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Crimine carcere e questione sociale

2010, Giustizia e Sicurezza

Il rapporto tra povertà e repressione giudiziaria è antico e in qualche misura fondativo dello stesso sistema penale moderno. Le trasformazioni che coinvolsero, e sconvolsero, l’Europa occidentale a partire dalla seconda metà del Quattrocento si intrecciarono con l’insorgenza di nuove forme di pauperismo urbano e con l’origine dei moderni sistemi penali. L’incremento demografico senza precedenti, la crescente concentrazione della popolazione nelle aree urbane in particolare di alcune grandi città europee –, le trasformazioni della produzione e del lavoro furono legate in maniera inestricabile con il prodursi di nuove forme di povertà e vagabondaggio e, con esse, di criminalità e repressione. Contemporaneamente alle trasformazioni sociali in atto, iniziarono allora a prendere forma discorsi e saperi nuovi riguardo a questi nuovi fenomeni che si manifestavano nelle città, rispetto alle cause che li determinavano e agli effetti che producevano, in merito al modo migliore per “trattarli”. Cominciarono a cambiare le istituzioni deputate al sostegno dei poveri e all’elemosina, così come le idee di società e di giustizia che le sostenevano. I poveri divennero classe pericolosa e contro di loro furono messe all’opera strategie dapprima di espulsione e poi di immunizzazione. Furono varate le prime leggi organiche che riguardavano mendicità e vagabondaggio e regolavano l’assistenza caritatevole. Sorsero nuove o rinnovate istituzioni pubbliche che finirono per servire le strategie di occultamento e reclusione delle manifestazioni più scandalose della povertà dilagante (Foucault, 1976; Geremek, 1986). La criminalità assunse carattere di classe (Weisser, 1989, p. 81), accompagnando i cambiamenti intervenuti nei rapporti economici, produttivi e sociali, nella distribuzione di ricchezza e risorse, nelle forme di esercizio del dominio. Di pari passo, «come era inevitabile, quando il crimine assunse un carattere di classe, la pena seguì la stessa strada» (ivi, p. 91). Tra il XVI e il XVII secolo le forme private della giustizia penale europea lasciarono progressivamente il passo a un’amministrazione pubblica della giustizia (ivi, p. 81), e, da lì in poi, l’apparato penale si occupò con maggiore frequenza di questioni pubbliche e in particolare del mantenimento dell’ordine sociale. In breve, ebbero origine nuove narrazioni sulla società che si trasformava e sulle nuove forme di ordine sociale che andavano delineandosi. Attraversando con qualche imprudenza luoghi e tempi differenti, cercheremo di rintracciare, seguendo alcune di queste narrazioni, saperi, dispositivi e strategie che operano ancora oggi. Non si tratta di un cruccio storicistico, quanto piuttosto della ricerca del farsi e trasformarsi di taluni momenti del discorso scientifico e politico, per cui certe parole hanno assunto un significato particolare, certe idee si sono formate o piegate in una nuova direzione, alcuni tipi di persone sono apparsi sulla scena pubblica. Parole, idee e tipi di persone che ricompaiono oggi su quella stessa scena (o che, più probabilmente, non hanno mai lasciato il proscenio), spesso con lo stesso ruolo, quello del capro espiatorio o del nemico, a volte con nuove maschere e abiti differenti. Si tratta allora di capire da dove è emerso ciò che è messo a tema come un’emergenza, una minaccia nuova e urgente. Come ha preso forma? Com’è che alcuni particolari discorsi hanno finito per incrostarsene? Di quali idee o ideologie è il correlato? L’attenzione sarà rivolta in particolare alla nascita e al funzionamento di quei saperi che hanno posto l’uomo e la società come oggetto di scienza, cercando soprattutto di dare risalto a quell’imbricatura tra questione criminale (e penale) e questione sociale che ha segnato l’insorgere delle scienze sociali e ne ha accompagnato il percorso fino ad oggi. Seguirne le tracce nel tempo può aiutare a riconoscere le metamorfosi, le trasformazioni, le pieghe subite dai discorsi e dai saperi che hanno dato e danno forma a dibattiti e fenomeni ancora attuali. Nell’ambito delle politiche sicuritarie, criminali e penali, tutto ciò concerne innanzitutto le retoriche e le strategie della prevenzione, sempre più distanti dall’idea di poter eliminare o ridurre le diseguaglianze sociali e sempre più incentrate sulla capacità di individuare i luoghi e i gruppi sociali a maggior probabilità (cioè propensione) criminale. Retoriche che hanno dunque come obiettivo la previsione del crimine e operano con logiche e tecniche attuariali, attribuendo livelli di rischiosità/pericolosità a persone, popolazioni, situazioni (Rose, 2000; Harcourt, 2007; de Leonardis, 2009).

Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:48 Caritas Ambrosiana Giustizia e sicurezza Politiche urbane, sociali e penali A cura di Luca Massari e Andrea Molteni C Carocci editore Pagina 3 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:48 Pagina 4 Il presente volume è finanziato nell’ambito delle attività del progetto “Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi”, con un contributo della Regione Lombardia erogato ai sensi della L.R. 14 febbraio 2005, n. 8. 1a edizione, marzo 2010 © copyright 2010 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel marzo 2010 dalla Litografia Varo (Pisa) ISBN 978-88-430-5384-1 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 59 6 Crimine, carcere e questione sociale di Andrea Molteni 6.1 Premessa: un rapporto antico come la modernità Il rapporto tra povertà e repressione giudiziaria è antico e in qualche misura fondativo dello stesso sistema penale moderno. Le trasformazioni che coinvolsero, e sconvolsero, l’Europa occidentale a partire dalla seconda metà del Quattrocento si intrecciarono con l’insorgenza di nuove forme di pauperismo urbano e con l’origine dei moderni sistemi penali. L’incremento demografico senza precedenti, la crescente concentrazione della popolazione nelle aree urbane – in particolare di alcune grandi città europee –, le trasformazioni della produzione e del lavoro furono legate in maniera inestricabile con il prodursi di nuove forme di povertà e vagabondaggio e, con esse, di criminalità e repressione. Contemporaneamente alle trasformazioni sociali in atto, iniziarono allora a prendere forma discorsi e saperi nuovi riguardo a questi nuovi fenomeni che si manifestavano nelle città, rispetto alle cause che li determinavano e agli effetti che producevano, in merito al modo migliore per “trattarli”. Cominciarono a cambiare le istituzioni deputate al sostegno dei poveri e all’elemosina, così come le idee di società e di giustizia che le sostenevano. I poveri divennero classe pericolosa e contro di loro furono messe all’opera strategie dapprima di espulsione e poi di immunizzazione. Furono varate le prime leggi organiche che riguardavano mendicità e vagabondaggio e regolavano l’assistenza caritatevole. Sorsero nuove o rinnovate istituzioni pubbliche che finirono per servire le strategie di occultamento e reclusione delle manifestazioni più scandalose della povertà dilagante (Foucault, 1976; Geremek, 1986). La criminalità assunse carattere di classe (Weisser, 1989, p. 81), accompagnando i cambiamenti intervenuti nei rapporti economici, produttivi e sociali, nella distribuzione di ricchezza e risorse, nelle forme di esercizio del dominio. Di pari passo, «come era inevitabile, quando il crimine assunse un carattere di classe, la pena seguì la stessa strada» (ivi, p. 91). Tra il XVI e il XVII secolo le forme private della giustizia penale europea lasciarono progressivamente il passo a un’amministrazione pubblica della giustizia (ivi, p. 81), e, da 59 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 60 ANDREA MOLTENI lì in poi, l’apparato penale si occupò con maggiore frequenza di questioni pubbliche e in particolare del mantenimento dell’ordine sociale. In breve, ebbero origine nuove narrazioni sulla società che si trasformava e sulle nuove forme di ordine sociale che andavano delineandosi. Attraversando con qualche imprudenza luoghi e tempi differenti, cercheremo di rintracciare, seguendo alcune di queste narrazioni, saperi, dispositivi e strategie che operano ancora oggi. Non si tratta di un cruccio storicistico, quanto piuttosto della ricerca del farsi e trasformarsi di taluni momenti del discorso scientifico e politico, per cui certe parole hanno assunto un significato particolare, certe idee si sono formate o piegate in una nuova direzione, alcuni tipi di persone sono apparsi sulla scena pubblica. Parole, idee e tipi di persone che ricompaiono oggi su quella stessa scena (o che, più probabilmente, non hanno mai lasciato il proscenio), spesso con lo stesso ruolo, quello del capro espiatorio o del nemico, a volte con nuove maschere e abiti differenti. Si tratta allora di capire da dove è emerso ciò che è messo a tema come un’emergenza, una minaccia nuova e urgente. Come ha preso forma? Com’è che alcuni particolari discorsi hanno finito per incrostarsene? Di quali idee o ideologie è il correlato? L’attenzione sarà rivolta in particolare alla nascita e al funzionamento di quei saperi che hanno posto l’uomo e la società come oggetto di scienza, cercando soprattutto di dare risalto a quell’imbricatura tra questione criminale (e penale) e questione sociale che ha segnato l’insorgere delle scienze sociali e ne ha accompagnato il percorso fino ad oggi. Seguirne le tracce nel tempo può aiutare a riconoscere le metamorfosi, le trasformazioni, le pieghe subite dai discorsi e dai saperi che hanno dato e danno forma a dibattiti e fenomeni ancora attuali. Nell’ambito delle politiche sicuritarie, criminali e penali, tutto ciò concerne innanzitutto le retoriche e le strategie della prevenzione, sempre più distanti dall’idea di poter eliminare o ridurre le diseguaglianze sociali e sempre più incentrate sulla capacità di individuare i luoghi e i gruppi sociali a maggior probabilità (cioè propensione) criminale. Retoriche che hanno dunque come obiettivo la previsione del crimine e operano con logiche e tecniche attuariali, attribuendo livelli di rischiosità/pericolosità a persone, popolazioni, situazioni (Rose, 2000; Harcourt, 2007; de Leonardis, 2009). 6.2 La comparsa della “canaglia” Nei primi decenni del Cinquecento in molte grandi capitali europee furono promulgate le prime sistematiche leggi sui poveri – a Venezia nel 1529, in Inghilterra nel 1531, a Lione nel 1534, a Parigi dieci anni dopo – e si moltiplicarono i bandi e le grida che disciplinavano l’elemosina e il vagabondaggio. A Milano, fino alla metà del Cinquecento, non erano ancora stati introdotti 60 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 61 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE apparati legislativi specifici e autonomi su questo tema, anche se crebbero, per tutto il periodo della dominazione spagnola, le grida e le disposizioni al riguardo (Liva, 1995, p. 318). Anche nei discorsi prodotti dalle autorità milanesi dell’epoca la mendicità e il vagabondaggio vennero sempre più collegati con la preoccupazione per la salvaguardia dell’ordine pubblico. I vagabondi furono sempre più spesso accomunati ai bravi e ai banditi, e venne loro vietato di sostare in città, pena l’arresto. Si estese la rete dei controlli formali e informali, introducendo norme e discorsi che produssero una netta separazione tra gli abitanti e i viaggiatori “autorizzati” e la canaglia che occorreva espellere dalla città. Atti formali proibirono di accogliere vagabondi e forestieri non autorizzati a permanere in città e organizzarono sempre più in forma pubblica le istituzioni preposte all’elemosina e alla cura dei poveri. D’altra parte, sulla scorta della paura per il contagio della peste, vagabondaggio e povertà vennero saldamente ancorate alle nuove forme di percezione del rischio delle popolazioni inurbate e il giudizio morale su chi conduceva una vita di vagabondaggio (e perciò di promiscuità e libertinaggio) fu durevolmente associato al crimine e al sistema di giurisdizione penale. Accanto ai discorsi che, accomunando oziosi e vagabondi in un’unica feccia criminale, puntavano alla costruzione e al mantenimento di un ordine pubblico conforme alle nuove strutture sociali della città, continuarono a coesistere quelli che, legando la povertà alle relazioni economiche e alle trasformazioni delle attività produttive e del lavoro, imponevano la carità; le istituzioni deputate all’assistenza si svilupparono a fianco dei luoghi pii che elargivano l’elemosina. L’eredità medievale ed ecclesiastica, costituita da un complesso sistema di istituzioni dedicate all’assistenza ai poveri (conventi, monasteri, confraternite), mantenne dunque un ruolo fondamentale, anche se non più egemonico, nella definizione delle cause della povertà e nell’espressione dei giudizi di merito o colpa rispetto a essa. Nonostante le difficoltà crescenti che incontravano nel far fronte alle nuove e aumentate forme di pauperismo urbano (Spagnoletti, 2005, p. 184), queste istituzioni ecclesiastiche continuarono a dare forma all’assistenza rivolta a quei numerosi individui senza reddito e dimora che, nelle vie cittadine, «non tam libidine otii, quam defectu opificii, vacui et famelici vagantur»1. 6.3 Il grande internamento A partire dal Seicento, in Inghilterra si moltiplicarono le houses of correction, che divennero, alla fine del secolo, workhouses, istituzioni buone per il disciplinamento dei vagabondi e dei riottosi, ma anche utili strumenti per punire ed educare ladri e piccoli criminali. Nello stesso periodo in Germania venne61 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 62 ANDREA MOLTENI ro create le prime case di correzione, le Zuchthäuser; nel 1596 sorse ad Amsterdam uno dei primi penitenziari europei, noto come Rasphuis proprio perché centrato sul lavoro di raschiamento del legno brasiliano necessario per ricavarne una polvere utilizzata nei colorifici (Mathiesen, 1996, pp. 60-1); in Francia vennero fondati luoghi di reclusione per i poveri, l’Hôpital général di Parigi aprì nel 1656, ma il primo era già stato aperto a Lione quarant’anni prima (Foucault, 1992, pp. 51-82). Con tempi differenti questa innovazione istituzionale – l’internamento – si diffuse in tutte le città d’Europa. Nelle regioni italiane tale “novità” giunse con qualche decennio di ritardo. Verso il 1670 fu avanzata a Milano la proposta di edificare un albergo dei poveri o casa di lavoro, soltanto però nel 1729 si costituì a Milano la Consulta per la costruzione del Nuovo albergo de’ poveri e casa di correzione. Il progetto venne accolto nel 1759 e ultimato nel 1766, un secolo dopo la proposta originaria (Melossi, Pavarini, 1977, pp. 109-10; Liva, 1995, p. 323). Il sorgere di questi nuovi istituti, destinati a eliminare la mendicità, a scoraggiare il vagabondaggio e a garantire l’ordine2, accompagnò altre misure che avevano come obiettivo la buona amministrazione delle città e la cura della sua “decenza”: la numerazione delle case, la posa dell’illuminazione stradale, la cura degli spazi pubblici. Anche la teoria penale subì profonde trasformazioni. La riforma illuministica del diritto penale operò limitazioni al potere arbitrario di punire, promosse l’addolcimento delle pene, si accanì contro le forme di illegalismi e criminalità predatoria che minavano i nuovi statuti della proprietà. Le forme della punizione si adeguarono ai nuovi rapporti di produzione e di potere che reggevano le società capitalistiche e operarono una nuova differenziazione tra le forme di illegalità, che assecondava il predominio borghese e fondava un nuovo assetto dell’economia criminale. In breve si costituirono «una nuova economia e una nuova tecnologia del potere di punire» (Foucault, 1976, p. 97). La dissoluzione della società medievale e del suo fondamento d’ordine teocratico aprì la strada a una nuova rappresentazione dell’individuo e dello Stato. Quest’ultimo fu concepito come lo strumento che poteva consentire lo sviluppo autonomo della società: uno “Stato protettore”, il cui scopo era la produzione dell’ordine e del benessere dei cittadini attraverso attività di “polizia”, cioè di governo razionale della popolazione (Foucault, 2005; Poggi, 1992; Tilly, 1984). La nuova forma della comunità politica ebbe bisogno di nuovi cittadini, resi adatti alle nuove condizioni produttive, docili al nuovo ordine sociale, sottoposti al controllo e soggetti al principio della responsabilità individuale (Bauman, 2004; Castel, 2007; Melossi, 2002; Rusche, Kirchheimer, 1978). Fu dentro a questo contesto in trasformazione, e con questi obiettivi, che si compì l’invenzione del penitenziario e che il carcere divenne luogo e misura per eccellenza dell’espiazione della pena. 62 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 63 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE 6.4 Una semplice idea architettonica Il dispositivo che meglio di tutti rappresentò questa volontà disciplinare fu il Panopticon benthamiano. L’invenzione di Bentham pretese di risolvere d’un colpo, e attraverso un unico schema d’azione, ogni patologia sociale. Bentham non ebbe dubbi sulla potenza e la potenzialità della sua idea: «La morale riformata, la salute preservata, l’industria rinvigorita, l’istruzione diffusa, le cariche pubbliche alleggerite, l’economia stabile come su di una roccia, il nodo gordiano delle leggi d’assistenza pubblica non tagliato, ma sciolto – tutto questo con una semplice idea architettonica» (Bentham, 1983, p. 33). Egli impegnò molta parte della sua vita a elaborare e affinare questa sua idea e impiegò ingenti risorse per tentarne la realizzazione concreta e per promuoverne la diffusione. Il Panopticon costituisce un’opera in qualche misura minore del filosofo utilitarista che, sebbene non riesca a fornire il racconto esaustivo di un’intera epoca, ne rappresenta una metafora azzeccata che intesse in un’unica trama la ricerca di soluzioni al problema della povertà, della punizione del crimine, dell’educazione, della cura, dell’addestramento al lavoro e della sua organizzazione razionale. In ogni caso esso divenne «intorno agli anni 1830-1840 il programma architettonico della maggior parte dei progetti di prigione» (Foucault, 1976, p. 273), un progetto che fa della prigione una fabbrica ed esige una fabbrica-prigione, ponendo a fondamento dell’ordine disciplinato il lavoro e a sua garanzia l’efficacia e l’ineluttabilità della sorveglianza. Il lavoro vi è rappresentato come un destino senza scampo. Il detenuto, e l’operaio, non debbono essere convertiti all’etica del lavoro, ma costretti a operare come se la condividessero. Per piegare chi non ha interesse per il lavoro è sufficiente che quella lavorativa sia la migliore delle condizioni che gli sono concesse (ibid.) e la disciplina della prigione la peggiore delle alternative possibili. Nel corso del XIX secolo la prigione conobbe così il suo rapido sviluppo. Non si trattò di una forma assolutamente nuova di esercizio dell’autorità penale, ma fu lo strumento maggiormente in sintonia con le idee dell’illuminismo e gli ideali liberali. D’altronde la “libertà” aveva assunto un ruolo centrale nel fondamento politico della nuova società, dato che rappresentava la condizione necessaria per ogni teoria che ponesse un contratto alla base della convivenza ordinata. Essa era fondamentale anche rispetto al nuovo statuto del lavoro, che presupponeva la “libera” adesione del lavoratore a cedere la propria forza-lavoro in cambio di un salario (Melossi, 2002, pp. 23-4). Soltanto in tale contesto riuscì a imporsi una pena che consisteva innanzitutto nella privazione della libertà, e anche il rapporto tra pena e lavoro si trasformò progressivamente. Le nuove forme organizzative del lavoro produssero un cambiamento antropologico che pretese saperi nuovi, nuovi regimi di verità e nuove forme di esercizio della sovranità. Il potere non operò più per “segni e prelevamen63 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 64 ANDREA MOLTENI ti”, per usare termini foucaultiani, ma iniziò a esercitarsi “attraverso la produzione e la prestazione”. Dunque il suo registro d’esercizio si trasformò da predatorio a persuasivo. La prestazione produttiva dovette essere ottenuta attraverso la cura e il governo della vita stessa di ciascun individuo e con l’addestramento dei corpi, impartendo la disciplina (Foucault, 1976; 1977, pp. 328). La superiorità morale attribuita al lavoro produttivo diede forma, come abbiamo visto, alle leggi sui poveri e alle organizzazioni caritative, e il lavoro finì per costituire anche un elemento discriminante tra differenti forme di povertà. Distinse cioè chi non poteva lavorare per condizioni manifeste (ad es. una infermità) ed era quindi meritevole di assistenza, e chi, povero senza meriti, doveva essere piegato a una laboriosa disciplina o allontanato e segregato negli ospizi e, poi, nelle prigioni. Proprio gli ospizi per i poveri avrebbero dovuto, secondo una logica di less eligibility, distinguere e separare meritevoli e colpevoli (Rusche, Kirchheimer, 1978; Melossi, Pavarini, 1977; Castel, 2007). In un’epoca di crisi economiche e trasformazioni sociali, il carcere divise la canaglia dal proletariato, distinse le classi pericolose dalle classi laboriose, l’operaio dal delinquente (Foucault, 1976, p. 263). Quando venne meno la necessità di giustificarne l’esistenza in termini di produttività e redditività, riemerse una concezione del lavoro penitenziario come puro strumento afflittivo. I detenuti furono costretti a spostare pietre da un luogo a un altro solo per poi doverle riportare indietro, oppure furono inventate e messe all’opera macchine che non avevano altro scopo se non quello di costringerli alla fatica del lavoro (Rusche, Kirchheimer, 1978). Quando il rallentamento della crescita economica e produttiva ne mise a nudo la funzione, vennero dunque fornite giustificazioni del lavoro carcerario ben diverse da quelle immaginate dai riformatori del XVIII secolo, che smascherano come la sua utilità non fosse legata alla produzione di beni ma a quella della disciplina, dato che il lavoro carcerario rappresenta «un principio di ordine e di regolarità; […] piega i corpi a movimenti regolari, esclude l’agitazione e la distrazione, impone una gerarchia e una sorveglianza che sono tanto più accettate, e si inscriveranno tanto più profondamente nel comportamento dei condannati, in quanto fanno parte della sua logica» (Foucault, 1976, p. 264). 6.5 Dalla “macchina del vapore” al corpo sociale La razionalizzazione della giustizia penale si affidò a meccanismi e dispositivi precisi e implacabili. Meccanismi perfetti che potevano governare indifferentemente l’esecuzione della giusta pena, la disciplina del lavoro, l’erogazione della carità. La “macchina del vapore” di Bentham3 costituì il modello per un nuovo immaginario sociale. Nel corso dell’Ottocento altri saperi posero infine le fonda64 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 65 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE menta per quelle nuove scienze che si attribuirono l’ambizioso obiettivo di interpretare e spiegare la società. L’ossessione per la patologia sociale, e, di converso, per l’individuazione della normalità dell’uomo medio, sorresse l’impalcatura delle nuove scienze che presero a oggetto gli uomini e il loro comportamento (psichiatria, matematica sociale, statistica morale, fisiologia sociale) e diede origine a un nuovo paradigma “sociale” (Dal Lago, 1981; Procacci, Szakolczai, 2003; Santoro, 2004). Si affermò il problema della prevenzione, la cui possibilità venne fondata su modelli matematici e probabilistici, e la patologia sociale, povertà o criminalità che fosse, fu considera come un fatto normale. La fisiologia aveva definito il patologico come una deviazione dallo stato normale, da cui si distaccava per variazioni quantitative. L’osservazione degli stadi patologici metteva dunque in luce quale fosse lo stato normale e, in quanto tale, desiderabile. Ciò valeva per l’organismo individuale, ma allo stesso modo doveva valere per quello collettivo: la ricerca della norma fu anche la ricerca di un fondamento normativo dell’ordine sociale che generò nuove forme di prescrizione morale (Canguilhem, 1998; Hacking, 1994; Procacci, Szakolczai, 2003). La dicotomia normale/patologico fu assunta a fondamento giustificativo di tale ordine e diede forma alle istituzioni deputate all’assistenza per i poveri e alle teorie della prevenzione – attraverso la previsione – del crimine (Santoro, 2004, pp. 20-6). L’impossibile “uomo medio” di Quételet, costruito attraverso un’ossessione statistica per la normalità, produsse l’esistenza effettiva di una anormalità che costituiva una minaccia per la società. Attraverso la raccolta, la registrazione e l’analisi di una “valanga di numeri” (Hacking, 1994) furono individuate quelle regolarità che permisero di collocare il crimine nella società e di scoprire l’opera di cause sociali che spiegavano persistenze e cambiamenti nei tassi di criminalità. Il momento del giorno, la stagione, il clima, l’età, il sesso, la mobilità sociale, l’andamento dei prezzi, l’oziosità (e non la povertà di per sé) e i vizi contribuirono a spiegare la delittuosità e a distribuire le persone in classi, attribuendo loro una propensione (penchant) al crimine, intesa come «la probabilità più o meno grande di commettere un crimine» (Quételet, 1833, p. 17). Certo, in ciascun caso particolare potevano ben valere l’arbitrio e la forza morale dell’individuo, ma in generale si affermò l’idea che «è la società che prepara il crimine e che il colpevole è soltanto lo strumento che l’esegue» (Quételet, 1832, p. 26). 6.6 La normalità del crimine e la funzione sociale della pena Nel corso dell’Ottocento le spiegazioni del crimine e le ideologie della pena presero forme molto differenti. L’approccio positivista permeò molta parte della discussione scientifica in materia di criminalità e la criminologia classi65 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 66 ANDREA MOLTENI ca ne costituì l’ideologia dominante. I conflitti innescati dallo sviluppo dei sistemi capitalistici avevano infine dato forma a quella “questione sociale” che una nuova scienza, appunto sociale, si propose di interpretare e risolvere (Procacci, Szakolczai, 2003, pp. 65-104). Nella seconda metà dell’Ottocento, con la proclamazione del Regno d’Italia – e la progressiva unificazione della nazione – e con l’impressionante sviluppo demografico e urbano, nel dibattito politico italiano si impose la “questione criminale”, che preoccupava in egual modo gli esponenti della destra e della sinistra. Nel 1876, in questo terreno politico e con l’humus culturale del positivismo, Lombroso pubblicò L’uomo delinquente (Gibson, 2004). Osservando il cranio del brigante Villella, egli “intuì” il carattere innato e determinato biologicamente della “natura del criminale”4. I segni e la misura della colpa non dovevano più essere individuati in base a criteri giuridici e principi morali ma, incisi dalle leggi dell’evoluzione, andavano cercati direttamente sul corpo del criminale. Anche la pena non avrebbe dovuto essere commisurata al delitto, ma alla pericolosità del reo, da cui la società doveva difendersi (ibid.). L’antropologia criminale di Lombroso e dei suoi allievi si impose in Italia ed ebbe ampio rilievo anche a livello internazionale, dando origine a intensi dibattiti e polemiche. Fu anche come reazione alla diffusione delle idee della scuola italiana di antropologia criminale che Durkheim sviluppò la sua riflessione sulla “normalità del crimine”. Tra il 1893 e il 18945 egli modificò infatti la sua idea rispetto al posto e alla funzione del crimine nella società (Hacking, 1994, p. 261). Nella Divisione del lavoro sociale, pubblicata nel 1893, il crimine rappresentava per Durkheim, al pari delle altre “professioni nocive”, una patologia dell’organizzazione sociale. Si tratta di un cancro che vive a spese della solidarietà sociale, una patologia che occorre studiare per comprendere meglio lo stato fisiologico, e dunque normale, di una società (Durkheim, 1962, p. 347). L’anno dopo scrisse, nelle Regole del metodo sociologico, che non è possibile concepire una società senza crimine e che l’incontestabilità del suo carattere patologico è solo un’apparenza, dato che proprio il crimine «è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana» che serve a rafforzare la coesione della società intorno al principio che esso ha violato (Durkheim, 1969, pp. 72-5). Contemporaneamente, il reato rappresenta anche una condizione indispensabile perché la morale possa trasformarsi, abbia «la plasmabilità necessaria per assumere una forma nuova» (ivi, p. 76). In effetti, la normalità del crimine costituisce solo il caso particolare dell’applicazione di una regola di carattere più generale, per cui «è socialmente normale che ci siano in tutte le società degli individui psicologicamente anormali» (Durkheim, 1895, p. 522). Ecco allora che «il criminale non appare più come un essere radicalmente non-socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno 66 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 67 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE alla società; egli è invece un agente regolare della vita sociale» (Durkheim, 1969, p. 77). Cambiando la concezione del crimine, occorreva rinnovare anche la teoria della pena. Se il reato non è una malattia, la pena non ne è la cura e occorre allora cercarne altrove la “vera funzione” (ivi, pp. 77-8). La devianza, il reato, la punizione, sono “fatti sociali” e, come tali, si compiono nella società, per effetto delle sue strutture coercitive e dei suoi meccanismi sanzionatori; ed è a partire da questi ultimi che debbono pertanto essere spiegati. In particolare, poiché la pena «è conseguenza del crimine ed esprime la maniera in cui questo ha impressionato la coscienza pubblica, è nell’evoluzione del crimine che occorre cercare la causa che ha determinato l’evoluzione della penalità» (Durkheim, 1901, p. 86, trad. it. parz. in Santoro, 2004, pp. 177-93, corsivo mio). Durkheim espose forse la prima spiegazione pienamente sociologica del fatto penale nelle società industriali, cercando, all’interno delle strutture che reggono le particolari forme della società, i principi analitici utili a rendere conto dell’effettiva funzione della pena (Dal Lago, 1981, p. 65). Egli oppose alla concezione positivistica della pena come strumento di prevenzione una funzione simbolica o comunicativa della pena (Garland, 1999, pp. 82-3) che deve e può essere calibrata sulla sensibilità propria di ciascuna società. Nella concezione di Durkheim la pena deriva dal reato6, dalla sua natura di atto che «offende gli stati forti e definiti della coscienza collettiva» (Durkheim, 1962, p. 102). In maniera simmetrica i caratteri della pena derivano proprio da questa stessa natura del reato, e dunque ciò che essa sanziona è ciò che esprime le «più fondamentali uniformità sociali» (ivi, p. 123). Durkheim riconosce alla pena una propria utilità particolare. Nonostante proceda «da una reazione del tutto meccanica e da movimenti passionali, e in gran parte irriflessi» (ivi, pp. 125-6), essa ha tuttavia una propria specifica funzione sociale, che però non è quella, apparente, rivolta al crimine o al criminale: «La pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori; da questo duplice punto di vista è giustamente dubbia, e in ogni caso mediocre. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità» (ivi, p. 126). E per farlo essa deve infliggere dolore al colpevole, che deve soffrire in misura proporzionale all’offesa arrecata ai sentimenti collettivi, alla coscienza morale. Ma se i caratteri della pena derivano da questa offesa, essa non è immutabile e definita universalmente una volta per tutte. La pena muta al mutare della coscienza comune, e dunque è diversa nelle diverse società, e cambia nel tempo. Nello scritto sulle Due leggi dell’evoluzione penale Durkheim individuò una “legge delle variazioni quantitative” della pena, secondo cui l’intensità della pena è inversamente proporzionale al grado di civiltà (definito 67 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 68 ANDREA MOLTENI nell’ambito di un paradigma evolutivo) di una società, e una “legge delle variazioni qualitative” per cui le pene privative della libertà, come il carcere, tendono a divenire la forma più diffusa di repressione penale. Durkheim vide la variazione qualitativa come un caso particolare di quella quantitativa e legò dunque l’espansione del modello penitenziario alla forma che la società aveva assunto all’interno di uno schema evolutivo e, in ultima analisi, alla forma delle strutture sociali e politiche che la reggevano (Durkheim, 1901; cfr. anche: Santoro, 2004, pp. 26-40; Garland, 1999, pp. 61-121; Melossi, 2002, pp. 87-8). 6.7 Riconoscere e identificare La riflessione di Durkheim sul delitto e sulla pena, così come quella sul normale e sul patologico, non coincisero con un declino delle teorie antropometriche sul crimine, che, anzi, incontrandosi e intrecciandosi con lo sviluppo delle leggi statistiche sulla distribuzione della “normalità”, ebbero una profonda influenza ben riconoscibile ancora oggi. Fu con esse che giunse a compimento quel processo, avviato più di un secolo prima, di raccolta, organizzazione e centralizzazione delle informazioni di polizia su ciascun individuo arrestato o sospettato. La raccolta di dossier personali e l’archiviazione di informazioni minute sui singoli individui finirono per produrre particolari tipi di persone, e dunque anche specifiche misure per “trattarli”. In particolare, per quel che qui ci interessa, un effetto di questo «investimento permanente per mezzo della scrittura, che […] dà il via alla costituzione delle biografie, o per meglio dire, delle identità poliziesche delle persone» (Foucault, 2004, p. 59), fu la comparsa di un tipo nuovo di criminale: il recidivo. Non che la recidiva criminale fosse un problema completamente nuovo o sconosciuto, solo che a quel punto si pose in maniera differente e richiese nuovi o rinnovati saperi che ne rendessero possibile il governo scientifico e razionale, l’esercizio di un “potere epistemologico” che fosse capace «di ottenere un sapere da questi individui e di ottenere un sapere su questi individui […] che nasce dall’osservazione degli individui, dalla loro classificazione, dalla registrazione e dall’analisi dei loro comportamenti, dal loro raffronto» (Foucault, 1997, p. 160). Porre il problema della recidiva criminale non è sufficiente se non si dispone di adeguati sistemi e strumenti di riconoscimento e identificazione. Attorno al 1880, Alphonse Bertillon perfezionò, proprio a questo scopo, il suo metodo di identificazione, basato su una scrupolosa raccolta e annotazione di una serie di misure antropometriche, che accompagnavano il ritratto fotografico di fronte e di profilo, dando origine a un “ritratto parlato”. Oltre ad 68 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 69 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE alcune misure fissate rigorosamente (attraverso una complessa procedura di misurazione e la definizione di un preciso vocabolario per descriverle), venivano annotati eventuali segni particolari e una descrizione più generale (ma ben organizzata) dell’individuo ritratto. Il sistema, che divenne noto come bertillonage, risultò efficace e si diffuse rapidamente come strumento di identificazione a disposizione delle forze di polizia. Il bertillonage ricevette il plauso di Lombroso, che lo indicò come il più geniale tra tutti i sistemi escogitati per una identificazione scientifica degli imputati (Lombroso, 1924). Nonostante Bertillon fosse interessato, come funzionario di polizia, soprattutto a sviluppare uno strumento efficiente per l’individuazione dei recidivi, il suo metodo in qualche misura rinforzò la speranza degli antropologi criminali di poter scovare, marcato sul corpo dei “criminali nati”, il segno e la prova di una tendenza innata al crimine (Cole, 2001, pp. 57-9). Anche Francis Galton ebbe occasione di ammirare il sistema di identificazione criminale di Bertillon, sistema che già aveva studiato accuratamente e che vide all’opera durante una breve visita a Parigi (Galton, 1889, 1892, 1908; Pearson, 1930). Fu proprio a partire dalle riflessioni riguardo al problema dell’identificazione che Galton sviluppò due strumenti che avrebbero avuto profonda influenza e un successo duraturo. Innanzitutto Galton riteneva che il sistema di Bertillon fosse ridondante, dato che le diverse misure raccolte non erano indipendenti l’una dall’altra. Dopo aver raccolto le misure antropometriche di centinaia di persone durante l’International Health Exhibition del 1884, egli individuò il modo in cui erano correlate e riuscì a elaborare una definizione matematica della correlazione, che sarebbe poi stata ampiamente sviluppata dal suo allievo Karl Pearson (Hacking, 1994, pp. 273-83). D’altra parte lo riteneva anche, in certa misura, un metodo aleatorio, sia per la complessità delle procedure richieste per applicarlo correttamente, sia perché alcune di queste misure e osservazioni potevano cambiare significativamente nel corso della vita di una persona (Galton, 1892). Egli affermò piuttosto la superiorità dell’utilizzo delle impronte digitali come sistema per l’identificazione dei criminali recidivi, dato che, mentre il «bertillonage raramente è in grado di offrire qualcosa di più che il fondamento di un sospetto molto marcato, il metodo delle impronte digitali garantisce la certezza» (ivi, pp. 167-8). Sebbene le versioni aggiornate dei due sistemi di identificazione siano spesso state usate in associazione tra loro e costituiscano la radice epistemologica degli attuali, tecnologicamente sofisticati, sistemi di identificazione e riconoscimento biometrici, fu Galton ad avere successo sul “rivale” Bertillon, e fu il metodo basato sulle impronte digitali a costituire, da quel momento in poi, il principale strumento di identificazione e schedatura dei criminali (Cole, 2001; Rabinow, 1996, pp. 112-28; Hacking, 1994). 69 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 70 ANDREA MOLTENI All’eugenista Galton rimaneva però un rammarico: sebbene si fossero dimostrate un efficace strumento di identificazione, egli non riuscì a individuare nelle impronte alcuna traccia dell’appartenenza a una particolare “razza” o “classe”, alcuna indicazione dell’origine etnica e geografica, del temperamento, del carattere o delle capacità di un individuo, alcun segno che lo potesse collocare in una popolazione definita (Galton, 1892, pp. 192-7; Rabinow, 1996, pp. 114-5). Egli però non disperava che tali segni caratteristici avrebbero potuto essere ricavati in futuro, con il progredire delle tecniche e della ricerca etnologica7. 6.8 Note conclusive: uno sguardo all’orizzonte della modernità Nel 1982 James Q. Wilson e George L. Kelling pubblicarono, sull’“Atlantic Monthly”, un articolo in cui esponevano la loro teoria sulla necessità di scoraggiare e reprimere quei comportamenti percepiti come una minaccia o un fastidio e che, pur non essendo di per sé criminali, contribuiscono a creare un ambiente favorevole al crimine (Wilson, Kelling, 1982). L’articolo, che ebbe una notevole influenza, si intitolava Broken Windows, titolo che diede il nome alla teoria e alle politiche che ne scaturirono. Il senso di minaccia e di disordine è, per loro, prodotto dall’incuria per i luoghi e le proprietà (rappresentata appunto da quelle “finestre” che, rotta una, finiscono per essere rotte tutte) e dalla presenza di quelle persone “riottose” (disorderly) che, spesso trascurate dalle azioni di polizia, pure finiscono per alimentare un diffuso senso di paura. Si tratta di persone che non sono «violente, né, per forza, criminali, ma individui loschi o turbolenti o imprevedibili: accattoni, ubriaconi, tossicomani, giovani attaccabrighe, prostitute, oziosi, e malati di mente» (ibid.). Voler decriminalizzare questi comportamenti è, per Wilson e Kelling, un errore, dato che finisce per togliere alla polizia uno strumento utile a mantenere l’ordine in un determinato quartiere. Sebbene la repressione di un comportamento di questo tipo possa sembrare ingiusta o eccessiva in ciascun singolo caso, la tolleranza non avrebbe senso come regola universale e generalmente applicata proprio perché «sarebbe incapace di tenere in considerazione la relazione tra una finestra rotta abbandonata all’incuria e migliaia di finestre rotte» (ibid.). Perciò la polizia dovrebbe garantire una maggiore presenza di pattuglie a piedi (foot patrol) nei quartieri, proteggere le comunità oltre che gli individui e non «aderire troppo alla svelta a campagne di decriminalizzazione dei comportamenti “inoffensivi”» (ibid.). Venticinque anni dopo, sullo stesso periodico, Wilson e Kelling hanno ribadito la loro proposta in un breve nuovo articolo dal titolo emblematico: Decency (Wilson, 70 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 6. 15-03-2010 16:49 Pagina 71 CRIMINE, CARCERE E QUESTIONE SOCIALE Kelling, 2007). Aggiornata la lista dei comportamenti che producono disordine sociale (con l’aggiunta dei graffiti alla vecchia lista che comprendeva già alcolizzati, mendicanti, prostitute e gang giovanili), i due autori hanno ribadito la necessità di scoraggiare8 questi comportamenti, anche sulla scorta di evidenze scientifiche che, sebbene non risolutive, sono, a loro parere, incoraggianti in questo senso9. Riflettendo su quanta libertà possa essere sacrificata per avere strade ordinate e libere da comportamenti molesti o presenze indecorose essi concludono che «la vera libertà è favorita da condizioni ambientali di decenza pubblica e ostacolata da negligenza e disordine» (ibid.). Questo accento moraleggiante e questo richiamo a una comunità quieta non imbevono solo le teorie e le politiche neoliberali in materia penale, ma corrispondono a un ethos più generale che riguarda anche i processi di individualizzazione e contrattualizzazione delle politiche sociali (e, ormai sempre più, anche di quelle penali) che spesso rischia di assumere i toni e la forma di una vera e propria ortopedia sociale (de Leonardis, 2009). Ci troviamo di fronte a un esempio attuale di quelle forme e meccanismi di classificazione politici, scientifici e tecnici che supportano le retoriche sulla sicurezza urbana e che generano contemporaneamente sia quei “comodi nemici” contro i quali la società “va difesa”, sia una popolazione impaurita, composta da (reali o potenziali) vittime del crimine, dipinte come attanagliate da una continua sensazione di pericolo. Gli stessi meccanismi di controllo operano anche come strumenti per la repressione e la punizione, con l’obiettivo di garantire l’identificazione e la “rintracciabilità” (impronte digitali e genetiche, banche dati, sistemi di videosorveglianza) di chi compie l’atto considerato criminale, o comunque oggetto di repressione penale, e di individuare popolazioni e gruppi da sottoporre a particolare controllo indipendentemente dal comportamento realmente agito (si pensi, ad es., ai “centri di identificazione” per migranti). Anche queste strategie si fondano su processi e meccanismi di classificazione che orientano e organizzano la raccolta delle informazioni e la loro gestione (Bigo, 2006; Cole, 2001; Harcourt, 2007; Simon, 2008) e che finiscono per imputare a ciascun individuo la responsabilità di garantire l’incolumità a sé stesso e ai propri beni, adottando strumenti di protezione e stili di vita che riducano il più possibile tali rischi (Castel, 2004; Sofsky, 2005) oppure che puntano alla deterrenza (attraverso la presenza visibile di forze di polizia, militari, guardie private, “ronde”) e all’incapacitazione (impedimento all’accesso a particolari luoghi, o risorse, o atti, attraverso, ad es., forme di contenzione o reclusione preventiva). L’attenzione, in questi casi, non è rivolta soltanto alla prevenzione dei reati, ma anche, e sempre più, a quei comportamenti che minacciano l’ordine e la decenza e che sono rappresentati come prodromi della criminalità predatoria e violenta. 71 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 72 ANDREA MOLTENI Note 1.@«Non tanto per il piacere dell’ozio, quanto per la mancanza di un lavoro, vagano sfaccendati e affamati». La frase, citata da Liva (1995, p. 325), è tratta da una lettera che il presidente del senato di Milano inviò, nel gennaio del 1695, al governatore. La lettera è conservata presso l’Archivio di Stato di Milano. 2.@Pietro Custodi, nella sua continuazione della Storia di Milano del Verri, chiosa il racconto del «torrente delle innovazioni» promosse dal governo austriaco attorno al 1786 in questo modo: «Con saggio intendimento fu deciso di togliere la mendicità questuante, ma non si provvide a sufficienza per renderla operosa. Perciò i cittadini con compassione ed isbigottimento videro gli agenti della Police dare la caccia ai pitocchi per le strade e strascinarli in carcere; ma per risparmiare il pane che consumavano, rilasciavansi in breve con giuramento di non più mendicare; quindi, con quasi ridicola vicenda, imprigionavansi di nuovo per aver contravvenuto al giuramento, costretti dalla necessità» (Verri, 1851, p. 382). 3.@È Polanyi che definisce in questo modo il Panopticon benthamiano, citando Sir Leslie Stephen che, nel primo dei tre volumi che compongono The English Utilitarians, scrive: «Bentham si era unito al fratello e insieme erano alla ricerca di una macchina a vapore. Ora gli era venuto in mente di impiegare i detenuti al posto del vapore, combinando così la filantropia con gli affari» (Polanyi, 2000, p. 135). 4.@Lombroso amò raccontare così la propria “scoperta”: «Mi parve d’improvviso di vedere, risaltante e chiaramente illuminato come un’ampia pianura sotto un sole fiammeggiante, il problema della natura del criminale, che riproduce in epoche civili le caratteristiche non solo dei selvaggi primitivi, ma anche di tipi ancora inferiori giù giù fino ai carnivori» (cit. in Gibson, 2004, p. 21). 5.@Tra il 1885 e il 1892 si tennero, a Roma, Parigi e Bruxelles, i primi tre congressi di antropologia criminale. In questo arco di tempo si acuirono le polemiche tra l’approccio sociologico francese e quello della scuola italiana, tanto che i francesi boicottarono (per lo più) il terzo congresso, che si svolse a Bruxelles nel 1892 (Hacking, 1994, p. 263). 6.@Per Durkheim è anzi proprio il fatto di determinare una pena ciò che caratterizza il reato (Durkheim, 1962, p. 106). 7.@Speranza che non è stata delusa, sia per quel che riguarda le impronte digitali (e altri dati biometrici) (cfr. Cole 2001, pp. 106 ss.; per quel che riguarda la salute cfr. anche Mordini, Ottolini, 2007), sia, prepotentemente, con lo sviluppo del DNA fingerprinting, ossia l’“impronta” genetica. 8.@Wilson e Kelling chiariscono, in quest’ultimo articolo, che non è quasi mai necessario arrivare all’arresto, in questi casi, ma che spesso è sufficiente un fermo ammonimento. 9.@Per un’analisi critica cfr. invece Harcourt e Ludwig (2006). 72 Massari_Molteni_def_XP7.qxd:Massari_Molteni_1B_XP7 15-03-2010 16:49 Pagina 209 Bibliografia AA.VV. (1985), Risoluzioni del XIII Congresso Internazionale di diritto penale sul tema “Diversion e Mediazione” (Cairo, 1-7 ottobre 1984), trad. di F. Ruggieri, in “Cassazione Penale”, 2-3, pp. 533-7. ALMQUIST L., DODD E. (2009), Mental Health Courts: A Guide to Research-Informed Policy and Practice, Council of State Governments Justice Center, Project supported by MacArthur Foundation, New York. 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