provvisorietà, in quanto l’obiettivo determinante è il
perseguimento della verità o, per meglio dire, il raggiungimento di
precisi obiettivi politici.
Altro tipo ideale è invece il cosiddetto Stato reattivo: uno Stato che
tende a contenere quanto più è possibile i suoi interventi nella società,
limitandosi a predisporre le strutture più indicate per la risoluzione dei
conflitti. Uno Stato reattivo riduce al minimo i suoi interventi, affidando alle parti stesse la gestione dei conflitti. Si tratta di un modello statuale che Damaška colloca in particolar modo nei paesi di common law
(soprattutto Inghilterra e Stati Uniti). L’organizzazione del potere è, a
diversità del modello precedente, di tipo paritario, caratterizzata cioè
da una distribuzione orizzontale, non gerarchica, in cui i funzionari
non si distinguono per la loro professionalizzazione.
Allo Stato reattivo corrisponde una particolare forma di processo,
incentrata essenzialmente sulle parti, sul ruolo degli avvocati e sulla
neutralità del giudice, che ha essenzialmente il fine di regolare il contraddittorio processuale.
Le testimonianze rese cioè per quanto si è sentito dire (de auditu). Cfr. Damaška 2003, pp. 28-29.
31
Sulla prova morale cfr. l’ampia e dettagliata indagine svolta da Rosoni (1995).
30
30
La selva incantata
In questo tipo di processo, condotto prevalentemente con un rito di
tipo accusatorio (caratterizzato cioè dal contraddittorio e dall’iniziativa
privata), il rispetto della procedura è di estrema importanza e la stessa
assunzione delle prove è in buona parte affidata agli avvocati delle parti. Un ruolo centrale è costituito dalla giuria, cui sono affidate decisioni
di fatto. Nello Stato reattivo i funzionari sono spesso reclutati ad hoc e
sono posti comunque in un piano di sostanziale parità rispetto a quello delle parti32.
I tipi ideali prospettati da Mirjan Damaška sono di estremo interesse
ed attualità, in quanto permettono di confrontare comparativamente le
forme di processo con l’organizzazione del potere, sia in ambito geografico che storico.
Il processo penale previsto dal codice austriaco del 1803 riflette ovviamente l’organizzazione del potere così come era distribuito
nell’impero asburgico. Incentrato sul ruolo essenziale di giudici funzionari, disposti secondo una scala gerarchica che, come avremo occasione di notare, era contrassegnata dal rispetto di rigide regole formali,
il processo penale austriaco era di struttura inquisitoria. Affidato in
tutte le sue fasi ad un giudice relatore, che doveva poi riassumere ed
esporre gli esiti delle sue indagini ad un organo collegiale, il processo
penale austriaco si caratterizzava non solo per l’esclusione delle parti,
ma anche per quella, assai più significativa, se rapportata al coevo modello francese, dell’avvocato difensore.
Un iter tradizionale, dunque, caratterizzato non solo dalle rigide formalità inquisitorie, ma pure da un sistema probatorio predeterminato
(prove legali), che non nascondeva l’obiettivo di contenere il libero convincimento del giudice. L’esclusione delle parti, l’assenza dell’avvocato
difensore e il contenimento del ruolo degli organi inquirenti e giudicanti, erano tutti aspetti sottolineati dall’automatismo degli appelli
(previsti per una casistica assai numerosa e significativa), dalla verifica
severa della seconda e terza istanza e inoltre da una serie di controlli incrociati.
Il processo penale austriaco, in un certo senso, si pone dunque in
una posizione di mezzo rispetto alle forme processuali che, come ab-
Rinvio al testo di Damaška 1991, passim. Dello stesso autore si veda comunque
anche il più recente e già ricordato Damaška 2003, in cui si esaminano le trasformazioni registrate in questi ultimi anni negli Stati Uniti (esempio classico di uno stato
che si avvicina al modello reattivo), in particolare nel contraddittorio giudiziario.
32
Nella selva incantata degli indizi
31
biamo visto, Mirjan Damaška individua per le due opposte concezioni
ideali di Stato.
Pur essendo, senza ombra di dubbio, caratterizzato dalla figura professionale del giudice che, escludendo ogni intervento esterno, procedeva in base a criteri meramente tecnico-giuridici, il processo penale
austriaco rivela una riluttanza di fondo ad esprimere qualsiasi forma di
attivismo nei confronti del contesto sociale33. Il rigido controllo esercitato sui giudici e sugli strumenti probatori da essi utilizzati, pur in presenza di una struttura burocratica fortemente incline ad attivarsi, in
tutte le sue forme, per il rispetto e il mantenimento dell’ordine sociale,
suggerisce gli intendimenti politici che animavano l’amministrazione
giudiziaria nell’impero asburgico.
Nel loro insieme, i dispositivi normativi e procedurali del codice e
l’organizzazione giudiziaria affidata a giudici sottoposti ad un ferreo
controllo, esprimevano l’esigenza di fondo di mantenere ad ogni costo
lo status quo sociale e cetuale, ma anche le peculiarità politiche, culturali e religiose dei diversi territori che componevano l’impero asburgico.
Il contenimento del ruolo decisionale del giudice, contemporaneamente però all’adozione di una struttura processuale inquisitoria, che
poteva rivelarsi assai efficace per il mantenimento dell’ordine sociale,
rifletteva l’esigenza di uno Stato rigidamente organizzato sul piano burocratico e sulla professionalità dei suoi funzionari, ma anche così poco incline ad attivarsi per promuovere (come invece avveniva per lo
Stato francese) programmi politici di un certo spessore e novità34.
E, a ben vedere, lo stesso fascicolo processuale penale austriaco rifletteva queste esigenze di fondo: incentrato com’era quasi tutto sulla
prima istanza, ma secondo regole e procedure sottoposte ad un severo
controllo gerarchico.
Le descrizioni processuali, in particolare quelle che incontravano il
loro punto di coagulo nelle riunioni collegiali che dovevano assumere
decisioni sia sulle varie fasi del processo che sulla deliberazione finale,
erano condotte all’insegna di una forte tensione che si svolgeva
nell’ambito della ricerca della verità processuale: una verità che se, da un
Per un quadro sociale ed economico del Veneto in questo periodo cfr. Della
Peruta 1999.
34
Per un confronto, relativamente ad alcuni degli aspetti che caratterizzavano,
in maniera notevolmente diversa, il processo penale austriaco e quello francese cfr.
Dezza 2003, pp. 120-123. Alcune osservazioni interessanti sul ruolo della polizia rispetto al contesto sociale e all’opinione pubblica in Mori 2004.
33
32
La selva incantata
lato, poteva avvalersi di uno strumento efficace come il rito inquisitorio, dall’altro doveva raffrontarsi con un rigido controllo gerarchico incentrato sui risultati probatori ottenuti dall’indagine.
Da questa tensione emergeva così una sorta di dialettica tra libero
convincimento e risultati probatori. Una dialettica che non solo si manifestava all’interno del consesso giudiziario, ma pervadeva pure le relazioni (referati) stese dal giudice relatore che conduceva il processo. Dalla narrazione e dalle descrizioni stilate dai giudici è così possibile rilevare
il valore etnografico dei fatti giudiziari e, soprattutto, la percezione che
di essi aveva un gruppo di giudici, dotati di una cultura dotta e una forma mentis fortemente influenzata dal ragionamento giuridico.
È in base a queste considerazioni che mi sono addentrato nelle sessioni giudiziarie tenute da un gruppo di giudici negli anni 1830-184935.
Un periodo, tutto sommato, alquanto limitato, contrassegnato da un
termine iniziale, il 1830, che coincide con la conservazione della documentazione processuale giunta sino a noi; e, da un termine ultimo, il
1849, che in pratica sancisce la fine di una fase politica e giuridica che
avrebbe poi subito sostanziali modifiche.
Nelle sessioni criminali emerge in tutta la sua dimensione interpretativa il ragionamento giuridico tramite cui i giudici del consesso rappresentarono il complesso rapporto tra verità effettuale e verità processuale.
Un ragionamento, il loro, come si vedrà, in cui i fatti che furono oggetto dell’indagine avviata dal giudice relatore, sono esaminati alla luce
della loro dimensione giuridica e degli enunciati probatori emersi e,
eventualmente, in grado di costituirsi come prove.
Come è stato notato da Lawrence Friedman, il ragionamento giuridico è uno strumento di legittimità specifica, volto, cioè, a porre in relazione organi di autorità derivata (come ad esempio i tribunali di prima
istanza) con organi di autorità primaria, che, in linea di principio, non
L’analisi delle discussioni svoltesi nel collegio giudicante si pone ovviamente
in una prospettiva delimitata dai dati disponibili: il fascicolo è disposto sul tavolo
dei giudici, ma viene utilizzato solo in funzione del ragionamento giuridico che si intende elaborare. Ma si tratta pure di una prospettiva privilegiata, in quanto essa
permette di esaminare il procedimento logico della decisione alla luce non solo dei
dispositivi giuridici e normativi, ma anche dei valori e delle convizioni politiche
dei singoli giudici. Sul rapporto tra giudizio, processo e decisione cfr. Taruffo 2002,
pp. 172-175. Le decisioni assunte nelle sessioni criminali dei tribunali austriaci si
svolgevano alla luce dell’analitico resoconto del relatore e di un’analisi meticolosa
dei dati processuali, soprattutto nella loro valenza probatoria.
35
Nella selva incantata degli indizi
33
devono giustificare le loro decisioni.
Come si riscontrerà dall’esame delle stesse sessioni criminali, il ragionamento giuridico è solitamente costituito da asserzioni di diritto e,
in quanto tale, deve, in altre parole, essenzialmente svolgersi avvalendosi di premesse legali36. In questo senso, in base ai criteri enunciati
dallo studioso statunitense, il sistema giudiziario austriaco era un sistema chiuso, che si avvaleva cioè di sole asserzioni di diritto, a diversità,
ad esempio, dei cosiddetti sistemi aperti, in cui, al contrario, non c’era in
realtà una distinzione tra premesse legali e quelle che non lo sono37.
Il ragionamento giuridico serviva dunque sia per enunciare la dimensione giuridica e probatoria del fatto esaminato, che, soprattutto,
per collegare gli organi giudiziari diversamente disposti lungo la scala
gerarchica.
Se il referato del relatore, rivolto al rimanente del collegio dei giudici, rappresentava una sorta di narrazione della vicenda giudiziaria oggetto dell’indagine, finalizzata a cogliere i suoi risvolti giuridici e probatori, le discussioni, altresì, approfondivano e affinavano quest’ultimo aspetto per rendere plausibile, quantomeno apparentemente,
se non sostanzialmente, la decisione finale.
Proprio perché essenzialmente delimitato da asserzioni di diritto
(norme e riscontri probatori), il ragionamento giuridico sviluppato
nell’ambito del collegio giudicante del tribunale austriaco si avvaleva,
come in tutti i sistemi chiusi, del legalismo e della finzione giuridica, quaAnche negli stessi referati le asserzioni di fatto sono in realtà svolte dal relatore in funzione della loro configurazione giuridica e legale.
37
Come, ad esempio, nei sistemi consuetudinari in cui le norme giuridiche in
realtà sono le stesse norme sociali e politiche e i giudici che le applicano, non essendo professionisti, attingono al costume, al buon senso e alla morale. Per tutto
questo cfr. Friedman 1978, pp. 389-408.
38
Come ricorda Friedman il legalismo giuridico, inseparabile dal professionalismo dei giudici e degli avvocati, consiste «nell’accordare esagerata attenzione al
significato letterale di una parola senza considerare il contesto, come ad esempio
quando un tribunale nell’interpretare il testo di una legge si rifiuta di andare al di
là dei significati registrati in un dizionario e di considerare la politica del diritto
propria della legge, il suo fine, o il suo contesto globale». Il legalismo è «prodotto
dal fatto che le norme giuridiche non forniscono risposte chiare per tutte le situazioni possibili... eppure i problemi che si presentano devono essere risolti, e devono esserlo mediante il diritto». La finzione giuridica «è una proposizione proveniente dal giudice o da altro operatore giuridico con autorità normativa, che asserisce un fatto che – come sa chi asserisce e come sanno tutti – non è un fatto per
nulla. È, in breve, un fingere nel diritto». È solitamente adottata nei sistemi chiusi
36
34
La selva incantata
lora la decisione, in specifiche situazioni, ritenesse determinante superare l’impasse costituita dal codice, sia in tema di disposizioni normative che di regole probatorie38.
Il ragionamento giuridico può dunque svelare non solo gli effettivi
spazi di manovra concessi dal sistema politico-giudiziario agli organi
giudicanti, ma anche, in più di un caso, la specifica dimensione etnografica e sociale che lo animava e lo condizionava.
In quanto organo di autorità derivata, come avremo ripetutamente
occasione di riscontrare, il collegio giudicante preso in esame era chiamato a svolgere un ruolo che possiamo definire di prudente tutore e di
sorvegliato difensore dei valori e delle gerarchie sociali esistenti. E tanto più i suoi margini di manovra si ampliavano, quanto più questo ruolo veniva enfatizzato dalla dimensione politica e sociale dei casi da esso esaminati.
Le sessioni criminali e il fascicolo processuale
Sessioni criminali erano definite le sedute che il Tribunale provinciale
di Vicenza, non diversamente dalle altre corti di giustizia del Lombarche limitano o rifiutano l’innovazione, in cui «si manifestano al massimo grado
d’intensità le esigenze di forzare il testo, di fingere, di occultare il mutamento», cfr.
Friedman, 1978, pp. 412-416.
39
Il Lombardo-Veneto era costituito di 15 tribunali di prima istanza collocati nei
capoluoghi di provincia. Gli uffici giudiziari di seconda istanza erano situati a Milano e Venezia, ciascuno diviso in due sezioni, penale e civile, presiedute da un Presidente. Il tribunale di terza istanza aveva sede a Verona con la denominazione Senato lombardo-veneto dell’imperial regio Supremo Tribunale di giustizia e con competenze su tutto il Lombardo-Veneto. Come è stato osservato da Raponi il Supremo tribunale di giustizia (che verrà sciolto nel 1851 per essere assorbito dal tribunale di giustizia di Vienna), «esercitava la doppia funzione di suprema istanza giurisdizionale – come giudice di terza istanza, non come corte di Cassazione – e di governo della magistratura; sotto questo profilo incombeva al Senato veronese la sorveglianza
sui Tribunali inferiori, sugli Avvocati e Patrocinatori, sui Notai; la diramazione alle istanze inferiori di leggi, interpretazioni di leggi emanate dalle autorità competenti; l’esame delle proposte di modificazione delle leggi austriache alle esigenze
delle province lombardo-venete; la presentazione delle terne per la nomina di giudici nei tribunali lombardi e via dicendo», cfr. Raponi 1986, p. 110.
40
Sul piano archivistico i registri delle sessioni criminali raccoglievano le discussioni e le deliberazioni del tribunale suddivise per numero di protocollo, distinguendosi dai fascicoli processuali, i cui protocolli raccoglievano tutto l’iter giudiziario della fase preliminare e inquisitoria, compresi i referati del giudice relatore.
Nella selva incantata degli indizi
35
do-Veneto39, teneva con una certa assiduità per assumere tutte quelle
decisioni che il Codice penale universale austriaco prevedeva di sua specifica competenza nel settore penale40.
In queste sessioni, in particolar modo, si esaminavano tutti i casi giudiziari che richiedevano una decisione da parte dello stesso tribunale.
Un giudice relatore, di volta in volta appositamente scelto tra i magistrati che componevano lo stesso tribunale, riassumeva gli atti di protocollo che costituivano la prima fase del processo41. Il riassunto, denominato Referato di preliminare investigazione, si concludeva con
l’esposizione da parte del giudice relatore della sua opinione in merito
sia al legale riconoscimento del fatto esaminato, che all’esistenza di indizi tali che potessero giustificare l’eventuale continuazione del processo contro coloro che si erano individuati come possibili autori del
delitto.
Dopo la lettura del Referato di preliminare investigazione gli altri membri del tribunale (definito pure Giudizio criminale) esprimevano la propria opinione in merito a quanto proposto dal relatore. L’opinione prevalente, formalmente raccolta dal presidente, poteva decretare sia un
conchiuso di desistenza, che poneva fine alla stessa fase istruttoria (per la
non sussistenza del fatto o per l’assenza di indizi tali che giustificassero il proseguimento dell’indagine nei confronti della persona sospettata), sia la continuazione del processo con l’apertura della vera e propria
fase inquisitoria42.
Terminata la fase inquisitoria43, il relatore (per lo più lo stesso giudiÈ probabile che l’istruzione dei fascicoli processuali venisse, di volta in volta,
affidata dal presidente del tribunale ad un magistrato scelto tra i giudici disponibili nel momento in cui si doveva aprire l’azione giudiziaria nei confronti di un delitto di cui lo stesso tribunale era venuto a conoscenza. Dalla prassi del tribunale vicentino è possibile ipotizzare che la scelta si rapportasse sia alla complessità del caso trattato, che all’esperienza ed abilità del giudice prescelto.
42
La fase inquisitoria costituiva la struttura portante del processo, sia in quanto
il fascicolo che la racchiudeva avrebbe dovuto in molti casi essere inviato alla corte d’appello, sia perché, in base al paragrafo 415 del codice, comportava comunque, in ogni caso, la pronuncia di una sentenza, cfr. Codice penale 1997, p. 147. Un
aspetto, questo, non irrilevante perché costringeva l’Ufficio criminale a rapportarsi
comunque con la corte d’appello,
43
Fase importante del processo penale anche perché, come si vedrà, erano gli atti di protocollo che la costituivano ad essere inviati alla corte d’appello.
44
Ogni fase del processo era infatti contrassegnata da un numero di protocollo
che veniva poi riportato in ordine numerico nel Giornale, sorta di indice generale
che elencava tutti gli atti processuali sino alla sentenza conclusiva.
41
36
La selva incantata
ce che aveva condotto la precedente istruttoria preliminare) riassumeva gli atti di protocollo44 che costituivano la seconda fase del processo
in una relazione che veniva denominata Referato di finale inquisizione. In
questa relazione il magistrato che aveva condotto le varie fasi del processo, dopo averne riassunto i momenti più salienti, proponeva la pena che, a suo giudizio, doveva essere inflitta nei confronti degli imputati, oppure la sospensione del processo per mancanza di prove legali45.
Gli altri membri del Giudizio criminale a loro volta esprimevano le proprie valutazioni, che potevano divergere o concordare con quanto indicato dal giudice relatore46.
Sia nei Referati di preliminare investigazione che nei Referati di finale inquisizione il magistrato relatore doveva giustificare la sua opinione in
base al dettato del codice. E così pure coloro che divergevano dalla sua
opinione (i cosiddetti preopinanti o votanti) dovevano motivare la diversa valutazione delle prove e degli indizi sempre in base ai paragrafi del codice.
La sentenza (o, per meglio dire, la deliberazione) veniva solitamente
stilata subito dopo la discussione che seguiva la lettura del Referato di finale inquisizione. Se il giudizio del consesso era unanime, la formula ad
unanimia siglava le decisioni della sessione. Altrimenti altre formule segnalavano la prevalenza di maggioranze che potevano aderire, in tutto
o in parte, oppure no, al voto proposto dal relatore. Era comunque
Come è noto, nel processo penale austriaco non era considerato l’inserimento
dell’avvocato difensore. Il codice prevedeva che tale funzione fosse svolta dallo
stesso Giudizio criminale. Il paragrafo 337 del codice recitava infatti: «Siccome la difesa dell’innocenza è già uno dei doveri d’ufficio del giudizio criminale, così
l’imputato non può chiedere, né che gli sia accordato un avvocato o difensore, nè
che gli vengano comunicati gli indizj che stanno contro di lui: ma poichè secondo
il paragrafo 292 devono darsi all’imputato, subito dopo l’arresto, le necessarie notizie intorno alla sua imputazione, egli ha il diritto illimitato durante tutto il corso
del processo di somministrare tutti quei mezzi di difesa che egli crede opportuni»,
cfr. Codice penale 1997, p. 112. In realtà, come si vedrà, era la stessa struttura gerarchica in cui era inserito il processo penale austriaco a garantire quantomeno la posizione dell’imputato. Per il ruolo svolto, il giudice relatore era infatti assai incline
a valutare prudentemente gli indizi legali a carico dell’imputato. Inoltre, come sostenne Castelli nel suo Prontuario, «una circostanza la quale al giudice inquirente
può sembrare inutile, può essere invece calcolata da qualcuno de’ giudici che compongono collegialmente il giudizio destinato a pronunciare sulla sorte
dell’imputato: quindi anche la circostanza medesima dovrebbe verificarsi», cfr. Castelli 1839, p. 109.
46
Un punto, questo, come vedremo, di estrema importanza anche nell’aspetto
45
Nella selva incantata degli indizi
37
sempre il presidente a raccogliere la definitiva votazione sui singoli
punti che costituivano la deliberazione. In caso di parità dei voti proposti dai giudici presenti (consedenti) era il voto di quest’ultimo a decidere quale sarebbe stata l’opinione prevalente. I diversi punti della deliberazione sui quali il consesso aveva votato erano inseriti nella sentenza, la
quale, dopo un breve periodo veniva pubblicata, cioè resa effettiva a tutti gli effetti. Il codice prevedeva che nei casi in cui la deliberazione e il fascicolo inquisitorio dovevano essere sottoposti alla revisione della corte d’appello, la pubblicazione dovesse essere sospesa in attesa delle decisioni di quest’ultima47.
Se il ruolo del relatore e dei suoi referati era dunque decisivo, in
quanto segnava l’esclusività e la responsabilità della conduzione del
Il paragrafo 425 del codice prevedeva come si dovessero svolgere le votazioni e il ruolo del presidente nel caso si fosse giunti alla parità dei voti tra gli altri
membri del Giudizio criminale, cfr. Codice penale 1997, p. 149. Si rinvia comunque al
saggio di Luca Rossetto (nel volume collettaneo dedicato all’amministrazione della giustizia penale nel regno Lombardo-Veneto, a cura di G. Chiodi e C. Povolo) in
merito alle modalità previste dal codice nella redazioni dei vari protocolli e nella
formulazione della sentenza.
48
Erano i paragrafi 415 e sgg. (cfr. Codice penale 1997, pp. 147 e sgg.) a determinare la procedura che la sessione criminale doveva seguire per giungere alla sentenza. Il consesso, così come era definito dal paragrafo 418, doveva essere composto da
almeno tre persone. Per la deliberazione della causa (cfr. paragrafi 421 e 422) i membri del consesso dovevano avvalersi del giornale, prescritto dal paragrafo 346 (la
numerazione di ogni singolo atto di protocollo inerente il processo). Teoricamente
doveva essere letto ogni singolo atto di protocollo perché tutti i membri del consesso fossero in grado «di dare su tutto il complesso dell’affare il fondato loro voto
a dettame della loro coscienza» (cfr. par. 423). In realtà, se questa disposizione poteva eventualmente concedere ad ogni membro della sessione criminale la possibilità
di accedere direttamente al fascicolo processuale, di fatto era il referato di finale inquisizione preparato dal giudice relatore a svolgere un ruolo essenziale. Come infatti osservò Giuseppe Antonio Castelli nel suo Prontuario, a commento del paragrafo 423, altre motivazioni erano infine prevalse nella prassi ad affermare il ruolo
centrale assunto dal referato del relatore in questa fase del processo: «Siccome il giudizio che deve deliberare sopra una inquisizione è una persona morale composta
di più individui, perciò fa mestieri che tutti e singoli siano sufficientemente istruiti. La legge accorda per conseguenza a ciascun giudice o assessore di leggere da solo tutti i protocolli e le carte relative all’inquisizione. D’ordinario però il giudice che
ha costrutto il processo, fa una relazione della causa, o sia espone l’andamento, il
contenuto ed il risultato dell’inquisizione coll’appoggio degli atti e delle scritture
ad essa relative, onde così disporre l’opinione degli altri giudici. Da questo sistema
il corso della giustizia ne trae profitto pel risparmio di tempo, ed anche perché mediante tal metodo vengono posti sotto un sol punto di vista generale in ordine pro47
38
La selva incantata
processo a lui affidato, le sessioni criminali costituivano il momento di
raccordo e di confronto del Giudizio criminale nel suo complesso e la
specificità della sue competenze giurisdizionali previste dal codice penale48 e dalle leggi assunte via via nelle specifiche materie49.
Il fascicolo processuale, a sua volta, raccoglieva sia tutta l’attività
svolta dal giudice relatore che l’indirizzo giudiziario complessivo ad
essa assegnato dal tribunale nel momento in cui esprimeva le sue valutazioni nelle sessioni in cui venivano esaminati i referati che riassumevano le due fasi del processo.
L’intensa attività del Tribunale provinciale di Vicenza è attestata innanzitutto dalle migliaia di processi oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Vicenza50. Ciascun fascicolo processuale, preceduto da un giornale
che elencava dettagliatamente tutti gli atti di protocollo istruiti, anche se
avviato inizialmente nelle preture foresi51, era in ogni modo accompagnato dal referato di preliminare investigazione del giudice relatore cui era stata affidata la conduzione del processo, e, qualora ne fosse pure stata decretata la continuazione, dal definitivo referato di finale inquisizione.
La sentenza e altri atti specifici inerenti alla situazione giudiziaria
gressivo tutti i fatti e circostanze che risguardano il delitto e l’autore», cfr. Castelli,
II, 1839, p. 216. Il ruolo decisivo assunto dal relatore e dai suoi referati è pure attestato nella prassi giudiziaria del tribunale vicentino, anche se, come avremo occasione di vedere successivamente, esso si inseriva nell’azione svolta dalla sessione
criminale nel suo complesso. Questa fase decisiva del processo attesta dunque uno
iato significativo tra teoria e prassi che si rifletteva nell’insieme della deliberazione
(assunta in via definitiva dopo la discussione) tramite cui la sessione criminale giungeva alla sentenza.
49
Al codice si accostarono via via una serie consistente di patenti e risoluzioni sovrane che ne modificarono o meglio precisarono il contenuto. Molte di queste vennero aggiunte nelle varie edizioni del codice. In questo saggio ci si rifarà in particolare
all’Appendice aggiunta all’edizione del 1849, cfr. Codice penale..., 1849, pp. 211-278.
50
Asvi, Tribunale austriaco, Penale, la busta 1 è relativa all’anno 1830; l’ultima busta esaminata, la 1734, è relativa all’anno 1860.
51
L’organizzazione giudiziaria di prima istanza, oltre che dai Tribunali provinciali, era costituita dalle Preture (in tutto 149, di cui 81 nel Veneto e 68 in Lombardia), suddivise in Preture urbane (nelle città capoluogo di provincia) e Preture foresi
nei distretti giudiziari extraurbani. Le preture avevano competenze civili, salvo per
alcune materie che erano riservate ai Tribunali provinciali. In materia penale le preture avviavano le preliminari investigazioni per conto del Tribunale provinciale. Il fascicolo così istruito era poi affidato al giudice relatore del competente tribunale che
ne stilava il referato. Sia le Preture urbane che le Preure foresi avevano invece competenza sulle gravi trasgressioni di polizia; cfr. per l’organizzazione giudiziaria del
Lombardo-Veneto Raponi 1986, in particolare pp. 100-101.
Nella selva incantata degli indizi
39
dell’imputato segnavano la chiusura del complesso iter giudiziario
condotto dal relatore e poi approdato all’esame (tramite lettura del relatore e successiva discussione) dello stesso tribunale.
Solitamente, ai due referati del relatore il giudizio criminale accludeva
una breve nota in cui si attestava con quale maggioranza essi erano stati approvati oppure modificati. In casi più rari questa nota era seguita
pure da una parziale trascrizione della discussione che si era avviata di
seguito alla lettura del relatore52.
L’intero resoconto della discussione svoltasi tra i vari consedenti
(cioè i membri del giudizio criminale presenti alla sessione) non era dunque inserito nel fascicolo processuale, così come non era per lo più inserita la deliberazione che era il risultato definitivo della stessa discussione. Un aspetto, quest’ultimo, che, come vedremo, non era del tutto
irrilevante, in quanto il fascicolo stesso, in molti casi, doveva essere auNon ho ricostruito in questo saggio il profilo biografico e prosopografico dei
giudici che fecero parte del Tribunale provinciale di Vicenza: impresa forse non impossibile, ma che comunque non avrebbe forse aggiunto elementi essenziali agli
obiettivi e ai risultati che mi proponevo affrontando i temi e i problemi qui proposti.
Per una ricostruzione attenta e minuziosa dell’amministrazione della giustizia penale nel regno Lombardo-Veneto rinvio al saggio di Raponi 1986, in particolare pp.
112 e sgg. ed inoltre ai saggi pubblicati nel volume collettaneo dedicato
all’amministrazione della giustizia penale nel regno Lombardo-Veneto, a cura di G.
Chiodi e C. Povolo. Sull’amministrazione del regno Lombardo-Veneto in generale
rinvio inoltre al volume di Meriggi 1987; Preto 2000, nonché al vecchio lavoro di Sandonà 1912.
53
Il paragrafo 436 del codice (cfr. Codice penale 1997, p. 154) stabiliva esattamente che nei casi previsti nei precedenti paragrafi 433-435 (e per i quali cfr. infra), «oltre la sentenza compiutamente stesa, devesi trasmettere al superior giudizio criminale anche il libro giornale dell’inquisizione con tutti gli atti, ed il protocollo della
deliberazione». Oltre alla sentenza e al fascicolo inerente la fase inquisitoria del
processo, il giudizio criminale doveva dunque trasmettere alla corte d’appello anche
la deliberazione tramite cui era giunto alla decisione finale dopo la discussione.
Quanto veniva effettivamente inserito nel fascicolo processuale ci permette di registrare lo scarto tra teoria e prassi.
Il fascicolo processuale riflette infatti tutto l’iter giurisdizionale, compresa
l’eventuale trasmissione degli atti alla corte d’appello e l’azione di controllo svolta
da quest’ultima nei confronti dell’attività del tribunale di prima istanza. Nella prassi del tribunale vicentino il fascicolo riporta il voto del relatore (di seguito al suo referato), la concisa annotazione del parere infine assunto dal consesso rispetto al voto
stesso del relatore e, in taluni casi, anche veri e propri riassunti dei pareri espressi
dai membri del consesso nel corso della discussione che precedeva la deliberazione.
Manca per lo più quest’ultima, nonostante quanto previsto dal paragrafo del codice poco sopra ricordato. Un’assenza comunque non significativa se si pensa che la
52
40
La selva incantata
tomaticamente inviato alla corte d’appello di Venezia (Il superior giudizio criminale), sede in cui veniva accuratamente esaminato e, soprattutto, dove la sentenza pronunciata in primo grado dal Tribunale provinciale veniva valutata per essere approvata o riformata53.
Copia della pronuncia del tribunale d’appello era inserita nel fascicolo che, ad operazione conclusa, veniva ritornato al tribunale provinciale, il quale procedeva infine alla sua archiviazione.
La documentazione pubblicata in questo volume è dunque frutto di
una scelta che non solo doveva operare all’interno di un consistente
fondo archivistico non riordinato54, ma pure nell’ambito dei singoli fascicoli che, infine, con un certo, inevitabile, fattore di casualità55, si sono
esaminati.
deliberazione di fatto era sostituita dalla sentenza (che però non riportava le maggioranze ottenute sui singoli punti). Non costituisce un fatto irrilevante invece che
nel fascicolo siano talvolta inseriti riassunti significativi della discussione con i pareri dei vari votanti (cfr. le vicende processuali inserite in appendice), anche perché
questo non era previsto dal codice. In taluni casi tale inserimento sembra essere giustificato dalla prevalenza dell’opinione divergente dei membri del giudizio criminale rispetto alla proposta del relatore (cfr. ad esempio la vicenda Il giudice e il boscaiolo). Ma non è raro riscontrare pure l’inserimento delle opinioni divergenti nonostante il referato del giudice relatore sia stato approvato a maggioranza di voti. Ed
inoltre, talvolta, è possibile arguire che la proposta del relatore non sia stata approvata, dal contenuto stesso della sentenza e dalle formule che registravano la diversa maggioranza che si era infine ottenuta (cfr. ad esempio la vicenda Maria Kuhweiner). Appare evidente che l’inserimento della discussione agevolava
l’individuazione delle motivazioni che avevano spinto il Giudizio criminale a formulare la sentenza sottoposta all’esame della corte d’appello, ma poteva pure facilitare l’inclinazione di quest’ultima a modificare le sentenze pronunciate in prima
istanza.
Ricordo ancora che l’intera discussione e la deliberazione erano riportate negli atti di protocollo delle Sessioni criminali, di cui mi sono ampiamente avvalso per la
stesura di questo saggio.
54
I fascicoli processuali, riuniti in buste, sono a grandi linee ordinati in ordine
cronologico. Il fondo archivistico Tribunale austriaco oggi conservato presso
l’Archivio di Stato di Vicenza è costituito, nel suo insieme, da una documentazione
che inizia nel 1818 e termina nel 1871 e comprende 2600 buste e 81 registri. Il fondo
processuale consultabile inizia dal 1830, mentre la sezione denominata sessioni criminali riunisce 35 volumi che vanno dal 1832 al 1847. Ringrazio la dott. Silvia Girardello, che gentilmente mi ha trasmesso queste informazioni.
55
Inevitabilmente ho dovuto procedere ad alcuni assaggi tra le centinaia di buste che compongono il fondo Tribunale austriaco, Penale. Nell’ambito delle buste esaminate ho scelto quei fascicoli che meglio si prestavano ad esporre una sorta di quotidianità dell’attività del tribunale e, pure, quando era presente la parziale trascrizione della discussione di cui si diceva, il riflesso della dialettica giudiziaria esi-
Nella selva incantata degli indizi
41
Si è ritenuto opportuno di pubblicare, per ciascun fascicolo, sia i referati di preliminare investigazione che, quando esistenti, i referati di finale
inquisizione, con la breve nota che indicava il parere assunto dalla maggioranza (ed esplicativo della deliberazione), i pareri degli altri giudici
(se riportati nel fascicolo), la sentenza del tribunale ed eventualmente
la relativa sentenza della corte d’appello, qualora il fascicolo fosse stato inviato a Venezia in base a quanto previsto dal codice56.
La scelta di pubblicare i referati dei casi esaminati ha evidentemente
il vantaggio di riproporre in tutta la sua complessità non solo la vicenda che fu oggetto dell’indagine da parte del Tribunale provinciale di Vicenza, ma pure le fasi più salienti del processo, così come il giudice relatore ritenne opportuno riassumerle per esporle agli altri membri della sessione criminale, per proporre infine la sua opinione e il suo voto57.
I referati qui pubblicati ripropongono dunque alcuni rilevanti problemi interpretativi collegati alla specifica descrizione proposta dai documenti esaminati. Una prima ed ineliminabile dimensione interpretativa delle vicende qui esposte (ed infine complessivamente58 classificate come delitti in base alla normativa del codice) è ovviamente non solo
filtrata dalle riflessioni, dai valori e dai pregiudizi del giudice relatore
e dei suoi colleghi59, ma pure dal fatto, meno evidente, ma non per questo meno importante, che l’intera azione penale, approdata infine alla
scrittura dei referati, si inquadrava in una complessa struttura gerarchi-
Ovviamente, a causa dell’assunzione del conchiuso di desistenza, con cui si decideva di non procedere più oltre con le indagini, molti fascicoli si chiudono con il
referato di preliminare investigazione e la relativa votazione della sessione criminale.
Nei referati di finale inquisizione il giudice relatore riassumeva tutta la seconda fase
del processo, soffermandosi ovviamente sulla vicenda che aveva dato luogo al delitto, così come si era delineata alla luce delle successive indagini. Assai scarna nella sua formulazione, la sentenza della corte d’appello riproponeva la decisione formulata in prima istanza dal giudizio criminale, confermandone la validità, oppure
riformulandone il giudizio senza alcuna motivazione specifica se non il rilievo
dell’eventuale assenza (difetto) di prove legali accertate contro l’imputato.
57
Per rendere più agevole la lettura ho inserito per ciascun referato, il testo dei
paragrafi del codice citati dal relatore per motivare il suo voto.
58
Ed ovviamente pure ipoteticamente, qualora il giudizio criminale fosse giunto
alla conclusione che il fatto esaminato non costituiva delitto in base ai requisiti previsti dal codice.
59
Ed in questa direzione il fattore narrativo non è di poco conto, non solo in
quanto filtrato dallo stile personale del relatore, ma pure evidentemente dalle sue
abilità retoriche che miravano a convincere gli altri membri del tribunale ad aderire alla propria proposta.
56
42
La selva incantata
ca dotata di un proprio linguaggio e di una propria fisionomia che assai raramente si esprimevano in maniera visibile e tale da rendersi facilmente conoscibile nell’intelaiatura del racconto steso dal relatore. In
altre parole le relazioni stese dai giudici relatori sono molto spesso condizionate sia dall’imminente discussione che potenzialmente si aprirà
nella sessione criminale60, che dall’inevitabile intervento della corte
Una discussione che rivela apertamente la presenza di un altro grande protagonista: il codice, che con il suo dettato e le sue inevitabili ambiguità agisce direttamente sulle scelte processuali e sulla narrazione intrapresi dal relatore e, in una certa misura, anche dagli altri membri del collegio giudicante. I fatti descritti sono in
realtà percepiti alla luce delle caratteristiche che, in base a quanto previsto dal codice, possono qualificarsi oppure no come delitti. Ed in questa direzione la valutazione del sistema probatorio, atto a collegare i fatti alla loro presumibile dimensione legale è un altro aspetto di notevole importanza sul piano interpretativo. Va inoltre aggiunto che tutta la seconda parte del codice era dedicata alle cosiddette Gravi
trasgressioni di polizia, suddivise in tre specie: trasgressioni concernenti la sicurezza
pubblica e la tranquillità dello stato, le trasgrezzioni inerenti la sicurezza personale
e trasgressioni riferite alla polizia dei costumi. Come è stato osservato da Nicola Raponi «la definizione o la determinazione della natura di questi reati era affidata dal
Codice stesso a formule varie per cui le trasgressioni erano identificate da una parte con reati di minore gravità rispetto ai delitti o ai crimini veri e propri, dall’altra
con quelle azioni od omissioni che erano contrarie alle leggi emanate per prevenire
i delitti o per limitarne «le più dannose conseguenze». Si specificava inoltre che dovevano essere considerate trasgressioni di polizia tutte le azioni contrarie «ai regolamenti generali relativi alla pubblica sicurezza ed al buon ordine» e quelle che ferivano «il costume pubblico», cfr. Raponi 1986, pp. 121-122. Come avremo occasione di rilevare, l’eventuale incertezza nel definire il titolo di delitto da parte del relatore e degli altri giudici presupponeva talvolta la consapevolezza che il fatto dovesse comunque ricadere nell’ambito delle Gravi trasgressioni di polizia, cfr., ad esempio,
infra pp. 82-83, oppure la stessa vicenda descritta in Maria Kuhweiner.
Sulle Gravi trasgressioni di polizia si veda inoltre il saggio di Mila Manzatto nel
volume collettaneo dedicato all’amministrazione della giustizia nel Lombardo-Veneto, a cura di G. Chiodi e C. Povolo.
61
Ovviamente scelte, pregiudizi e valori che caratterizzavano l’esposizione del
relatore, con le loro stesse implicazioni istituzionali, non essendo spesso del tutto
consapevolizzati da parte dei protagonisti nella loro descrizione-racconto (referati e
pareri dei preopinanti), agivano sulla struttura stessa della narrazione in maniera
per lo più indefinita o generica. Ad esempio, il relatore che si trovava a gestire un
caso delicato e complesso, che, a suo giudizio, avrebbe molto probabilmente incontrato il parere dissenziente dei colleghi e la severa verifica della corte d’appello,
come avremo occasione di vedere, era spesso indotto a muoversi non solo con
estrema prudenza, ma pure ad inserire la descrizione dell’evento in un discorso
narrativo che evidenziava i fatti esaminati in una prospettiva tendente a forzare (e,
in un ceto senso, a ridurre) la portata della verità processuale. Così facendo dove60
Nella selva incantata degli indizi
43
d’appello, la quale, con il suo giudizio, opererà indirettamente sul profilo pubblicistico (e politico) del tribunale e, soprattutto, su quello personale del giudice relatore estensore dei referati e nelle cui mani si è sviluppato quasi per intero l’iter processuale61.
Un altro rilevante problema interpretativo è costituito dalle potenzialità di lettura offerte dal testo (i referati e quanto li accompagnava)
che, negli intenti delle autorità giudiziarie, si presentava come una sintesi di tutto l’iter processuale e, conseguentemente come una verità processuale62 che, evidentemente, si pone agli occhi dello storico pure nella
sua dimensione sociale ed antropologica.
I testi riproposti oggi alla lettura si definiscono dunque in primo
luogo per la loro dimensione istituzionale e gerarchica: essi riflettono
una lettura della realtà storica che possiamo genericamente definire di
potere, in quanto l’organo che la veicola è provvisto di una superiore legittimità che lo autorizza a procedere in tal senso nei confronti della
realtà esterna. Ma questa stessa dimensione ha pure, al suo interno,
una valenza intrinsecamente gerarchica, in quanto la lettura operata
dall’organo giudiziario si muove pure alla luce di una serie incrociata
di controlli e di conflitti che incidono notevolmente sulle sue potenzialità interpretative.
Un’altra, importante, dimensione interpretativa di questi testi, come si
è già osservato, è invece costituita dalla loro potenziale capacità di esprimere, pur attraverso i filtri cui sono stati sottoposti, aspetti rilevanti di
culture che per la loro inferiore posizione sociale, oppure per il ruolo subordinato cui sono state sottoposte dal processo gerarchico, si manifestano necessariamente in una dimensione che riflette solo apparentemente
o parzialmente il contesto antropologico di cui esse sono espressione.
In definitiva i referati svelano le tensioni esistenti tra la verità processuale da essi proposta e la verità effettuale che pure sembra porsi sullo
sfondo, in controluce. Aspetto, quest’ultimo, che emerge nitidamente,
va evidentemente intervenire nella struttura narrativa del referato ed avvalersi di
concetti culturali generici, funzionalmente più lontani dall’evento-realtà che egli
doveva rappresentare.
62
Questo aspetto era consapevolizzato dallo stesso relatore e dagli altri membri
del Giudizio criminale, soprattutto nei casi in cui l’assenza di prove legali (o pure circostanziali) impediva di decretare la colpevolezza dell’imputato e, conseguentemente, l’accertamento legale del fatto oggetto dell’indagine (cfr., come esempio significativo, la vicenda esposta in Il paragrafo 377 del Codice penale, nella quale il valore legale del fatto addebitato all’imputato non è assunto dal relatore).
44
La selva incantata
ad esempio, laddove il relatore, conclusa la fase iniziale del processo,
deve proporre un conchiuso di desistenza per l’insussistenza del delitto o
per l’assenza di prove legali atte ad avallare l’apertura della successiva
fase inquisitoria.
Sono queste tensioni, in definitiva, a racchiudere i diversi livelli interpretativi tramite cui i referati si prestano ad essere esaminati e, conseguentemente, a suggerire le interrelazioni costanti tra fatti, prove ed
interpretazioni, nel senso che si ricordava poco sopra.
La documentazione qui proposta offre dunque un’ampia gamma di
letture veicolate dal contesto istituzionale e gerarchico (il giudizio criminale e il superior giudizio criminale) preposto dall’autorità politica, secondo schemi e regole solo apparentemente rigidi, a mantenere gli
equilibri e i valori sociali preponderanti.
Addentrarsi nelle sessioni criminali e nei loro meccanismi formali, significa dunque innanzitutto impadronirsi dei livelli interpretativi che
possono aiutarci a decodificare le vicende che l’intensa attività del Tribunale provinciale di Vicenza ci ha così generosamente trasmesso, sia nella
loro densità narrativa che nei loro contenuti antropologici63.
Il presidente Luigi Bizozero e il paragrafo 455 del Codice penale austriaco
Il 30 marzo 1847, come di consueto, la sessione criminale del tribunale di Vicenza si riunì per affrontare le pendenze giudiziarie in corso. Il
consesso era costituito dal presidente Luigi Bizozero e dai giudici Antonio Borgo, Bernardo Marchesini, Giovanni Battista da Mosto, Stefano
Galanti, Gaetano Arrivabene, Pietro Cassetti, Riccardo de Manfroni,
Antonio Giani e Bonaventura Fanzago64. Ciascun membro del consesso
cui era stata affidata l’istruzione dei processi espose ai colleghi i risultati dell’indagine giudiziaria. Nella sessione il consesso deliberò sia sui
Questo saggio si è ampiamenta avvalso delle discussioni riportate nel fondo
Sessioni criminali del Tribunale austriaco: il voto del relatore è accompagnato dal parere dei vari giudici presenti. Un cancelliere verbalizzava gli interventi utilizzando
la terza persona.
64
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, registro del primo trimestre 1847.
Dagli atti di protocollo delle sessioni i giudici sono indicati con il solo cognome, ma
dall’Almanacco 1846, è possibile pure desumere il nome di battesimo ed eventuali
titoli nobiliari. I giudici da Mosto, Arrivabene e Cassetti sono preceduti dalla qualifica di nobile.
63
Nella selva incantata degli indizi
45
referati di preliminare investigazione che su quelli di finale inquisizione illustrati dai singoli relatori con la loro proposta di voto.
Tra i casi giudiziari affrontati nella sessione del 30 marzo ci soffermeremo su quello che ebbe come protagonista un giovane di Lanzè
dell’età di 18 anni, accusato di pubblica violenza mediante minacce di vita.
Relatore del processo era il giudice Bernardo Marchesini, che doveva
riassumere la finale inquisizione e proporre conseguentemente il suo voto sia in merito alla colpevolezza dell’imputato sia alla pena che, eventualmente, si sarebbe dovuta infliggere nei suoi confronti.
Il delitto di pubblica violenza, previsto dai paragrafi 70-82 del Codice
penale, inglobava in realtà una serie diversificata di reati che andavano dal violento ingresso nel fondo altrui al ratto65. Si trattava di un delitto
la cui previsione giuridica mirava soprattutto a difendere
l’intangibilità dei valori simbolici collegati alla proprietà e alla famiglia. Nel 1835 una Risoluzione sovrana aveva inoltre reso più incisiva la
prosecuzione nei confronti del delitto, estendendo il concetto stesso di
minaccia previsto dal paragrafo 70 (riferito ad offese rivolte a pubblici ufficiali) anche al successivo paragrafo 72, che concerneva gli attentati all’altrui proprietà66.
L’imputato, Girolamo Chinotto, era accusato di essersi rivolto minacciosamente al proprio nonno per ottenere da lui una grossa somma
di denaro. Ed avutone il prevedibile rifiuto aveva proferito parole di
Codice penale 1997, pp. 28-31. Il codice prevedeva cinque casi in cui si commetteva pubblica violenza. Il primo era costituito dall’opposizione a pubblici rappresentanti sia mediante pericolose minacce che con fatti, ed in particolare «quando qualcuno si oppone in simil guisa ad una guardia nell’atto ch’eseguisce un ordine pubblico»; il secondo riguardava il turbamento dell’altrui proprietà «entrandovi violentemente... sia per vendicarsi d’una creduta ingiuria, sia per conseguire un preteso diritto, sia per cavar a forza una premessa»; il terzo concerneva il caso in cui qualcuno «riduce colla forza o coll’inganno in suo potere una persona
per consegnarla contro sua voglia ad una podestà straniera»; il quarto consisteva
nella «illegittima restrizione alla libertà personale»; ed infine il quinto inglobava
il ratto o, per meglio dire, il rapimento di una donna «contro sua voglia». Il reato
era punito con pene assai severe che variavano a seconda delle aggravanti previste dal codice.
66
Nel punto due della Risoluzione si affermava: «commette il medesimo delitto
chi fa uso di minacce contemplate nel paragrafo precedente ed atte nel modo ivi indicato ad incutere fondati timori, anche al solo scopo di cagionare terrore ed inquietudine a singole persone, ovvero a comuni e distretti», cfr. per la Risoluzione del
1835 Codice penale 1849, pp. 231-232. Per l’insieme della Risoluzione rinvio comunque alla vicenda Ritorno a casa.
65
46
La selva incantata
vendetta e si era munito di un’arma da fuoco. Impaurito, l’anziano
l’aveva denunciato all’autorità giudiziaria.
Si trattava di un fenomeno assai diffuso e relativamente facile da
provare legalmente, proprio sulla scorta della Risoluzione del 1835, che
aveva esteso il concetto stesso di minaccia sino a comprendere in essa
qualsiasi atteggiamento che avesse suscitato fondata inquietudine nella persona contro cui era stata rivolta.
Il giudice Bernardo Marchesini era entrato a far parte del consesso
giudiziario vicentino nel 1825. Una lunga attività, testimoniata in particolar modo dai numerosissimi referati da lui stesi ed illustrati ai colleghi nel corso delle sessioni criminali. Sono questi stessi referati a suggerire come Marchesini fosse un uomo sostanzialmente conservatore, dotato di una non trascurabile dose di misoginia, ma anche buon conoscitore del codice, che era tendenzialmente propenso ad applicare con
una certa severità.
La qualifica da lui svolta nel processo intentato contro Girolamo
Chinotto consigliava una certa prudenza: come relatore, infatti, avrebbe dovuto dimostrare la bontà delle sue argomentazioni nei confronti
dei colleghi (i consedenti), ma, altresì, un’ipotesi di colpevolezza, una
volta approvata dal giudizio criminale, sarebbe stata inevitabilmente
sottoposta alla severa revisione della corte d’appello.
E a ben guardare, il profilo decisamente inquisitorio del processo
penale austriaco e la struttura gerarchica in cui era inserito, molto spesso inducevano il giudice relatore a sottolineare con una certa enfasi la
debolezza dell’impianto accusatorio che gravava contro l’imputato
piuttosto che il personale convincimento di colpevolezza raggiunto nei
Era la dialettica interna al consesso e, ancor più, la struttura gerarchica in cui si
inseriva il procedimento giudiziario a sottolineare, paradossalmente, il duplice e
contrastante ruolo di inquisitore-difensore svolto dal relatore. La struttura inquisitoria del processo penale austriaco rafforzava evidentemente la potenziale propensione all’indagine del giudice relatore, ma il rigido sistema probatorio tramite cui egli
doveva motivare la presunta colpevolezza dell’imputato (con il suo voto) era funzionale al controllo gerarchico esercitato dal tribunale d’appello. È probabile che
l’unanimità della deliberazione finale da parte del consesso rendesse più complesso il
controllo, ma, evidentemente, questo risultato non era così facilmente raggiungibile
se si considera che l’iter complessivo della procedura, affidato quasi per intero allo
stesso giudice relatore, incontrava l’inevitabile mediazione nella discussione che si
avviava nell’ambito della sessione criminale. Come già si è osservato, tutto questo
conduceva al raggiungimento di una verità processuale fortemente condizionata dalla struttura gerarchica entro cui era inserita l’amministrazione della giustizia penale.
67
Nella selva incantata degli indizi
47
suoi confronti67.
Quel caso, forse, poteva essere dimostrato, anche alla luce della
presunta pericolosità sociale dell’imputato, sulla scorta della Sovrana
patente del 1833, che aveva formalmente introdotto la possibilità da
parte dei giudizi criminali di ricorrere con una certa agilità alla prova
indiziaria68.
Bernardo Marchesini era però rimasto sulle posizioni espresse sin
dal referato di preliminare investigazione e proponeva
la sospensione per la pubblica violenza, giacché se da un lato non sorge
dubbio sulla sostanza del titolo, mancano però dei testimoni contestuali
qualificati delle minacce di vita imputate al negativo inquisito e giacché il
tutto è di tale speciale natura da non potersi applicare la prova per indizi69.
Bernardo Marchesini, pur convinto dell’esistenza del delitto di pubblica violenza, riteneva che non sussistessero le prove legali atte a dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Ed è presumibile che, per quanto
concerneva la prova indiziaria, fosse dell’avviso che fossero i colleghi a
verificarne l’applicabilità. Perché esporsi personalmente in un caso che
non lo convinceva del tutto?
Di seguito alla lettura del referato di Marchesini e del voto da lui proposto, il presidente Luigi Bizozero aprì la discussione sui singoli punti
esposti dal relatore.
Il giudice Stefano Galanti assunse immediatamente la funzione di
preopinante. Se, infatti, conveniva con il relatore, per la non sussistenza
della prova testimoniale, egli comunque era dell’avviso che la Sovrana
patente del 1833 fosse applicabile al caso in questione.
La Sovrana patente del 1833 aveva in effetti introdotto alcune rileSino al 1833 la prova indiziaria era prevista dal paragrafo 412 del codice penale: una previsione minuziosa e dettagliata che, si riteneva, non si accordava ad
essere utilizzata per rafforzare il libero convincimento del giudice. Una convinzione, del resto, che sarebbe pure stata estesa alla Sovrana patente del 1833. In realtà, sia
il paragrafo 412 che la successiva Sovrana patente del 1833 erano tali da poter surrogare un esplicito utilizzo del libero convincimento del giudice. La polemica, come
vedremo, nascondeva piuttosto un’insofferenza verso il controllo gerarchico assai
rigido esercitato dalla corte d’appello.
69
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, primo trimestre 1847. Il Marchesini
proponeva la sospensione del processo anche nei confronti dell’altra imputazione rivolta contro il Chinotto e cioè la perturbazione di religione mediante bestemmie. Una proposta che, a diversità della precedente, veniva accolta anche dagli altri consedenti.
68
48
La selva incantata
vanti novità formali sul piano probatorio. Le proposizioni del primo
paragrafo sembravano in realtà voler inglobare, ancora una volta, il libero convincimento del giudice entro schemi assai rigidi:
L’inquisito che nega il fatto può essere tenuto per legalmente convinto mediante il concorso degli indizj solamente quando si verificano congiuntamente le tre condizioni seguenti:
Deve essere provato pienamente il fatto colle circostanze che lo costituiscono delitto.
Devono concorrere contro l’incolpato nel numero infra stabilito gli indizj
espressi nei paragrafi seguenti.
Dalla combinazione degli indizj, delle circostanze e delle relazioni rilevate
mediante l’inquisizione deve risultare un sì stretto e chiaro rapporto fra la
persona dell’incolpato ed il delitto, che secondo il corso naturale ed ordinario degli avvenimenti non si possa supporre che altri fuorché l’incolpato
lo abbia commesso70.
Di fatto, anche se nei paragrafi immediatamente seguenti la Sovrana
patente si sforzava di elencare dettagliatamente gli indizi comuni a tutti
oppure a molti delitti, oppure nascenti dalla natura particolare di certi delitti, infine qualche novità di rilievo si poteva pur cogliere nel successivo
dettato della legge.
Se, infatti, la Sovrana patente richiedeva che «per formare la prova legale» fosse necessaria almeno la presenza di tre indizi, che dovevano però
essere collocati in distinti paragrafi71, un notevole margine di discrezionalità sembrava essere comunque offerto dai successivi paragrafi sei e sette.
Codice penale 1849, p. 249.
Era quanto previsto dal paragrafo cinque che tendeva, evidentemente, a conferire al sistema indiziario una dimensione retorica convincente: «Per formare la
prova legale mediante il concorso degli indizj si richiedono, quando si verifichino
anche le altre circostanze stabilite nel paragrafo I, tre degli indizi determinati nei
precedenti paragrafi 2. 3. 4 e distinti in ogni paragrafo con numeri particolari. Se
concorrono più indizi collocati in un paragrafo sotto il medesimo numero, non si
contano che per uno solo. In generale una sola circostanza di fatto si conta sempre
una sola volta, né può, presa in diverse relazioni, formare più indizi», cfr. Codice penale 1849, p. 254. È evidente che l’assunto probatorio di fondo di predisporre una
ricerca della verità basata sul paradigma indiziario si scontrava con la preoccupazione da parte del legislatore di definire puntualmente le caratteristiche degli indizi, sia sul piano generale che su quello dei singoli delitti.
70
71
Nella selva incantata degli indizi
49
Nel sesto paragrafo, difatti, si precisava come, pur nel rispetto delle
formalità previste dal precedente paragrafo, fossero sufficienti due soli indizi a decretare la colpevolezza dell’imputato, quando:
indipendentemente dai detti indizj, avuto riguardo alla fama, alle circostanze, alla condotta o all’indole dell’incolpato, emerga chiaramente
dall’inquisizione uno stimolo particolare per lui o la sua disposizione a
commettere il delitto a lui imputato, ovvero un altro nascente da impulso
di somigliante natura, come per esempio:
Se egli per un precedente delitto nascente da impulso di somigliante natura o per una tale grave trasgressione di polizia è già stato precedentemente
dall’Autorità sottoposto ad inquisizione, e dalla sentenza su di ciò emanata non fu dichiarato innocente, ovvero ne viene dichiarato colpevole nella
presente inquisizione.
Se egli ha praticato in sospetta famigliarità con una o più persone a lui note per delinquenti.
Trattandosi di delitti che si commettono per avidità di guadagno, se egli non
è in grado di additare un mezzo onesto onde ritragga la sua sussistenza72.
Ed infine il paragrafo sette, non diversamente dal precedente, introduceva un altro, rilevante, elemento di novità:
Sotto le condizioni del paragrafo cinque bastano due degli indizi espressi nei
paragrafi 2. 3. 4 a formare la prova legale anche nel caso che sia legalmente proCodice penale 1849, pp. 254-255. Anche in presenza di indizi predeterminati dal
codice, è evidente che il paragrafo sei, introducendo il tema della fama
dell’imputato, lasciava teoricamente spazio ad una forte discrezionalità da parte
dell’organo giudicante.
73
Codice penale 1849, p. 255.
74
Possiamo comunque cogliere come la prudenza del giudice Marchesini non
fosse del tutto eccessiva se solo esaminiamo il successivo paragrafo 8: «Gli indizi
espressi nei paragrafi 2. 3. 4 [cioè quelli indicati dettagliatamente dal codice] e le
circostanze indicate nel paragrafo 6 devono essere provati legalmente e non essere
snervati o perdere la loro importanza né in virtù della giustificazione
dell’incolpato, né in virtù di indizi contrari o di altre circostanze che parlano per la
sua innocenza, e che dal giudice devono diligentemente valutarsi giusta la prescrizione del paragrafo 414 della prima parte del Codice penale», cfr. Codice penale...,
1849, pp. 255-256. È evidente che era proprio a questo paragrafo 8 che il Superior
giudizio criminale poteva formalmente ricorrere per cassare le sentenze emesse dal
tribunale di prima istanza. Il richiamo al paragafo 414, che era stato inserito nel codice a completezza del precedente 412 relativo alla prova indiziaria, è significativo
72
50
La selva incantata
vato il contrario di ciò che dall’incolpato fu addotto per isnervare gli indizj che
stanno contro di lui, e quindi la sua giustificazione sia manifestamente falsa73.
Il profilo del cosiddetto reo negativo si indeboliva così di fronte ad un
sistema indiziario retoricamente meno rigido nelle sue proposizioni74.
Come dare torto allora alle obiezioni mosse da Stefano Galanti che, a
diversità del relatore, era invece incline ad utilizzare la prova indiziaria?
Galanti non aveva dubbi nel sottolineare come, per la «tristissima
dipintura» del carattere dell’imputato, egli fosse «capace più che mai
di commettere atti di violenza». In base al paragrafo sei della Sovrana
patente del 1833 bastavano dunque due indizi per dimostrarne la colpevolezza. Tra gli indizi previsti dalla stessa Sovrana patente non era poi
difficile individuarne due che si prestassero ad evidenziare la presunta
colpevolezza del Chinotto.
L’articolo sei del secondo paragrafo considerava un indizio il fatto
che l’imputato fosse comunque presente sul luogo del delitto nel momento stesso in cui questo veniva compiuto75. E se pure non esistevano in processo due testimonianze che contestualmente potessero avvalorare le minacce proferite dal Chinotto, molti altri testimoni, comunque, potevano attestare di scienza propria singole circostanze che potevano essere a lui attribuite nel momento dell’esecuzione del delitto.
Era quanto previsto dall’articolo due del paragrafo quattro della Sovrana patente76.
Galanti non esitava a considerare colpevole Girolamo Chinotto e a
proporre, in base alla Risoluzione sovrana del 1835 la pena di quattro anni di carcere duro nei suoi confronti.
delle tensioni esistenti tra libero convincimento del giudice (di prima istanza) e
controllo gerarchico. Il paragrafo 414 del codice recitava infatti: «In generale è da
tenersi per regola, che nessuna prova dev’essere bilanciata per sé sola, ma ciascuna
considerata in complesso con tutte le altre circostanze dell’inquisizione. A misura
pertanto, che si renda dubbia o l’imparzialità della testimonianza per le personali
relazioni, o la credibilità di qualunque altra prova per le notizie, che in contrario risultano, la prova perde la sua forza; ed una prova per tal modo indebolita non può
più considerarsi come legale», cfr. Codice penale..., 1997, p. 146.
75
Anche se, evidentemente, solo la vittima poteva attestare le avvenute minacce.
76
Il paragrafo quattro si riferiva ad indizi di carattere generale; nell’articolo due
si prevedeva: «la deposizione di un testimone accompagnata da tutte le qualità richieste dal paragrafo 403 della prima parte del Codice penale, se la medesima si riferisce immediatamente all’esecuzione del delitto per opera dell’imputato», cfr. Codice penale..., 1849, p. 253.
Nella selva incantata degli indizi
51
Era una forzatura, che poteva forse essere facilmente contraddetta
in base al paragrafo otto della stessa Sovrana patente del 1833, ma alla
proposta, anche se proponendo una diminuzione della pena, aderivano pure i giudici Pietro Cassetti e Riccardo de Manfroni.
Interveniva infine il giudice Bonaventura Fanzago, entrato di recente
a far parte del Giudizio criminale vicentino77. Un uomo, il Fanzago, che nei
suoi referati e nelle discussioni delle sessioni avrebbe sempre dimostrato
non solo un’ottima conoscenza del codice e delle leggi austriache, ma
pure una sentita adesione nei confronti del sistema giudiziario vigente78.
Per Fanzago era pure sussistente la prova indiziaria, considerando
«la capacità dell’imputato desunta dalle pessime informazioni sul di
lui carattere, comunque non sia stato prima soggetto a censure fiscali».
Ma egli riteneva che nei suoi confronti fosse pure raggiunta la prova testimoniale.
Con un vero e proprio capovolgimento di ragionamento, assai frequente nel suo argomentare, Bonaventura Fanzago si rifece alla Risoluzione sovrana del 1835 sul delitto di pubblica violenza:
Rifletteva cioè che le minaccie, oltre che con parole ponno consistere anche
in atti che le esprimono, dichiarando la circolare del 26 agosto [1835] che si
fa colpevole di tale delitto chi mediatamente od immediatamente, con
iscritto od a voce od in altro modo minaccia altri, racchiudendo colla generalità dell’espressione tutti i modi che possono incutere timore. Ora emerge che l’imputato si presentasse in quella notte bruscamente sulla porta
dell’amalato, girasse su e giù per la sala e tenesse quindi in angustie
l’amalato non solo, ma i custodi di esso che conscii delle mire sinistre di lui
dovevano ritenere quel suo contegno per quello del vero minacciante79.
In base alla raggiunta prova testimoniale il giudice Fanzago aderiva
quindi alla proposta di quattro anni di carcere avanzata dal preopinante
Galanti.
In definitiva, nonostante le argomentazioni di Fanzago potessero
Fanzago era entrato solo di recente nel Giudizio criminale vicentino, cfr. Almanacco 1846. Bonaventura Fanzago occupa nel 1846 il posto indicato come vacante
l’anno precedente.
78
Si veda, ad esempio, il giudizio positivo da lui espresso nella vicenda La solitudine dell’infanticida nei confronti del paragrafo del Codice penale austriaco concernente il delitto d’infanticidio, rispetto all’analogo previsto dal codice penale napoleonico.
79
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1847.
77
52
La selva incantata
essere più convincenti, la proposta di Galanti veniva approvata a maggioranza di voti. A ben vedere, la condanna dell’imputato, raggiunta
tramite la prova indiziaria, sembrava sottolineare il libero convincimento del giudice, laddove, invece, il ricorso alla prova testimoniale,
suggerito da Fanzago, si rifaceva esplicitamente al classico sistema di
prove legali, che il Codice penale austriaco riteneva ancora come lo strumento più indicato per contemperare l’intimo convincimento raggiunto dal consesso che doveva emettere la sentenza.
Ma era veramente questo il problema essenziale che si evidenziava
dietro alle complesse disquisizioni del consesso vicentino? La discussione si era di certo incentrata sul sistema di prove che avrebbe potuto e
dovuto essere utilizzato per dimostrare la colpevolezza dell’imputato,
di cui pure tutti erano convinti.
In realtà qualcosa di più essenziale ed importante stava dietro alle
quinte dello scenario entro cui si era svolta la dotta discussione. Qualcosa che caratterizzava molte sessioni criminali del tribunale vicentino,
ma che in questo caso emergeva esplicitamente in una proposta avanzata dal presidente Luigi Bizozero ai suoi colleghi:
Dietro siffatte deliberazioni il signor presidente, quantunque persuaso anche egli della sentenza condannatoria adattata dalla maggioranza del consiglio, trovò di richiamare il consiglio a prendere in considerazione se trattandosi d’un individuo indomabile e pericoloso alla sicurezza personale dei propri
congiunti non fosse del caso di proporre fin d’ora subordinatamente alla Superiorità l’applicazione della misura dettata dal paragrafo 45580 Codice criminale al
confronto del Chinotto, nell’ipotesi che trovasse di sospendere il processo
anche sul titolo di pubblica violenza81.
Il paragrafo 455 del Codice penale costituiva una rilevante eccezione
al sistema di garanzie e di tutele previste dal sistema giudiziario austriaco per garantire un corretto giudizio nei confronti dell’imputato.
Tale paragrafo recitava infatti:
Se il giudizio criminale riconosce dall’inquisizione che l’immediato rilascio
Tutto il passo è sottolineato nel dispositivo della deliberazione.
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1847. Il Bizozero si
riferiva al fatto che il consesso aveva di propria iniziativa deliberato di sospendere
il giudizio nei confronti del Chinotto per il delitto di Perturbazione della religione.
80
81
Nella selva incantata degli indizi
53
d’un imputato dal carcere per difetto di prove legali o d’un condannato
dalla casa di forza per aver compiuto la pena, fosse assai pericoloso alla
pubblica sicurezza, deve nel primo caso, avanti pubblicare la sentenza, nel
secondo avanti che finisca la pena, rappresentarne le circostanze al tribunale superiore, unendovi gli atti. Il tribunale superiore ne fa rapporto al supremo tribunale di giustizia e questi col suo parere ne dà ulterior notizia
all’aulico dicastero politico, affinché vengano da esso impiegati i politici
mezzi proporzionati al caso82.
Il tribunale di prima istanza, in caso di sospensione del giudizio per
assenza di prove legali, poteva dunque inviare il fascicolo processuale
istruito alla corte d’appello, facendo presente come la pericolosità
dell’imputato richiedesse degli opportuni interventi. E, seguendo la
via gerarchica, il caso sarebbe giunto sino al dicastero politico di Vienna, che avrebbe deliberato in merito.
Un paragrafo che dava adito ad una procedura eccezionale, che comunque era attentamente vagliata sul piano gerarchico.
Ma il paragrafo 455 era previsto nel caso che il tribunale di prima
istanza non fosse riuscito a dimostrare la colpevolezza dell’imputato.
Cosa che in realtà non era avvenuta nel processo istruito nei confronti
di Girolamo Chinotto, il quale era stato condannato, nonostante tutto,
ad una pena assai severa.
Ma allora perché il presidente Bizozero aveva formulato questa singolare proposta? Non poteva, di certo, trattarsi di un eccesso di premura, considerata la chiarezza del tenore del paragrafo 45583. Per coglierne il senso è opportuno soffermarsi sull’aspetto che, a mio giudizio, più caratterizza il sistema giudiziario austriaco, sino a giustificare
non solo l’adozione della procedura inquisitoria e l’assenza
Codice penale 1997, p. 161.
E, pure, come vedremo, considerate le obiezioni formulate dal giudice Fanzago nel prosieguo della discussione.
84
Come stabilito dal paragrafo 438 del codice: «Il superior giudizio criminale
volge prima di tutto la più scrupolosa sua attenzione sulla condotta del processo.
Se vi si manifesta un sostanziale difetto, che influisca sulla stessa formazione della
sentenza, ritorna tantosto gli atti al giudizio criminale; gli dà le proporzionate
istruzioni, onde togliere l’osservato difetto; e lo incarica di dichiarare, trasmettendo di nuovo gli atti, se persista nondimeno nella prima sua sentenza, o in quel modo trovi di variarla. In quest’ultimo caso il tribunale superiore prende per oggetto
della sua deliberazione la mutata sentenza», cfr. Codice penale 1997, pp. 154-155. Un
paragrafo che spiega bene la così frequente prudenza dimostrata dai relatori nel lo82
83
54
La selva incantata
dell’avvocato difensore, ma lo stesso sistema probatorio che, in maniera attenta e severa, sembrava contenere il libero convincimento del giudice.
Se il sistema giudiziario austriaco era indubbiamente incentrato
sull’attività svolta dal tribunale di prima istanza, riservando alla corte
d’appello un controllo sull’iter processuale inquisitorio da esso istruito84
ed eventualmente la possibilità di accrescere o di mitigare la pena stabilita con la sua deliberazione e la sua sentenza85, va però rilevato come il
controllo gerarchico esercitato da quest’ultima fosse di notevole ampiezza ed estremamente serrato.
La revisione del processo in corte d’appello era infatti prevista dal
codice in maniera automatica, sia per la gravità di alcuni delitti, che per
talune caratteristiche della stessa sentenza emessa in prima istanza.
Il paragrafo 433 del Codice penale, nel definire i delitti che comunque
comportavano l’inoltro della sentenza e del fascicolo alla corte
d’appello, esplicitava apertamente la dimensione gerarchica del processo austriaco:
Se il soggetto dell’inquisizione è stato uno de’ seguenti delitti: cioè alto tradimento, sollevazione e ribellione, pubblica violenza, abuso della podestà
d’ufficio, falsificazione di monete, perturbazione della religione, omicidio,
uccisione, duello, appiccato incendio, rapina od ajuto prestato a delinquenti, quella qualunque sentenza che fu proferita deve sempre prima della
pubblicazione esser portata alla cognizione del superior giudizio criminale, sia che si tratti d’un delitto consumato od anche solamente attentato86.
E il successivo paragrafo 435 definiva invece i casi in cui, pure per
gli altri delitti, la sentenza doveva comunque essere sottoposta alla corte d’appello:
ro referato e nel loro voto, di cui si parlava poco sopra. Ricordo ancora che il Giudizio criminale trasmetteva alla corte d’appello il fascicolo dell’indagine inquisitoria,
la deliberazione e la sentenza. La revisione avveniva dunque sul fascicolo istruito in
prima istanza.
85
Come stabilito dai paragrafi 440 e 441 (Codice penale 1997, p. 155), di cui si parlerà nella vicenda che si esaminerà nelle pagine seguenti.
86
Il paragrafo 434 includeva lo stesso procedimento anche per il reato di truffa se si
verificavano determinate circostanze, cfr. per i due paragrafi Codice penale 1997, p. 153.
87
Cfr. Codice penale 1997, p. 153; Come vedremo, i due paragrafi prevedevano
però modalità diverso d’intervento da parte della corte d’appello.
Nella selva incantata degli indizi
55
Negli altri delitti allora la sentenza si sottomette al superior giudizio criminale
quando la condanna è appoggiata al legale convincimento d’un reo negativo;
quando la pena oltrepassa la durata di cinque anni;
quando alla pena legale è aggiunto l’inasprimento della berlina o del bando o l’esacerbazione con colpi di bastone o di verghe87.
Una vasta gamma di possibilità previste dal codice rendeva così automatico il passaggio del fascicolo e della sentenza alla corte d’appello,
la quale poteva facilmente sindacare l’operato dell’Ufficio criminale di
prima istanza88.
Il controllo gerarchico esercitato dalla corte d’appello era dunque
notevole e si esplicava spesso nella messa in discussione dell’attività
svolta dai Giudizi criminali. Un controllo che inevitabilmente rendeva
assai sorvegliata la conduzione del processo da parte del giudice relatore e, soprattutto, consigliava un’estrema prudenza al consesso dei giudici che dovevano deliberare le sentenze89.
Il margine di discrezionalità dei giudici di prima istanza non era dunque dettato tanto dal sistema di prove stabilito dal codice e dalla sua riluttanza a concedere spazio al libero convincimento del giudice, quanto
piuttosto dal serrato ed automatico controllo gerarchico che costringeva
spesso il giudizio criminale ad assumere le proprie decisioni con estrema
Come del resto è attestato dalla prassi giudiziaria e dai casi che si sono qui
pubblicati.
89
Il controllo gerarchico si estendeva anche alla prima fase del processo per i delitti che i paragrafi 433 e 434 prevedevano fossero inviati automaticamente alla corte d’appello. Il conchiuso di desistenza, per questi gravi delitti non comportava difatti l’archiviazione. Come osservò Castelli, a chiosa del paragrafo 433, «relativamente alla disposizione di questo paragrafo l’Aulico Decreto 4 marzo 1832 suddetto così si esprime: l’obbligo di subordinare al Tribunale Superiore gli atti assunti contro
determinate persone nelle cause a lui riservate dai paragrafi 433, 434 e 442 del Codice penale, venendo bene spesso deluso col mandarli all’archivio, previa la dichiarazione che non concorrono gli estremi del delitto, si richiamano i tribunali
all’esatta osservanza della Sovrana Risoluzione 3 luglio 1819 e Circolare relativa 29
gennajo 1822, numero 1117, e si pongono in avvertenza che la dichiarazione di quest’ultima, in forza di cui la trasmissione degli atti non deve aver luogo quando il
giudice rigetta mere denunzie o respinge già da principio l’affare, non può estendersi ai casi in cui l’Autorità giudiziaria ha già assunto contro una persona determinata degli atti e tanto meno quei casi in cui si dubita sulla qualità del titolo, e se
per mancanza di dolo concorrono gli estremi del delitto», cfr. Castelli 1839, p. 228.
90
Quest’ultima eventualità era ad esempio agevolata dal frequente ricorso da
parte del consesso ai paragrafi 48 e 49 del codice: un ricorso riscontrato assai di fre88
56
La selva incantata
prudenza e sulla scorta dell’esiguo spazio concesso dal Codice penale.
Di per sé il tenore stesso dei due paragrafi del codice definiva indirettamente l’esiguità di questi margini. Ad esempio, di certo, nei delitti
non compresi dal paragrafo 433 e comunque in processi in cui era stata
raggiunta la confessione dell’imputato e, ancora, nei confronti del quale non era stata inflitta una pena superiore ai cinque anni di carcere90.
La discrezionalità dell’organo di prima istanza si svolgeva dunque
teoricamente in un ambito giudiziale che avrebbe dovuto sottolinearne
i requisiti di prudenza, mitezza ed inclinazione alla valutazione di tutte
quelle circostanze che potevano mitigare il profilo penale dell’imputato.
Questa tendenza alla mitezza da parte dell’Ufficio criminale era pure
favorita, da altri dispositivi del codice, che, in questa direzione, allentavano il controllo esercitato dalla corte d’appello.
Il Codice penale prevedeva infatti pure un terzo grado d’istanza, che
per alcuni decenni venne ricoperto dal cosiddetto Supremo tribunale di
giustizia di Verona. Oltre ai processi istruiti per alcuni gravissimi delitti
o alle sentenze che avevano pronunciato la pena di morte91, che comunque erano sottoposti al terzo grado di giudizio, è interessante rilevare come l’automatismo del passaggio alla terza istanza fosse pure
previsto anche in casi che implicavano una forte divergenza tra l’Ufficio
criminale e il Superior giudizio criminale.
Il paragrafo 443 del Codice penale contemplava infatti due punti di
notevole importanza che prevedevano pure il ricorso automatico al Supremo tribunale di giustizia:
... quando la pena stabilita dal tribunal superiore eccede di cinque anni
quella che era stata determinata dal giudizio criminale...
quente nella prassi giudiziaria soprattutto ad iniziativa dei giudici relatori (cfr. infra alcuni dei referati pubblicati). Sull’ampio utilizzo di questi due paragrafi del codice in altro contesto cfr. Garlati Giugni 2002, p. 136. Come avremo occasione di notare, la discrezionalità del consesso, poteva anche muoversi nel senso di sottolineare
la funzione punitiva del tribunale in quei casi socialmente e contestualmente rilevanti, nei confronti dei quali l’intervento censorio della corte d’appello avrebbe comunque potuto essere considerato opinabile. La forzatura nell’individuazione delle prove legali è ad esempio avvertibile nella vicenda La solitudine dell’infanticida.
91
Il paragrafo 442 stabiliva il passaggio automatico alla terza istanza per i delitti di alto tradimento, abuso della podestà d’ufficio e falsificazione di carte di pubblico credito, mentre il successivo paragrafo 443, al punto a), stabiliva lo stesso procedimento per le sentenze capitali, cfr. Codice penale 1997, p. 156.
92
Codice penale 1997, p. 156.
Nella selva incantata degli indizi
57
quando il giudizio criminale giudica per la dimissione dell’imputato ed il
giudizio superiore lo condanna ad una pena92.
Un paragrafo che svela, dunque, altre potenziali tensioni gerarchiche, previste però in funzione dell’eventuale passaggio alla terza istanza. Anche in questi casi, comunque, i margini di manovra del Giudizio
criminale erano sostanzialmente dettati dalla sua inclinazione ad assumere un profilo giudiziario prudente ed improntato alla mitezza.
Una previsione che doveva porsi in sintonia con lo spirito del codice, ma che, evidentemente, non sottolineava le aspirazioni dei giudici
di prima istanza ad assumere un ruolo più incisivo ed efficace
nell’amministrazione della giustizia.
La proposta del giudice Luigi Bizozero rifletteva dunque, con molta
probabilità, uno spirito di insofferenza da parte del Giudizio criminale di
Vicenza: la proposta di ricorrere all’applicazione del paragrafo 455 costituiva evidentemente un’allusiva minaccia. Nel caso la sentenza pronunciata contro Girolamo Chinotto fosse stata sospesa per assenza di
prove legali, il ricorso al paragrafo 455 avrebbe implicato l’automatica
trasmissione del fascicolo al Supremo tribunale di giustizia.
Alla proposta del presidente Bizozero aderì la quasi totalità del consesso. Solo Bonaventura Fanzago, che evidentemente aveva colto la
strumentalità implicita in un preventivo ricorso al paragrafo 455,
obiettò che
sarebbe stato anche lui del voto del relatore per proporre alla Superiorità la
misura in questione, trattandosi di pericolo[so] individuo se avesse oppinato per la sospensione del processo, ma riteneva non essere questo il momento di farlo, avendo il Consiglio ritenuta la condanna. Trattandosi d’una
sentenza soggetta alla superiore revisione, che potrebbe avere per esito tanto una conferma che una riforma, sarebbero ad ogni modo da aspettarsi
previamente le superiori deliberazioni.
Ecco perché in caso di condanna le provvidenze contemplate dal paragrafo
455 sarebbero da provocarsi appena prima dell’espiro della pena, mentre
potrebbe cessarne motivo per contegno del condannato durante
l’espiazione della pena medesima. E perché ove l’eccelso appello trovasse
di riformare la sentenza in sospensione sta la presunzione che la superio-
Asvi, Tribunale di Vicenza, Sessioni criminali, Primo trimestre 1847, carta non
numerata.
93
58
La selva incantata
rità stessa darà d’ufficio le opportune provvidenze, richiamando al caso il
voto di questo subordinato tribunale93.
Il suggerimento del giudice Fanzago non venne accolto e la sessione
criminale approvò la proposta del presidente d’inoltrare alla corte
d’appello la richiesta che, in caso di sospensione del processo istruito
contro Girolamo Chinotto, si richiedesse l’applicazione del paragrafo
45594.
Caso di estremo interesse, quello trattato nella sessione del 30 marzo
1847, ma, di per sé, paradossale e che, come già si è detto, rifletteva le
tensioni esistenti tra i diversi livelli di giudizio.
In realtà la proposta di applicazione del paragrafo 455, anche se rara, non era inusuale ed esprimeva, per lo più, la necessità, nelle intenzioni degli organi di prima istanza, che si ponesse un freno ai numerosi casi di recidività. La sua richiesta, avanzata nei termini previsti dal codice, costituiva però una sostanziale rinuncia dell’organo di
prima istanza ad attenersi ai consueti parametri di legalità e, implicitamente, attestava pure la debolezza e l’inefficacia della sua azione
giudiziaria.
Un caso interessante in questo senso venne affrontato nella sessione
del 30 aprile 1841, nella quale il relatore Stefano Galanti propose con il
suo voto una pena assai severa nei confronti dei due imputati accusati
di numerosi furti e di ferimento.
Il giudice Bernardo Marchesini, pur manifestando il suo accordo
con il relatore, relativamente ai delitti di furto di cui erano accusati i due
imputati, aggiunse inoltre che, a suo giudizio, fosse pure da proporre
l’applicazione del paragrafo 455:
Fatto poi riflesso alla indomabile condotta degli inquisiti, che risultano di
carattere oltremodo violento e perciò pericolosi alla pubblica sicurezza,
opinava che fosse questo il caso di applicare il paragrafo 455, subordinando analogo rapporto al Giudizio Superiore per tutti e due i fratelli Facco,
avanti che sia terminata la loro condanna.
Una proposta che gli altri due consedenti, Giuseppe Zanella e Pietro
Dal fascicolo processuale si potrebbe evidentemente accertare quale fu la reazione della corte d’appello alla proposta avanzata dal tribunale di Vicenza.
95
Ibidem, Secondo trimestre 1841, cc. 155-164.
94
Nella selva incantata degli indizi
59
Cassetti, respinsero, «dacché non trattavasi di soggetti da cui potesse
ragionevolmente temersi un pericolo alla pubblica sicurezza»95.
Il giudice Pietro Cassetti e il rapimento di Teresa Mastelli
Nella riunione del 21 maggio 1841 la sessione criminale dovette affrontare un caso assai complesso e delicato96. Una giovane, Teresa Mastelli, abitante in un villaggio vicino a Bassano, era stata prelevata a forza dalla casa paterna da quattro giovani del paese che, poco dopo, e a
qualche centinaio di metri dall’abitazione, avevano inscenato un rituale di degradazione mimando apertamente la rappresentazione di un
vero e proprio stupro97.
Si era trattato probabilmente di un violento rapimento attuato da alcuni membri del gruppo giovanile del paese per punire una giovane altera e indisponente, o che aveva deciso di intraprendere una scelta matrimoniale al di fuori dello stesso villaggio. A quanto riferiva la stessa
giovane donna, la violenza era stata volutamente contenuta e i rapitori
si erano limitati ad inscenare il semplice tentativo di stupro.
In qualità di relatore del caso era stato incaricato Stefano Galanti e il
consesso si era riunito più volte, soprattutto per deliberare sul titolo da
assegnare al delitto. Per la verità Galanti, in un primo momento, era
stato dell’idea che il fatto non costituisse uno specifico reato, ma, infine, con il progredire delle indagini aveva aderito all’opinione prevaLa sessione era composta dal presidente Luigi Bizozero e dai giudici Gaetano
Fostini, Antonio Borgo, Giovan Battista da Mosto, Domenico Roselli, Stefano Galanti, Gaetano Arrivabene, Giuseppe Zanella, Pietro Cassetti, cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, c. 249.
97
Alcuni aspetti della vicenda sono desumibili dalla stessa discussione. Si ricorda
come nelle sessioni criminali venissero riportati il voto del relatore e la successiva discussione, senza entrare specificamente nel merito dello svolgimento della vicenda,
che invece era riassunto dettagliatamente, sulla scorta del fascicolo processuale, nei
referati del giudice relatore. E si ricorda ancora che la discussione era verbalizzata da
un segretario che, esponendo i diversi pareri dei giudici, usava la terza persona.
98
«E premesso che stante le nuove introduzioni più esplicite, più dettagliata e
precise fatte dalla danneggiata dopo l’avvisata ultima deliberazione 5 gennaio
prossimo passato, maggior lume si sparse sul fatto in questione e che perciò appunto più risalto hanno ora le sue circostanze precedenti, concomitanti e susseguenti, devo in oggi allontanarmi dalla già estesa mia opinione ed accedendo a
quella de’ rispettabili miei colleghi dichiarare offerire il processato caso non dubbi
caratteri di delitto», Ibidem, c. 249.
96
60
La selva incantata
lente dei colleghi che si trattasse di un delitto98.
Stefano Galanti si era inoltre convinto che il titolo previsto dal Codice penale per individuare il fatto esaminato dal consesso fosse quello di
attentato stupro, già ipotizzato dai suoi colleghi nelle precedenti sessioni
e non di ratto, su cui aveva invece insistito il giudice Pietro Cassetti.
Con un ragionamento paradossale Galanti spiegava ai colleghi come era giunto a questa conclusione:
A mio avviso, per attentato stupro violento qualificare dobbiamo l’azione
dei tre inquisiti99, giacché la brevissima distanza dal punto in cui essi
s’impossessavano della persona di Teresa Mastelli a quello ove la trassero
in terra per immolarla alle illecite loro compiacenze parmi escluda per sé
sola l’idea della pubblica violenza mediante ratto.
A dir il vero il paragrafo 80, Codice dei delitti, non istabilisce nemmeno in
via approssimativa quale debba essere questa distanza, ma è altresì vero
che non può sussistere un ratto senza l’estremo essenzialissimo e primario
a costituire siffatto delitto, che cioè la donna rapita venga tradotta in non
picciola distanza dal luogo dond’è stata levata.
La violenza e l’attentato al pudore sono gli estremi del delitto di cui oggi ci
occupiamo, questi e non altri sono i caratteri dello stupro violento.
La violenza e la mira di libidine sono altresì i caratteri del ratto di una donna libera, quale si è Teresa Mastelli, maggiore di età, ma non potrà giammai
accadere un ratto senza che la donna rapita venga trascinata ed allontanata ad una non indifferente distanza dal sito in cui ella si ritrova e senza che
sia trattenuta in potere dei suoi assalitori per qualche spazio di tempo e non
mai momentaneamente; e nel nostro caso vediamo la Mastelli soprafatta da
quattro individui e trascinata ad una distanza non maggiore di 300 passi
comuni sulla pubblica via e sempre in prossimità ad una casa di villeggiatura, sicché il principio e la continuazione dei maltratti da lei sofferti ebbero luogo, per così dire, nel medesimo sito e per brevi istanti.
Egli è perciò che propongo di dichiarare attentato stupro violento il fatto
delittuoso avvenuto ai danni di Teresa Mastelli, ad imputata opera degli inquisiti Antonio Monicella detto Sgregola, Antonio Gasparini detto Pajusco
e Bernardo Fuscalzo100.
Nel referato di preliminare investigazione del 5 gennaio 1841 il consesso aveva deliberato di procedere contro tre dei giovani intervenuti al fatto: Antonio Monicella
detto Sgregola, Antonio Gasparini detto Pajusco e Bernardo Fuscalzo.
100
Ibidem, c. 250.
99
Nella selva incantata degli indizi
61
Il delitto di ratto, era descritto al paragrafo 80 del Codice penale, che lo
prevedeva come quinto caso in cui si doveva ravvisare il grave delitto di
pubblica violenza:
Quando colla forza, o coll’inganno vien rapita una donna contro sua voglia, sia colla mira di matrimonio, ovvero di libidine; e quando una donna
maritata, ancorché consenziente, vien rapita al marito; quando vien rapito
colla forza o coll’inganno un figlio ai genitori, un pupillo o minore al suo
tutore o curatore od a chi lo mantiene, siasi o no ottenuto il fine per cui fu
intrapreso il ratto101.
Le argomentazioni di Stefano Galanti fanno presupporre che egli
non avesse colto la vera natura dell’aggressione compiuta dai giovani
del villaggio nei confronti di Teresa Mastelli (come del resto gli altri
giudici), anche se nel precedente referato aveva espresso l’opinione che
il fatto non costituisse delitto.
Ma, evidentemente, non si trattava solo di questo. La discussione, filtrata dall’interpretazione dei giudici, ci riporta comunque a una prassi
consuetudinaria contadina. Di certo, le argomentazioni del relatore intorno alla specificità del delitto di ratto suggeriscono se non l’imbarazzo,
comunque un’estrema prudenza nel procedere nei confronti dei giovani che si erano sicuramente resi presunti autori di una violenza.
Stefano Galanti avrebbe dovuto proporre una pena nei confronti dei
tre imputati che si erano sempre mantenuti sulla negativa (rei negativi)
e se il consesso avesse approvato la sua deliberazione, il fascicolo inquisitorio, con la sentenza, sarebbe stato trasmesso alla corte d’appello.
Con un ragionamento, che conviene seguire nel dettaglio, il relatore, pur ricorrendo al dispositivo previsto dalla Sovrana patente del 1833,
illustrò ai suoi colleghi come fosse dell’opinione di sospendere il processo nei confronti dei tre:
Ed in primo luogo osservar devesi che, sebbene la Politica Autorità ci dipinCodice penale 1997, p. 31.
Cfr. supra p. 48-49; in realtà Galanti avrebbe potuto appellarsi al successivo
paragrafo sette della medesima Patente per poter comunque disporre di due soli indizi validi per decretare la colpevolezza dei tre imputati. Non era infatti difficile riscontrare nelle dichiarazioni assolutamente negative dei tre giovani, elementi che
provassero la loro volontà di «isnervare gli indizi» raccolti contro di loro.
103
Affermazione contenuta nel punto III dell’enunciazione iniziale della Sovrana patente, cfr. supra pp. 47-48.
101
102
62
La selva incantata
ge li Monicella, Gasparini e Fuscalzo siccome inclinati alle violenze ed alla
libidine, pure non può applicarsi ai medesimi la condizione di cui parla il
paragrafo 6 della sudetta Patente, in quantoché nessuno di essi fu in precedenza per delitto o per grave trasgressione di polizia, nascente da impulso
di libidine, nonché condannato, nemmeno sottoposto ad inquisizione102.
Bensì dalla combinazione delle circostanze risulta uno strettissimo rapporto fra le persone degli incolpati ed il delitto, da non potersi supporre che altri fuorché i medesimi incolpati lo abbiano commesso103.
Ma in difetto della suespressa condizione e mancando l’altra della falsa
giustificazione104, tre sono gli indizi che devono risultare pienamente provati al confronto degli inquisiti, onde aversi la prova legale della loro reità.
Tre appunto sarebbero gli indizi che stanno a carico di cadauno dei nostri
inquisiti, cioè la presenza sul luogo e nel tempo del delitto, la diretta incolpazione e la stragiudiziale confessione.
Esaminiamo questi indizi:
La presenza degli incolpati Gasparini e Fuscalzo sopra il luogo del misfatto, nell’ora in cui accadde, è attestata da Antonio e da Giovanni Mastelli, il
primo di età superiore, il secondo di età inferiore agli anni 18, sicchè questo
indizio manca di quella squisita prova legale prescritta dal paragrafo 409,
Codice penale, parte prima, combinata col paragrafo 2, articolo 6 della
summenzionata Sovrana Patente. Riguardo al Monicella, meno valutabile è
questo indizio, perché non havvi che il ragazzo Giovanni Martelli da cui
venga attestata la di lui presenza nel tempo e sul luogo del delitto.
Per Stefano Galanti la combinazione del paragrafo 409 del codice105
Cfr. quanto osservato nella nota 103 e comunque la successiva discussione.
Il paragrafo cioè che stabiliva che per la colpevolezza testimoniale fossero necessari due testimoni «ciascun dei quali al tempo del commesso delitto avesse compiuta l’età di diciotto anni, abbiano fatta la loro deposizione direttamente intorno
al delitto commesso dall’imputato concordemente, di propria e certa loro scienza e
secondo le altre norme prescritte nel paragrafo 403», cfr. Codice penale 1997, p. 140.
Il paragrafo 403 definiva le caratteristiche che dovevano essere presenti per attestare la validità legale di una testimonianza, cfr. Codice penale 1997, pp. 138-139.
106
Si trattava del paragrafo che prevedeva «indizi comuni a tutti oppure a molti delitti»; nel lungo elenco, all’articolo sei, si prevedeva come indizio valido «se
l’incolpato era presente nel luogo del delitto in quel tempo che fu commesso», cfr.
Codice penale 1849, pp. 250-251. Trattandosi di un indizio il richiamo al paragrafo
409 era fuori luogo.
107
In base all’articolo due del paragrafo quattro della Sovrana patente, cfr. nota
124 in merito alla diversa valutazione del giudice Zanella.
104
105
Nella selva incantata degli indizi
63
con il paragrafo 2, articolo 6, della Sovrana patente non dimostrava legalmente la presenza degli imputati su luogo del delitto. Un ragionamento svolto in maniera confusa, in quanto l’articolo della Sovrana patente da lui menzionato106 non richiedeva in realtà che un solo teste per
essere considerato valido (in quanto indizio)107.
Ma, di fatto, Stefano Galanti, intendeva procedere, senza esitazioni, nel suo ragionamento volto a proporre la desistenza. Infatti, egli
continuava:
2. La diretta incolpazione data dalla danneggiata Teresa Mastelli contro i
nominati tre inquisiti non potrebbe conformarsi in miglior guisa al disposto del paragrafo 2, numero 4108 della suricordata Patente, essendochè la deposizione di detta Mastelli è rivestita di tutti li requisiti voluti dal paragrafo
403 Codice penale, parte prima109.
Il relatore ammetteva quindi la validità del secondo indizio da lui
individuato nella vicenda che aveva coinvolto la giovane Teresa Mastelli. Ma, poi, aggiungeva:
3. Quanto poi alla stragiudiziale confessione fatta da Antonio Monicella alli
testimoni Giovanni Pasinato e Gaspare Cusinato è da ritenersi che quantunque meritino questi due ultimi piena fede, pure non si può a meno di riguardare il racconto ad essi fatto dal Monicella, piuttosto per una millanteria, anziché per una seria e veridica confessione d’un fatto proprio. Un millantatore lo reputano gli stessi testimoni e difatti col suo racconto voleva far
credere ai medesimi ciò che realmente non era avvenuto, vale dire la consumazione dello stupro violento. E quanto al convegno che per la giurata testimonianza di Teresa Mastelli e di Giuseppe Scarzin ebbe luogo al mezzodì
del 26 marzo 1840 in casa di Giovanni Locatelli, all’oggetto di rappacificare
colla mediazione delli medesimi Scarzin e Locatelli la stessa Mastelli colli tre
Articolo della Sovrana patente che stabiliva la validità di uno degli indizi comuni a molti delitti: «Se l’incolpato, nella figura, nelle armi, nel vestimento, o per
altri distintivi particolari corrisponde esattamente alla descrizione del delinquente
fatta da colui a pregiudizio del quale fu commesso il delitto o da un testimonio»,
cfr. Codice penale 1849, p. 250.
109
Si noti come in questo caso il Galanti, a diversità delle argomentazioni precedentemente prospettate per dimostrare la presunta inconsistenza del primo indizio, accosti l’articolo della Patente al solo paragrafo 403 e non (erroneamente) al paragrafo 409 (cfr. supra pp. 62).
108
64
La selva incantata
nostri inquisiti, tutti presenti allo stesso convegno, lo dobbiamo bensì ritenere siccome effettivamente avvenuto con tutte quelle circostanze deposte dalli due contesti, ma non si potrà giammai ritenere che in tale incontro li Monicella, Gasparini e Fuscalzo facessero una esplicita confessione del fatto
commesso, se la Mastelli nell’atto di rimproverarli ne lo accennava in modo
generico e con tutta riserva, e se le scuse del Fuscalzo, l’unico che al dire della Mastelli in allora parlava, si aggiravano sulla ubbriachezza dalla quale voleva essere stato dominato con i suoi compagni nella precorsa sera.
D’altronde l’assenso che i tre incolpati avrebbero dato al Locatelli di esborsare alla Mastelli per loro conto austriache lire 4 e mezzo potrebbe interpretarsi anche per un mezzo a liberarsi dalle molestie di un’accusa qualunque
infondata110.
Stefano Galanti propose dunque che nei confronti dei tre imputati si
deliberasse per la sospensione del processo. Le sue argomentazioni sottolineavano volutamente la possibile fragilità di un impianto accusatorio
incentrato sugli indizi, compito che, ad onor del vero, lo stesso codice assegnava al relatore come strumento fondamentale di legalità, considerando l’assenza dell’avvocato difensore in tutto il corso del processo111.
In realtà il ragionamento di Galanti dimostrava una certa forzatura,
individuabile del resto sin dalla sua esitazione iniziale a definire il fatto come un delitto. Forzature indotte dall’estrema prudenza che caratterizza così spesso i referati dei relatori.
Ma, in fin dei conti, se il suo conchiuso di desistenza fosse stato approvato dalla maggioranza del consesso, la sentenza sarebbe stata più
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, c. 250.
Il relatore riteneva comunque che, nonostante tutto, il comportamento degli
imputati fosse da considerarsi come una grave trasgressione di polizia, prevista dalla
seconda parte del codice: «Dissi, fin da principio, essere quei tre individui imputati anche della grave trasgressione di polizia in titolo di lesioni personali ai danni
delli Francesco padre, Antonio e Giovanni figli Mastelli. Li Gasparini e Fuscalzo
subirono per tal fatto anche la pena politica, non così il Monicella, perchè, in seguito al di lui ricorso contro la sentenza della Pretura di Bassano, l’eccelso Governo
annullò la sentenza medesima, tanto riguardo al Monicella, come riguardo alli Gasparini e Fuscalzo. Propongo quindi di rimettere alla regia Pretura in Bassano gli
atti processuali, da ritornarsi dopo che ne avrà fatto l’uso opportuno, comunicandole il tenore della sentenza oggidì proferita sul titolo criminale e di rimetterle pure in istato di arresto il detenuto Antonio Monicella, onde nuovamente proceda al
suo confronto sul fatto di malitratti e lesioni corporali in Francesco, Antonio e Giovanni Mastelli...», cfr. Ibidem, c. 252.
110
111
Nella selva incantata degli indizi
65
difficilmente impugnabile da parte della corte d’appello. Difatti, come
recitava il paragrafo 443, già ricordato poco sopra, se, nel caso di assoluzione o sospensione del processo, il Superior giudizio criminale avesse
optato per la colpevolezza dei tre imputati, la sentenza sarebbe stata
automaticamente trasmessa al Supremo tribunale di giustizia (terza istanza): eventualità improbabile, sia per la natura del reato che, probabilmente, per la predisposizione della corte d’appello veneziana a ribadire la propria autorità.
Il caso era di estremo interesse e la discussione che seguì rivelò le
ambiguità sottese al titolo di attentato stupro violento assegnato
all’aggressione rivolta nei confronti di Teresa Mastelli. Stefano Galanti
aveva lasciato sullo sfondo alcune questioni rilevanti: perché lo stupro
non era stato consumato? La giovane donna nascondeva la verità, oppure era stata lei stessa con la sua ferma opposizione a indurre i quattro giovani ad abbandonare la loro impresa?
In realtà le ambiguità erano sottese alla definizione stessa del titolo
con cui la maggioranza del consesso aveva etichettato il fatto. È probabile che i giudici che avevano esaminato il caso, in primis lo stesso Galanti, non avessero intuito che la vicenda era inscrivibile in una realtà
contadina contrassegnata da rituali consuetudinari, ma, anche se ciò
fosse avvenuto, l’aggressione evidentemente comportava una pronuncia simbolica, ancor prima che penale, da parte del tribunale.
L’etichetta stupro violento non favoriva, evidentemente, le potenzialità implicite di un’indagine che, di fronte alle asserzioni decisamente
negative degli imputati di aver partecipato al fatto, avrebbe dovuto essenzialmente avvalersi di un paradigma indiziario112.
Il presidente aprì la discussione, concedendo la parola agli altri votanti.
Anche in tale occasione la sessione criminale si svolse in maniera animata, prospettando argomentazioni di un certo rilievo. In fondo le os-
È difficile dire se gli imputati, nella primissima fase dell’indagine e prima del
loro arresto avessero potuto consultare un avvocato che, in base alla conoscenza
del codice, avesse loro consigliato di rimanere comunque sulla negativa. Oppure se
si tratta della logica conseguenza di una consapevolezza intrinseca, oltre che ai
quattro giovani, alla comunità nel suo complesso di considerare l’intervento esterno come incapace di cogliere (e quindi di legittimare) alcune pratiche sociali tipiche
del mondo rurale. Per questo problema cfr. Povolo 2000.
113
Fostini si riferiva per la prova generica al titolo del reato prescelto dal relatore
e per prova speciale la specifica relazione tra il delitto e la persona che, presumibilmente, l’aveva commesso.
112
66
La selva incantata
servazioni del relatore Galanti si prestavano ad essere contraddette,
anche per il loro profilo decisamente poco pronunciato e ambiguo.
Intervenne per primo il giudice Gaetano Fostini, il quale, coerentemente con quanto già aveva sostenuto nelle due precedenti sessioni del
18 settembre 1840 e 5 gennaio 1841, esprimeva il suo accordo con le argomentazioni del relatore, sia nella qualifica del titolo assegnato al fatto, che in merito alla sospensione del processo.
Fostini aggiungeva però che, rispetto al relatore, il quale aveva sottolineato l’incertezza della prova speciale, a suo giudizio era pure discutibile la rigorosa prova generica113. Ed argomentava:
Se al momento di decretare la speciale inquisizione, ei soggiungeva, rendesi necessario che il fatto in genere sia provato, la prova del fatto stesso e di
tutte le circostanze che concorrono a costituirlo delitto deve poi emergere
luminosa lorché trattasi di pronunciare sentenza di condanna.
Nell’odierno caso tale prova luminosa non emerge dagli atti processuali,
inquantoché non consta indubbiamente da quelli se la desistenza dalla consumazione del delitto fosse soltanto lo effetto della incontrata ressistenza
opposta dalla Mastelli o da qualche causa estranea del tutto alla volontà
degli agenti, estremo necessario a costituire qualsiasi attentato.
E se pur si volesse riflettere che quattro erano quei giovani che volevano sfogare sulla Mastelli le libidinose lor voglie, che sola a fronte di essi si stava la
giovane e che pertanto una debole resistenza, facilissima ad essere superata,
poteva ella opporre, s’inclinerebbe forse a dubitare che il pentimento avesseli
consigliati a desistere dal compiere il pravo loro divisamento, dal che ne seguirebbe che il fatto fosse destituito del carattere delittuoso di un tentato stupro114.
Il pentimento, forse, aveva trattenuto i quattro giovani, dal proseguire nel loro intento iniziale, in modo tale da rendere inconsistente
persino la definizione legale assegnata dal relatore al fatto stesso. Un
argomentare che ci convince ancor più che i giudici del consesso vicentino non avessero affatto colto l’esatto significato del rituale giovanile115.
Sulla definizione del delitto di attentato stupro si mosse anche il successivo intervento del giudice Giuseppe Zanella, il quale, però, avvalendosi di nuovi elementi della vicenda, non aveva alcun dubbio sulla
Cfr. Ibidem, c. 252.
L’aperta esplicitazione di tale motivazione avrebbe però spinto a classificare
il fatto con il delitto di ratto, come successivamente avrebbe proposto il giudice Pietro Cassetti.
114
115
Nella selva incantata degli indizi
67
colpevolezza dei due principali imputati.
Lo Zanella, ricordando pure lui l’opinione espressa nelle precedenti sessioni, in sintonia con il parere del relatore, manifestò decisamente
il suo disaccordo rispetto a quanto il collega Fostini aveva sostenuto:
Aggiunse poi che non poteva concorrere nella opinione del consigliere Fostini, pel quale non emergerebbero forse rigorosamente provate le circostanze tutte costituenti l’attentato, essendo a di lui avviso ancor dubbio se
quei giovani avessero desistito dalla consumazione dello stupro per la resistenza opposta dalla Mastelli, oppure per di loro spontaneo volere, indipendentemente da qualsivoglia altra causa.
Osservazione, quest’ultima, che sembra far intravedere, dietro il
presunto titolo di attentato stupro violento, come si fosse forse colto
l’esatto significato del comportamento dei giovani, di cui si fornivano
poi particolari interessanti. Ma la conclusione dell’argomentare dello
Zanella ci dimostra come, su questa questione, egli non avesse in realtà
una convinzione molto diversa dai colleghi che l’avevano preceduto
nella discussione:
Osservato, ei diceva, che dalle deposizioni dettagliate della Mastelli, fermamente da essa sostenute a fronte degli inquisiti116, consta che quei giovani, dopo di averla a forza strappata dai suoi congiunti, e seco trattala, la
gettavan supina al suolo e tenendola alcuno ferma alle braccia, alle coscie,
altri queste allargavano, slacciavansi i calzoni ed estrattone il membro virile, alternativamente le si facean sopra, tentandone per ogni guisa la introduzione.
Osservato questo complesso di atti tendenti tutti a conseguir la stuprazione di quella giovane, che infruttuosi soltanto restavano pel contorcersi, pel
dimenarsi, per la resistenza in somma dalla giovane opposta, com’essa giuratamente attesta e sostiene, non puossi revocare in dubbio la sussistenza
del delittuoso attentato117.
La tenace resistenza della giovane Teresa Mastelli, a detta dello Zanella, aveva dunque impedito ai giovani di condurre a termine il loro
Come infatti avveniva di frequente, anche in questo caso si era svolto un confronto diretto tra la vittima e gli imputati.
117
Ibidem, c. 253.
118
Ovviamente solo l’individuazione del fascicolo processuale ci permetterebbe
di cogliere il vero senso del comportamento degli inquisiti.
116
68
La selva incantata
proposito. Ma ciò che viene descritto come un attentato stupro appare ai
nostri occhi come un vero e proprio rituale di degradazione compiuto
dal gruppo giovanile per umiliare una ragazza, forse eccessivamente
orgogliosa, o forse, molto più probabilmente, decisa a condursi a nozze con un giovane di un altro villaggio118.
Giuseppe Zanella procedette poi ad esporre la natura degli indizi e
delle prove testimoniali che egli, a diversità del relatore, riteneva invece si fossero pienamente raggiunti a carico degli imputati.
Anche qui conviene seguirne il ragionamento:
Ciò premesso, avvisava il votante emergere dalle tavole processuali la prova testimoniale al confronto delli Gasparini e Fuscalzo119. Nel calcolare la
prova, ei soggiungeva, devonsi considerare nel loro assieme e nella di lor
colleganza le circostanze tutte costituenti un qualsiasi fatto criminoso:
nell’odierno caso il complesso di queste circostanze, che appunto costituiscono l’attentato stupro, emerge pienamente provato, per quanto concerne
i nominati Gasparini e Fuscalzo, dalle attestazioni della giovane Mastelli e
da quelle del di lei fratello Antonio, i quali giuratamente asseverano che ad
opera di detti Gasparini e Fuscalzo, in un ad altri, veniva dessa strappata
da propri congiunti e dai medesimi allontanata. Atti questi che non possono venire spiegati che come il principio dell’attentato stupro120, attestato
dalla danneggiata, unico scopo cui potevano tendere quei giovani, mentre
alcun dissapore, alcun astio od animosità presistente spingere li poteva a
tanto eccesso per collera o per vendetta contro la famiglia Mastelli121.
Il preopinante Giuseppe Zanella aveva dunque raggiunto, a suo giudizio, la prova testimoniale, in quanto la sottrazione della ragazza e il
successivo attentato stupro non costituivano che un unico fatto, la cui
veridicità era attestata da due testimoni sottoposti a giuramento,
com’era previsto dal paragrafo 409 del Codice penale.
Ma lo Zanella non si limitava a solo questo. A suo dire, anche la co-
Cioè i due imputati che erano stati riconosciuti al momento del rapimento
della ragazza.
120
In questo punto si situa la forzatura del ragionamento dello Zanella (ma implicito anche in quello dei colleghi che l’avevano preceduto, anche se non ne traevano tutte le conseguenze): l’accostamento di un fatto indiscutibilmente provato (il
rapimento) con un fatto non pienamente provato e di cui non si coglieva fino in
fondo la complessa dinamica (il presunto tentato stupro).
121
Ibidem, c. 253.
119
Nella selva incantata degli indizi
69
sì complessa prova indiziaria poteva essere considerata raggiunta nel
caso specifico. Ma le sue argomentazioni, ci sembrano, in questo caso,
meno convincenti:
Subordinatamente a ciò trovava il votante raggiunta al confronto degli
stessi Gasparini e Fuscalzo anco la prova indiziaria, in quantochè, a di lui
sentire, stava a loro carico la diretta incolpazione della danneggiata, la di
loro presenza sul luogo e nel momento del fatto e la capacità a delinquere,
al che tutto aggiungevasi un nesso tale di circostanze che concorrevano a
stabilire la colpa.
Della incolpazione diretta della giovane Mastelli a carico delli Gasparini e
Fuscalzo, dettagliata, ferma e ripetuta tanto dinanzi al giudizio che fuori,
credeva di non averne a tenere ulteriore discorso122.
In quanto poi alla capacità a delinquere dei medesimi, dicevala risultare
dalle informazioni della politica autorità che li segnava entrambi per malviventi, capaci di tutto, massime in genere di violenze e ad ogni azione libidinosa inclinati123.
E per ultimo, in quanto alla presenza di essi sul luogo e nel momento del
fatto, la riteneva provata per le attestazioni di Antonio e Giovanni Mastelli, entrambi giurati, dappoiché niun obbietto poteva sorgere dal non
avere il Giovanni compiuta la età degli anni 18, come opinava il Relatore,
mentre a di lui avviso, pel raffronto dei paragrafi 403, 409 del Codice penale, parte prima, la età degli anni 18 dei testimoni rendesi soltanto indispensabile, lorché si tratti della prova diretta testimoniale e non allora che
la prova della reità dell’inquisito abbia a risultare dal concorso delle cirPunto condiviso anche dal relatore Galanti.
Lo Zanella, a diversità di Galanti, prospetta la prova indiziaria ricorrendo al
noto paragrafo 412, che prima dell’introduzione della Sovrana patente del 1833 era
l’unico strumento per aggirare le difficoltà implicite nella prova testimoniale, cfr.
nota seguente..
124
Ibidem, c. 254. Il confronto tra i due paragrafi mi sembra una forzatura operata dallo Zanella, il quale, come già si è osservato, per dimostrare la prova indiziaria ricorre al paragrafo 412 del codice relativa alla Prova per concorso delle circostanze, cfr. Codice penale 1997, pp. 143 e sgg. In realtà il votante sembra ricordare il paragrafo quattro, articolo 2 della Sovrana patente del 1833 che recitava: «La deposizione di un testimonio accompagnata da tutte le qualità richieste dal paragrafo 403
della prima parte del Codice penale, se la medesima si riferisce immediatamente
all’esecuzione del delitto per opera dell’imputato e se il testimonio al tempo del delitto aveva compito l’anno decimoquarto di età», cfr. Codice penale 1849, p. 255. La
diversa valutazione dei due giudici sarebbe comunque stata successivamente ripresa dal presidente del consesso, cfr. infra. p. 72.
122
123
70
La selva incantata
costanze, essendo in tal caso bastante che la deposizione sia rivestita dagli estremi indicati dal paragrafo 403, tra i quali non vedesi quello della
età sopraindicata124.
A diversità dei colleghi, Giuseppe Zanella era dunque convinto della colpevolezza degli imputati, nei confronti dei quali proponeva una
severa pena:
Opinava pertanto il votante doversi ritenere colpevoli li Gasparini e Fuscalzo del delitto di attentato stupro violento per prova testimoniale e subordinatamente altresì per concorso di circostanze ritenere dello stesso delitto colpevole il Monicella. E come tali doverseli condannare tutti e tre ad
anni cinque di duro carcere125.
La parola passava poi al giudice Pietro Cassetti, il quale confermava
da subito come egli fosse rimasto dell’opinione espressa nelle precedenti sessioni 14 agosto e 18 settembre 1840 e successivamente ribadita
in quella del 5 gennaio 1841.
Se il collega Giusepe Zanella aveva aggirato lo scoglio della dimostrazione sia della prova testimoniale che di quella indiziaria, considerando come un unicum i fatti emersi dal processo, per qualificarli con il
titolo di attentato stupro violento, Pietro Cassetti andava al cuore della
questione, individuando nel rapimento della ragazza il delitto del codice che si poteva imputare nei confronti degli imputati.
Con toni vibranti e una prosa altisonante, il Cassetti sottolineava il
procedimento logico del suo ragionamento:
In questo grave fatto egli vi scorgeva assai più d’una violenza necessaria
a commettere il delitto di stupro o di attentato stupro. Egli vi scorgeva
quella parte che il rende ancor più serio e più rilevante; quella che gettar
doveva l’animo della giovane Mastelli nelle ambascie della più crudele
incertezza, vedendosi strappata colla più robusta violenza dal seno del
proprio suo genitore e degli altri suoi congiunti, che invano resistono ed
a forza di malitrattamenti debbono soccombere alla superiorità degli audaci; e trasportata vedendosi lunge da essi, non sa dove, ambascie di crudele incertezza sulla sorte, sulla esposizione di questa giovane, in balia
di sì risoluti ribaldi, dal favor della notte protetti, che commuovere do-
125
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, c. 254.
Nella selva incantata degli indizi
71
vevano del pari gli animi del genitore e dei fratelli, che a un tratto rimangono spogliati della figlia, della sorella, non potevano al certo misurare a fondo, al momento, la loro intenzione sul luogo, sul tempo, sul destino infine che avrebbe dovuto subire la loro congiunta, se preda di coloro la veggono a forza dileguare ai loro occhi e da essi loro scomparire
del tutto, giacché ormai tratta avevala alla non irrilevante distanza di
ben trecento passi.
Questa grave lesione all’altrui individuale libertà, all’autorità di un genitore, che sempre rimane il capo della propria famiglia, combinata con uno di
contemplati fini del paragrafo 80, già stabilito in processo, non poteva non
far propendere anche in ora il votante, in concorso degli altri suoi riflessi,
dedotti nelle precedenti sessioni, a ritenere il fatto per pubblica violenza mediante ratto, più presto che nell’altro delitto d’attentato stupro violento126.
Per Pietro Cassetti, non c’erano dubbi, il titolo da assegnare al fatto
in questione era quello di ratto. La sottrazione della giovane dalla casa
paterna, a suo giudizio, costituiva l’elemento determinante
dell’aggressione compiuta nei suoi confronti e, infine, quanto era poi
avvenuto, non incideva o non attenuava la gravità del fatto.
Con questo suo ragionamento il giudice Cassetti non entrava nel
merito dell’ipotetico attentato stupro e sulle motivazioni che potevano
aver spinto quei giovani a desistere dalla loro iniziativa, quasi egli ne
avesse intuito la logica profonda.
Il ratto, in quanto considerato pubblica violenza era un delitto assai più
grave di quello ipotizzato dai suoi colleghi. Ed inoltre, continuava Cassetti, la colpevolezza degli imputati era più facilmente raggiungibile:
A sentimento mio, dicea questo votante, che ritengo la pubblica violenza
mediante ratto più facilmente ancora e più tranquillamente vedrei raggiunta la prova di reità per testimoni in confronto degli inquisiti Gasparini
e Fuscalzo, nelle deposizioni appunto dell’offesa Teresa Mastelli e del di lei
fratello Antonio, il fine dello sfogo della libidine essendo già bastantemente emerso in atti127.
Ibidem, c. 255.
Ibidem, c. 255; nei confronti del Monicella, invece, Cassetti riteneva che si dovesse sospendere il giudizio. La pena da lui proposta era pure quella dei cinque anni
già prospettata da Zanella. È da notare che la prova testimoniale è sostenuta da Cassetti ricorrendo alla testimonianza della stessa giovane e del fratello maggiorenne.
126
127
72
La selva incantata
Capovolgendo il ragionamento giuridico dei colleghi, Pietro Cassetti giungeva a formulare la colpevolezza degli imputati ricorrendo alla
semplice prova testimoniale.
Tutta la vicenda lasciava però trasparire un’estrema ritrosia da parte del consesso ad accogliere l’ipotesi del rapimento, per aderire, invece,
all’inevitabile formulazione del delitto di pubblica violenza.
L’atteggiamento complessivo era infine riassunto dal presidente
Luigi Bizozero che, di fronte alla parità dei voti per la condanna e ai diversi titoli formulati, propose la severa condanna di cinque anni di carcere nei confronti dei due imputati principali per l’accusa di attentato
stupro violento.
Il suo ragionamento giuridico è di estremo interesse in quanto mirava a chiarire le divergenze insorte nella discussione in merito
all’applicazione della prova indiziaria:
Difatti, esso signor Presidente diceva, risulta dal complesso di tutte le circostanze quello stretto rapporto tra il fatto e gli imputati che la Sovrana
Legge 6 luglio 1833 reclama per la prova indiziaria128.
Abbiamo la presenza sul luogo e nel momento del fatto dei nominati Gasparini e Fuscalzo, attestata da Antonio e Giovanni Mastelli, entrambi giurati, non potendo la deposizione dell’ultimo, relativamente a tale circostanza, che costituisce uno degli elementi di prova, essere infirmata dal non
aver egli compiuta la età degli anni 18, dappoichè, pel paragrafo 409 del
Codice penale, com’ebbe ad osservare il giudice Zanella, richiedesi tale età
allora soltanto che abbiasi a convincere un imputato per mezzo della sola
prova testimoniale, non già quando si tratti di convincerlo pel mezzo della
indiziaria, come nel caso presente, altrimenti tornerebbe inutile il far giurare il testimonio che oltrepassasse gli anni 14 e non giungesse ai 18129.
Il presidente proseguì poi indicando gli altri due indizi rilevati in
Formulazione, come già si è visto (cfr. supra p. 48) apertamente esplicitata
nella Sovrana patente e che doveva guidare il giudice (insieme a quanto prescritto
con il paragrafo 8 della stessa Patente) nell’utilizzo della prova indiziaria. Ma si
trattava di una raccomandazione che il codice aveva particolarmente sottolineato
nello stesso paragrafo 412 dedicato alla Prova pel concorso delle circostanze (punto II),
cfr. Codice penale 1997, p. 142.
129
Bizozero si richiama al paragrafo 384 del codice in cui si enumerano le persone di cui non si può assumere il giuramento. Al punto d) si precisa: «che non
hanno ancora compita l’età dei quattrodici anni», cfr. Codice penale 1997, p. 132.
130
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, c. 256.
128
Nella selva incantata degli indizi
73
base alla Sovrana patente del 1833:
L’offesa, in secondo luogo, colla diretta sua incolpazione degli atti prossimi
ad eseguire lo stupro, chiara, dettagliata e precisa, costituisce un altro indizio; ed a ciò tutto aggiungasi la capacità a delinquere dei ridetti Gasparini
e Fuscalzo, comprovata dalle cattive politiche informazioni sul loro conto
in genere di violenza ed azioni libidinose, del che tutto viene a risultare la
prova della loro reità130.
Luigi Bizozero ricorreva dunque ad un ragionamento formalmente
inoppugnabile per prospettare la validità della prova indiziaria. Il procedimento logico era però stato ottenuto considerando il fatto nel suo insieme e
subordinando il rapimento della giovane al suo successivo attentato stupro.
Ma, come aveva sostenuto Gaetano Fostini, le motivazioni che avevano indotto i giovani a desistere dal loro intento non erano affatto
chiare e, di certo, non dipendenti da cause esterne. Il paragrafo sette
del Codice penale affrontava direttamente in questa eventualità:
Non è necessario a costituire il delitto che il fatto sia realmente consumato.
Il solo attentato d’un fatto criminoso costituisce già il delitto, tosto che il
mal intenzionato intraprende un’azione tendente all’effettiva esecuzione
del medesimo, ma ne viene interrotto il compimento soltanto per impotenza, per ostacoli d’altronde sopravvenuti o per puro caso131.
In un certo senso, ad essere messa in dubbio era la stessa pravità
d’intenzione richiesta dal primo paragrafo del Codice penale come requisito essenziale a costituire qualsiasi delitto132. Una contraddizione che
era stata rilevata dal giudice Fostini, proponendo la sospensione del
processo nei confronti dei tre imputati, anche se egli non aveva portato
fino in fondo il suo ragionamento, accogliendo l’essenza stessa del fatto nel rapimento di cui era stata oggetto Teresa Mastelli.
Codice penale 1997, p. 9.
«A costituire un delitto si richiede necessariamente la pravità dell’intenzione.
V’è poi pravità d’intenzione non solo allorché o prima o nell’atto stesso
d’intraprender od ommettere il fatto fu direttamente deliberato e determinato il male che va congiunto al delitto, ma anche allorquando con qualunque altro reo disegno
fu intrapresa od ommessa un’azione dalla quale ordinariamente deriva od almeno
può facilmente derivare il male ch’è accaduto», cfr. Codice penale 1997, p. 7. Sui significati della pravità d’intenzione nel codice penale austriaco cfr. Vinciguerra 1997, p. XXVII.
131
132
74
La selva incantata
Ma perché allora tanta resistenza da parte del relatore e della maggioranza del consesso ad accogliere l’ipotesi del reato di ratto e,
all’incontrario, insistere così a fondo su una proposta di delitto che non
solo non appariva chiaro nelle sue motivazioni di fondo, ma che pure
sembrava subordinato rispetto al fatto essenziale (il ratto della giovane), più agevolmente dimostrabile sul piano legale?
Si diceva di una presunta incomprensione da parte dei giudici delle
dinamiche del fatto che ebbe come protagonista Teresa Mastelli: informazioni di carattere etnografico di cui solo oggi possiamo disporre e,
in definitiva, ipotizzare, proprio sulla scorta della descrizione giudiziaria condotta con altri fini dai giudici del tribunale vicentino.
Questo aspetto, comunque, non è tale, di per sé, da giustificare la riluttanza del consesso (con l’esclusione dell’ottimo Cassetti), ad accogliere l’ipotesi di ratto.
È probabile che, anche in questo caso, la sottile logica gerarchica che
animava la complessiva struttura giudiziaria austriaca potesse avere
avuto un peso decisivo nella deliberazione del consesso vicentino.
Come si ricorderà, l’appello automatico al giudizio di seconda istanza era previsto da un lato per alcuni delitti considerati particolarmente
rilevanti e, dall’altro, per una serie di eventualità, tra cui, assai frequente era la condanna inflitta ad un reo negativo133.
Nella prima ipotesi ricadeva, tra gli altri, il delitto di pubblica violenza, che, come si è visto, includeva pure il reato di ratto. Non così per il
reato di stupro che, per il suo stesso titolo, non giustificava comunque
Cfr. p. 54. Il paragrafo 435 prevedeva pure l’eventualità della trasmissione
«quando la pena oltrepassa la durata di cinque anni» e questo spiega forse perché
il consesso si era tenuto a questo minimum.
134
Il reato di stupro era compreso nei paragrafi 110-116. Il paragrafo 111 recitava: «La pena di questo delitto è il carcere duro tra cinque e dieci anni. Se dalla violenza è derivato un grave pregiudizio nella salute od anche nella vita della persona offesa, la pena dee protrarsi a una durata tra i dieci ed i vent’anni», cfr. Codice penale 1997, pp. 40-41.
135
Evidenziata dal paragrafo 440: «Quando gli atti vengono trasmessi al tribunale superiore pei delitti compresi nei paragrafi 443 e 434, ha esso la facoltà di cambiare la sentenza proferita dal giudizio criminale in un’altra più rigorosa in conformità della legge», cfr. Codice penale 1997, p. 153.
136
Come previsto dal paragrafo 443 che conviene riportare: «Negli altri delitti
allora soltanto il superior giudizio criminale subordina al tribunal supremo di giustizia la proferita sentenza:
- quando è imposta la pena di morte o quella del carcere a vita;
133
Nella selva incantata degli indizi
75
l’automatismo dell’appello.
Ovviamente, non disponendo della confessione degli imputati ed
avendo il consesso deciso per una condanna che, pur prevedendo il minimo della pena prevista dal Codice, era comunque assai severa134, la
sentenza sarebbe stata comunque inoltrata alla corte d’appello.
In entrambi i casi, individuando il difetto di prove legali la corte
d’appello poteva decidere per la sospensione del processo.
In realtà, se nei casi previsti dal paragrafo 433 il Superior giudizio
criminale aveva ampia potestà d’azione135, limitata in particolare dal
fatto che certe scelte dovevano comunque essere trasmesse al Supremo
tribunale di giustizia (terza istanza)136, nei casi previsti dal paragrafo
435137 gli interventi della corte d’appello erano ben delimitati dal successivo paragrafo 441:
È in oltre accordata al tribunal superiore la facoltà di mitigare la sentenza,
non solo quando gli sono mandati gli atti pel caso or ora indicato [cfr. nota
135], ma anche quando gli vengono trasmessi per uno dei motivi contemplati nel paragrafo 435. Nondimeno nei casi in cui a termini della legge si
sarebbe dovuto misurare la pena tra i dieci ed i vent’anni, non può questa
per le circostanza mitiganti esser resa più mite riguardo alla specie, ma solo riguardo alla durata, né ridursi a tempo minore di cinque anni; ed alla
stessa maniera, ove dalla legge è determinata la pena tra cinque e dieci anni, non può esser ridotta a tempo minore di due anni. La pena di morte o
del carcere perpetuo stabilita dalla legge non può dal superior giudizio criminale essere cangiata in una men dura138.
- quando la pena stabilita dal tribunal superiore eccede di cinque anni quella
che era stata determinata dal giudizio criminale;
- quando il giudizio criminale giudica per la dimissione dell’imputato ed il giudizio superiore lo condanna ad una pena;
- quando il superior giudizio criminale reputa degno il delinquente d’una mitigazione di pena che eccede i limiti delle facoltà ad esso attribuite»
Cfr. Ibidem, p. 156. È evidente che il punto c), come già si è notato, poteva dare
certe chances al tribunale di prima istanza. Se, ad esempio, la proposta avanzata da
Galanti e da Fostini di sospendere il processo fosse stata accolta da tutto il consesso,
il tribunale d’appello, in caso di condanna degli imputati, avrebbe dovuto trasmettere il processo alla terza istanza.
137
E quindi in tutti gli altri delitti che ovviamente costituivano solitamente la
parte più consistente dell’attività di un tribunale di prima istanza.
138
Ibidem, pp. 155-156.
76
La selva incantata
Ed inoltre, come chiarì Castelli nel suo Prontuario, a commento del
paragrafo 440, poco sopra ricordato, l’intervento della corte d’appello
aveva un altro, ben preciso limite:
La facoltà qui accordata al Superior giudizio criminale di riformare la sentenza proferita dal Tribunale di Prima Istanza deriva dal principio che
quanto più è eminente l’Autorità dei Tribunali, con tanta maggiore fiducia
si può ad essi concedere un più esteso potere senza timore di pericolo.
Cionnonostante anche il più grande potere di un’autorità non deve estendersi tant’oltre, che le funzioni del giudice abbiano a convertirsi in quelle di
legislatore. Il Superior Giudizio criminale ha bensì la facoltà di esacerbar la
pena, ma questa esacerbazione può aver luogo soltanto se la trasmisisone
degli atti siegue per l’entità e la gravezza del delitto, non quando succede
per i casi previsti dal paragrafo 435, lett. b)139.
L’intervento censorio della corte d’appello era dunque contenuto,
nel senso che questa era costretta a rispettare certi limiti nella riduzione della pena stabilita dai Giudizi criminali.
Il punto dolente delle prime istanze era costituito ovviamente
dall’inclinazione della corte d’appello di sospendere i processi in tutti
quei casi in cui non individuava il raggiungimento della prova legale.
In questo sistema gerarchico, a controlli incrociati, il ruolo e la discrezionalità degli organi di prima istanza, come si è notato, erano particolarmente amplificati nella direzione della mitigazione della pena140
e della sospensione del processo.
Un margine d’azione che era enfatizzato al massimo grado dai paragrafi 48 e 49 del Codice penale141 con i quali la discrezionalità del consesso
era incoraggiata a cogliere le cosiddette circostanze mitiganti di un delitto e,
conseguentemente, ad applicare una pena meno severa, solo laddove
però il Codice penale prevedeva «un tempo non maggiore di cinque anni».
A questo proposito, Giuseppe Antonio Castelli nel suo Prontuario,
commentando il paragrafo 441142 osservò:
Cfr. Castelli, 1839, II, p. 232.
Ovviamente non nei casi previsti dai paragrafi 433 e 434, nei quali la sentenza comunque doveva essere trasmessa per la verifica della corte d’appello.
141
Riportati entrambi a commento di alcuni referati in cui furono proposti, cfr.
pp. 520 e 564.
142
Cfr. p. 75.
139
140
Nella selva incantata degli indizi
77
Le prime istanze criminali hanno un diritto di mitigare la pena più esteso
di quello concesso al Giudizio criminale superiore. Nei delitti, per esempio,
pei quali è prescritta la pena non maggiore dei cinque anni il Tribunale di
Prima Istanza, se in forza dei paragrafi 433, 434 e 435 non è obbligato per
dover d’ufficio a fare rapporto al Tribunale superiore, può cambiare il carcere in un grado più mite e portare anche la sua durata al più breve termine stabilito dalla legge, quando però si notifichino e in numero e in qualità
tali circostanze mitiganti che facciano sperare con fondamento l’emenda
dell’imputato.
Per lo contrario, nei casi in cui la sentenza dev’essere per dovere d’ufficio
sottoposta al Tribunal Superiore, questi ha la facoltà di abbreviare la pena sino a cinque anni inclusivamente quando è dalla legge determinata fra i dieci ed i venti anni, e quando, secondo la legge, dovrebbe essere stabilita dai
cinque ai dieci anni egli può diminuirla sino ai due anni inclusivamente143.
Da quanto si è premesso possono dunque stabilirsi i seguenti principi, cioè:
Primo, che il Tribunale Superiore, quando il caso non è da sottoporsi a lui
per dovere d’ufficio, non può diminuire la durata della pena oltre il minimum stabilito dalla legge; Secondo, che non può cangiare il genere della pena. All’opposto, nei casi che per dovere d’ufficio debbono sottoporsi gli atti al Tribunale Superiore, compete a questi anche il diritto di commutare il
genere di pena. Non può mai poi il Tribunale Superiore cambiare la pena di
morte o di carcere in vita in altre pene meno gravi144.
È dunque probabile che le indicazioni dei giudici Galanti e Fostini,
improntate all’estrema prudenza, sino al punto di non prevedere,
quantomeno in un primo momento, alcuna specifica individuazione di
delitto, mirassero ad evitare la prevedibile censura della corte
d’appello, in un caso in cui le circostanze non erano del tutto chiare.
L’opzione del titolo prescelto (attentato stupro) conferiva, in un certo
Castelli ricordò inoltre l’Aulico Decreto del Supremo Tribunale di giustizia 25
novembre 1815 che stabilì «che se un reo, il quale dovrebbe essere condannato al carcere da cinque a dieci anni, potesse meritare una mitigazione di pena al di sotto di
cinque anni, il Tribunale criminale dovrà proferire la sua sentenza coll’infimo grado
della pena legale e senza farne la pubblicazione, la subordinerà col proprio parere al
Tribunale d’appello, il quale procede poscia, a senso di questo paragrafo 441, a quella mitigazione che trovasi conveniente», cfr. Castelli 1839, II, p. 234. Un caso di tal genere è riportato nel referato pubblicato con il titolo di In principio era lo stupro.
144
Cfr. Ibidem, pp. 233-234.
143
78
La selva incantata
senso, un margine maggiore di discrezionalità rispetto a quello di ratto
proposto dal collega Pietro Cassetti, anche se, formalmente, il ragionamento giuridico di quest’ultimo sembrava inoppugnabile, incentrato
com’era sulla diretta prova testimoniale.
La sessione criminale del 21 maggio 1841 è comunque paradigmatica
dei possibili livelli interpretativi offerti dalla documentazione giudiziaria austriaca.
La verità effettuale, filtrata dal ragionamento giuridico, è ovviamente profondamente condizionata dalla normativa e dai dispositivi
procedurali previsti dal codice e volti a configurare una verità processuale che difficilmente ha il timbro dell’univocità e della perentorietà:
prova indiziaria e circostanze di varia natura che connotano il caso
non sono che alcuni degli elementi che caratterizzano il ragionamento giuridico145.
La discrezionalità dell’organo giudicante, come già si è visto, aveva
margini d’azione fortemente delimitati dal controllo gerarchico e dalle
finalità che la struttura di potere assegnava all’amministrazione della
giustizia penale. Le vicende processuali descritte sono dunque rigidamente inserite in una griglia interpretativa condizionata dal ragionamento giuridico, oltre che, ovviamente, da pregiudizi, valori e conoscenze di coloro che erano preposti ad indagare e giudicare.
E, come abbiamo potuto constatare, la conoscenza di quella che possiamo definire vera e propria sintassi del ragionamento giuridico ci aiuta a cogliere sia la posta in gioco, che quanto d’inespresso si situa, infine, a monte della deliberazione finale che l’organo giudicante assumerà
per poi, in molti casi, inviare alla corte d’appello.
Ma se le sessioni criminali sono inevitabilmente incentrate sulla fase decisionale che dovrà condurre l’organo giudiziario a pronunciare una sentenza, il fascicolo processuale nel suo insieme costituisce per lo più una
descrizione densa di fatti e vicende, rivisitate ex post da un giudice insignito di autorità e, soprattutto di una procedura che gli consente di formulare ipotesi, prove ed interpretazioni, che dovrà poi sottoporre ai colleghi.
La procedura inquisitoria, in tal senso, è provvista di una forte valenza narrativa, anche se il racconto del relatore è comunque finalizzato ad
appurare ipotesi e a considerarne la dimensione giuridica alla luce di un
È da aggiungere che nei referati il giudice relatore, che pure dovrà formulare
ipotesi di delitti e responsabilità penali, tende per lo più a condensare un racconto
che intende descrivere oggettivamente il fatto che può aver originato un delitto.
145
Nella selva incantata degli indizi
79
rigido sistema probatorio dettato dal codice e dalla successiva normativa.
È questo scarto tra la narrazione prospettata come risultato delle indagini (con il fascicolo che l’ha prodotta) e la sua presunta persuasività
giuridica a costituire l’aspetto più interessante della documentazione
prodotta dai tribunali austriaci.
Lo scarto, come già si è osservato, si pone infatti significativamente
tra due presunte verità: quella effettuale e quella, altrettanto importante, della sua verifica processuale. Al suo interno si possono individuare i diversi livelli interpretativi: sia una descrizione etnografica più o meno colta nei suoi significati, ma sempre comunque percettibile in alcuni dei suoi aspetti; che una descrizione che possiamo definire più propriamente giuridica che, come abbiamo potuto constatare nella sessione
dedicata al rapimento di Teresa Mastelli, si avvale di una sintassi costituita da prove, indizi, circostanze, la quale, strutturando il discorso
complessivo, ne arricchisce pure i significati.
Le due vicende su cui ci siamo soffermati rivelano soprattutto quest’ultimo aspetto, considerando che dati ed informazioni sono tratti
esclusivamente dalla discussione avviata dal consesso per giungere alla
deliberazione. L’individuazione del fascicolo processuale ci permetterebbe di accertare l’entità dello scarto prodotto dal confronto dei risultati ottenuti dall’indagine inquisitoria rispetto al suo, inevitabile, esito
decisionale incentrato sulla scorta di quanto prescritto dal codice146.
In definitiva è solo interpretando la descrizione operata dai giudici nel
tentativo di inquadrare i fatti nella loro ipotetica sfera giuridica e giuL’indagine del giudice istruttore che approderà nei due referati si svolge ovviamente alla luce di un’ipotesi formulata in base al dettato del codice (ad esempio
il delitto di furto), ma per raggiungere il suo obiettivo ed avvalendosi della procedura inquisitoria egli dovrà descrivere analiticamente il contesto che l’ha prodotto.
Tale descrizione, per quanto formulata alla luce di specifici valori, pregiudizi e cultura, comporterà poi una sua valutazione giuridica tramite il voto e il confronto incrociato con le opinioni dei colleghi (ricorrendo a indizi, prove, e circostanze), in
una logica interpretativa, come più volte si è detto, profondamente condizionata
dalla struttura gerarchica dell’amministrazione della giustizia. Dal confronto lo
storico può cogliere l’effettiva dimensione interpretativa operata dal giudice e
avanzare le sue riflessioni in merito.
147
Misoginia che emerge soprattutto a confronto con le posizioni molto più
aperte degli altri giudici. Nella sessione del 6 giugno 1841 il relatore Fostini affrontò
un grave caso di stupro commesso nei confronti della giovane Giovanna Danieli ad
opera di Giuseppe Padrin detto Poldo. Avvalendosi dei numerosi indizi emergenti dal processo, Fostini propose la pena di cinque anni di carcere duro. Bernardo
Marchesini, in qualità di preopinante espresse una lunga obiezione che sorvolava
146
80
La selva incantata
diziaria, che possiamo acquisire dati etnografici di un certo rilievo.
Il giudice Gaetano Fostini, la prava intenzione e l’interesse sociale
I referati qui pubblicati e le animate discussioni del consesso giudiziario vicentino ebbero tra i loro protagonisti il giudice Bernardo Marchesini. Non abbiamo informazioni inerenti la sua formazione culturale e la
sua carriera, se non il semplice dato che, come già detto, entrò a far parte del tribunale vicentino sin dal 1825, rimanendovi attivo per circa due
decenni.
I referati da lui personalmente stesi lo presentano come un uomo non
privo di pregiudizi e animato da una buona dose di misoginia147, soprattutto se messo a confronto con giudici che erano di formazione culturale
diversa, come Pietro Cassetti, Gaetano Fostini e Bartolomeo Fanzago.
Di certo, nelle relazioni da lui stese a chiusura delle indagini istruttorie che gli erano state affidate rivela non solo un’estrema prudenza,
consona, in un certo senso, al ruolo che il codice penale intendeva assegnare al giudice relatore, ma pure un’estrema adesione ai valori sociali
predominanti, costituenti in filigrana una sorta di codice invisibile alternativo, che più ancora che dalla tipologia dei delitti formalmente de-
sulla natura stessa degli indizi elencati da Fostini, proponendo invece la sospenzione del processo: «Io dubito sulli accidenti che nel loro complesso costituiscono
l’atto d’accusa. Vedo la loro imponenza, ma quando considero che geniali erano gli
amori, che il luogo dell’avvenimento non era né romito, né inospite, che un grido
fosse bastante se l’ora era quella in cui, sortendo li contadini dalla chiesa si disperdono alla spiciolata per ogni via conducente o al paese o alle loro case, e se aggiunto in vicinanza al luogo del fatto eranvi de’ sentieri e delle persone. Tutto questo ne fa dubitare che la ragazza non dasse opera a tutti quei mezzi che erano in lei
onde sottrarsi alla consumazione dell’atto che la disonorava; i quali mezzi erano
d’altronde naturali e spontanei se la vediamo sul fior della robustezza e se vediamo che un solo grido poteva salvarla. Nè è da credersi che i maltratti fossero di natura tale da togliere ad essa ad un tempo le forze fisiche ed ancora ogni morale attitudine, perciocchè quelli erano di poca anzi di niuna entità, ma è a credersi piuttosto che essa non si opponesse con quella ferma risoluzione che è propria di colei
che fa ogni suo potere per sottrarsi ad atto che la disonora. Ed in questo pensiero
tanto più, disse il predetto consigliere, mi raffermo, in riflesso a quel baccio che
spontaneo imprimeva sulla fronte del suo innamorato, pochi istanti prima
dell’avvenimento». Il consesso, incurante delle obiezioni di Marchesini, approvò comunque la proposta del relatore Fostini. Cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, cc. 393-396.
Nella selva incantata degli indizi
81
scritti, trapela dall’interpretazione che i giudici ne diedero e dai margini di discrezionalità reale loro concessa dalla struttura gerarchica.
Ad esempio, nelle due vicende Maria Kuhweiner e Il tempo
dell’iniziazione, entrambe legalmente individuabili nei paragrafi del codice dedicati al delitto di stupro, così come in altre sessioni in cui illustra
analoghi suoi referati, Bernardo Marchesini non solo è decisamente e
tendenzialmente favorevole alla sospensione del processo, ma infarcisce pure il suo ragionamento giuridico di considerazioni personali ostili nei confronti delle vittime.
E, nonostante il suo voto sia spesso respinto dal consesso, il suo parere è, in più di un caso, accolto dalla corte d’appello. In un certo senso
potremmo pure dire che le sue valutazioni sembrano riflettere maggiormente interessi e valori predominanti di cui il superior giudizio criminale intendeva ergersi a tutore e difensore148.
Nella sessione criminale del 21 agosto 1838 Marchesini espose gli atti
d’inquisizione di un processo per delitto di stupro di cui erano imputati Luigi Sommacampagna detto Moretto e Antonio Franceschini detto Bullo149.
Una giovane donna, Modesta Lanti, era stata violentata e picchiata dai
due imputati il 5 maggio 1838. La sua denuncia aveva dato il via
Nella vicenda Maria Kuhweiner il ragionamento giuridico si avvale di una
presunta inconsistenza della testimonianza della vittima, donna girovaga e dalla
dubbia moralità, pur di fronte all’indubbia predisposizione dell’imputato a commettere il delitto di cui è accusato. È in base a questa valutazione che la corte
d’appello, molto probabilmente, cassa la sentenza di condanna inflitta dal consesso,
contro il parere contrario di Marchesini.
149
Asvi, Tribuanle austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, cc. 250-253.
150
Ricordo, ancora, che nelle sessioni si ha il solo voto del relatore e la successsiva discussione, senza un resonto dettagliato della vicenda così come era emersa dal
fascicolo processuale.
151
Inerente la prova testimoniale prevista dal precedente paragrafo 403. Conviene riportare per intero il paragrafo 404 ricordato dal relatore: «In generale a costituire la prova legale si esigono le deposizioni di due testimonj. Nondimeno la testimonianza di quello contro cui fu commesso il delitto è da ritenersi bastevole a
provare la qualità del fatto, allorchè la prova di esso non possa ottenersi in altro
modo: la somma del danno derivato dal delitto, in quanto si tratti del risarcimento,
vien legalmente provata colla testimonianza del danneggiato o di quello nella cui
custodia trovavasi la cosa, sulla quale il danno avvenne, ancorché ne segua il risarcimento o la soddisfazione: a verificare le circostanze del delitto, allorché ciò è necessario per rendere legalmente provante la confessione dell’imputato, basta la deposizione di un testimonio con essa concorde».
Cfr. Codice penale 1997, p. 139. È evidente come nel delitto di stupro, il peso assegnato dal codice alla testimonianza della vittima fosse formalmente determinante.
148
82
La selva incantata
all’ingranaggio processuale, affidato a Marchesini. Ma da subito il relatore apriva con un inciso che dava a vedere di quale taglio sarebbe stato il
suo voto150:
Le giurate deposizioni del danneggiato, a termine del paragrafo 404151, fanno prova del fatto. Unicamente per questa il caso in quistione assume e
conserva i caratteri di delitto di stupro violento, intrapreso e consumato sopra Modesta Landi nelle ore pomeridiane del 5 maggio a. c.
I due imputati avevano confessato il commercio carnale con la donna,
ma avevano negato ogni forma di violenza, asserendo che «assenziente ella, di buon grado ad essi si assoggettava».
Questo caso, osservava Bernardo Marchesini, richiedeva sia la necessità di accertare se esistessero prove dell’avvenuta violenza e, soprattutto, se fosse applicabile il paragrafo 413 del Codice penale.
L’indagine inquisitoria aveva appurato che la donna aveva «un
gonfiore al labbro sinistro della vulva, associato a rossore e dolore».
Inoltre ella era stata percossa all’occhio. Ma entrambe le lesioni non
erano a giudizio di Marchesini elementi validi al fine di costituire la
prova legale152. E, da questa asserzione, non indugiava a rintracciare altri indizi che potessero suffragare quanto deposto dalla vittima.
Poiché c’era comunque la confessione degli imputati, aggiungeva
poi Bernardo Marchesini, bisognava accertare se essi fossero imputabili di prava intenzione153 e, di conseguenza, se fosse applicabile il paragrafo 413 del Codice penale.
Infatti, egli osservava: «questo argomento d’altra parte opposto agli inquisiti
non basta, giusta l’avviso del relatore, a provare l’usata effettiva violenza, sia perché nel giorno appresso le traccie che avrebbero corroborata siffatta induzione erano già scomparse, venendo in quella vece sussequitate da scolo venereo, morbo
questo che poteva per sé solo bastare dar ragione di quelle traccie di fino allora verosimile supposta violenza; e sia ancora perché queste leggere esterne traccie di
sopportata violenza possono, al detto dei consultati esperti, egualmente spiegarsi
in derivazione ad introdotta voluminosa asta virile. Se dunque questo gonfiore non
prova e non basta a provare la patita meccanica violenza, meno questo puossi desumere dall’altro caso, quello cioè della percossa all’occhio, stantechè la percossa
fu posteriore e non precedente o concomitante lo stupro», cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, c. 251.
153
Come si ricorderà (cfr. supra p. 73) il primo paragrafo del codice prevedeva
che a costituire un delitto fosse necessaria comunque la pravità dell’intenzione.
154
Codice penale 1997, p. 146.
152
Nella selva incantata degli indizi
83
Un paragrafo importante, il 413, in quanto entrava direttamente
nell’essenza stessa della nozione di delitto:
Quando l’imputato confessa bensì il fatto, ma nega la prava sua intenzione,
deve considerarsi se, secondo le circostanze ch’emergono dall’inquisizione,
il fatto sia succeduto repentinamente, ovvero se l’autore del medesimo abbia
impiegato de’ mezzi per prepararlo od abbia procurato di allontanarne gli
impedimenti. Nel primo caso, in tanto può aver luogo la discolpa in quanto
non dovesse dall’azione, secondo l’ordine naturale delle cose, derivar necessariamente il male ch’è avvenuto. Ma se l’imputato ha preparata l’occasione
ed i mezzi ad eseguire il fatto, deve ritenersi convinto anche della prava intenzione, quando però dal processo non risultino particolari circostanze che
lascino luogo a ragionevolmente riconoscere un’intenzione diversa154.
Ma come poteva il tenore di questo paragrafo essere applicato allo
stupro denunciato da Modesta Lanti, se non per l’appunto accertando
gli indizi che potevano suggerire la presunta e plausibile pravità (considerando lo stato fisico della donna) e valutando tutte le circostanze
emergenti dal processo?
In realtà non si trattava di una défaillance apparsa improvvisamente
nell’argomentare sicuro e spedito di Marchesini. Egli, infatti, si affrettava a spiegare subito il suo pensiero:
Altre volte, in casi simili, aggiungeva il relatore, fu questa tesi agitata, ma
non trovarsi ancora bastevolmente tranquillo per rinunciare al principio da
lui professato, quello cioè che in delitti di tale natura, e nelle riferite circostanze verificate, non possa giammai applicarsi questa disposizione di legge.
Infatti, la pravità dell’intenzione, ch’è quella di cui parla la legge, e quella
ancora che si dovrebbe appalesare nella confessione di un fatto, altro non è,
in riflesso agli interessi sociali ed alle conseguenti cure della punitiva giustizia, se
non che la idea od il progetto di far danno alla persona, alle sostanze, all’onore, o
quella di recare oltraggio alla religione155.
Queste sono le cause che armano a tutto dritto la punitiva giustizia. Tutte le
Mio il corsivo.
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, c. 251.
157
Marchesini intendeva dunque dire che, nel caso esaminato, pur in presenza
della confessione degli imputati, non andava comunque verificata la loro presunta
pravità, così come era previsto dal paragrafo 413.
158
Un preziosismo di Marchesini che, del resto, stonava vistosamente con le sue
155
156
84
La selva incantata
altre azioni, che non tendono a veruno degli accennati divisamenti, vanno,
dice il relatore, escluse dalla categoria dei delitti.
Ciò posto, egli è chiaro che il divisamento degli accusati nel caso nostro e
nei somiglianti non è, né era altrimenti, quello di portar danno alla donna,
non quello di pregiudicarla nelle sostanze, non d’infamarla e meno poi di
oltraggiarne con quell’atto la religione, ma sibbene unicamente quello di
spegnere in secreto, e forse anche con piacere di lei, la sentita lussuria156.
Così argomentando, Bernardo Marchesini era dunque
dell’opinione che non si potesse applicare il paragrafo 413157 e, considerando fallaci le lesioni e le percosse riscontrate sulla vittima per ritenere legalmente provata la violenza, comunque fermamente negata
dagli imputati, proponeva che, in base a quanto disposto dal paragrafo 428, si sospendesse il processo158.
L’argomentare di Bernardo Marchesini era paradossale, a dir poco,
poiché, utilizzando strumentalmente alcuni paragrafi del codice, sosteneva di fatto che l’azione dei due imputati (confessi) non era individuabile come delitto, in quanto non aveva leso i valori difesi dalla giustizia punitiva.
Come di consueto, il presidente Bizozero aprì la discussione159.
Ad obiettare alle argomentazioni di Bernardo Marchesini intervenne il collega Gaetano Fostini. Un uomo, il Fostini, che le varie sessioni
cui prese parte denotano come giudice assai prudente e perspicace160. È
assai probabile che, non diversamente da altri suoi colleghi, non amasse gli introversi ragionamenti e il cinismo di Marchesini161.
Gaetano Fostini sostenne da subito che, a suo giudizio, gli atti processuali dimostrassero «quanto basta» la violenza usata dai due imputati nei confronti della vittima e, conseguentemente, la loro indubbia
colpevolezza.
Alcuni testimoni avevano visto i due avviarsi verso il luogo in cui
affermazioni precedenti. Il paragrafo 428 infatti recitava: «Se dagli atti
d’inquisizione non risulta alcuna prova legale d’essere il delitto stato commesso
dall’imputato, ma vi sono però dei fondamenti per ritener ciò verisimile, la sentenza vien concepita in questi termini: si dichiara sospesa l’inquisizione per difetto di prove legali», cfr. Codice penale 1997, p. 151.
159
Con la formula: «Richiamata dal Signor Presidente la votazione».
160
Qualche accenno al Fostini in Povolo 1997.
161
Si veda, ad esempio, la polemica innescatasi tra Marchesini e Cassetti nella
vicenda Duello rusticano.
Nella selva incantata degli indizi
85
era avvenuto il fatto e costringere a forza la donna ad accettare il loro
invito «di mangiare e di bere». La deposizione della querelante attestava inequivocabilmente gli atti di violenza compiuti nei suoi confronti
per «consumare lo stupro». Un teste che era accorso sul luogo udendo
le sue grida d’aiuto subito dopo il fatto «trovolla in uno stato più proprio di chi aveva resistito che acconsentito».
Inoltre,
se a tutti questi argomenti, prosegue il Fostini, comprovanti quanto basta il
concorso nel confessato stupro di una violenza per consumarlo, si aggiunga essere la stuprata una donna di buon costume, come all’invece censurabili per ogni conto e di perduta fama gli inquisiti, maggiormente avrebbero
a rimanere eglino convinti della pravità di un’azione propria del loro carattere ed aliena a quello della loro incolpata.
Nei sensi pertanto del paragrafo 413 del Codice penale, il votante li ritiene
e li dichiara colpevoli dello stupro violento ad essi imputato162.
Una decisa condanna, e per di più proposta in base al paragrafo
413163 del Codice penale che Bernardo Marchesini aveva invece ritenuto
non si potesse applicare al caso in questione.
Ma Gaetano Fostini non concludeva qui quella che possiamo ritene-
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, c. 252.
Ed ovviamente in base al paragrafo 412 che, come si è visto, affrontava il tema della prova «pel concorso delle circostanze».
164
Tra le quali il fatto che uno dei due imputati avesse trasmesso alla donna il
morbo venereo. Aspetto questo che, come vedremo, sarà utilizzato da alcuni giudici
del consesso come indizio atto a dimostrare la colpevolezza dell’imputato in base alla Sovrana patente del 1833.
165
Paragrafo che prevedeva per lo stupro una pena che andava dai cinque ai
dieci anni di carcere duro, cfr. Codice penale 1997, p. 4°.
166
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, c. 253. La pena del carcere poteva infatti essere esacerbata con la pena della berlina, prevista dal
paragro 19: «Il condannato alla berlina vien legato con pesanti catene alle mani ed
ai piedi ed esposto fra le guardie a pubblico spettacolo sopra un palco elevato, in un
luogo atto al concorso del popolo per tre giorni successivi, ogni volta per un’ora,
con un cartello pendente al petto, ove sia espresso in un modo succinto, chiaro e
leggibile tanto il delitto che la pena cui è condannato. Quest’esacerbazione ha luogo soltanto nei casi espressamente contemplati dalla legge o quando la pena da esacerbarsi arriva almeno a dieci anni di carcere», cfr. Codice penale 1997, pp. 12-13.
167
Formula riportata spesso nei referati pubblicati.
162
163
86
La selva incantata
re a tutti gli effetti una vera e propria contro-requisitoria.
A suo giudizio non era individuabile alcuna circostanza mitigante e
semmai, egli riteneva, che nei confronti dei due imputati si potessero
pure considerare delle aggravanti164. Ed anche in questo caso, egli proponeva comunque al consesso che si procedesse con prudenza:
Mal grado però simili circostanze aggravanti, crederebbe il votante di non
oltrepassare per entrambi il più mite estremo della pena portata dal paragrafo 111165, quale si è quello dei cinque anni di duro carcere. E ciò all’effetto
di evitare nella pubblicazione della sentenza sul palco il pericolo di compromettere il decoro della vittima del loro delitto166.
I due consiglieri consedenti Borgo e Galanti accolsero «senza eccezioni» la proposta formulata da Fostini e venne così deciso «per maiora
contra votum»167.
In realtà, per quando paradossale potesse apparire la proposta di
Marchesini, si può supporre168, che essa, avvalendosi di un ragionamento giuridico apertamente strumentale, intendesse sottolineare come la difesa di certi valori potesse e dovesse essere perseguita sulla
scorta fedele del dettato del Codice penale solo se riferita a categorie sociali per cui la nozione di onore e di proprietà era espressione di stabilità sociale e di certezza di valori169.
Il giudice Stefano Galanti, la prova legale e il libero convincimento del giudice
La vicenda appena descritta è dunque significativa di una realtà sociale in cui i confini dell’onore, della vita e della proprietà erano
profondamente segnati dalla posizione sociale di vittime ed imputati.
Il dettato del codice e il ragionamento giuridico si piegavano così di
fronte ad una diversa declinazione dei rapporti sociali.
Per quanta sensibilità ed attenzione il consesso potesse dimostrare
Anche in questo caso, ovviamente, l’individuazione del fascicolo potrebbe
aggiungere elementi, tra cui, soprattutto, la decisione della corte d’appello.
169
Ricordo ancora la vicenda Maria Kuhweiner che affronta un caso giudiziario
inerente lo stupro di una donna musicista e girovaga.
170
Il delitto di intrapresa violazione era descritto al paragrafo 112 del Codice penale:
«L’intrapresa violazione di una persona che non ha ancora compita l’età di quattordici anni è considerata e punita come lo stupro violento, cfr. Codice penale 1997, p. 40.
168
Nella selva incantata degli indizi
87
nei confronti di una nozione egualitaria e legalitaria del diritto, a prevalere era spesso una logica sostanziale.
In questi casi, anche in previsione di un intervento censorio della
corte d’appello, il sistema di prove poteva difficilmente essere forzato
per giungere a decisioni che esprimevano il convincimento del giudice.
Ad accorgersene, proprio un mese prima, era stato lo stesso Gaetano Fostini. In qualità di relatore, il 17 luglio 1838 egli aveva esposto al
consesso i risultati della sua indagine in merito all’intrapresa violazione di
una bambina di sette anni ad opera dell’imputato Pietro Greselin detto
Formalaita170.
L’imputato era stato visto sul luogo del delitto e la bambina, che denotava chiaramente i segni della violenza, lo indicava come autore del
fatto. Inoltre l’imputato, come attestavano le competenti autorità, dimostrava una «tendenza alla libidine».
Fostini aveva proceduto in base alla Sovrana patente del 1833, ma doveva infine concludere per la sospensione del processo, in quanto, per la
sua età, la bambina non aveva potuto essere sottoposta al giuramento171.
Tutti gli altri consiglieri avevano accolto la proposta di Fostini, tranne Stefano Galanti.
Irretito non tanto dalle proposizioni di Fostini, il quale in qualità di
giudice relatore in realtà non aveva proceduto che a soppesare
l’effettivo valore degli indizi a carico dell’imputato, ritenendoli infine
non sufficienti a decretarne la colpevolezza, quanto piuttosto dalla rigidità di un sistema probatorio che ben sapeva essere sottoposto ad un
puntuale controllo, Stefano Galanti, tra le righe, invitava i colleghi a forzare il dispositivo concesso dalla Sovrana patente del 1833, richiamandosi a quel libero convincimento del giudice, che, nonostante tutto, lo stesso codice austriaco, pur con molta prudenza e soprattutto con una molteplicità di restrizioni legali, considerava come tratto essenziale del giu-
L’indizio era previsto dal paragrafo 2, articolo 4 della Sovrana patente, «ma
non essendo questa giurata, perché sulla bocca di una fanciulla di soli 7 anni e perciò mancante dei requisiti del paragrafo 403 del Codice penale per renderla attendibile, non si avrebbe stante l’imperfezione di tale indizio il compimento della prova, che deve esser fondata almeno sopra due indizi congiunti ad una condizione»,
cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Terzo trimestre 1838, c. 48. Oltre alla
testimonianza della vittima il Fostini aveva individuato come indizio pure la presenza dell’imputato sul luogo del delitto: entrambi accostati alla sua cattiva fama.
In base al paragrafo sei della Sovrana patente, come già si è visto, erano sufficienti
due soli indizi, provvisti però delle legali formalità.
171
88
La selva incantata
dizio.
Con parole decise e prive di ambiguità, Stefano Galanti affrontava
la vicenda sulla scorta degli indizi che vi ravvisava:
La visita giudiziale per cui si ottenne legale certezza sulle rimaste tracce di
sofferta violenza e sul conseguente stato infiammatorio alle parti pudende
della fanciulletta Lucia Santacaterina e il deposto di questa innocente, che
con voce naturale d’ingenuità incolpa l’odierno inquisito Pietro Greselin
detto Formalaita per colui che col suo membro le causò il tracciato male:
queste due giudiziali constatazioni stabiliscono già per sè sole la prova legale del delitto che si commette per intrapresa violazione d’una impubere.
Aggiungasi a questo che il Greselin è descritto proclive al peccato carnale;
che consta per gli atti come fosse singolarmente dominato da carnal concupiscenza brevi minuti prima dell’avvenimento del fatto.
Aggiungasi ancora che pel detto della fanciulletta Luigia Manozzo consta
che pel Greselin fu essa fatta staccarsi dall’offesa Lucietta e retrocedere alla
casa, nel che chiaramente si scorge lo studio dell’accusato di allontanare un
testimonio alla colpa che si accingeva a commettere.
Aggiungasi infine che scolorata ed impaurita, quasi colle traccie in fronte
del sofferto delitto, presentavasi alla madre la fanciulletta allorchè col misero prezzo della perduta innocenza a lei faceva ritorno.
Per poi entrare nel cuore stesso del problema:
Da questo finora esposto complesso di circostanze sebbene non vi si scorgano
indizi bastanti a dar vita alla prova legale, nasce però nel giudice il più pieno morale convincimento sulla reità dell’accusato, che però, a norma della vigente legge
Mio il corsivo.
Ibiden, cc. 49-50.
174
Il processo venne sospeso per difetto di prove legali sul delitto d’intrapresa violazione e l’imputato venne inviato alla pretura di Schio per la trasgressione contro la
pubblica costumatezza, Ibidem, c. 50.
175
Gaetano Fostini, a proposito di questo aveva osservato: «Il Greselin, accusato di tale delitto, confessa bensì un oltraggio da lui commesso al pudore di questa
fanciulla, ma non nel modo dalla medesima deposto. Volle averla toccata coi diti
nelle pudende e nulla più. Negativo adunque di ciò che costituirebbe delittuosa la
di lui azione e commessa questa nella solitudine propria di tali oscenità, ci è forza
cercare la prova della imputatagli colpa nel concorso degli indizi», Ibidem, c. 47. Un
caso analogo, dove però la confessione dell’imputato diede ai giudici la possibilità
di infliggere una pena assai severa si ha in Il servitore, cfr. pp. 157-163.
172
173
Nella selva incantata degli indizi
89
penale non autorizza alla pronunzia di colpa172.
Ma, allorché per la voce stessa dell’imputato, in sulle prime negativo e nel costituto ordinario piegatosi a parziale confessione, allorché per questa via si
viene alla conoscenza d’un atto prossimo all’effettiva esecuzione del delitto,
atto dall’imputato medesimo appalesato, che però, onde non confessare esplicitamente il delitto vorrebbe far consistere in semplici tocchi colla mano alle
parti pudende della fanciulla, su di che è però smentito dalla perizia legale,
dalla natura ed indole della riportata lesione e dalla voce dell’offesa; in riflesso a questa confessione, considerata in connessione a tutte le altre risultanze
processuali, il preopinante ritenne l’accusato confesso del fatto e convinto della propria intenzione e subordinatamente propose giudizio di colpa173.
La perorazione di Stefano Galanti rimase però inascoltata e il consesso si espresse per majora con il voto del relatore174.
In realtà, era difficile assegnare alla confessione dell’imputato un
valore più probante di quello che il codice lasciava intravedere175, per
decretarne la colpevolezza. La confessione, in base al paragrafo 399 del
Codice penale, punto e), doveva infatti accordarsi colle informazioni già
assunte sulle circostanze del delitto176.
La corte d’appello poteva dunque facilmente rigettare la proposta
di colpevolezza dell’imputato. Ma, come già si è osservato, il punto
non consisteva solamente in un meccanico controllo gerarchico che
inibiva comunque le scelte dei Giudizi criminali. Come aveva esplicitamente affermato Bernardo Marchesini, le sentenze dei tribunali di
prima istanza erano chiamate a veicolare una dimensione della giustizia fortemente connotata dai valori predominanti e dagli specifici
contesti locali.
In questi decenni della prima metà dell’Ottocento, come denotano molti referati e sessioni esaminati, la violenza sessuale non solo era
assai diffusa, ma era soprattutto colta alla luce dei valori e delle gerarchie sociali esistenti. La derubricazione, come in questo caso, del
Codice penale 1997, pp. 136-137.
La derubricazione, ovviamente, oltre che dalle previsioni del codice, poteva
avvenire proprio attestando il difetto di prove legali. Le tensioni che potevano insorgere tra tribunali di prima istanza e corte d’appello, si individuavano molto
spesso nelle sentenze della corte d’appello che decretavano la sospensione del
processo, nonostante l’ufficio criminale si fosse pronunciato per una condanna (cfr.,
a tal proposito, quanto già osservato a proposito dell’applicazione del paragrafo
435 del codice).
176
177
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La selva incantata
fatto incriminato da delitto a grave trasgressione di polizia è in fondo indicativo, più che dei vincoli imposti dal codice e dal sistema probatorio vigenti, di una specifica dimensione antropologica delle relazioni sessuali che, evidentemente, un’élite di giudici, di provenienza
borghese e colta, poteva comunque percepire in maniera diversa, se
non critica177.
In definitiva, la distinzione stessa tra delitti e gravi trasgressioni di polizia era funzionale, come aveva esplicitamente osservato Bernardo
Marchesini, a definire lo spessore sociale e politico dei fatti che cadevano sotto la giurisdizione degli uffici criminali.
Il controllo esercitato dalla corte d’appello sulle pronunce di prima
istanza si incentrava, come si è detto, sulla validità del sistema probatorio individuato nei confronti dell’imputato. Ambiguità e forzature
potevano essere accolte solo laddove il rilievo sociale del delitto (in tutte le sue implicazioni contestuali e relazionali) l’avesse giustificato.
Le lunghe disquisizioni giuridiche dei giudici nell’ambito delle sessioni criminali trovavano evidentemente una loro coerente ragion
d’essere soprattutto nel momento in cui il libero convincimento del consesso, filtrando il dettato del codice (norme, circostanze e sistema probatorio), era in grado d’interpretare ciascun fatto nella sua effettiva dimensione sociale e politica.
Il giudice Bernardo Marchesini, l’intendente di finanza Giuseppe Contin
e il paragrafo sette del Codice penale
Come già si è osservato, le tensioni esistenti tra il libero convincimento del giudice e i limiti imposti da un rigido sistema di prove legali si può meglio cogliere nei referati di finale inquisizione stesi dai giudici relatori, cui spettava il compito di soppesare tutti gli elementi
emersi dall’indagine che sarebbero stati sottoposti dapprima al vaglio
del consesso giudiziario e poi, eventualmente, al controllo della corte
d’appello.
Un ruolo di responsabilità, quello del giudice relatore, che, di fatto,
veniva a svolgere sia la funzione di accusatore che di presunto difensore dell’imputato. Un ruolo che, evidentemente, più ancora di quello assunto dal consesso nel suo insieme era sottoposto ad attenta critica e valutazione.
Nella figura del giudice relatore, inoltre, si enucleavano più distintamente quelle tensioni inevitabili tra il dettato teorico del codice e la
Nella selva incantata degli indizi
91
sua applicazione, alla luce del libero convincimento del giudice e del sistema di prove raccolte a carico dell’imputato.
Nei referati, come già si è notato, il ragionamento giuridico veicolava questa duplicità di tensioni. Ci sono però altri aspetti, meno visibili,
ma non per questo meno importanti, che emergono dal ruolo e dalle
funzioni del giudice relatore.
La definizione del titolo del delitto, come abbiamo potuto constatare
nella vicenda che ebbe come protagonista Teresa Mastelli, non era di
certo un aspetto irrilevante, in quanto non solo contrassegnava gli esiti dell’indagine, ma, evidentemente, concedeva all’organo di prima
istanza un certo margine di iniziativa nei confronti del prevedibile intervento censorio della corte d’appello.
In una delle vicende esposte in appendice (Un’azione non contemplata dal codice penale) il relatore giunge infine a derubricare un evidente
atto di dispregio nei confronti dell’autorità politica ed imperiale, imbarazzato, molto probabilmente, in un clima politico che sembrava prospettare cambiamenti profondi, a perseguire il gruppo di giovani che
ne erano stati gli autori178.
Un caso estremo, forse, ma che suggerisce come i margini di discrezionalità dell’organo di prima istanza, ancorché costretto a muoversi in
spazi circoscritti, non fossero di certo del tutto irrilevanti.
Nella definizione della fattispecie del reato e, ancora, nella sua diversificazione, il giudice relatore e il consesso potevano pure avvalersi
degli strumenti del legalismo della finzione giuridica per aggirare
l’intervento della corte d’appello, ma anche per evitare di assumere
una decisione imbarazzante.
In una vicenda, svoltasi nel 1832, che ebbe come protagonista una figura di rilievo, Giuseppe Contin, intendente di finanza della città di ViCfr. infra pp. 507-512. Si noti, ancora una volta, la posizione nettamente divergente del giudice Bartolomeo Fanzago nei confronti del rimanente del consesso.
179
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1832; sessione del
22 febbraio 1832, cc. 243-250. Come nei casi precedentemente esaminati disponiamo della sola discussione e non del referato che, evidentemente, è inserito nel fascicolo processuale che, quasi certamente, è conservato nello stesso fondo Tribunale
austriaco, Penale. Il cancelliere annotò come il Marchesini «si fece a dettagliatamente esporre le ulteriori risultanze tutte della procedura, dando a suo luogo estesa lettura, a lume dei consedenti, dei protocolli d’esame di Luigia-Teresa Bollini, di Luigi Ferretto e del padre Luigi Chioda, nonché del costituto 14 gennaio prossimo passato alla risposta numero 67, dell’atto di confronto due febbraio corrente e delle finali difese del prevenuto suddetto».
178
92
La selva incantata
cenza, è ancora il giudice Bernardo Marchesini, in qualità di relatore, a
muoversi abilmente nel rigido dettato del codice penale.
Nei confronti del Contin il Marchesini aveva individuato due distinti, anche se strettamente correlati titoli di delitto. Al termine del suo
referato, esponendo il proprio voto ai colleghi, il Marchesini ricordò come nei confronti dell’imputato egli avesse individuato il «titolo di attentato delitto contro natura, congiuntamente a gravi sospetti di abuso di
potere»179.
Il Marchesini affrontò dapprima il titolo di attentato delitto contro natura, soffermandosi, in particolare sull’episodio che aveva avuto come
vittima il garzone Luigi Ferretto.
Il caso era assai delicato, considerando il ruolo e la personalità
dell’imputato. E Bernardo Marchesini, proponendo al consesso il voto di
sospensione del processo «per difetto di prove legali», non seppe nascondere il suo imbarazzo.
L’imputato non si era limitato a negare quanto gli era stato opposto, ma si era pure difeso entrando nel merito stesso dell’accusa formulata e così Marchesini aveva dovuto argomentare diffusamente il
proprio voto:
Poche considerazioni, disse il relatore, basterebbero per pronunciare definitivamente sopra questa inquisizione, che tiene agli arresti il Contin fino dal dì
20 dicembre prossimo scorso; ma nella circostanza che piacque allo stesso attaccare l’accusa anche nella sua essenzialità a contatto della legge, colla idea
di dimostrare come nel fatto a lui addebitato non vi siano gli elementi costitutivi il delitto, così sia mestieri in oggi prendere in nuova considerazione
l’accusa in genere, tanto a salvezza delle ragioni fiscali che a salvezza
dell’accusato180.
Una difesa sottile, che lasciava adombrare una sorta di partecipazione da parte della vittima nel reato, che non aveva avuto alcun testimone oculare. Le osservazioni di Marchesini mettevano apertamente in rilievo il duplice ruolo del relatore, ma anche la volontà di
mantenere comunque il titolo del reato per cui il Contin era stato perPer tutti i brani citati si rinvia alla documentazione citata nella nota precedente.
Indipendentemente, quindi, dal fatto che contro il reo negativo non si fossero
raggiunti gli indizi sufficienti per decretarne la condanna.
182
Il corsivo è mio. Marchesini sottolinea come nella fase iniziale di preliminare
investigazione il convincimento del giudice ha un peso rilevante.
180
181
Nella selva incantata degli indizi
93
seguito181. Le sue osservazioni, ancorché dotate di una certa strumentalità, sono di estremo interesse perché affrontano uno dei paragrafi
più importanti del Codice penale e lo stesso libero convincimento del
giudice.
Ma seguiamone il ragionamento:
Si contestò all’accusato l’attentato di libidine contro natura in contemplazione a quelle lascivie, che in giudiziale esame si narravano dal garzone
Luigi Ferretto.
In queste lascivie vide il Giudizio criminale gli estremi tutti che la legge richiedeva per elevare l’azione ad un manifesto attentato delittuoso; e questi
estremi li vedeva in causa di quegli accidenti che precedettero, accompagnarono e susseguirono le azioni e direzioni intraprese dall’accusato, in riflesso anche al proclamato di lui carattere in questo genere di brutture, il
che molto importava a determinare quella moral convinzione che è figlia del legale
criterio e che sola basta ad istituire un atto di accusa182.
Allorquando il Codice attuale al paragrafo 7183 parla di un attentato delittuoso, ben lungi dal diffondersi nelle scolastiche distinzioni di prossimi e
rimoti indizi, tutto all’invece nel criterio dei giudici confidando, concreta
l’idea generale dell’attentato nel caso che il male intenzionato intraprenda
un’azione tendente all’effettiva esecuzione del delitto che si era proposto e
questa esecuzione poi rimanga ineffettuata indipendentemente dalla volontà di colui che il delitto si era proposto consumare.
Se tutti i delitti si intraprendessero e si consumassero in un modo istesso, se
le colpevoli passioni della umana natura tutte si appalesassero nel modo
medesimo, se la marcia da percorrersi tra il pravo divisamento e la esecuzione fosse sempre la stessa, in allora la provvida legge avrebbe all’idea generale sostituito l’annuncio di quei parziali estremi per i quali si sarebbe
marcato il caso di un delittuoso attentato ed il giudice non avrebbe in ciò altro ufficio, eccetto quello di materialmente riscontrarli.
Ma siccome le azioni che tendono alla consumazione di un delitto variano
a seconda della qualità del delitto precipuamente ed a seconda del diverso
carattere della persona, così la legge ha voluto e vuole che quella gradazio-
Il paragrafo del codice che affrontava la dimensione giuridica del tentativo di
un delitto: «Non è necessario a costituire il delitto che il fatto sia realmente consumato. Il solo attentato d’un fatto criminoso costituisce già il delitto, tosto che il mal
intenzionato intraprende un’azione tendente all’effettiva esecuzione del medesimo, ma ne viene interrotto il compimento soltanto per impotenza, per ostacoli
d’altronde sopravvenuti o per puro caso», cfr. Codice penale 1997, p. 9.
183
94
La selva incantata
ne di accidenti che dal nudo proposito partendo conduce o condur può alla effettiva consumazione del delitto, questa sola servir debba di norma al
giudice, essendochè per questa gradazione soltanto è permesso al giudice
fissare gli estremi di un attentato delitto.
La mente del giudice, nel caso in questione, aveva potuto accertare come il tentativo del delitto trovasse riscontro sia nella testimonianza della giovane vittima, che nel vero e proprio corteggiamento praticato dal
Contin nei suoi confronti con blandizie e doni.
Si trattava di veri e propri atti preparatori al delitto e che suggerivano
il divisamento del Contin nei confronti del garzone.
Ma non era solo questo che aveva determinato il convincimento di
Marchesini:
«Nulla meno se a questo punto si soffermassero gli atti intrapresi non si potrebbe vedere in essi che tutto al più una indecorosa tendenza alla mollizie, ma
quando a questo progressivo molle andamento di irregolari affetti si vede il fatto del
denudamento a specioso preteso di coscrizione, in allora la mollizie prende di subito l’aspetto più importante per il quale si segna più marcatamente la via che al brutale delitto conduce, specialmente poi allorquando l’accusato occupavasi con deciso trasporto ad esaminare all’imberbe simpatico garzone e la crescente lanugine e le
parti deretane, coll’alternare sopra lui baci, carezze e promesse. E quando poi, in altro incontro egualmente innanzi a se lo denuda, senza più accampare il pretesto della coscrizione, il che significa che altra causa il muoveva, circa le vie più opportune
per metterlo in cieca lussuria, lo bacia, lo accarezza e lo premette, e quindi quando
lo crede disposto o a non opporsi o a compiacerlo con in mano il suo membro gli va
dietro della persona, lo fa piegare col corpo in quella positura che è la più opportuna al brutale congiungimento e con questo apparato si approssima e appresenta a
quella sozza via per la quale si consuma il delitto. Ed in questo punto soltanto il garzone si oppone e per la opposizione non giunge a consumarlo. In allora il Giudizio,
per tutto questo, è autorizzato a qualificare un tal fatto per un deciso attentato, ravvisando nella opposizione del garzone appunto quell’impedimento che estraneo alla volontà di chi si accinge a delinquere, accenna il citato paragrafo 7.
185
Marchesini adombra inoltre la possibilità che la vittima semmai non avesse
detto tutto quanto era accaduto in quelle occasioni: «Movente diretto ed indiretto
nel Ferretto per alterare la verità in pregiudizio dell’accusato niuno se ne conosce.
E se mai alcuno ve ne fosse, quello unicamente esser potrebbe di asserire assai meno di ciò che realmente avvenne tra lui e l’intendente, sia in causa di quel naturale
rossore a confessar tali colpe in presenza di molti e, per così dire, pubblicamente,
come del pari in causa a quel sentimento di gratitudine che dovea in lui germogliare a riguardo di persona in alto riverente seggio collocata e prodiga inoltre in
verso lui, abietto e miserabile, di carezze affettuose, di promesse e di doni».
186
Elemento, questo, che avrebbe potuto o dovuto mettere in primo piano
l’imputazione di abuso al potere d’ufficio che Marchesini affronterà in seconda battu184
Nella selva incantata degli indizi
95
Tutti questi accidenti però si potrebbero in altro soggetto anche spiegare per
effetto di una innocente simpatia, combinata ad un carattere proclive alla liberalità, ma le risultanze degli atti, purtroppo, non permettono in favore
dell’accusato così benigna interpretazione. La fama che fatalmente lo accompagna e che per l’andare degli anni, anziché dileguarsi, divenne sempre
maggiore, rende indegno l’accusato di una tanta benigna interpretazione.
Il fatto enunciato in processo tramite la testimonianza del giovane
assumeva dunque i tratti della plausibilità e della verità184. Ed il convincimento del giudice era tanto più avvalorato in quanto la giovane
vittima non aveva alcun motivo di mentire185.
Ad avvalorare i sospetti contro l’imputato stavano inoltre i ripetuti
rapporti delle autorità politiche di Treviso e Belluno e di quelle di polizia di Vicenza, che riferivano della sua propensione a commettere simili delitti186.
E nonostante tutte le questioni di fatto e di diritto confermassero il
delitto, l’imputato aveva comunque insistito nel sostenere la tesi che
non si potessero intravedere gli elementi del tentativo di reato nei fatti
esposti dal garzone.
Asserzione errata, continuava Marchesini, ormai proteso a convincere il consesso della validità del titolo formulato contro l’imputato. Anche se, come si vedrà, il suo ragionamento giuridico era così impostato
in considerazione del successivo, e molto più delicato titolo di reato,
conviene indugiare ancora sulle sue osservazioni, in quanto esse entravano direttamente nel rapporto intercorrente tra verità effettuale, che
aveva fatto irruzione nel processo tramite le testimonianze, e la verità
processuale, costituita di una sua rilevanza giuridica (titoli dei delitti e la
Il Marchesini sembra qui cadere in una una contraddizione esponendo il suo
ragionamento, in quanto l’imputato è stato, sin dall’avvio della discussione, definito negativo. Il fascicolo processuale potrebbe comunque chiarire anche questo aspetto. La posizione ambigua del relatore rispetto alla posizione dell’imputato è pure attestata da una successiva affermazione: «Incontrata ed a danni dell’inquisito ricaduta anche questa sua principale difesa, che unica andava ad attaccare il diritto, per le
cose superiormente dette, vi è poi motivo a conchiudere che l’accusato, non sapendo come abbattere gli argomenti di sua colpa, si faccia a declamare contro i tempi e
contro un fatale destino per non aver egli il coraggio di cercare in se stesso le cause
di questa tanto infausta diffamazione, onde non essere condotto in appresso alla
umiliante necessità di confessare come egli medesimo, con una fatale snaturata industria, si attirasse addosso e questa diffamazione e questa tanto scandalosa ruina».
187
96
La selva incantata
loro individuazione tramite il paragrafo sette del codice penale), nonché
probatoria:
Il principio stabilito dall’accusato nelle sue finali discolpe sembra esser
quello che, ove per i mezzi usati non sia possibile l’evenienza del delitto, ivi
mai possa ravvisarsi l’idea di un attentato delittuoso, poiché si attenterebbe a ciò che non può accadere. Sano questo principio, degenera tosto e diviene erroneo nelle conseguenze che ne vuol trarre l’accusato, applicandolo al fatto in questione.
Annunciando l’accusato che il delitto contro natura debba esser intrapreso
da due individui, ne viene che egli parla di un caso di comune consenso,
ma questo non è il nostro: egli è estraneo all’odierna questione, egli è estraneo al fatto imputato, poiché nel fatto imputato si vede appunto raggiunto
l’estremo di un semplice attentato per il dissenso ed opposizione di colui
che, secondo il principio da cui parte l’inquisito nelle sue finali difese,
avrebbe dovuto essere assenziente187.
E sia pur vero, come è in fatto che l’accidente per il quale rimane inconsumato il delitto debba essere estraneo, ma il valore di tal vocabolo non è relativo che alla persona che con proposito si accinge a delinquere, e non mai
nè relativo, né comune anche alla persona sulla quale, per via di blandizie,
o dolci ed affettuosi inganni, che è poi ciò che costituisce l’idea d’una morale violenza, si cerca il delitto consumare.
Da ciò, dunque, ne viene che il dissenso ed opposizione del garzone Ferretto
egli era questo un accidente estraneo all’accusato e quindi al novero appunto di quelli estranei accidenti di cui parla la legge, allorché offre ai suoi giudici l’idea concreta di ciò che costituisce il caso di un attentato delittuoso.
L’imputazione formulata contro il Contin era dunque sorretta, continuava Marchesini, sia dalla testimonianza della vittima che dalle
informazioni sfavorevoli e dalla cattiva fama che da molti anni accompagnavano la sua immagine. La prova indiziaria (prevista dal paragrafo 412) non sembrava applicabile al caso in questione, mentre quella testimoniale non era completa188:
Come si ricorderà, il paragrafo 404 prevedeva che fossero necessari due testimoni per costituire la prova legale, e tra questi poteva essere compresa pure la vittima stessa del delitto, cfr. Codice penale 1997, p. 139.
189
Il paragrafo cioè della sospensione del processo: «Se dagli atti d’inquisizione
non risulta alcuna prova legale d’esser il delitto stato commesso dall’imputato, ma
188
Nella selva incantata degli indizi
97
La sola negativa non basta a togliere di mezzo l’accusa, ma per ciò ottenere
conviene almeno che dal conto dell’accusato o altrimenti sorgano tali e tanti persuasioni quante sono quelle che l’accusa assistono, a segno tale che
per effetto di queste due forze contrarie si collida ogni rispettivo valore.
A raggiungere questo scopo si accinse l’accusato, non lo ottenne; si attentò l’inquirente giudizio, ma vani tornarono li tentativi e solo poté discoprire che valutabile non era in favor dell’accusa né il detto della servente Bollini, né il detto di quei testimoni che asserivano collocarsi
dall’accusato l’avvenente domestico, o stabile o provvisorio, in tale stanzino, in cui per andarvi dovesse il domestico predetto di necessità passare e ripassare per la stanza dell’accusato; i quali rilievi peraltro, se minorano in favore del detto accusato le presunzioni, non bastano però né a togliere, né tampoco neppure ad apportare scossa di debolezza alla accusa,
la quale è pur troppo circondata da tanti altri cotanto energici argomenti
di sua ferma sussistenza, da conservare tuttavia in pien vigore quella persuasiva verisimiglianza di cui parla il paragrafo 428189.
Il consesso aderì pienamente alla proposta che Marchesini, quasi a
malincuore, aveva enunciato di sospensione del processo per insufficienza di prove legali.
Rimaneva, poi, da considerare l’altra imputazione, ben più grave, di
abuso al potere d’ufficio, che, in base al già ricordato paragrafo 433, sarebbe
stata comunque successivamente esaminata anche dalla corte d’appello190.
Anche in tal caso, esordiva Marchesini, era da assumere la decisione
di sospensione del processo. Il suo ragionamento giuridico, rapportato a
quanto aveva sostenuto in precedenza, si avvaleva però esplicitamente
di una vera e propria finzione giuridica, che traeva le sue argomentazioni dalla sospensione decisa nei confronti della meno grave imputazione:
Allorquando si occupò il Consiglio di quei fatti che apportarono sopra del
Contin la sozza accusa, vide, qua e là, per entro alli stessi tali accidenti, da
vi sono però dei fondamenti per ritener ciò verisimile, la sentenza vien concepita in
questi termini: si dichiara sospesa l’inquisizione per difetto di prove legali», cfr. Codice penale 1997, p. 151. E inoltre supra p. 83.
190
Un delitto previsto dai paragrafi 85-91 del Codice penale che elencava tutta una
serie di comportamenti scorretti o irregolari da parte di un funzionario pubblico.
Nel caso del Contin, Marchesini avrebbe potuto applicare l’articol b) del paragrafo
86 che indicava come autore di tale reato «un giudice od altro magistrato e chiunque trovasi costituito in un impiego che si lascia indurre a scostarsi dal legittimo
adempimento de’ doveri del proprio ufficio», cfr. Codice penale 1997, p. 32-34.
191
Vale la pena di trascrivere alcune parti del resoconto di Marchesini volto a pro-
98
La selva incantata
dover sospettare che, tratto dalla smania di quel bruto delitto, si acciecasse
a segno l’intelletto da abusare persino del potere d’uffizio.
Per questo ordinò il Consiglio che durante l’inquisizione non si dovessero perdere di vista tutti quei parziali argomenti dai quali siffatti sospetti ne potevano scaturire, per quindi poscia deliberare anche sopra questo parziale delitto.
Da ciò dunque ne venne che l’inquirente consesso, in obbedienza a questo
comando non tacque, come fu già esposto all’accusato, l’insorto sospetto in
porre la seconda sospensione del processo: «Diffatti il richiamo del giovane Scariensi dalla lontana provincia di Belluno, per occupare un posto di semplice diurnista,
compariva sospetto per tre distinte ragioni; la prima perchè tal giovine era uno dei
notati nel rapporto di quel Commissario superiore di polizia come altro di quegli
imberbi sui quali si sospettava spegnesse il Contin sua snaturata lusuria; la seconda
perché lo si vedeva indebitamente premiato a carico dello stato e ciò in causa
dell’uffizio che copriva l’accusato e per volontà espressa di lui; e la terza perché
quella proibizione del fratello maggiore concorreva ad accreditare il dubbio già
esternato da quell’ufficio di polizia. Ora, dal momento che non si poté provare realmente lo Scariensi si prestasse alla snaturata passione, divien meno anche il sospetto e del richiamo e della proibition del fratello e dell’indebito premio, il quale potrebbe anche spiegarsi mediante equivoco ed inavvertenza, causata forse anche dalle assicurazioni che sarebbe stato all’impiego col dì settimo del mese, anzichè col dì
23.
Li favori prodigati alla famiglia Faccioli, l’impiego dei due avvenenti figli e specialmente del minore, affatto imberbe e sopra ogni altro avvenente, congiuntamente a
quelle troppo manifeste predilezioni ed al caso narrato dalla cameriera ed alle non
buone informazioni sul carattere di tal giovine, era pur questo, coi riflessi alle turpi inclinazioni dell’accusato, un complesso di accidenti pei quali diveniva il giudizio autorizzato a dubitare che quell’impiego gli fosse concesso quasi a premio della delittuosa
prostituzione, in ciò consistendo appunto quello speciale accidente da cui ne sarebbe
derivato anche il delitto di abuso al potere d’uffizio. A questi argomenti, quello ora potrebbe anche aggiungere dell’appassionato linguaggio che si conserva dall’accusato,
anche in istato d’inquisizione, ogni qual volta gli accade parlare di cotal giovine; ma
nella circostanza che non si giunse a provare l’infame carnale commercio, tutte le suennunciate suspicioni degenerano, come nel caso dello Scariensi, in semplici conghietture, alle quali va però a mancar quella base che le possa estollere ad indizi legali.
Alla stessa conchiusione di diritto siamo condotti quando si prendono in considerazione quelle circostanze che risguardano l’avvenente guardia Zuccarelli, sebbene siano veramente imponenti e sebbene con poco soddisfacenti ragioni se ne
cerchi giustificare e l’avanzamento e la di lui sregolata condotta; come pei medesimi motivi, alla stessa conchiusione, si viene allorchè si prende in considerazione e
le circostanze che risguardano la guardia Buranello e quelle che risguardano le altre guardie Bollo e Lazzari, sebbene anche sopra questi soggetti male si giustifichi
l’accusato, potendosi poi comprendere nella cattegoria degli arbitri semplici, e forse anche in quella delle crasse innavvertenze, anziché in quella di un abuso al potere, l’aver agito contro il disposto dei paragrafi 72 e 97 della legge 26 giungo 1804
e l’essersi poi permesso l’uso d’una guardia a privato servizio, questo non è a ri-
Nella selva incantata degli indizi
99
genere, nè tampoco quali si fossero quei casi sopra cui il sospetto di un
eventuale incorso abuso al potere d’uffizio ne poteva derivare.
Erano questi sospetti, come fu annunciato, tutti alligati alla pronunciata accusa del delitto contro natura e quindi non figurando che come conseguenza della stessa egli è chiaro in presente che perdettero del loro valore per il
solo riflesso che l’accusa principale non poté essere pienamente comprovata, cosicché l’incertezza dell’accusa diffonde di necessità tale incertezza anche sopra quei sospetti da farli declinare nella cattegoria delle semplici
dubbiezze, piuttosto che elevarli al grado di legali indizi191.
La conclusione del ragionamento di Marchesini diveniva così formalmente inoppugnabile, in base a tutte le considerazioni che, in modo molto dettagliato, egli aveva esposto al consesso:
Ritenuto quindi che l’abuso al potere non sarebbe nel processato soggetto
che una conseguenza del delitto contro natura, e ritenuto essere questo delitto deficiente di manifesta prova legale.
Considerando che la legittimità degli indizi non si potrebbe da questa fonte attingere, stante il difetto della prova sulla principale proposizione.
Considerando, infine, non potersi trarre indizi da indizi, ma soltanto da fatti provati potersi trarre indizio e da indizi poi non potendone derivar che
suspetti non suscettibili, comunque molti ed urgenti, a costituire un legale
giudizio.
Per tutto questo il relatore propose la desistenza da ogni ulteriore investigazione su di tal titolo.
Il consesso approvò unanimamente la proposta del relatore Marchesini192.
La vicenda processuale che ebbe come protagonista l’intendente di
finanza Giuseppe Contin è emblematica sotto molti aspetti. Sul piano
etnografico presenta un indubbio interesse, in quanto l’indagine inquisitoria condotta da Bernardo Marchesini ripropone (o suggerisce, considerando che non mi sono avvalso del fascicolo processuale) un contesto sociale in cui contiguità e dissonanze di comportamenti e di valori cetuali sono rappresentate alla luce di pratiche sociali (e sessuali, se
Considerando che la seconda imputazione comportava la trasmissione degli
atti alla corte d’appello, il Giudizio criminale deliberò pure che fosse «sospesa la
pubblicazione della sentenza sul primo titolo sino al ritorno degli atti».
192
100
La selva incantata
non affettive) che mettono in relazione luoghi, soggetti e dimensioni attinenti sia alla sfera pubblica che a quella privata.
Ancora una volta, la verità processuale, che sembra dispiegarsi sul
piano delle connessioni complesse esistenti tra risultati probatori e libero convincimento del giudice, rivela i non esili margini di manovra
di un consesso giudiziario, il quale, pure, doveva costantemente raffrontarsi con un ferreo controllo gerarchico.
Il ragionamento giuridico, condotto con abilità da Bernardo Marchesini, sembra avallare una sorta di adesione simpatetica nei confronti di un
membro dello stesso ceto sociale accusato di azioni ritenute infamanti.
Sarebbe però fuorviante individuare nella deliberazione infine assunta nella sessione del 22 febbraio 1832 una semplice adesione emotiva del
consesso nei confronti della posizione cetuale dell’imputato. La vicenda, per essere pienamente colta nei suoi significati, comporta infatti un
altro ordine di considerazioni.
Come ogni processo penale, anche quello austriaco implicava, in
definitiva, una sorta di rito di degradazione nei confronti di colui che era
stato sottoposto ad un’indagine193. A diversità dei processi condotti con
la pubblicità del dibattito e le arringhe degli avvocati, come ad esempio
quello napoleonico, il rito inquisitorio, incentrato sulla segretezza,
adottato dal sistema giudiziario austriaco riservava agli organi statuali una funzione così delicata, che poteva avere forti ripercussioni sociali e politiche.
Ponendo l’accento non tanto sugli effettivi risultati che potevano essere raggiunti tramite una condanna, che, come già si è visto, presupponeva, in nome del libero convincimento del giudice, di ridurre la tensione esistente tra verità materiale e verità processuale194, quanto piuttosto
Su questi aspetti fondamentali del processo penale cfr. Garapon 1997, in particolare pp. 250 e sgg.
194
E quindi anche di prospettare una criminalità nei confronti della quale il sistema aveva teoricamente saputo reagire. Da queste considerazioni appaiono fuorvianti le critiche che erano mosse al sistema giudiziario austriaco e alla sua effettiva impossibilità di dimostrare la colpevolezza degli imputati come cause di una criminalità diffusa se non impunita.
195
Come in alcuni casi presentati in appendice. Va aggiunto che, sottostante
all’intervento giudiziario del tribunale si poneva inoltre quello spazio, ampio e
frammentato, costituito dalle gravi trasgressioni di polizia. Per queste ultime rinvio
al saggio di M. Manzatto che apparirà nel volume collettaneo dedicato
all’amministrazione della giustizia penale nel regno Lombardo-Veneto, a cura di G.
Chiodi e C. Povolo.
193
Nella selva incantata degli indizi
101
su quella che possiamo definire ricezione giudiziaria e processuale di fenomeni sociali che richiedevano un intervento da parte delle istituzioni statuali, il sistema giudiziario austriaco aveva preferito, anche in
questa direzione, non assumere una funzione attiva e perseguire piuttosto un prudente obiettivo di contenimento.
Le frequenti sospensioni di processo per difetto di prove legali e la predisposizione da parte dei giudici a ricorrere a pene sostanzialmente inclini alla mitezza, soprattutto laddove si era ottenuta la confessione
dell’imputato, riduceva la portata del rituale di degradazione insito in
ogni procedimento giudiziario.
Come si è potuto constatare, si trattava di un procedimento che concedeva ampi margini di manovra, ma che comunque era inserito in una
struttura gerarchica incentrata su un forte controllo esercitato nei confronti della prima istanza.
Se tutto questo riduceva la portata di degradazione rituale del processo, la capillarità dell’intervento giudiziario, anche di fronte a reati di
minima entità e spessore195, e l’azione effettivamente svolta dalla procedura inquisitoria nel contesto sociale in cui era maturato il presunto delitto, con il coinvolgimento, nell’aula del tribunale, di imputati, vittime,
testimoni ed esperti, assegnavano, in definitiva, una forte valenza simbolica al ruolo effettivamente svolto dal consesso giudiziario, al di là
delle pene effettivamente inflitte.
In definitiva, con la sua potenziale capacità di attrarre196 i protagonisti del fatto (attori di quella verità materiale emersa da una pluralità di
contesti) nello scenario processuale (ancorché segreto), per renderli
Va aggiunto che proprio la stretta legalità del sistema giudiziario austriaco
poteva agevolare questa attrazione. Più che l’eventuale pena inflitta era infatti
l’azione stessa del processo a sancire in molti casi la sanzione di condanna nei confronti del delitto commesso.
197
Il paragrafo 279 recitava: «S’è importante alla comun sicurezza di scoprire i
delinquenti coll’investigazione degli indizj, non è meno importante alle pubbliche
cure di proteggere la fama di quelli che per una sventurata combinazione di circostanze sono caduti in sospetto d’aver commesso un delitto. Se pertanto indizj bensì probabili diedero motivo all’investigazione contro qualcuno, ma da questa non
vennero confermati, gli si deve a sua richiesta rilasciare su di ciò una testimonianza d’ufficio per sua quiete e giustificazione»; e il successivo paragrafo 284 affronta
una questione altrettanto delicata: «L’arresto e la custodia di eseguiscono bensì con
tutta la precauzione, onde impedire la fuga dell’imputato, ma ben anche col maggior possibile riguardo, onde risparmiarlo nell’onore e nella persona...», cfr. Codice
penale 1997, pp. 91, 93.
196
102
La selva incantata
partecipi di un rito che, innanzitutto, mirava simbolicamente a sancire
gli equilibri e i valori sociali esistenti, il sistema giudiziario austriaco
collocava il rituale giudiziario in uno spazio simbolico in cui dimensione pubblica e spinte sociali interagivano costantemente, declinando,
volta per volta, la misura e la qualità della sanzione.
È d’altronde possibile cogliere la ritrosia di fondo del Codice penale a
trasformare il processo penale in un vero e proprio rito di degradazione da alcune sue disposizioni (ad esempio i paragrafi 279 e 284) che
tendevano a proteggere la rispettabilità e l’onore dell’imputato197.
L’intendente di finanza Giuseppe Contin aveva manifestato le sue inclinazioni sessuali nei confronti di individui a lui sottoposti ed appartenenti a categorie sociali inferiori. Il contesto in cui si erano svolti i fatti era
decisamente segnato dall’ambiguità di tutti i soggetti coinvolti, vittime
ed imputato. Una sanzione penale nei suoi confronti avrebbe molto probabilmente assunto un significato più ampio e pericoloso nei confronti
delle istituzioni, di cui il Contin era un rappresentante di elevato livello.
La sospensione del processo per difetto di prove legali sancì comunque
una sorta di rito di degradazione, di cui, insieme ai giudici del consesso vicentino erano stati testimoni pure i personaggi che, a vario titolo, erano
stati chiamati a deporre nell’aula di giustizia. Un rito, comunque, che
dalla fase iniziale sino alla sua conclusione aveva saputo attutire i contraccolpi sociali e politici, conseguenti all’azione penale avviata.
Non sappiamo quale fu l’atteggiamento della corte d’appello nei
confronti della sentenza emessa (ma non ancora pubblicata) dal Giudizio criminale vicentino198.
Di certo il codice prevedeva un’altra serie di disposizioni che, pur
accentuando le tensioni tra i due primi livelli di giudizio, avevano comunque l’obiettivo implicito di impedire che il processo penale si trasformasse, soprattutto laddove erano coinvolti individui di un ceto so-
Oltre, ovviamente, alle possibili conseguenze negative del processo sulla carriera politica del Contin.
199
Il ricorso, nella sostanza, costituiva una rilevante eccezione a quanto disposto
dal paragrafo 445 che interveniva sulla pubblicazione ed esecuzioni di sentenze
che, in base a quanto previsto nei paragrafi 433-435, non dovevano essere inviate
alla corte d’appello: «La sentenza che non è soggetta ad alcuna superior decisione
viene tosto pubblicata ed eseguita...» m cfr. Codice penale 1997, p. 157.
200
Conviene riportare i due paragrafi che delineavano in maniera precisa le modalità del ricorso: Il paragrafo 464 recitava: «Nessuno a causa del ricorso può domandare l’ispezione degli atti d’inquisizione. Chi è però autorizzato ad interporlo
198
Nella selva incantata degli indizi
103
ciale medio elevato, in un pericoloso rito di degradazione.
Si trattava del cosiddetto istituto del ricorso che, più di una vera e
propria impugnazione concessa all’imputato, era un dispositivo che, in
determinate situazioni, accentuava il reciproco controllo tra i diversi livelli di giudizio.
Il ricorso, così come definito dal paragrafo 462 del Codice penale era
«l’istanza per ottenere assistenza presso un tribunal superiore» e poteva essere sollecitato subito dopo la pubblicazione della sentenza e prima che si decretasse l’esecuzione della pena deliberata199.
Che non si trattasse di una vera e propria impugnazione lo si può
evincere dal successivo paragrafo 464, che specificava chiaramente come il ricorso non implicasse comunque l’esame del fascicolo inquisitorio da parte di colui che l’aveva sollecitato. Era in questa particolare situazione che poteva infatti far capolino la figura dell’avvocato penalista, il quale, richiedeva allo stesso tribunale le motivazioni che avevano dato luogo alla sua sentenza, per poi presentare quindi, entro un
breve periodo, la cosiddetta scrittura di ricorso200.
La questione centrale inerente il ricorso era comunque esplicitata dal
già citato paragrafo 462, che lo prevedeva in due casi ben precisi:
contro le sentenze de’ giudizj criminali che possono essere da loro pubbli-
può domandare dal giudizio criminale la comunicazione de’ motivi della pronunciata sentenza, onde poter riconoscere se vi sia effettivamente qualche buon fondamento per ricorrere; ed il giudizio criminale entro ventiquattr’ore deve comunicarglieli. Tai motivi sono stesi colla maggior diligenza, in modo che comprendano con
chiarezza le sostanziali circostanze cui è appoggiata la sentenza, le specie di prova
che si hanno sulle medesime e la disposizione della legge. A questo fine il tribunal
superiore aggiugne sempre i motivi a quelle sentenze contro le quali a norma del
paragrafo 462 b) può aver luogo il ricorso». Nel paragrafo 465 si entrava nel dettaglio della procedura del ricorso: «Il ricorso dev’essere insinuato dopo la pubblicazione della sentenza e prima che si metta in esecuzione la pena; la scrittura poi di
ricorso dev’essere presentata al giudizio criminale, ove seguì la pubblicazione, almeno entro otto giorni, altrimenti non è più ammessa». Come specificava il paragrafo 463 il ricorso poteva essere sollecitato sia dall’imputato che dai suoi familiari
e da «una signoria per le persone alla medesima soggetta». E interessante quanto
previsto nella parte finale di questo paragrafo per non rendere strumentale
l’istituto del ricorso: «Ma anche alle persone autorizzate non è lecito presentare ricorsi senza fondamento e forse al solo intento di protrarre l’esecuzione della sentenza, essendo perciò soggette a responsabilita», Ibidem, p. 166-167.
201
Codice penale 1997, p. 165.
202
Cfr. supra pp. 54-55.
104
La selva incantata
cate ed eseguite senza prima sottoporle al tribunale superiore;
contro le sentenze di esso tribunal superiore che o cangiano una sentenza
pienamente assolutoria del giudizio criminale, sospendendo soltanto
l’inquisizione, od inaspriscono una sentenza di condanna, sia nella durata
della pena od in altro modo.
Il ricorso può avere il suo fondamento o perché l’imputazione e
l’inquisizione sia avvenuta senza motivo legale o perché l’imputato, dietro
la qualità degli schiarimenti risultati contro gli indizj, doveva dichiararsi
innocente od a termini di legge non così severamente punito201.
E cioè quello spazio che abbracciava tutti i delitti non compresi nei paragrafi
433 e 434 e per gli altri delitti, in particolare, la condanna di un reo negativo o una pena superiore ai cinque anni di carcere (paragrafo 435).
204
Per maggior chiarezza riporto il commento del Castelli a questo paragrafo:
«Quantunque la sentenza che di sua natura non è soggetta a superiore revisione
debba, secondo il paragrafo 445, eseguirsi di regola tostamente secondo la sua forma e tenore, formano però eccezioni a questa regola il ricorso e la riassunzione del
processo. Il ricorso di cui tratta questo capitolo altro non è che una istanza mediante la quale si implora il sussidio di un Giudizio superiore contro una sentenza
di un Giudizio inferiore.
Il ricorso ha dunque luogo: 1.° contro quelle sentenze de’ Giudizj criminali che
possono essere pubblicate ed eseguite senza la previa cognizione del Tribunale criminale. Quali siano le sentenze che si possono pubblicare ed eseguire senza previa
cognizione del Giudizio criminale è ciò che viene indicato dai paragrafi 433, 434 e
435. 2.° contro le sentenze del Tribunale criminale superiore che, o riformino col dichiarare tolta l’inquisizione per mancanza di prove legali la sentenza del Giudizio
criminale che avrà pronunciato per l’intera assoluzione del reo o accrescano la pena pronunciata dal medesimo, sia coll’estendere la durata, sia in qualunque modo.
Quindi è naturale la conseguenza che non ha luogo il ricorso contro le sentenze
del Supremo Tribunale di giustizia; contro quelle del Giudizio superiore che pronunziano una condanna, mentre la prima istanza aveva giudicato per l’assoluzione
del reo o per la sospensione del processo per difetto di prove legali od accrescono
di cinque anni di carcere la pena dalla prima istanza inflitta, per la ragione che in
questi casi la sentenza deve essere sottoposta al tribunale Supremo di giustizia ai
sensi del paragrafo 443, lett. b) e c).
Il rimedio del ricorso ha luogo tanto contro la procedura, quanto contro la sentenza. Rispetto alla procedura è d’uopo dimostrare che non esiste alcun fondamento legale di sottoporre ad inquisizione la persona contro cui si è proceduto o
pronunziata la sentenza o che la procedura non sia stata corrispondente al voto
della legge. Rapporto poi alla sentenza conviene dimostrare che mentre, per effetto delle risultanze processuali, l’imputato avrebbe dovuto, per esempio, essere
assolto per titolo d’innocenza venne in vece sospesa contro di lui l’inquisizione
per semplice mancanza di prove legali; ovvero che l’inquisito venne condannato
o sottoposto ad una pena maggiore di quella meritata e cose simili», cfr. Castelli
1839, II, 252-253.
203
Nella selva incantata degli indizi
105
Il ricorso poteva dunque avvenire, sia in riferimento ad un procedimento d’inquisizione che era stato avviato senza alcun fondamento legale, o perché la condanna non rifletteva pienamente l’insieme delle circostanze emerse a favore dell’imputato.
È però importante rilevare che il ricorso, per quando riguardava la
prima istanza, poteva essere sollecitato per tutte le sentenze che, in base al dettato dei paragrafi 433-435202, per essere pubblicate e quindi divenire definitive, non dovevano essere sottoposte alla corte d’appello.
Il ricorso poteva dunque incidere in quello spazio notevole di discrezionalità che il codice prevedeva fosse di competenza della prima
istanza203. In questo senso il ricorso poteva divenire uno strumento che,
in determinati casi, accentuava il controllo gerarchico.
Per quanto riguardava le sentenze della corte d’appello il ricorso invece poteva essere elevato sia nel caso che la precedente sentenza fosse
stata inasprita, sia nel caso che l’assoluzione del Giudizio criminale fosse stata cassata, sostituendola con la sospensione dell’inquisizione204.
È evidente che un iter così complesso, affidato ad un avvocato che
comunque non poteva consultare il fascicolo processuale, si costituiva,
in definitiva, come uno strumento di garanzia di cui, in particolar modo, potevano avvalersi i membri di una borghesia benestante e colta.
Poiché il ricorso si risolveva nell’accentuazione del controllo gerarchico tra le tre istanze205, nei casi in cui non scattava l’automatismo degli appelli che caratterizzava l’amministrazione della giustizia penale austriaca, il processo penale si costituiva come garanzia di un procedimento legale poco incline a porsi come veicolo di un rito di degradazione.
Nel caso di Giuseppe Contin incideva comunque la complessa procedura del ricorso prevista dal codice, che s’intersecava con quella
dell’automatismo dell’appello. Poiché la sentenza, per via del secondo
titolo, in base al disposto del paragrafo 433, sarebbe comunque andata in
appello, l’imputato non avrebbe comunque potuto inoltrare ricorso alla
terza istanza. Il tribunale di prima istanza, per il titolo di abuso al potere,
s’era infatti dichiarato per la desistenza. Se tale sentenza fosse stata confermata dalla corte d’appello essa sarebbe divenuta definitiva206, in base
Come notato da Castelli (cfr. supra nota 204), le sentenze del Supremo tribunale di giustizia (terza istanza) non erano sottoposte ad alcun ricorso.
206
Confermando sostanzialmente anche la sospensione decretata per il titolo di attentato delitto contro natura.
207
In base all’articolo c) del paragrafo 443, cfr. Codice penale 1997, p. 156.
205
106
La selva incantata
a quanto sostenuto nel paragrafo 462. Se, all’incontrario, la corte
d’appello si fosse pronunciata per una condanna, la sentenza sarebbe
andata automaticamente al Supremo tribunale di giustizia207: ipotesi molto
improbabile, e, in definitiva, è arguibile che la corte d’appello accogliesse la deliberazione espressa per entrambi i titoli dal Giudizio criminale di
Vicenza.
Possiamo dunque capire l’estrema prudenza, ma anche l’abilità di
Bernardo Marchesini, che svolse il suo ragionamento giuridico con il
proposito di proporre la desistenza per il secondo titolo di reato individuato contro l’imputato. Sarebbe così stata la corte d’appello ad affrontare le implicazioni che sarebbero derivate da un’eventuale condanna
pronunciata nei confronti del Contin, sottoponendosi, a sua volta, alla
censura del tribunale di terzo grado. Con ogni probabilità la corte
d’appello sarebbe stata costretta ad approvare la sentenza pronunciata
dal consesso vicentino.
Le tensioni esistenti sul piano gerarchico si giocavano così anche
sulla (eventuale) procedura del ricorso e sul ruolo svolto dai diversi livelli di giudizio nel veicolarlo. Una delle vicende riportate in appendice (Le circostanze mitiganti) rivela le frizioni che potevano crearsi tra la
prima istanza e la corte d’appello in simili casi. Un grave episodio
d’incendio di cui era stato accusato un giovane contadino abitante a
Monticello di Lonigo era stato abilmente derubricato dallo stesso Marchesini che svolgeva ancora una volta la funzione di relatore, nel meno
grave titolo di pubblica violenza. Applicando una serie di circostanze mitiganti era infine stata inflitta una pena assai mite, che, poco dopo, la
corte d’appello aveva approvato.
I genitori del giovane avevano pensato di presentare ugualmente ricorso, per ottenere un’ulteriore riduzione di pena. Nonostante il parere
di Marchesini d’inoltrare la richiesta alla corte d’appello, pur in assenza
di motivi legittimi che la giustificassero, il consesso respinse la richiesta,
in quanto il ricorso era stato «prodotto contro due conformi sentenze»208.
Il Superior giudizio criminale, cui i genitori si erano evidentemente rivolti con un secondo ricorso, respinse ovviamente la richiesta, ma rimproverò pure il tribunale di prima istanza di aver deciso ex se sul primo
In realtà l’eventuale (ed impossibile in questo caso, viste le due sentenze
conformi) ricorso dei genitori avrebbe semmai dovuto essere direttamente inoltrato alla corte d’appello
209
Per tutta la vicenda cfr. pp. 355-361.
208
Nella selva incantata degli indizi
107
ricorso, anziché inoltrarlo al tribunale d’appello209.
Il giudice Bonaventura Fanzago, la Sovrana patente del 1833
e un atto di donazione
Il processo intentato a Giuseppe Contin si svolse nel 1832: prima dunque dell’introduzione della Sovrana patente del 1833 che, come già si è visto, mirava a rendere più efficaci e realizzabili le disposizioni già previste con il paragrafo 412 del Codice penale in tema di prove indiziarie.
In realtà la Sovrana patente del 1833 riprendeva nella loro sostanza i
principi già esposti nel contestato paragrafo 412 del codice, diversificando però notevolmente la varietà di indizi precostituiti che si potevano individuare sia sul piano più generale, che nei confronti di alcuni
specifici delitti.
A partire dal 1833 il consesso vicentino ricorse con sempre maggiore frequenza ai dispositivi predisposti dalla Sovrana patente del 1833.
Le discussioni riportate nelle sessioni criminali registrano però una sostanziale difficoltà, da parte di molti giudici, nell’applicazione di una
legge che se, da un lato, si era posta l’obiettivo di rendere meno difficoltoso l’utilizzo del libero convincimento del giudice rispetto a casi
complessi, non sorretti dalla prova testimoniale, dall’altro non aveva
di certo abbandonato il principio di fondo che animava il codice, volto a decretare la colpevolezza dell’imputato solo nell’ipotesi accertata e provata indubbiamente «che altri fuorché l’incolpato lo abbia
commesso»210.
Il 20 gennaio 1846 il consesso affrontò un complesso caso di truffa
commesso da Giuseppe Scaramuzza di Montecchio Maggiore ai danni
dello zio don Michele Scaramuzza. Un caso complicato, sia per le modalità tramite cui si era svolto, che per le possibili complicità di cui si
era avvalso l’imputato211.
Lo Scaramuzza aveva redatto un finto atto di donazione a suo favore, che poi aveva fatto sottoscrivere allo zio, facendogli credere si trattasse di una semplice quietanza. Di seguito alla denunzia dello zio aveva
Codice penale 1849, p. 249. Il paragrafo 8 della Sovrana patente (cfr. supra pp. 49)
corrispondeva nel tenore al paragrafo 414 del codice, cfr. Codice penale 1997, p. 146.
211
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1846, sessione del
20 gennaio 1846, cc. 1-6. Le successive citazioni rinviano a questa sessione.
212
Sottolineato nel documento.
210
108
La selva incantata
prontamente alterato il documento, depositandolo presso un notaio.
Un episodio umanamente increscioso che, a detta del relatore Gaetano Fostini, assumeva inoltre, per più di un motivo, i tratti di un delitto ripugnante:
Infatti, tutte le risultanze processuali concorrono a rendere credibile la incolpazione datagli dal danneggiato don Michele. Le parole con cui fu concepita quella sottoscrizione: Don Michele Scaramuzza ho ricevuto quanto sopra212, che tuttora si possono rilevare ad onta degli sforzi adoperati per alterare la parola sospetta ricevuto; la cura di aver deposto in atti notarili questa carta in tal modo alterata per sottrarla agli occhi altrui; la nessuna verosimiglianza che lo zio povero, sprovvisto perfino dei proventi che gli potevano offerire il sacerdozio, si avesse determinato a cedere gratuitamente
quel poco patrimonio che gli rimaneva per vivere e cederlo ad un nipote
verso il quale non aveva motivi di obbligazione; la sua inscienza sulla esistenza di quella carta e la sua sorpresa al primo conoscere che il nipote vantavasi destinatario della sua sostanza; la forma stessa dell’atto di donazione, atto così solenne, rivestito di forma privata, in cui appariscono per testimoni i noti faccendieri Testolin e Bolcati, sono tutti argomenti che rendono tanto più credibile la deposizione del sacerdote Scaramuzza, il quale,
all’appoggio del suo carattere sacerdotale e ad onta delle più serie escussioni, persistè nell’accusare il nipote di tal frode.
La cattiva fama di Giuseppe Scaramuzza, continuava ancora Fostini, era avvalorata sia dalle informazioni delle autorità politiche che da
«Intendeva egli provare colle deposizioni di Adriano Lorenzoni e del notaio
Sartorio, che la carta 10 agosto 1843 trovavasi presentemente nello stesso stato in
cui gli fu rilasciata da suo zio, deducendo da ciò che nessuna alterazione vi aveva
fatto e che la firma di don Michele era intatta. Pretendeva inoltre che il Sartorio e
Marco Antonio Milan avessero trovato regolare quell’atto di donazione. In tali introduzioni egli viene smentito dal Lorenzoni e dal Sartorio, che dichiarano di non
aver mai fatto alcun esame a quella carta...»
214
Cfr. supra p. 49.
215
L’indizio era previsto all’articolo 2 del paragrafo 4 della Sovrana patente, cfr.
Codice penale 1849, p. 253.
216
Sostituendo la frase «Don Michele Scaramuzza ho ricevuto quanto sopra»
con l’altra «accetto quanto sopra». Gaetano Fostini non sembra rilevare che il secondo indizio da lui individuato corrisponda in realtà alla stessa premessa prevista
dal paragrafo sette, che permetteva il ricorso a due soli indizi per decretare la colpevolezza dell’imputato.
213
Nella selva incantata degli indizi
109
più testimoni. Cosicché
se da un lato ciò ne risulta la convinzione morale nell’animo del giudice,
crede il relatore di poterne dedurre eziamdio la prova legale di colpa; e ciò
in base alla Sovrana Risoluzione 6 luglio 1833.
Gaetano Fostini esplicitava dunque liberamente il proprio libero
convincimento e la possibilità di dimostrare sul piano indiziario la colpevolezza dell’imputato.
Lo Scaramuzza aveva tentato, abilmente anche se inutilmente, di
sviare le indagini del giudice213. In base a quanto stabilito dal paragrafo
sette della Sovrana patente del 1833214 erano dunque sufficienti anche soli due indizi per decretare la colpevolezza dell’imputato.
Gaetano Fostini individuava il primo indizio nell’accusa formulata
dal danneggiato nei confronti del nipote e convalidata pure in processo dal diretto confronto cui i due erano stati sottoposti215. Il secondo indizio, secondo Fostini, previsto dal paragrafo 2, articolo 10 della stessa
patente consisteva invece nei tentativi condotti dall’imputato per eliminare ogni prova del delitto216.
In base ai paragrafi 176 e seguenti del Codice penale217 Gaetano Fostini proponeva al consesso che il fatto di cui era imputato Giuseppe Scaramuzza ricadesse sotto il titolo di truffa e che in base a quanto previsto
Il paragrafo 176 recitava: Chi con artificiose insinuazioni od ingannevoli raggiri induce un altro in errore, per cui abbia qualcuno a soffrir danno nella sua proprietà od in altri diritti; ovvero chi con quest’intenzione trae profitto dall’errore o
dall’ignoranza altrui, commette una truffa». La pena prevista era da sei mesi ad un
anno di carcere, ma poteva essere ampliata sino a cinque anni «secondo il maggior
pericolo, la maggior difficoltà d’evitarlo, la più frequente reiterazione e la maggior
somma» (par. 181). Se la somma truffata superava i 300 fiorini, la pena andava dai
cinque ai dieci anni, cfr. Codice penale 1997, pp. 57-59. Nei confronti dei complici (i
due faccendieri Testolin e Bolcati) il Fostini propose la sospensione del processo.
Conviene riportare il passo relativo al Testolin, perché poi la posizione di questo
presunto correo sarebbe stata ripresa nel corso della discussione: «Quanto al Testolin, che riconobbe scritta di suo pugno la carta di donazione e che risulta essersi trovato presente alla sottoscrizione, vi è qualche motivo per dubitare che fosse
d’accordo collo Scaramuzza per trarre in inganno lo zio, ma dacché questi dispone
di aver letto da sé a bassa voce la quietanza e di averla approvata colle sole parole
va bene, senz’altro soggiungere, ne viene che il Testolin può essere rimasto straniero alla frode di Giuseppe Scaramuzza e che esso Testolin ritenesse che la carta già
approvata fosse effettivamente la carta di donazione».
217
110
La selva incantata
dalla Sovrana patente del 1833 ne fosse decretata la colpevolezza:
essendosi raggiunto il numero degli indizi richiesti ed essendovi una tale
connessione tra lui e il delitto che non si può ritenere che altri fuorché lui lo
abbia commesso. Connessione che tanto più evidente si rende per la di lui
mala fama in fatto di raggiri e pel suo particolare interesse, oltrecché di appropriarsi la sostanza dello zio, di sottrarsi a qualunque resa di conto per
l’amministrazione precedentemente sostenuta.
Poiché non aveva individuato alcuna circostanza aggravante, Fostini proponeva la pena minima di cinque anni di carcere duro nella casa
di forza di Padova.
Il presidente aprì la discussione. Bernardo Marchesini espresse il suo
accordo con il relatore, ma la pena proposta gli parve «troppo mite», a
causa del rapporto di parentela che univa la vittima all’imputato. Proposizione cui aderì pienamente anche il consigliere Stefano Galanti.
Intervenne quindi il consigliere Pietro Cassetti, che si riteneva pure
convinto, in accordo con il relatore, della colpevolezza dell’imputato.
Una colpevolezza però che egli riteneva raggiunta ricorrendo al paragrafo 413 del Codice penale.
Il paragrafo 413 del codice, concernente l’eventualità dell’imputato
che, pur avendo confessato, negava però la sua prava intenzione era stato oggetto, come già si è visto, della tormentata sessione del 5 maggio
1838218. In questo caso Cassetti lo riprendeva però, come aveva già fatto in occasioni simili, per dimostrare, in definitiva, come i dispositivi
del codice, potessero essere di per sé sufficienti per decretare la colpevolezza dell’imputato219.
Conviene seguire l’esposizione di Cassetti, che mirava a definire il
fatto di cui era imputato lo Scaramuzza secondo una verità fattuale220 diversa da quella proposta da Gaetano Fostini:
L’inquisito, soggiungeva il votante, sarebbe confesso di esser egli l’autore
della carta di donazione 10 agosto 1843, avendola fatta estendere dal Testolin. Sarebbe confesso di averla esibita a firmare al di lui zio don Michele e
di averne effettivamente conseguita la contemplata sottoscrizione. Ma esso
Cfr. supra pp. 81-85.
Cfr. supra pp. 70-71, la sessione concernente il rapimento di Teresa Mastelli.
220
Secondo l’espressione utilizzata da Ferrajoli e di cui cfr. supra p. 23.
218
219
Nella selva incantata degli indizi
111
vorrebbe a un tempo rimuovere da sè ogni idea di prava intenzione, pretendendo che la carta di donazione fatta da lui estendere fosse stata già precedentemente convenuta col detto di lui zio e che questi conoscesse di firmare realmente questa carta medesima, negativo perciò del dolo.
Che di vera fraudolenza apertamente appalesasi pelle dirette accuse del sacerdote Scaramuzza, di avergli cioè cogli esposti artifizi del tutto ingannevolmente carpita sulla ridetta carta la sottoscrizione, mentre avrebbesegli
all’invece fatto credere da esso di lui nipote di segnare quella quietanza di
cui prima erano stati intesi e questi aveagli dato a preleggere.
Dolo di cui, per queste accuse medesime, sulla qualità della stessa dichiarazione sottosegnata dallo zio, e per tutte le altre già esposte risultanze processuali, sarebbe stato pienamente l’inquisito convinto. Le alterazioni e le
aggiunte in calce alla carta stessa non sarebbero che atti tendenti a rendere
possibilmente vieppiù sicuro l’effetto della già verificata fraudolenza, nel
conseguire sì ingannevolmente in una carta di donazione non mai pattuita
e nemmeno sospettata dallo zio, quella firma che sulle preventive intelligenze, come diceasi, doveva venire segnata, ed intendenvasi da esso di segnare, in una di semplice quietanza.
In base alle numerose circostanze aggravanti che egli individuava
nel delitto commesso, Pietro Cassetti proponeva la severa pena di sette
anni di carcere duro.
La parola passò infine a Bonaventura Fanzago, un uomo, come abbiamo potuto constatare, estremamente ligio al dettato del codice, ma
anche gran conoscitore dello spirito che lo animava nel più profondo.
A suo giudizio era opportuno che si aprisse pure l’inquisizione contro Valentino Testolin, uno dei due complici e, di conseguenza, si sospendesse per il momento il giudizio nei confronti dello Scaramuzza221.
Il ragionamento giuridico di Fanzago, per quanto sembrasse aggirare il nodo centrale dell’imputazione rivolta contro lo Scaramuzza, in
realtà scendeva ad esaminare accuratamente lo svolgimento del fatto
nelle sue possibili implicazioni giuridiche e, di conseguenza, il valore
stesso degli enunciati probatori:
Per le risultanze tutte degli atti riconosceva egli stesso il votante emergere
la piena prova della truffa praticata in danno del sacerdote Scaramuzza.
Questo fatto consisteva appunto nell’avere carpito quella di lui sottoscri-
221
Criticando, implicitamente, l’operato del giudice relatore.
112
La selva incantata
zione nella carta di cessione 10 agosto 1843, nel mentre dovevasi, dietro le
previe intelligenze, essere sottoscritta da lui una ricevuta pei ducati dieci
che aveagli il nipote pria procurati.
Ora, il Valentin Testolin, siccome emerge dalla precedente relazione, avea,
a sua dichiarazione, scritta egli stesso, per commissione dell’imputato, la
carta di cessione; ed egli stesso, il Testolin, dichiara di aver veduto
l’imputato a consegnare allo zio quella carta medesima che prima lesse e
poi firmò e che fu da lui, qual testimonio, poi sottoscritta.
Questa dichiarazione è precisa e con essa egli vorrebbe dar legale sussistenza a quella carta che si ritiene il documento costituente il fatto delittuoso di truffa.
Se vera fosse la deposizione del testimonio, non più sussisterebbe il delitto,
perché il nipote avrebbe consegnato, alla sua vista, la carta di cessione allo
zio, che avendola letta e poi tosto firmata avrebbe mostrato di approvarla.
Ma così è che quella non era la carta che fu data a leggere, perché non
l’avrebbe egli, a seconda delle risultanze, firmata, così ne deriva che il Testolin, facendosi a sostenere il fatto del nipote, si fece compartecipe della di
esso colpa, mostrando il fatto stesso il di lui mal proposito di convenire
coll’imputato, cui cercò di favorire.
Se non sono noti i concerti e se e per qual correspettivo, o per quale intelligenza, egli operasse, basta che il fatto stesso manifesti la di lui colpevole interessenza per chiamarlo a discolpa.
Siccome, poi, la di lui sorte è allegata necessariamente con quella dello Scaramuzza, così dovrebbesi per ora sospendere di giudicare sul di lui conto
per la regolare combinazione di procedura.
Un ragionamento serrato, che entrava nelle dinamiche stesse del
fatto per poter cogliere non tanto la responsabilità dello Scaramuzza,
che gli atti processuali indicavano più che plausibile, quanto piuttosto
un risultato probatorio privo di smagliature.
Tutti i votanti rimasero però sulle loro posizioni. Ed allora Bonaventura Fanzago, considerando che la sua proposta non era stata accolta,
aderì alla formulazione di colpevolezza avanzata nei confronti dello
Scaramuzza.
E, ricorrendo ad un ragionamento giuridico, svolto con grande abilità, illustrò ai colleghi il paradigma indiziario da lui utilizzato per di-
Evidentemente un errore del cancelliere, che intendeva riferirsi alla patente
del 1833.
222
Nella selva incantata degli indizi
113
mostrare quella che ormai appariva come l’ovvia colpevolezza dello
Scaramuzza.
Un ragionamento giuridico che conviene, ancora una volta, seguire
poiché la discussione ci riporta al vero e proprio cuore del problema:
Non appoggierebbe egli, per altro, la prova di sua delinquenza ai principi
spiegati dagli altri votanti e diversamente calcolerebbe la prova.
Non potrebbe, a suo avviso, desumersi dalle riprovate sue introduzioni il
principio del relatore stabilito per rendere, a tenore della Sovrana Patente
1835222 necessari soltanto due indizi a pronunciare la colpabilità.
Queste introduzioni riconosciute, o si rivolgono sopra accidentali circostanze e sono innocue, o mirano all’essenza della carta, ed allora si confondono colla prova generica del fatto da lui praticato.
A giudizio di Fanzago, dunque, gli indizi proposti dai colleghi per
dimostrare la colpevolezza dello Scaramuzza, in realtà o erano innocui
oppure si rifacevano piuttosto alla natura del fatto stesso ed in quanto
tali non costituivano che una prova generica. Infatti, egli proseguiva:
Del genere delle prime sarebbero le introduzioni che li testimoni Sartorio e Milan, ed altri, avessero dichiarato di riconoscere o meno regolare la carta, giacché
nessuna consistenza legale essa assumeva dalle dichiarazioni di un terzo, ove
tale legalmente non fosse. Così se è riconosciuto dall’essere stata veduta la carta nel modo in cui la si trova al presente, questa riconvinzione opera sul fatto
stesso della truffa e da questo fatto può desumersi invece un indizio diverso.
Non sarebbe neanco d’avviso di riconoscervi l’indizio previsto dal paragrafo 2 numero 10, dell’avere cioè cercato di distruggere i vestigi del delitto.
Colla sostituzione della voce accolto all’altra ricevuto223 non sopresse i vestigi del commesso delitto, ma invece adoperò nel volervi dar sussistenza,
perché con quella alterazione cercava di dar vita alla carta di cessione che
forma la truffa.
Se poi la riponeva in atti notarili, tanto meno mostrò di volere distruggere
Sottolineato nel testo.
Cfr. supra pp. 48-49. Il paragrafo sei si basava sull’indole dell’imputato a commettere il delitto di cui era accusato.
225
«Se nella persona o nei vestimenti dell’incolpato o in altre cose a lui spettanti o presso di lui rinvenute si scoprano vestigi del delitto o della sua esecuzione o
dell’usata violenza o incontrata resistenza», cfr. Codice penale 1849, p. 251.
226
In corsivo nel testo.
223
224
114
La selva incantata
il documento costitutivo il delitto e sopprimerne le vestigia, perché anzi
rendevalo più conservato, più facile a conoscersi da chi, avendone diritto,
ne potea ricercare la copia e domandarne, al caso di oppugnazione, anche
la giudiziale ispezione. Si conservava quindi più che si distruggeva il documento del processato delitto.
Dimostrata la fragilità del paradigma indiziario costruito dai colleghi, Bonaventura Fanzago passava quindi ad illustrare il proprio. Diversamente da quanto proposto da Fostini, Fanzago assumeva come
punto di riferimento il paragrafo sei della Sovrana patente224, che pure richiedeva soli due indizi per dimostrare la colpevolezza dell’imputato:
Il primo indizio le riterrebbe col relatore nella diretta accusa del sacerdote
danneggiato, al paragrafo 4 numero 2; il secondo nel possesso in esso inquisito di quella carta in cui riscontravansi le alterazioni surrimarcate, le
quali non potevano essere state che da lui e non altri formate, perché di
esclusivo suo interesse nel voler approfittare di quella carta di carpita cessione. Indizio, questo, contemplato nel paragrafo 2, numero 8225.
Difatti, l’alterazione della voce accetto dall’altra ricevuto226 è intuitiva. Quella voce la si mira conformata a bello studio per togliere la idea della ricevuta già intesa farsi dal sacerdote; onde l’alterazione medesima presenta
per sé un vestigio della colpevole sua azione nel carpire la firma del prete.
Egli solo avea interesse di praticarla, egli la dové praticare, mostrandolo
anche il fatto dell’essere egli riconvinto dalle deposizioni del Lorenzoni e
Sartorio, che introduceva onde provare che nessuna alterazione vi avesse
osservato, nel che dai medesimi non venia corrisposto.
E, a conclusione, in accordo con i preopinanti, Fanzago proponeva sei
anni di carcere duro nei confronti dello Scaramuzza.
Il consesso deliberò, infine, ad unanimia col relatore sulla colpevolezza dello Scaramuzza per il delitto di truffa; ad maiora contra votum per la
pena di sei anni di carcere e ad majora col relatore per la desistenza nei
confronti di Valentino Testolin.
Era stata, dunque, accolta la proposta di Fostini sulla colpevolezza
Ricordo, ancora, che la discussione tra i giudici non veniva inviata alla corte
d’appello.
228
Sia, ad esempio, la vicenda concernente Girolamo Chinotto, che quelle riportate in appendice: Ritorno a casa e Onora il padre e la madre, cfr. pp. 373-397.
227
Nella selva incantata degli indizi
115
dell’imputato, anche se nella deliberazione non si faceva cenno al paradigma indiziario utilizzato per dimostrarla.
La discussione dimostrò comunque, ancora una volta, come il libero convincimento del giudice, sciolto dai lacci troppo stretti della prova testimoniale, si rivelasse uno strumento assai complesso nel rapportare la verità effettuale alla verità processuale e richiedesse da parte dei
giudici un’attenta valutazione dei fatti probatori.
La sentenza ovviamente, in base al paragrafo 434 del codice, venne
trasmessa, insieme al fascicolo inquisitorio, alla corte d’appello. Ma
non sappiamo se quell’obiezione iniziale di Fanzago, venisse colta, decretando la sospensione del processo nei confronti dello Scaramuzza227.
Il ragionamento giuridico di Fanzago, soffermandosi, nel valutare
le enunciazioni probatorie emerse nel processo, sul valore e il peso
della complicità nell’attuazione del reato di truffa, sottolinea indirettamente un dato etnografico di un certo rilievo, che abbiamo potuto accertare in alcune altre vicende, anche se provviste di variabili significativamente diverse228. I contrasti generazionali e familiari erano tali
da richiedere molto spesso l’intervento delle autorità politiche e giudiziarie e si svolgevano non solo sul piano della pura violenza e delle
reazioni inconsulte, ma anche in quello più sofisticato del raggiro e
dell’inganno, contando, in quest’ultimo caso, su una rete di complicità
non irrilevante, quantomeno nell’ideazione e nell’attuazione del reato.
Ma il caso che ebbe come protagonista Giuseppe Scaramuzza dimostra, ancora una volta, come l’individuazione e l’utilizzo dei dati probatori da parte del consesso giudiziario, al di là della loro effettiva valenza
giuridica (e giudiziaria), potesse ricostruire, in un certo senso, una dimensione retorica più o meno convincente, della realtà effettuale.
Tutti i giudici che presenziarono alla sessione del 20 gennaio 1846
Si veda, ad esempio, la vicenda Prove legali e gruppi giovanili. Bonaventura Fanzago fu relatore in un caso analogo trattato nella sessione del 5 gennaio 1847. Da uno
scontro violento che aveva opposto le due parrocchie di San Vitale e di Costo (Montecchio Maggiore) era seguito il ferimento di alcune persone. Le responsabilità di alcuni degli imputati erano state prudentemente valutate da Fanzago in base alla difficoltà di dimostrare il precedente concerto degli imputati che, evidentemente, avrebbe trasformato una semplice rissa in una vera e propria aggressione premeditata. Cfr.
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1847, carte non segnate.
230
Non si deve dimenticare che la Sovrana patente del 1833 predefiniva gli indizi
di cui il giudice avrebbe potuto avvalersi, lasciandogli teoricamente ridotti margini di discrezionalità.
229
116
La selva incantata
erano consapevoli della colpevolezza dello Scaramuzza. Tutti, in base al
loro libero convincimento lo ritenevano responsabile del reato di truffa
previsto dal paragrafo 176 del Codice penale. Si trattava di dimostrare, in
base a quanto previsto dallo stesso codice o dalla Sovrana patente del
1833 che gli enunciati probatori inseriti nel fascicolo inquisitorio fossero tali da poter costituirsi come vera e propria prova e sorreggere il libero convincimento raggiunto da ciascuno di loro.
Solo uno dei giudici, Bonaventura Fanzago, colse però una contraddizione nel valore propositivo degli enunciati emersi nel corso delle indagini. La responsabilità di uno dei complici dell’autore del fatto non era
così marginale come era stato ritenuto dal giudice relatore e dai suoi colleghi, protesi ad inchiodare lo Scaramuzza alle proprie responsabilità. Il
tema del cosiddetto concerto, cioè di una sorta di complicità
nell’esecuzione del delitto era evidentemente essenziale per definire il
fatto stesso229. Ma il consesso preferì condannarlo in base alla prova indiziaria.
In realtà, i dispositivi previsti dalla Sovrana patente del 1833 si prestavano spesso, come abbiamo potuto constatare, ad essere utilizzati
alquanto meccanicamente, sommando quantitativamente i presunti indizi, che non piuttosto per costruire un vero e proprio paradigma indiziario in grado di dimostrare la veridicità del fatto e la plausibilità del
libero convincimento del giudice230.
Le difficoltà nel ricorrere al paradigma indiziario, sulla scorta della
patente del 1833, si individuano soprattutto nei delitti che possiamo definire seriali, commessi cioè ripetutamente da una persona, spesso per un
lungo periodo di tempo. La discussione, incentrandosi sui singoli episodi, per soppesarne gli indizi, sembra esitante a ricostruire il quadro complessivo da cui sono scaturiti. Ciò che importa al relatore e ai suoi colleghi è soprattutto dimostrare la colpevolezza dell’imputato rispetto al fatto che più si presta ad essere valutato in base ai dispositivi della patente.
Questo avvenne, ad esempio, nel processo inerente alla serie innumerevole di furti alle chiese parrocchiali del Vicentino, commessi da
Antonio Caldana di Conco nel 1835. La condanna proposta dal relatore Marchesini ed approvata dal consesso di dieci anni di carcere (poi ri-
Asvi, Tribunale austriaco, Penale, buste 303 bis-306. Il Caldana venne condannato in base alla Sovrana patente del 1833, cfr. infra pp. 142-143.
232
Non dimentichiamo che la testimonianza della vittima impubere non aveva
valore legale, cfr. supra pp. 87-88.
231
Nella selva incantata degli indizi
117
dotti a quattro dalla corte d’appello) s’incentrò sul singolo furto della
chiesa parrocchiale di Quargnenta, più facilmente ricostruibile sul piano processuale, mentre nei confronti degli altri furti si decretò la sospensione per difetto di prove legali 231.
Il giudice Bernardo Marchesini, il predatore sessuale e le tracce del delitto
Un altro caso assai interessante è quello affrontato nella sessione del
3 maggio 1846. L’imputato, Antonio De Angeli, era stato sospettato e
subito arrestato, quale possibile autore di una serie nutrita di stupri
commessi nelle campagne poste ad est della città di Vicenza ai danni di
giovani minorenni. Un vero e proprio predatore sessuale che, con astuzia ed abilità, scegliendo accuratamente le proprie vittime232, era riuscito a depistare le indagini della polizia per lungo tempo. Un uomo, il De
Angeli, ripetutamente condannato al carcere per simili reati e quindi
buon conoscitore dei dispositivi legali utilizzati dal tribunale.
Il consesso affrontò tutti gli episodi di violenza, ma anche in questa sessione la colpevolezza venne raggiunta e plausibilmente dimostrata per
un singolo delitto. Il relatore Marchesini, avvalendosi della Sovrana patente, aveva indicato ai colleghi gli indizi da lui rilevati nello stupro commesso nei confronti di Rosa Dario di nove anni di Torri di Quartesolo.
Per giungere a decretare la colpevolezza dell’imputato erano sufficienti due soli indizi, sia in quanto la sua capacità a delinquere in questo
tipo di delitti era nota, sia perché, sin dal suo primo interrogatorio, aveva chiaramente dimostrato di indebolire gli indizi a disposizione del
magistrato233.
Bernardo Marchesini illustrò innanzitutto al consesso come
l’imputato fosse stato visto sul luogo del delitto il 24 marzo 1844, il
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1846, sessione del 3
maggio 1846, carte non numerate. A questa sessione si rinvia per tutte le citazioni
seguenti.
234
Indizi, come già si è visto, individuabili nella Sovrana patente del 1833.
235
Articolo 8 del paragrafo 2 della Sovrana patente: «Se nella persona o nei vestimenti dell’incolpato o in altre cose a lui spettanti o presso di lui rinvenute si scoprano vestigi del delitto o della sua esecuzione o dell’usata violenza o incontrata
resistenza», cfr. Codice penale 1849, p.251. Questo indizio non poteva comunque essere sommato con il precedente relativo alla fuga dell’imputato, perché entrambi
compresi nello stesso paragrafo.
233
118
La selva incantata
giorno in cui Rosa Dario era stata violentemente stuprata e nel quale,
sotto falso nome, aveva fatto credere ad alcuni testimoni di essere un
negoziante di vino. Inoltre, subito dopo il delitto, temendo di essere stato riconosciuto, era fuggito dalla propria abitazione234.
Erano i due indizi, apparentemente sufficienti per dichiarare la colpevolezza dell’imputato, ma Bernardo Marchesini, sfoggiando la sua
oratoria, ne individuò un terzo nell’infezione venerea di cui era affetto
l’imputato e che, di seguito alla violenza, aveva trasmesso alla giovane vittima235:
Ne accrebbe di certezza che l’autore dello stupro sulla giovinetta Dario dovesse essere infetto da quel morbo stesso di cui pur troppo ne rimaneva infetta nel delittuoso contatto quella infelice.
Ora, se il nostro inquisito è pur afflitto da questo identico male, e lo era anche prima e dopo il delitto, ecco dunque che per ciò solo si è verificherebbe, a suo avviso, l’estremo di legge, quello cioè delle vestiggia in lui di quel
delitto, di cui in oggi, per tanti altri validi argomenti, lo si accusa.
E questo indizio di colpa sarebbe in assai poi tanto più dimostrato, se nel
mentre gli esperti da antica epoca lo dico[no] affetto da quel male, le precedenti inquisizioni addimostrano come anche allora le fanciulle sulle quali
era accusato di avere intraprese consumate simili colpe, anche allora quelle misere ne rimanevano infette, così come ora vediamo infette anche le altre molte di cui con valenti argomenti in oggi avere egli sulle stesse consumato lo stupro.
E come la semplice goccia di sangue sui vestiti o sulla persona
dell’accusato è un indizio di recata ferita, così, del pari, e forse a maggior
ragione ancora (perché più raro il caso dell’eccezione), la infezione venerea di lui starebbe ad indizio legale di una colpa, ogniqualvolta la stessa
infezione la si discopra, come nel caso concreto, nella persona che servì
ad oggetto del delitto.
Il presidente aprì la discussione e i giudici presenti furono sostanzialmente d’accordo sui risultati probatori addotti da Marchesini. Pietro Cassetti obbiettò solo sull’indizio che il relatore aveva ritenuto esistesse pure nell’infezione trasmessa dallo stupratore alla vittima.
È opportuno seguire le argomentazioni di Cassetti perché, al di là
Cassetti si riferisce al nesso stabilito tra il delitto e l’inquisito: procedimento
essenziale nella ricostruzione del paradigma indiziario.
236
Nella selva incantata degli indizi
119
dello specifico caso affrontato nella sessione, sono indicative
dell’atteggiamento dei giudici del tribunale vicentino nei confronti del
paradigma indiziario:
Il consiglier Cassetti conveniva pure rispetto al titolo ed anche sulla colpabilità dell’inquisito, concorrendovi in modo speciale la capacità a delinquere, le smentite, il nesso236 ed i due indizi tassativi della presenza in luogo e
della latitanza, indubbiamente provati.
Inclinava però a collocare fra le circostanze del nesso la traccia del morbo
venereo, dacché desse non potrebbonsi, a suo giudizio, propriamente riguardare come vestigia del delitto, sussistendo indipendentemente da esso
e non constituendo più tosto che traccie dei libidinosi disordini
dell’inquisito; nè potrebbonsi parificare a quelle che sorgono dal delitto
stesso e che valgono perciò ad indizio della sua esecuzione, come per esempio sarebbero in un grave ferimento le traccie di sangue rimaste
nell’imputato se non varrà a giustificarne la provenienza.
A suo avviso le traccie della sifilide dovranno invece calcolarsi quale circostanza aggravante.
Tra i due giudici, Bernardo Marchesini e Pietro Cassetti, c’era ben
più che una divergenza interpretativa in merito all’applicazione di alcuni paragrafi del codice. La discussione polemica tra i due, che si ravvisa anche in altri processi237, lascia intravedere una contrapposizione
di fondo, direi personale se non culturale.
Marchesini non lasciò infatti cadere l’obiezione di Cassetti e replicò
con toni decisi e quasi aggressivi, ricorrendo ad argomentazioni che resero vivace la discussione:
Il signor relatore, replicando alle osservazioni del preopinante consigliere
Cassetti, che inclinava a collocare per le circostanze del nesso e non fra li
tassativi indizi di colpa238 la traccia del morbo venereo, perché sussistenti
indipendentemente dal delitto, faceva primieramente riflettere come queste traccie non si dovessero considerare nella persona dell’incolpato, siccome il preopinante considerava di considerarle, ma nella persona invece
Si veda, ad esempio, Duello rusticano, in cui Marchesini attacca duramente
Cassetti, il quale, in qualità di relatore, avrebbe a suo giudizio fatto prestare il giuramento ad un possibile imputato.
238
Si veda l’osservazione in merito di Cassetti, riportata poco sopra.
237
120
La selva incantata
della giovinetta oltraggiata; donde spontaneo e conseguente sorgeva il ragionamento attestato nel preletto suo voto, quello cioè che siccome era delitto ogni violazione intrapresa, così doveva ravvisarsi come traccia del delitto ogni vestigio che alla violazione si riferiva. Siccome poi lo special morbo sifillitico nella giovinetta rilevato accusava l’indole stessa ed identica
del morbo, del quale infetto si riscontrò l’imputato, così in vista di questa
perfetta corrispondenza, partendo dal vestigio rilevato sulla danneggiata
alla causa rilevata sull’incolpato scaturiva l’indizio di colpa contemplato
dalla Patente. Né a questa dimostrazione punto si oppone il disposto del
paragrafo 2, art. 8 della Patente, in cui si contempla semplicemente il caso
in cui simili traccie si ravvisano sulla persona dell’incolpato.
Marchesini, dunque, forzava il dispositivo (par. due, art. 8), il quale,
in realtà si riferiva alla tracce del delitto rimaste sui vestiti o sulla persona dell’imputato, come avvedutamente aveva osservato Cassetti.
Se infatti si crede contrapporre altro più appropriato esempio all’esempio
proposto dal preopinante, se quale indizio dovrebbesi senza dubbio valutare le traccie del morbo venereo appartenenti allo stupratore, che riportò
questo morbo abbracciando una donna precedentemente infetta, a pari e
forse anco a maggiore ragione dovrannosi quali indizi valutare le traccie
del morbo dallo stupratore infetto lasciate nella persona stuprata.
Osservazione pertinente che, oggi in particolare, difficilmente si potrebbe respingere, ma che comunque non era proprio in accordo con il
dispositivo previsto dalla Patente. Ma, a questa obiezione, Marchesini
non mancava di replicare nel prosieguo del suo ragionamento:
Tanto più in quanto che la disposizione di legge in questo rapporto ella è generica, il che indica come il giudice egualmente dai contrari ne possa raggiungere lo scopo; ed in ogni modo le osservazioni del preopinante sarebbe-
Mio il corsivo.
Paragrafo concernente lo stupro: «La pena di questo delitto è il carcere duro
tra cinque e dieci anni. Se dalla violenza è derivato un grave pregiudizio nella salute od anche nella vita della persona offesa, la pena dee protrarsi ad una durata tra
i dieci ed i vent’anni», cfr. Codice penale 1997, p. 40.
241
E, si aggiungeva significativamente, nel dispositivo finale della sentenza: «e
d’altronde per le replicate sofferte detenzioni in carcere, divenuto ben esperto nella maliziosa difesa contro la punitiva giustizia».
239
240
Nella selva incantata degli indizi
121
ro in via di eccezione, o per meglio dire in via di distinzione, nel mentre per
la massima legale ove la legge non distingue non può il giudice neppure distinguere, perciò che distinguendo anderebbe ad offendere una disposizione che è generale239
Resta nel caso nostro provare che sull’accusato vi sieno traccie del delitto
commesso, nè la legge impone l’obbligo di desumerle direttamente, perché
basta desumerle da ciò che sente affinità e nesso col delitto medesimo.
Questa logica, la quale nel valutare tale speciale indizio di colpa ha luogo
di partire dalla causa all’effetto, come accennerebbe il succitato rimando invece dall’effetto alla causa, è conforme non solo alla filosofia del diritto, ma
eziamdio è sanzionata dalla constante pratica legale, come per tacere d’altri
ne abbiamo un esempio recente sullo stupro in persona di Antonia Tomba
a incolpazione di Marco Cogo, il quale fu in simili circostanze condannato
da questo tribunale per consultiva sentenza 27 dicembre numero 3178, sentenza che fu confermata dal decreto dell’eccelso appello 8 gennaio prossimo passato, numero 153.
Puntando sullo stupro commesso nei confronti di Rosa Dario e decretando la sospensione del processo nei confronti degli altri numerosi
casi di cui pure Antonio De Angeli era ritenuto il presunto autore, Bernardo Marchesini e il consesso giudiziario decretarono una pena severissima, applicando il paragrafo 111 del Codice penale240.
Antonio De Angeli, ritenuto «un uomo incorreggibile, pericolosissimo alla società»241 venne condannato a 15 anni di carcere duro. Proponendo inoltre l’aggravante della berlina, Marchesini non rinunciò, a
conclusione del suo voto, a commentare una sentenza che, evidentemente, tendeva a colpire un uomo che si riteneva comunque responsabile di una serie imponente di stupri.
Il De Angeli avrebbe dovuto essere esposto alla berlina per un’ora al
giorno e per sette giorni consecutivi:
all’appoggio dei riflessi che publicamente difusa in tutta la provincia ed anche nelle conterminanti la diffamazione del condannato, pubblica la ingiuria e lo scandalo pubblico pure, a salvezza della moralità, ad esempio degli
Il brano finale sopra riportato sostituì un passo significativo, che venne depennato, molto probabilmente, dallo stesso Marchesini alla lettura del verbale:
«Che tante volte sfugge il reo di simili colpe alla meritata pena per la difficoltà a
raggiungere la prova di colpabilità; e che pure molto frequenti succedono simili delitti nel nostro secolo demoralizzato.
242
122
La selva incantata
scostumati ed a freno di loro lascivie, ne deve essere l’esempio.
E giacché, aggiunse il relatore, la Provvidenza ne porse finalmente le dificili prove, sappia, si sappia, questa età troppo da lascivia corrotta che le vergini stanno sotto la speciale protezione delle leggi, che li magistrati vigilano alla loro innocenza e che la strada della giustizia sa cogliere chi si accinge ad oltraggiarle.
Una grande stima del proprio ruolo e di quello del tribunale cui apparteneva, che nascondeva però a mala pena la soddisfazione di essere
riuscito finalmente a dimostrare la colpevolezza di un vero e proprio
predatore sessuale che da mesi, con ogni probabilità, terrorizzava la
popolazione dei numerosi villaggi che popolavano la pianura che dalla città di Vicenza si spinge verso il territorio padovano242.
Il giudice Giuseppe Zanella, un caso controverso
e le esigenze della giustizia punitiva
La severa condanna inflitta al predatore sessuale non stupisce evidentemente, in quanto la serie dei delitti di cui era imputato, al di là dei
risultati probatori effettivamente raggiunti, sollecitava un intervento
severo ed urgente da parte del tribunale. In realtà tale condanna, con le
ridondanti argomentazioni di Marchesini al riguardo, ripropone quella tensione, più volte avvertita nel corso delle discussioni del consesso,
tra libero convincimento del giudice e sistema di prove legali.
Una tensione che emergeva, quasi costantemente, di fronte a delitti
che per la loro qualifica e per la loro specifica tipologia non erano tali da
indurre il giudizio criminale a ricorrere a delle forzature, che evidentemente avrebbero sollecitato l’intervento censorio della corte d’appello243.
La dimensione sociale in cui era avvenuto il delitto o la sua particolare gravità erano aspetti che, comunque, garantivano implicitamente un
certo margine di discrezionalità al tribunale che avesse voluto caratterizzare la propria attività all’insegna della severità e del rigore. In questi casi è assai probabile che i margini di censura da parte della corte d’appello
Per una serie di esempi in questa direzione rinvio alle vicende processuali riportate in appendice.
244
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, sessione del
due aprile 1841, cc. 16-22. Tutte le citazioni sono tratte da questa sessione.
243
Nella selva incantata degli indizi
123
si riducessero sensibilmente, anche se, come si è visto, la discrezionalità
delle corti di prima istanza era tanto più ampia, quanto più esse inclinavano alla mitezza e alla prudente valutazione dei dati probatori.
Di fronte all’esigenza di assumere una posizione più severa nei confronti di reati che sul piano dell’ordine pubblico o della sensibilità sociale erano ritenuti pericolosi, difficilmente la corte di prima istanza poteva
sottrarsi dall’assumere un ruolo più incisivo, superando la consueta impasse tra dati probatori effettivamente acquisiti dall’indagine e libero convincimento del giudice. In definitiva, la dialettica che si muoveva
all’interno di ciascuna corte di prima istanza e quella che, a partire da
questa, si svolgeva nei confronti della corte d’appello era sensibile alle
pressioni sociali ed era tale da ridurre sensibilmente le tensioni ricorrenti
sul piano gerarchico, che pure abbiamo visto costituire una caratteristica
fondamentale dell’amministrazione della giustizia penale austriaca.
Un caso, affrontato nella sessione del 2 aprile 1841 è indicativo
dell’iter di una discussione che, come di consueto, pur presentando tra i
membri del consesso posizioni notevolmente divergenti, si risolse infine
con una pronuncia severa, che intendeva sottolineare la funzione punitiva svolta dal tribunale di fronte a reati ritenuti di particolare gravità244.
L’avvio della discussione, in verità, non lasciava trapelare la gravità
dell’episodio che aveva indotto il tribunale a pronunciarsi inizialmente sul titolo di pubblica violenza formulato contro un gruppo di giovani.
Dalla discussione possiamo ricavare alcuni frammenti di una vicenda che, infine, a giudizio del relatore Pietro Cassetti, aveva condotto
all’incriminazione dei due fratelli Giovanni e Pietro Carretta con
l’accusa di pubblica violenza. Un gruppo numeroso di giovani, intenti a
cantare e a rumoreggiare in un’osteria del villaggio era stato indotto ad
allontanarsi da alcune guardie di pubblica sicurezza accorse sul luogo.
Ripreso, di lì a poco, il canto era sorto un tafferuglio ed alcuni dei giovani avevano tentato di disarmare le guardie.
Un episodio che si prestava ad essere esaminato e valutato secondo
prospettive anche radicalmente diverse. Pietro Cassetti affrontò con
equilibrio quella che, a tutti gli effetti, sembrava essere una vera e propria
rissa scaturita dalle reciproche provocazioni. Contro i due fratelli CarretUn paragrafo, come già si è osservato, ampiamente utilizzato dalle corti di
prima istanza per mitigare la pena. Molti casi in appendice, in cui è pure riportato
il tenore del paragrafo 48, che prevedeva una riduzione della pena in presenza di
circostanze mitiganti «che lascino luogo a sperare con fondamento l’emendazione
del reo», cfr. Codice penale 1997, p. 21.
245
124
La selva incantata
ta la colpevolezza era stata accertata tramite la prova testimoniale e il codice prevedeva una pena che andava da uno a cinque anni di carcere:
Fatto però riflesso alla subitaneità del caso ed all’impeto connaturale al
fuoco della prima gioventù, sembra al relatore che si possa con qualche indulgenza al caso applicare il paragrafo 48245 del Codice penale. Ed altrimenti osservato che a favore di Giovanni Carretta non si rileverebbero altre
circostanze mitiganti, siccome a favore di Pietro concorrono inoltre quella
della precedente condotta senza censure criminali e politiche e dell’età inferiore agli anni 20, così troverebbe il relatore che applicando il succitato
paragrafo 48 sia da condannarsi il Giovanni ad otto ed il Pietro a sei mesi di
duro carcere col pubblico lavoro, da espiarsi in casa di forza in Padova.
Non era una condanna da poco, tant’è che il consigliere Borgo, soppesando in via più favorevole le circostanze mitiganti già elencate da
Cassetti, propose che ad entrambi gli imputati fosse inflitta una pena di
quattro mesi di carcere:
per gli atti processuali scorgeva avvenuto il caso senza alcuna grave conseguenza e per opera d’individui che trovansi ancora nel bollore di loro età
ed erano nella sera del fatto inoltre esaltati dal vino.
La parola passò poi a Bernardo Marchesini, che lesse la vicenda in
maniera radicalmente diversa dai due colleghi che l’avevano preceduto. Nella sua qualifica di votante Marchesini sottolineò la gravità
dell’episodio e la necessità di una punizione esemplare. Sapeva bene,
in definitiva, come sia il libero convincimento del giudice che i dati
probatori presentati dal relatore potessero essere enfatizzati proprio
per sottolineare gli obiettivi di quella giustizia punitiva di cui egli era
aperto sostenitore; ed era probabilmente consapevole che la corte
d’appello difficilmente avrebbe potuto mettere in discussione una sentenza che, in un caso del genere, si fosse decisamente pronunciata nella direzione di sottolineare questa funzione del tribunale vicentino:
Presentasi, disse egli, il processato caso coi caratteri della maggiore gravità. Si
vede per gli atti che l’intento degli inquisiti era quello di disarmare le guardie
mentre stavano vegliando alla pubblica sicurezza e tranquillità; nel quale intento in parte anco riuscirono. Il loro violento operato ebbe per effetto varie
lesioni nelle guardie ed assai più fatali avrebbero potuto essere le conseguenze del caso qualora le guardie non avessero usato di sì lodevole moderazione.
Nella selva incantata degli indizi
125
Grave quindi il fatto, una pena troppo mite non istarebbe nel volere della
legge ed anziché a ritegno di simili delittuose azioni, servirebbe a scandalo.
Ciò premesso ed osservato che l’inquisito Giovanni Carretta fu egli il caporione di quella truppa di oppositori; fu egli colui che vibrò alla guardia Bajo
il forte colpo verso la mano; osservato che il medesimo ebbe già una condanna politica per malitratti ed è inoltre sfavorevolmente descritto dalla
sua autorità locale, il votante, a suo riguardo, non trova applicabile il paragrafo 48 del Codice Penale.
Non così rispetto al di lui fratello Pietro. Minore si presenta la colpa di questo e per l’età inferiore a 20 anni e per la niuna positiva precedente censura
e per la minor parte presa nel fatto, per cui il votante lo ritiene degno di
fruire della benefica disposizione dell’antedetto paragrafo. E fatto giusto
calcolo delle circostanze favorevoli già accennate dal referente, egli propose pel Giovanni Carretta mesi diciotto e pel Pietro Carretta mesi otto di duro carcere col pubblico lavoro.
La discussione si animò con il successivo intervento del consigliere
Zanella, il quale non aveva esitazione ad esprimere un’opinione decisamente antitetica a quella dei colleghi che l’avevano preceduto. La sua lettura del fatto oggetto dell’indagine giudiziaria si avvaleva di un ragionamento giuridico che, evidentemente, sottendeva la diversa percezione
tramite cui egli aveva considerato lo scontro avvenuto tra il gruppo dei
giovani e le guardie intervenute a sedare il loro rumoroso raduno:
A suo avviso non si presentava nel fatto i caratteri di pubblica violenza nei
sensi del paragrafo 70 del Codice Penale.
Risguarda, difatti, disse egli, questo paragrafo fra altri il caso che qualcuno
si faccia opposizione ad una guardia con pericolose minaccie o con metterle violentemente le mani addosso nell’atto che essa eseguisse un ordine
pubblico; e tale fatto qualifica a delitto di pubblica violenza.
Al paragrafo 72 della seconda parte stabilisce la stessa legge penale per grave trasgressione di polizia ogni offesa verbale o reale fatta ad una guardia
ed al successivo paragrafo 73 inasprisce la pena nel caso che siasi ad una
guardia impedito l’esercizio delle sue funzioni.
Se dal confronto e dall’esame di queste legali disposizioni chiaramente già
da sé si appalesa il senso che a commettere il delitto di pubblica violenza
mediante l’opposizione ad una guardia si richiede l’immediata rea intenzione d’impedirle l’esecuzione di un ordine pubblico, il quale pravo disegno non ha luogo nel caso contemplato dai paragrafi 72 e 73 della seconda
parte del Codice Penale, sebbene l’effetto della opposizione sia stato il me-
126
La selva incantata
desimo, tale senso della legge trovasi poi esplicitamente espresso nel rischiarativo aulico decreto 5 ottobre 1804.
Fissato quindi il principio che a commettere il delitto di pubblica violenza
mediante opposizione ad una guardia è indispensabile l’immediata rea mira d’impedirle l’eseguimento di un ordine pubblico, applichiamo ora il processato caso alla disposizione del paragrafo 70 del Codice Penale, prima
parte.
Esaminando il fatto oggetto della discussione, Zanella notava poi
come anche uno degli inquisiti avesse avuto una contusione al capo.
Gli atti processuali non sembravano chiarire come e quando questa ferita fosse stata inferta. Una questione, quest’ultima, non indifferente,
poiché se l’imputato fosse stato ferito prima dell’aggressione condotta
dal gruppo dei giovani nei confronti delle guardie, tutta la vicenda
avrebbe assunto un altro significato:
l’operato dei prevenuti gli si presenterebbe sotto l’aspetto di vendetta anziché
sotto quello di aver essi divisato di por ostacolo all’esecuzione dell’ordine
pubblico e svanirebbe, a suo avviso, l’idea del delitto di pubblica violenza.
E dopo aver riesaminato il fatto alla luce di questa ipotesi, Zanella
concluse:
Per tutto questo complesso di accidenti, disse il votante, non poter egli
scorgere nei giovani oppositori quella immediata rea determinazione
d’impedire alla guardie l’eseguimento del pubblico ordine, anzi presentarglisi il loro male operato l’effetto della braveria e dell’irritamento in derivazione dell’ordine loro dato di ritirarsi, irritamento accresciuto dal bollor
giovanile, dal vino bevuto e dalla allegria cui si erano abbandonati.
Ed in base a tutte queste premesse, il ragionamento giuridico di Zanella si concludeva con una formula di piena innocenza nei confronti
dei due imputati e il rinvio del caso alla pretura competente per quanto poteva concernere la giurisdizione dell’autorità politica.
Un caso controverso, dunque, che poteva evidentemente essere risolto solo dal presidente, il quale, con il suo voto, poteva far prevalere
le proposte che, dopo il voto del relatore erano emerse dalla discussione come prevalenti.
L’intervento di Luigi Bizozero si caratterizzò per una decisa presa di
posizione a favore delle istanze di quella giustizia punitiva evocata da
Nella selva incantata degli indizi
127
Bernardo Marchesini:
Il signor presidente, non parlando sulla natura del fatto, già qualificato a
delitto di pubblica violenza e tale ritenuto dalla maggioranza anche nella
odierna sessione, né tenendo discorso sulla prova o meno della colpabilità
degli inquisiti, su di che pure risultò già la maggioranza, riguardo alla pena da infliggersi alli Giovanni e Pietro Carretta, ritenuti colpevoli, disse che
non trovava di discendere alla troppo mite proposizione del consigliere
Borgo di quattro mesi di duro carcere.
Osservò che in simili casi i tribunali devono tenere man ferma, onde colla
troppa dolcezza non esser lontana causa di ricorrenti simili delitti, i quali
bene spesso hanno assai più fatali conseguenze che non nel caso presente e
non di rado perfino ammazzamenti.
Per questi riflessi, calcolate le circostanze mitiganti ed aggravanti già accennate, esso signor presidente convenne riguardo alla pena col relatore di
condannare cioè il Giovanni Carretta ad otto ed il Pietro a sei mesi di duro
carcere col pubblico lavoro in casa di forza.
Un caso controverso, ma, viene da dire, pure assai istruttivo in riferimento ad alcuni dei problemi che attraversarono in quegli anni il dibattito inerente al processo penale austriaco.
I dati probatori, proposti dal relatore Pietro Cassetti, ed accolti dalla maggioranza del consesso erano stati evidentemente forzati in funzione di un’ampia discrezionalità di cui, nel caso in questione, il tribunale vicentino poteva ampiamente usufruire, in nome di istanze
punitive che difficilmente la corte d’appello avrebbe potuto rigettare.
Se la proposta formulata da Giuseppe Zanella fosse stata considerata ed accolta, quei dati probatori sarebbero infatti risultati non solo inconcludenti ma pure viziati in partenza. La colpevolezza degli imputati era stata raggiunta in base alla prova testimoniale, assicurata dalla deposizione di due delle guardie aggredite dai giovani. Ma se, come sosteneva Zanella, il fatto si fosse trattato in realtà di una vera e propria rissa scatenata dall’atteggiamento aggressivo delle guardie, è evidente che
la loro testimonianza sarebbe apparsa inconcludente, se non sospetta.
In questo caso la formulazione del titolo del reato e la scelta dei dati
probatori erano stati funzionali alla ricostruzione di una verità proces-
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, sessione del
23 aprile 1841, cc. 110-116. Le citazioni seguenti sono tratte da questa sessione.
246
128
La selva incantata
suale che non aveva alcuna pretesa di riprodurre con verosimiglianza
quella verità effettuale, che pure il fascicolo processuale lasciava comunque intravedere. Come aveva prospettato il giudice Zanella, il dettato
stesso del codice, in fin dei conti, avrebbe potuto offrire al consesso ampi margini di discrezionalità, diversamente orientata rispetto alla deliberazione infine assunta.
Le istanze della giustizia punitiva, con i suoi pesi e le sue misure, offrivano dunque al consesso di giudici la possibilità di poter ampiamente ricorrere al proprio libero convincimento, forzando, se necessario, i
dati probatori acquisiti dall’indagine.
Non era sempre cosa scontata, soprattutto se le istanze punitive del
tribunale concernevano quei reati che, a norma del paragrafo 433, richiedevano comunque la trasmissione del fascicolo processuale alla
corte d’appello.
Sotto questo profilo è assai interessante un caso di rapina affrontato
dal consesso nella sessione del 23 aprile 1841, pochi giorni dopo, dunque, la
precedente sessione che aveva deliberato sull’aggressione alle guardie246.
Relatore era Bernardo Marchesini, il quale segnalò da subito come,
in assenza della classica prova testimoniale, si dovesse ricorrere alla Sovrana patente del 1833.
L’imputato, Bortolo Nardon, era infatti negativo e, in base a quanto
prescritto dal paragrafo 409 del codice, bisognava ricorrere al paradigma indiziario.
Il delitto di rapina era considerato assai severamente dal Codice penale247. A giudizio di Bernardo Marchesini la prova indiziaria non era
però stata pienamente raggiunta. L’imputato era stato riconosciuto
dall’aggredito ed inoltre era stato visto sul luogo del delitto. Ma seguiamone il ragionamento:
La diretta incolpazione dell’inquisito per parte del rapinato, uomo come si
Codice penale 1997, pp. 55-56. Il paragrafo 169 definiva il titolo di rapina: «Chi
fa violenza ad una persona per impadronirsi d’una cosa mobile di sua od altrui ragione, si fa reo di rapina, sia che la violenza segua con offesa di fatto o soltanto con
minaccia». Se la minaccia era stata fatta da una singola persona la pena prevista era
del carcere duro da un a cinque anni. Se erano state più persone a farla, oppure la
rapina era stata effettivamente compiuta, la pena veniva estesa dai dieci ai
vent’anni. La gravità del reato era comunque sottolineata dal paragrafo 173: «Ma
se la rapina intrapresa col mettere violentemente le mani adddosso a qualcuno, fu
anche consumata, la pena è del carcere duro a vita».
247
Nella selva incantata degli indizi
129
disse non soggetto a veruna eccezione, costituisce a termine del paragrafo
4, articolo 2 della predetta Sovrana Legge un indizio di colpa a carico
dell’imputato, il quale non solo al momento in cui fu all’aggresso fatto vedere dal deputato politico, ma all’atto del confronto altresì, fu dall’aggresso
medesimo indubiamente riconosciuto ed incolpato.
Altro indizio potrebbesi, ai sensi del paragrafo 2 articolo 6 della stessa legge, ravvisare nel ritrovo dell’inquisito sul luogo del delitto nel tempo in cui
questo accadeva, sulla qual circostanza accerterebbe la voce giurata di Sante Faresin, congiunta a quella del rapinato. Ma rispetto alla prova di questo
indizio, siccome al parere del relatore tutta la efficaccia del posto
dell’aggresso è già esaurita dal valor che gli si attribuisce qual diretta incolpazione dell’imputato, che racchiude già in sè anche la presenza sul luogo dell’inquisito, così a di lui avviso, rimanendo il testimonio Faresin solo
nell’attestare il ritrovo dell’imputato sul luogo del delitto, la prova di questo indizio non sembra al relatore completa.
E in quanto alle monete sottratte e ritrovate in possesso
dell’imputato poco dopo l’aggressione, Marchesini era scettico che potessero costituire, di per sé, un indizio, in quanto «prive di ogni marca
speciale...e d’altronde ella è questa la comune moneta che circola».
In definitiva, a giudizio di Bernardo Marchesini il paradigma indiziario non era del tutto convincente e ne spiegava pure la ragione di fondo:
Condizioni legali per la condanna non mancherebbero, tosto che si consideri che l’imputato è smentito in tutte le sue essenziali asserzioni ed inoltre
è pessimo soggetto capace a dilinquere e privo affatto di mezzi onesti di
sussistenza248, ma dappoiché non sono pienamente tranquillanti li due argomenti da cui unicamente si ponno trarre gli indizi di sua colpa, così, sebbene scorgasi nei rilevati accidenti, anche quello stretto rapporto fra
Marchesini si rifà ai paragrafi sei e sette della Sovrana patente che, come già si
è visto, consideravano le due situazioni in cui erano richiesti due soli indizi per dimostrare la colpevolezza dell’imputato.
249
Cfr. supra p. 49.
250
Nella deliberazione finale, in base a quanto stabilito dal codice e dallo stesso
relatore si osservò: «conchiuso ad unanimia...di rassegnare gli atti processuali con
copia della sentenza ed estratto del protocollo di consiglio all’eccelso tribunale
d’appello pella superior decisione a termini del paragrafo 435 Codice penale». Come già si è osservato all’inizio di questo saggio, dai fascicoli processuali si può verificare come per lo più venisse inviato, oltre al fascicolo inquisitorio e alla sentenza, il voto del relatore con le formule che attestavano le opinioni del consesso.
248
130
La selva incantata
l’inquisito ed il processato delitto, di cui parla il paragrafo 1 della ripetuta
Sovrana legge249, subordinatamente opinando il relatore propose che si dichiari sospeso il processo per difetto di prove legali in confronto a Bortolo
Nardon detto Mustacchio sull’imputatogli delitto di rapina... Che gli atti
processuali con copia della sentenza ed estratto del protocollo di consiglio
si rassegnino all’eccelso imperial regio tribunale d’appello per la superiore
decisione a termine del paragrafo 435 del suddetto codice.
Per Bernardo Marchesini esisteva dunque il libero convincimento
del giudice orientato verso la colpevolezza dell’imputato, ma gli enunciati probatori riscontrati non erano pienamente convincenti. Una posizione da giudice relatore la sua che, come si è più volte visto, inclinava
spesso verso la sospensione del processo.
Di certo, la ricostruzione del paradigma indiziario era sostenuta
dalla consapevolezza dell’indubbia esistenza del nesso intercorrente tra
l’inquisito e il delitto: requisito, come già si è visto, ritenuto imprescindibile dalla Sovrana patente per rendere coerenti tra loro gli indizi riscontrati. In definitiva è probabile che Bernardo Marchesini, considerata la gravità del reato trattato, ritenesse che fosse lo stesso consesso a deliberare sulla colpevolezza dell’imputato. In fin dei conti, come già si è
osservato, sarebbe stato il suo referato con il suo voto e quello del consesso ad essere trasmesso alla corte d’appello250.
Gaetano Fostini espresse il suo accordo con il relatore, soprattutto
sull’esistenza del nesso processuale ed individuava pure un secondo e,
a suo giudizio, indubitabile indizio:
Riponendo il medesimo non già nel possesso delle monete perquisitegli, perché non corrispondenti in qualità e quantità a quelle che l’aggresso possedeva, ma sì bene nella presenza dell’inquisito sul luogo del delitto e nel tempo
in cui questo si commetteva e desumendo di tal indizio la prova dalla confessione dell’imputato di essersi trovato almeno in vicinanza al luogo stesso,
d’altronde lontano dal proprio comune e dalla deposizione dell’oste Faresin.
Considerando l’insieme delle circostanze, Gaetano Fostini era quindi dell’avviso che fosse da infliggere nei confronti dell’imputato la pena minima di dieci anni di carcere duro.
Solo l’esame del fascicolo processuale potrebbe attestare quale fu
l’atteggiamento della corte d’appello.
251
Nella selva incantata degli indizi
131
Stefano Galanti, concordando con i suoi due colleghi riteneva comunque si potesse pure individuare un terzo indizio proprio nelle monete ritrovate in possesso dell’imputato, le quali «con tutta verosimiglianza»
erano appartenute alla persona rapinata. Opinione cui aderì con convinzione anche il consigliere Giuseppe Zanella, il quale precisò meglio come
la legge esige tra le une e le altre monete quella corrispondenza soltanto che
basti a farle ritenere con verosimiglianza le stesse e che tale verosimiglianza sussiste nel caso in concreto se l’aggresso attesta che gli furono rapinate
due lire austriache od intere o mezze o parte intere e parte mezze, se poco
dopo furono perquisite all’imputato appunto una lira austriaca e due mezza e se l’imputato stesso non seppe indicare delle stesse la provenienza,
mentre anzi fu riconosciuta per falsa l’addotta giustificazione.
Per ultimo intervenne Pietro Cassetti, che espresse il suo accordo
sulla validità dei tre indizi già descritti dai colleghi e soprattutto
riconosceva pienamente verificate le condizioni del paragrafo 1 della Sovrana Risoluzione 6 luglio 1833 sulla susssistenza e qualifica del fatto delittuoso e sul nesso, per tutto quello fu già esposto e sviluppato dal relatore.
E così, infine, deliberando per majora contro il relatore, il Giudizio criminale si pronunciò per la colpevolezza dell’imputato, condannandolo
alla pena di dieci anni di carcere251.
Il consesso aveva dunque applicato la pena minima prevista dal codice. Il paradigma indiziario utilizzato per dimostrare la colpevolezza
dell’imputato rivelava la sua fragilità nell’essere essenzialmente co-
L’imputato non era effettivamente un reo confesso, ma gli atti processuali per
il delitto di cui egli era imputato, come già si è detto, erano comunque sottoposti alla revisione della corte d’appello in base al paragrafo 433.
253
Era inoltre improbabile che un imputato che aveva confessato fosse indotto ad utilizzare il ricorso, previsto dal codice in determinati casi, cfr. supra pp.
100-106.
254
Il paragrafo 400 del codice recitava: «Una confessione che seco porta tali qualità, non perde punto della sua forza se anche non è più possibile d’investigare pienamente il fatto deposto in tutte le sue circostanze; basta che se ne verifichino alcune, col cui mezzo si confermi il commesso delitto e che nulla risulti donde si renda dubbia la verità della confessione. Se però è assolutamente impossibile di ottenere, oltre la confessione, alcuna ulterior traccia del delitto, la sola confessione non
ha mai forza di prova legale», cfr. Codice penale 1997, p. 137.
252
132
La selva incantata
struito sulla testimonianza della persona rapinata: come si era premunito di affermare Bernardo Marchesini, sulla scorta dei dati probatori
emersi nel corso dell’indagine. E, forse, la corte d’appello avrebbe accolto le sue perplessità.
Il consesso giudiziario e una confessione non sollecitata
L’errore di Marchesini e del consesso nell’accennare, nel caso precedente, al paragrafo 435252 non era forse dovuto ad un semplice lapsus calami. Gran parte dei fascicoli processuali istruiti dal Giudizio criminale
vicentino dovevano essere trasmessi alla corte d’appello in virtù del
fatto che la condanna, in base alla prova testimoniale o indiziaria, veniva pronunciata nei confronti di un imputato che non aveva confessato il delitto di cui era accusato.
Una casistica ampia, che sottoponeva il tribunale provinciale ad una
costante azione di controllo da parte dell’organo giudiziario superiore
e che, evidentemente, come già abbiamo potuto esaminare, suscitava
tensioni ed irritazione tra i giudici che avevano deliberato le sentenze.
La confessione dell’imputato aggirava evidentemente molti degli
ostacoli previsti dal codice ed offriva al Giudizio criminale un più ampio
margine d’azione253.
La confessione, così com’era prevista dal Codice penale austriaco,
era ritenuta prova legale del delitto ed anche se, di per sé, non era sufficiente a decretare la colpevolezza dell’imputato254, era comunque tale non solo da agevolare notevolmente la ricostruzione di un paradigma indiziario soddisfacente, ma pure, come si è osservato, da costituirsi come un risultato processuale in grado, per lo più, di sottrarre l’organo di prima istanza al controllo automatico esercitato dalla
corte d’appello.
I referati pubblicati in appendice offrono un quadro d’insieme da cui
Paradossale ed estrema, in un certo senso, alla luce delle osservazioni qui
esposte è la vicenda riportata in appendice La confessione. La minuziosa ricerca
condotta dal giudice relatore per individuare il responsabile del furto di denaro
sottratto ad un anziano di Rovegliana, accentra infine i sospetti sul cappellano
del villaggio. La sottrazione e la restituzione della somma rubata sembrano svolgersi attorno all’istituto della confessione sacramentale e, di converso,
all’impossibilità da parte del giudice di condurre sino in fondo il proprio convincimento morale, cfr. infra pp. 614-624.
255
Nella selva incantata degli indizi
133
emerge come l’atteggiamento dell’imputato nei confronti delle accuse
a lui rivolte divenga molto spesso il nodo centrale di tutta una serie di
problemi che attraversano il processo penale austriaco255.
L’imputato che negava pervicacemente le accuse rivoltegli costringeva il consesso a misurarsi sia con il complesso sistema di prove indiziarie, che con l’attento controllo della corte d’appello.
In realtà, molto spesso, la documentazione processuale austriaca,
come si è più volte constatato, presenta due verità contrapposte, se non
antitetiche: quella dei giudici, provvisti del proprio libero convincimento e intenti a valutare attentamente gli enunciati probatori emersi
nel corso delle indagini, e quella dell’imputato che, negando i fatti addebitategli, offre una propria ricostruzione della verità effettuale e,
conseguentemente, pure delle sue inevitabili implicazioni probatorie e
giuridiche. Due verità, che corrispondono a due vere e proprie interpretazioni, con la prospettazione di dati etnografici che si confrontano e,
molto spesso, si contrastano, caratterizzando il timbro e lo svolgimento delle varie fasi processuali raccolte dal fascicolo.
La confessione riduceva, se non annullava, la distinzione tra le due
verità e le due interpretazioni, con evidenti implicazioni sul piano dei
risultati etnografici e, soprattutto, giuridici.
L’imputato che confessava quanto gli veniva addebitato sottolineava al massimo grado quel potere di mitigazione della pena che abbia-
Si veda, a titolo di esempio, la vicenda in appendice intitolata Il ladro timido.
Molto spesso la confessione del delitto è dedotta, come già si è visto,
dall’ammissione dell’imputato di aver compiuto una determinata azione a quello
connessa. Ad esempio nella sessione del 17 gennaio 1832 il consesso procedette contro Lucia Ferraro, accusata di grave ferimento nei confronti del marito. Nei suoi confronti venne applicata la mitigante della confessione. In realtà l’imputata, come sostenne Gaetano Fostini nel suo voto, ammettendo «di avere con un bacchetto battuto il marito in varie parti del corpo, senza sapere, incollerita com’era, dove precisamente cadessero i suoi colpi, venne implicitamente a confessare quella ferita al capo che si è considerata delittuosa, perché posta nella ispezione nella classe delle
gravi», cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1832, cc. 4243.
258
Nonostante tutte le riserve pure chiaramente esplicitate dal paragrafo 400 del
codice.
259
Come abbiamo potuto constatare in alcune delle vicende esaminate nel corso
di questo saggio.
260
Un esempio significativo è dato dalla vicenda La solitudine dell’infanticida.
261
Asvi, tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, Sessione del
256
257
134
La selva incantata
mo visto essere il tratto più distintivo delle corti di prima istanza256.
Ambiguo di per sé, l’istituto giuridico della confessione lo era ancor
più in una struttura processuale come quella austriaca, in cui il relatore svolgeva necessariamente la funzione di inquisitore e di difensore e
nel quale, soprattutto, il libero convincimento del giudice era fortemente delimitato da un sistema di prove legali negative257.
La confessione veniva così a situarsi contraddittoriamente nel rapporto controverso tra verità effettuale e verità processuale, connotando
spesso la prima258 alla luce dei complessi riscontri probatori che la seconda esigeva in base al dettato del codice259.
Questi aspetti emergono vividamente laddove l’imputato confessa,
ad esempio, il fatto, negando però la cosiddetta pravità d’intenzione, oppure nel caso in cui la confessione rivela un contesto così complesso sul
piano relazionale e psicologico, che l’indagine del giudice è indotta
pregiudizialmente a forzare gli stessi dati probatori acquisiti nel corso
dell’indagine260.
Un esempio interessante delle implicazioni giuridiche e giudiziarie
conseguenti alla confessione dell’imputato è dato dalla vicenda che nel
1841 ebbe come protagonista Antonio Tagliapietra di Calvene.
Nella sessione del 30 aprile 1841 fu ancora Bernardo Marchesini, in
qualità di relatore, ad esporre il voto che sarebbe stato oggetto della discussione261.
Il Tagliapietra aveva precedentemente deposto in un processo intentato contro un certo Giacomo Pellegrini, accusato di pubblica violenza contro la proprietà del vicino Francesco Tagliapietra detto Rebombo.
Nel corso del precedente processo Antonio Tagliapietra aveva deposto per ben due volte in favore del Pellegrini, accusato di aver danneggiato il tetto della casa e il raccolto di mais del vicino.
Poi, del tutto spontaneamente, aveva confessato di essere stato in-
Tra i vari casi in cui la truffa era considerata delitto, il paragrafo 178 al punto
a) prevedeva pure: «Se vien brigato l’ottenimento d’una falsa testimonianza che
abbia ad essere deposta in giudizio; se una falsa testimonianza vien in giudizio offerta o deposta; se vien offerto in propria causa od effettivamente prestato un falso
giuramento», cfr. Codice penale 1997, p. 57.
263
Due opposte implicazioni giuridiche che presupponevano, evidentemente,
pure due antitetiche ricostruzioni della verità effettuale.
264
Il Tagliapietra aveva infatti accusato lo stesso danneggiato di «brigata falsa
testimonianza».
262
Nella selva incantata degli indizi
135
dotto a deporre il falso, temendo le ritorsioni del Pellegrini, notoriamente conosciuto come un uomo violento e risoluto.
Il Giudizio criminale aveva quindi deciso di preliminarmente procedere nei suoi confronti per truffa in base a quanto previsto dal paragrafo 178 del Codice penale262.
Situazione paradossale: un delitto non ancora conosciuto (la falsa testimonianza) veniva portato a conoscenza della giustizia ad iniziativa
del suo stesso autore. Ma, ora, quella stessa confessione, avrebbe potuto essere considerata sia una semplice e mera circostanza attenuante
del delitto commesso, che la possibile attestazione dell’assenza di colpevolezza dell’imputato263.
In realtà le prime deposizioni del Tagliapietra erano risultate contraddittorie e Bernardo Marchesini manifestò le sue perplessità nel considerare il timore come una causa plausibile che potesse giustificare la falsa deposizione sino al punto da considerare l’assenza di pravità d’intenzione:
Stante siffatte risultanze processuali riuscirebbe superfluo l’esaminare
quando il timore se lo debba riguardare qual circostanza mitigante indicata dal paragrafo 38 del Codice dei delitti e quando si possa ritenerlo qual
forza insuperabile che escluda la prava intenzione. Tuttavia di passaggio
dicemo che a parere del relatore onde una falsa deposizione in giudizio
fruir possa della legge, conviene che essa sia dependente unicamente da
fondato, immediato e grave timore di vita, anzi tale che ragionevolmente la
legge non possa andarvi in soccorso. Ma nel caso attuale neppure un solo
di questi estremi risulta a favore dell’accusato ed anzi si scorge che costui
con studiata malizia non solo depose il falso sul soggetto principale per cui
lo si esaminava, ma di più prese perfino argomento a gittare i sospetti di
una calunnia, il che dimostra che la sua intenzione era quella di defraudare la legge e di recare danno a colui che la stessa legge doveva difendere264.
Né valga il dire che la posteriore ritrattazione possa sanare la colpa perciocché una volta che la falsa deposizione siasi formalmente registrata, anche il delitto è consumato e la posteriore ritrattazione non è in senso di legge che una confessione del delitto commesso.
La pravità d’intenzione era ben individuabile nel commesso delitto.
Ma, aggiungeva Marchesini, era stata la stessa confessione
dell’imputato a risultare determinante:
senza la quale non si avrebbe giammai potuto ottenere, o ben difficilmente
nel caso presente, la di lui condanna.
136
La selva incantata
E, considerando pure il sincero pentimento dell’imputato, Marchesini non aveva esitazione a concedere l’applicazione dei paragrafi 48 e
49 del codice, proponendo la pena di tre mesi di carcere, «inasprito col
digiuno per ogni venerdì».
Stefano Galanti aderì pienamente alla proposta di Marchesini.
Diversamente, il giudice Giuseppe Zanella, confortato in questo da
Pietro Cassetti, sostenne un’opinione nettamente divergente:
Non vedeva nell’inquisito Tagliapietra bastantemente provata la pravità
d’intenzione per poter proferire con tranquillità la sua condanna, perché il
Tagliapietra, anche nei suoi costituti, persisteva nel sostenere d’essere stato
seriamente minacciato dal Pellegrini...
Rifletteva inoltre che se un testimonio meglio consigliato si presenta spontaneamente per dire la verità che detta non avea la prima volta, il giudice
non può procedere col massimo del rigore e senza una sicura prova escludere e ritenere false le giustificazioni che egli adduce.
La massima contraria imbarazzerebbe assai l’andamento della giustizia,
dacché obbligherebbe i testimoni per timore di non essere processati a star
fermi nella prima deposizione, sebbene falsa.
Il consesso si era dunque diviso sul valore intrinseco da assegnare alla confessione dell’imputato. A decidere fu, infine, Gaetano Fostini, in
qualità di consigliere vicario che, non considerando valida la giustificazione del timore, aderì alla proposta del relatore Marchesini.
Il consesso si era in realtà diviso sulla complessità dei significati da
assegnare all’istituto della confessione. La vicenda aveva dimostrato
che la confessione poteva assumere un forte significato anche sul piano
sociale, oltre che su quello processuale.
La confessione di Antonio Tagliapietra era scaturita dalle pressioni
sociali, oltre che psicologiche, esercitate su di lui265. Che il consesso potesse accoglierla in toto significava in definitiva riconoscere i limiti impliciti nella verità processuale.
Ritenere, al contrario, quella stessa confessione, come una semplice,
anche se importante, circostanza mitigante, che non eliminava comun-
Come ricordò Pietro Cassetti, il Tagliapietra «ritrattava la sua prima deposizione dopo le eccitazioni del parroco e del consigliere comunale Testolin ed accampava un’alterazione di mente in quel giorno in cui emetteva la prima deposizione».
265
Nella selva incantata degli indizi
137
que il titolo di delitto assegnato al fatto, intendeva sottolineare, come
ben aveva osservato Bernardo Marchesini, il valore imprescindibile del
diritto e dell’azione processuale che da esso scaturiva.
Un caso analogo al precedente è significativo delle dinamiche che si
potevano avviare di seguito alla confessione di falsa testimonianza da
parte di una persona intervenuta a vario titolo in un processo.
Giovanni Artuso detto Caruso aveva deposto nel processo intentato
contro Cristiano Angonese. Nel confronto diretto con l’imputato, tenutosi nella Casa di forza di Padova dove entrambi erano detenuti, aveva poi
ritrattato le sue precedenti dichiarazioni. Messo alle strette, aveva infine
ammesso e confessato di aver deposto il falso a causa e per timore che gli
altri detenuti, con cui condivideva la cella, potessero rivalersi su di lui.
La vicenda venne affrontata nella sessione del 19 gennaio 1841, con il
voto del relatore Giuseppe Zanella, il quale non espresse dubbi nel considerare assai grave la ritrattazione dell’Artuso. Ma sono le sue motivazioni che assumono un notevole interesse:
La dichiarazione che fa un testimonio all’atto del confronto con un inquisito
di non più ricordare le cose dette negli anteriori suoi esami e di non poterle
in conseguenza più confermare, è una dichiarazione che mette e deve tosto
mettere in diffidenza il giudice della sincerità di lui, se nella specialità del caso l’asserita smemoratezza si presenta del tutto inverosimile e mendicata.
Al giudice nasce naturalmente subito il dubbio che il testimonio non sia fin
da principio stato veritiero, oppure che per riguardo e motivi suoi particolari voglia con un non ricordarsi favorire quanto sta in lui la condizione
dell’inquisito.
Un testimone di questa non è più irrefragabile come lo era prima e per quella specie di ritrattazione il buon andamento dell’inquisizione è pregiudicato.
A tal fine lo Zanella aveva sottoposto ad inquisizione l’Artuso, che
confessò la falsa testimonianza, da lui rilasciata per il «timore
d’incontrare nella Casa di forza in Padova qualche dispiacenza da parte di quei condannati».
Questa confessione, a detta di Zanella, non costituiva che una mitigante e non aveva perciò dubbi a proporre un mese di carcere che si sarebbero aggiunti ai due anni che già egli stava scontando.
Per il preopinante Stefano Galanti la ritrattazione dell’imputato non
266
Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Secondo trimestre 1841, cc. 421-424.
138
La selva incantata
costituiva in realtà un delitto, in quanto le minacce a lui rivolte dagli altri carcerati e il suo timore di inevitabili e pericolose ritorsioni erano
ben fondati.
Cosicché, per Galanti
viene ad escludere che fosse l’Artuso determinato ad occultare al Giudizio
la verità e ad asserire una falsa smemoratezza a danno della inquisizione
per favorire l’inquisito Angonese e per qualsiasi altro particolare motivo
che appalesasse in esso lui pravità d’intenzione.
Obiezione pertinente, che il consesso però respingeva aderendo alle
motivazioni di fondo del relatore266.
Anche questa vicenda giudiziaria metteva dunque in evidenza tutte
le ambiguità connesse alla confessione o, per meglio dire, al duplice valore della testimonianza nella sua dimensione giuridica e antropologica.
Questi due casi prospettano pure una questione rilevante, che coinvolgeva direttamente il consesso nel suo insieme, evidenziandone sia i
limiti che la discrezionalità.
Come si è potuto constatare dalla variegata casistica esaminata nel
corso di questo saggio, il ruolo del tribunale provinciale, pur muovendosi in uno spazio alquanto circoscritto dal controllo gerarchico esercitato
dalla corte d’appello, godeva comunque di un’ampia discrezionalità.
Si trattava di una discrezionalità di tutto rilievo nel momento in cui
il profilo del consesso si caratterizzava per quel forte potere di mitigazione della pena ad esso formalmente assegnato dallo stesso codice. La
valutazione dei dati probatori e la costruzione di un paradigma indiziario divenivano così elementi secondari rispetto al personale libero
convincimento dei giudici, sensibile all’applicazione delle circostanze
mitiganti previste dal codice.
Ma, come abbiamo potuto constatare, i suoi margini di azione si ampliavano, anche notevolmente, qualora esso fosse stato chiamato ad
esercitare quella giustizia punitiva posta a salvaguardia dei valori predominanti e delle gerarchie sociali esistenti. In tal caso il sistema probatorio predisposto dal codice veniva aggirato e il paradigma indiziario cui si faceva ricorso era provvisto di una notevole discrezionalità,
nei confronti della quale la stessa corte d’appello doveva necessariamente contenere la sua sfera d’influenza e di controllo.
Ovviamente le divergenze esistenti all’interno del consesso erano notevoli, così come le tensioni che si venivano a creare nel rapporto teso e
potenzialmente conflittuale che il tribunale di prima istanza aveva con
Nella selva incantata degli indizi
139
la corte d’appello e il suo forte potere di verificazione dei dati raccolti
ed interpretati.
Tensioni e divergenze che erano, per così dire, connaturate al ruolo
e alle funzioni di una corte di prima istanza che, comunque, avesse inteso assegnare alla propria attività una sua personale caratterizzazione
e identità.
Nell’ambito di questi margini, mutevoli e sempre dotati di un certo
grado d’incertezza, si svolgevano la dimensione interpretativa dei giudici e la loro potenziale capacità di costruire dei testi dalla forte valenza
etnografica.
È con questa consapevolezza e con queste indicazioni che si affida ai
lettori una documentazione ricca di spunti e di interesse, ma, soprattutto, testimonianza significativa di un’epoca storica.
E il rilievo interpretativo di questa testimonianza è attestato sia da
coloro che, in qualità di giudici ce la trasmisero con la loro costante attività, sia da quanti, molti per la verità, che, di seguito alla curiosità degli storici, affiorano oggi da quella documentazione, quasi a voler rivendicare un ruolo che la storia non ha loro assegnato.
Bernardo Marchesini e Antonio Caldana nella selva incantata degli indizi
Bernardo Marchesini concluse il suo referato di finale inquisizione
nei confronti dei delitti imputati ad Antonio Caldana il 30 dicembre
1837. C’erano voluti più di due anni di indagini meticolose e complesse per poter trarre le sue conclusioni da una serie di vicende ingarbugliate che si erano incentrate su una serie cospicua di delitti. Un
omicidio crudele e apparentemente insensato sembrava costituire il
fulcro di uno scenario di delitti, se non inconsueti di certo realizzati
con una tale determinazione e con un’intensità inusuale che non si riscontravano da tempo.
I colpi di scena si erano alternati a momenti in cui le indagini sembravano essersi arenate di fronte all’impossibilità di riannodare i fili di
una trama inestricabile, che prospettava uno scenario torbido e socialmente pericoloso.
Due dei maggiori imputati, nei confronti dei quali si erano accertate le maggiori responsabilità, erano morti in carcere. Aveva intrapreso
tutte le vie per ricostruire i collegamenti tra i delitti che, uno ad uno,
aveva esaminato ed illustrato ai colleghi nel suo referato di preliminare
investigazione.
140
La selva incantata
Ma non c’era stato verso di venirne a capo. L’unica cosa certa, o
quantomeno di cui era personalmente convinto, era costituita dal dato
processualmente verificato che, dietro alla serie di furti compiuti sempre ai danni di numerose chiese parrocchiali del territorio, circa una
quindicina, ci fosse Antonio Caldana, quel giovane contrabbandiere di
Conco, caduto inaspettatamente nelle mani della giustizia solo grazie
ad un imprevisto colpo di fortuna.
L’uomo era sempre stato fuggevolmente visto nei luoghi in cui poi,
nel corso della notte, erano stati compiuti i furti. E una serie di indizi lo
collegava agli altri due imputati, accusati non solo di ricettazione, ma
pure di quell’omicidio così assurdo ed insensato.
Aveva letto e riletto con attenzione il fascicolo processuale che, di mese in mese, sembrava dilatarsi di fronte all’esigenza di riannodare i fili
delle molte vicende che s’intersecavano. Le escussioni dei testi si erano
infittite; e non aveva di certo indugiato, quando l’aveva ritenuto opportuno, a porli a diretto confronto per farne emergere le contraddizioni.
Aveva interrogato a lungo e ripetutamente quell’uomo che si dichiarava apertamente contrabbandiere e non aveva avuto esitazione a
riconoscere tutti i suoi precedenti penali. Era stato assai arduo riscontrare qualche contraddizione nelle sue risposte puntuali e sempre tali
da evitare qualsiasi implicazione sul piano penale. E quando pure, con
difficoltà, ne aveva messo in luce talune incongruenze, l’uomo era sempre riuscito a trovare una via d’uscita.
Solamente quell’arresto fortuito e fortunato, compiuto da alcuni
contadini di Quargnenta, gli aveva permesso di costruire un impianto
accusatorio degno di tale nome.
All’inizio del suo referato non aveva saputo esimersi dal riconoscere
all’imputato qualità che egli avrebbe indubbiamente apprezzato se impiegate in altri campi:
Dotato di molto acume, svelto e forte nella persona, animoso e intrapren-
Avvalendosi di quella lunga leva di ferro, che gli uomini di Quargnenta gli
avevano ritrovato addosso, Antonio Caldana entrava per lo più nelle chiese praticando grossi fori. Una mappatura dei luoghi in cui avvennero i furti notturni permetterebbe probabilmente di verificare come egli valutasse pure attentamente
l’eventuale diffusione a livello locale delle notizie delle effrazioni stesse. Non escluderei che il suo ritorno a Quargnenta fosse finalizzato ad un nuovo tentativo
d’introdursi nella chiesa per ‘recuperare’ qualcosa che aveva lasciato sette mesi pri267
Nella selva incantata degli indizi
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dente, cadette più volte in sospetto di furti e rapine, senza che peraltro i sospetti assumessero così gravi caratteri da assoggettarlo ad accusa.
Uomo di certo non privo di pregiudizi, Bernardo Marchesini, come
già si è avuto occasione di riscontrare, era in verità assai perspicace. E
nel processo da lui istruito contro Antonio Caldana dimostrò non solo
prudenza e avvedutezza, ma anche una notevole inclinazione
all’introspezione psicologica.
Non mancavano di certo, nel processo, osservava Marchesini, le testimonianze che avrebbero potuto sospingere il libero convincimento del
giudice verso la configurazione giuridica della colpevolezza del Caldana,
anche in quel torbido caso di omicidio. Ma, queste stesse testimonianze, in
fin dei conti, avrebbero ben potuto essere il risultato di una fama che
l’uomo aveva raggiunto anche di seguito alle sue rocambolesche imprese267:
Ma quando, a fronte di questi fiscali rilievi, si incomincia dal dire che quella diffamazione scelerata, che per ogni dove risuonava e si ripeteva contro
il Caldana, ella era al contatto degli accidenti sulla di lui vita originata, cresciuta ed ingigantita, non altramente sotto le idee di un’anima disciolta alla prepotenza, facile all’ira, sanguinaria e brutale, poiché niuno di questi
eccessi segnò mai la vita di lui, ma bensì unicamente perché ardito contrabbandiere si macchiò purtroppo replicatamente col togliere l’altrui, e
perché era fama non infondata che fosse lui che nel tempo di sua girovaga
vita spogliasse nottetempo le chiese dei migliori sacri arredi.
Vera dunque la fama di ladro, non può questa se non per fatti positivi, per
spiegate brutali sanguinarie tendenze convertirsi ad un tratto in fama di
crudel sanguinario, come è concerto ed a sangue freddo, con feroce risoluzione intrapreso e consumato.
Quasi una sorta di riconoscimento ad un uomo la cui immagine stava per entrare nel mito.
E così, pure, Marchesini rivelava notevole perspicacia laddove era
propenso a valutare la relatività probatoria delle affermazioni di alcune persone chiamate a testimoniare e le quali, senza esitazione, indicavano nel Caldana l’uomo che, tra i molti, era stato sottoposto al loro ri-
Nella sessione del 17 gennaio 1832, sempre Marchesini, in qualità di relatore,
espose il suo voto nei confronti di Pietro Bellò detto Scotta di Castelgomberto, accu268
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La selva incantata
conoscimento. Un riconoscimento che poteva facilmente essere stato
indotto dalla precedente conoscenza che essi avevano dello stesso Caldana, notava Bernardo Marchesini.
Così come era pure opinabile la testimonianza della cognata del
Caldana, la quale, nonostante quanto quest’ultimo aveva ripetutamente attestato, non aveva confermato il suo alibi per la notte in cui era stato commesso l’omicidio:
questa donna, riconosciuta di rilassati costumi ed in relazione amorosa collo stesso accusato, ammettendo essa la venuta di lui nel venerdì ed ammettendo il soffermo di tutto quel giorno e notte, ed ancora del giorno e notte
appresso, in quella sua isolata casa in cui era poi anche sola ed un solo letto vi era, diveniva lo stesso che ammettere dal canto di lei un adultero commercio, il che era tolto quando essa all’invece si segnava la venuta del cognato nella domenica, come appunto fece, perciocché allora ecco come a
salvezza di suo maritale decoro interveniva la di lei madre.
Non aveva però esitazione, Bernardo Marchesini, nell’inchiodare
Antonio Caldana alla sua responsabilità nei furti perpetrati alle chiese.
Furti notturni, compiuti spesso da solo, con estrema prudenza ed
intelligenza. Lo dimostrava, ad esempio, il fatto che egli realizzasse le
sue imprese su un territorio assai vasto, a macchie di leopardo, scegliendo luoghi di culto molto distanziati l’uno dall’altro.
Quel suo ritorno a Quargnenta, sul luogo del delitto, era stata la
causa della sua rovina. Difficile dire se si fosse trattato di
sato di furto di una vacca. Marchesini propose la condanna dell’imputato avvalendosi del paradigma indiziario, così come era predisposto dal paragrafo 412 del codice. L’uomo era stato ritrovato in possesso dell’animale rubato ed aveva tentato la
fuga al comparire delle guardie che lo volevano arrestare. Le politiche informazioni
erano inoltre assai sfavorevoli nei suoi confronti. Ma Bernardo Marchesini, a chiosa
del tutto, aggiungeva pure: «Anche quel cambiar di mestiere e di professione, anzi
quel non aver niun mestiere, nè stabile professione, se la sua prima educazione fu
quella di carbonajo, se quella abbandonando si diede a far l’oste, cambiando sempre paese, e finalmente se giunto all’età di soli anni 28, abbandonati tutti questi mestieri, a quello si diede di mercanteggiare», cfr. Asvi, Tribunale austriaco, Sessioni criminali, Primo trimestre 1832, cc. 49-51. Ancora una volta, dunque, un Marchesini
nella veste di giudice indisponente e irritante, ma, pure, uomo che, con i suoi valori e il suo ragionamento giuridico, sapeva bene rappresentare la società in cui visse.
269
Attività che nel caso di Antonio Caldana, Bernardo Marchesini riteneva fosse del tutto pretestuosa. E forse a ragione.
Nella selva incantata degli indizi
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un’imprudenza o di un atto di sfida. Di certo aveva sottovalutato quei
contadini ai quali, qualche mese prima, aveva impudentemente svuotata la chiesa parrocchiale dei suoi arredi più preziosi.
In quel processo emergeva sullo sfondo una vasta schiera di girovaghi e di «senza tetto», che si muoveva tra i settori della società più marginale, e quelli per i quali i termini di sicurezza e di ordine pubblico costituivano dei punti fermi ed irrinunciabili268. Le difficoltà di Bernardo
Marchesini ad inquadrare esaustivamente i delitti compresi
nell’inchiesta che gli era stata affidata dipendevano essenzialmente da
questo. Era come ricomporre un quadro dalle componenti apparentemente dissonanti se non antitetiche ed in cui le sfumature prevalevano
decisamente sul complessivo disegno unitario.
Antonio Caldana, un po’ per scelta, un po’ per le vicende della vita,
si era decisamente inoltrato in questo mondo di confine. Entrando in
contatto diretto con quella parte della società in cui la devianza era
all’ordine del giorno, anche nei suoi aspetti più marcati, non se ne lasciò
risucchiare del tutto, così come respinse l’idea di adattarsi al ruolo secondario ed irrilevante che la sua condizione sociale gli aveva assegnato, anche esercitando la più trasgressiva attività di contrabbandiere269.
I contadini che l’avevano arrestato, appartenenti, senza ombra di
dubbio, ai settori più tradizionali e compatti della società dell’epoca,
posero fine ad una carriera che già stava delineando il mito del brigante imprendibile.
Con quell’arresto Bernardo Marchesini riuscì a ricostruire un paradigma indiziario accettabile, in base ai dispositivi previsti dalla Sovrana patente del 1833. L’uomo, indubbiamente, era stato visto sul luogo
del delitto e, poi, nulla poteva attestare che egli potesse effettivamente
esercitare l’attività di contrabbandiere, tramite cui avrebbe potuto giustificare la sua vita dispendiosa da una bettola all’altra. Erano due indizi, ma più che sufficienti considerando i suoi precedenti penali e politici e la sua contiguità, dimostrata in processo, con quel mondo di ricettatori e malviventi.
Bernardo Marchesini non aveva quindi esitazione a proporre nei
confronti del giovane imputato la severa pena di dieci anni di carcere
duro, che poi la corte d’appello ridusse a quattro.
Una colpevolezza costruita in base ad un paradigma indiziario, ma
anche, a ben guardare, provvista di una valenza etnografica di tutto rilievo, poiché rinviava, come si diceva, a quel mondo di confine in cui si
era decisamente posto Antonio Caldana. Gli stessi delitti di cui egli era
accusato sembravano in definitiva non colpire direttamente una vittima
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La selva incantata
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