IL PELLEGRINAGGIO IN ONORE DI
MARIA SS. DELLA MONTAGNA DI POLSI
NELLA DIOCESI DI OPPIDO MAMERTINA-PALMI
Don Letterio Festa
Direttore dell’Archivio Storico della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi
Deputato di Storia Patria per la Calabria
Testimonianze del culto
Nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi sono antichi i rapporti storici
e le testimonianze del culto popolare di Maria SS. della Montagna, legato al
celebre Santuario aspromontano di Polsi. A solo titolo d’esempio, già nei primi
decenni del XIV secolo, Nicola, arcidiacono della Cattedrale di Oppido, ebbe
tra le mani un evangeliario appartenuto a Romano, monaco racendita di Polsi39,
mentre, nella seconda metà del Settecento, il vescovo Cesare Rossi nominava
protettore dell’eremo di Polsi il duca di Seminara e conte di Oppido Giovanni
Battista Spinelli40. Testimonianze stabili di tale culto possiamo trovarle, poi,
a Taurianova-Radicena, nella chiesa parrocchiale dedicata a Maria SS. delle
Grazie. A introdurre questa devozione nell’importante centro fu l’arciprete
Domenico Antonio Zerbi41, negli ultimi decenni del XVIII secolo, guarito da
una grave malattia per intercessione della Vergine d’Aspromonte. Il venerato
simulacro ligneo, opera dello scultore settecentesco Michele Salerno di Serra,
il 9 agosto 1894, mosse gli occhi e le palpebre di fronte ad una numerosa folla.
La tradizione attribuisce all’imponente statua diversi miracoli, testimoniati da
illustri personaggi come il latinista Francesco Sofia Alessio42. A Galatro, invece, esistono due chiese: una nel centro storico e una in contrada Castellace,
eretta recentemente presso un’antica Cona, nella quale si trova un’immagine
della Madonna della Montagna a cui il celebre prete liberale, Antonino Mar-
Cfr. GIUSEPPE PIGNATARO, «Polsi verso la fine del secolo XVII», in Historica, XXIV
(1971) 1, p. 48. «Racenditi si chiamavano, in alcuni monasteri greci, coloro che, durante il
periodo di probandato, indossavano la rake cioè un rude saio di lana e la cocolla» (Ibidem).
40
Cfr. ivi, p. 53.
41
Rientrando a Taurianova da Capistrano, dove era stato parroco e dove avvenne la miracolosa guarigione per intercessione della Vergine di Polsi, l’arciprete Zerbi volle portare a
Radicena una statua simile a quella con questo titolo venerata a Capistrano, e oggi custodita
nella chiesa dei Cappuccini.
42
Cfr. VINCENZO ALAMPI, Viva Maria! La Madonna della montagna e la sua festa a
Radicena-Taurianova dall’inizio del culto fino al Centenario del miracolo e all’Incoronazione,
Edizioni Associazione culturale “Aracne”, Taurianova 1994.
39
42
tino43, mentre agonizzante veniva portato in barella verso Galatro da Caridà,
dove reggeva l’Arcipretura, per esalare l’ultimo respiro là dove era nato, dedicò
alcuni suggestivi versi, dipinti sull’abside del venerabile luogo di culto: IO DEI
MONTI SON LA DIVA / CHE PROTEGGO IL PIO PASTOR / IL VILLANO
IL PASSEGGERO / IL PAZIENTE CACCIATOR / VIATOR CHE PASSI /
ALL’INCLITA MARIANA MAESTÀ / PIEGA IL GINOCCHIO ED OFFRI /
AMORE E FEDELTÀ.
Anche qui si celebra ogni anno una partecipata festa tra il centro del paese
e la contrada Castellace, nota anche come “a festa di melangiani chini”44 e
caratterizzata, inoltre, dall’accensione di fuochi votivi, secondo un’antichissima usanza che si perde nella notte dei tempi45. In passato si celebrava anche
una fiera il 6 e il 7 settembre46. La venerata effigie, opera dell’illustre scultore
Domenico De Lorenzo di Garopoli, nel 1924 fu ornata con un artistico baldacchino in metallo dorato, opera della rinomata Ditta Bertarelli di Milano,
offerto dagli emigrati galatresi negli Stati Uniti. La stessa Ditta realizzò le corone d’oro con cui la venerata effigie fu incoronata nel 1956 da mons. Vincenzo
De Chiara, vescovo di Mileto47. A San Giorgio Morgeto esiste una pittoresca
chiesa, dedicata a Maria SS. della Montagna che sorge in località Melìa:
«Questa antica cittadina ha voluto creare nel suo ambito un po’ tutta
l’atmosfera polsiana, costruendo nella piccola valle di contrada Melìa,
presso un torrentello, nel folto della vegetazione, una chiesetta dedicata
alla Madonna di Polsi (la chèsia di la Milìa). A San Giorgio si racconta
che la chiesetta sorge nel punto preciso in cui sarebbe stato trovato
l’antico quadro della Madonna che, nel secolo scorso, vi ha alimentato
la devozione Mariana, datato 189148. Il culto è stato ravvivato in questo
secolo da un procuratore, noto col tipico nome locale, Pascali di Pettinu,
che così anche si firmò in una piccola iscrizione posta ai piedi della statua venerata nella chiesa: FRA QUESTI MONTI ANCORA IL NOME
TUO SI ONORA PETTINO PASQUALE».
43
Cfr. LETTERIO FESTA, «ANTONINO MARTINO», in Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea, consultabile su Internet al seguente link: https://www.icsaicstoria.it/
dizionario/martino-antonino/
44
Cfr. UMBERTO DI STILO, Una chiesa, una Parrocchia. Il secolare culto di Maria SS.
della montagna a Galatro, Edidisum, Galatro 2014.
45
Cfr. ANTONINO BASILE, «I falò di Galatro per la Madonna della montagna», in
Folklore della Calabria, Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 1990, pp. 43-44.
46
Cfr. SALVATORE GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte, Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1974, p. 459.
47
Ivi, p. 461.
48
Questo quadro, posto sull’altare maggiore della chiesetta, fu commissionato dal sacerdote Antonino Muratore.
43
Nei primi decenni del Novecento un voto della famiglia Oliva ha mantenuto la lampada della Madonna49. Secondo una viva tradizione orale, inoltre,
la chiesa precedente all’attuale, diruta dal terremoto del 1783, riproduceva,
anche nelle linee architettoniche, quella di Polsi, ma di dimensioni più piccole,
e anche l’antica statua sarebbe addirittura una “gemella” di quella del Santuario aspromontano, giunta a San Giorgio nello stesso momento in cui l’altra
arrivava a Polsi50. Per rafforzare il forte vincolo tra la Comunità sangiorgese e
Polsi, la chiesetta della Melìa è stata recentemente gemellata con il Santuario
aspromontano come ricorda una lapide marmorea apposta per l’occasione:
QUESTO VENERABILE LUOGO SANTO / DEDICATO DAI NOSTRI
PADRI / AL CULTO MARIANO / IL 28 APRILE 2023 / VENNE GEMELLATO / CON L’ANTICO CELEBRE / SANTUARIO DI POLSI / IN MEMORIA
DEL COMUNE AMORE PER / MARIA SS. DELLA MONTAGNA / AUSPICI
I SACERDOTI / DON ANTONIO SORRENTINO PARROCO / E DON TONINO SARACO RETTORE / E A DEVOZIONE DEL COMITATO FESTA / E
DELLE CAROVANE MISTERI DELLA GIOIA / E MISTERI DELLA LUCE/
AFFINCHE’ POSSA CONTINUARE AD ONORARSI / IN QUESTE VALLI
ASPROMONTANE IL SS. NOME DI MARIA.
Sul Monte Sant’Elia a Palmi, si trova, poi, un altro luogo di culto, posto su
una suggestiva altura che domina la Piana e si tuffa nel mare e dove si venera
una pregevole scultura lignea, opera dei celebri scultori di Ortisei e realizzata
per devozione del canonico Girolamo Giuseppe Speranza di Barritteri. Quindi, a Cinquefrondi, troviamo la chiesetta rurale in contrada Perciana, dedicata
alla Vergine d’Aspromonte dalla famiglia Albanese e fulcro di una festività
popolare celebrata nella terza settimana di settembre e un altare dedicato a
questo titolo nella chiesa del Carmine, sul quale si trova un quadro identico a
quello custodito a Polistena e realizzato per devozione dal canonico Francesco
Manferoce nel 1845.Testimonianze documentate del culto troviamo, infine, a
Polistena, dove, nella chiesa Matrice, esiste una tela, datata 1832 e realizzata
per devozione del canonico Francesco Zerbi51.
Ivi, p. 463.
Sul muro della chiesetta, recentemente restaurata dai sangiorgesi a cura del parroco,
Sac. Antonio Sorrentino, e del Comitato, si trova una lapide con i versi del poeta miletese
Luigi Polistena, dedicati al sac. Antonino Albanese con il titolo Chiesina campestre:
49
50
«FRA LA VALLATA OMBROSA DEL MELIA
E IL FIUME CHE SFIORA DOLCEMENTE
S’ERGE MODESTO IL TEMPIO DI MARIA
CHE LA PIETA’ VI POSE DI SUA GENTE»
Cfr. GIOVANNI RUSSO, Polistenesi a Polsi. Storia e immagini di una devozione popolare, Tipolitografia Diaco, Bovalino 2001. Questo testo riporta, tra tante utili notizie, anche
una vasta bibliografia ed un’importante appendice fotografica che può illustrare benissimo
51
44
Il pellegrinaggio a Polsi
L’illustre padre Giovanni Fiore da Cropani, nella sua opera pubblicata
nel 1743, affermava che il Santuario di Polsi era «frequentato dalla gente più
lontana»52 e, sulla stessa linea, cantò con i suoi versi immortali il taurianovese
Francesco Sofia Alessio: «Teque petunt calabrae gentes, neque poenitet illas /
sustinuisse viae montanae tedia longa. / Huc ad te properant, aestate valente,
fideles, / agmina densa gradu scandunt iuga celsa citato / per salebras vadunt
celere sed opaca locorum»53. Di questo singolare pellegrinaggio, ci ha lasciato
un’efficace descrizione il celebre Corrado Alvaro, “calabrese di San Luca”54:
«Dal 31 agosto al 2 settembre di ogni anno, le montagne che coronano
Polsi echeggiano di canti e di suoni. Dai versanti di oriente, di mezzogiorno e di settentrione vanno i fedeli in lunga teoria. Sembran carovane
di gente che abbandonino il loro paese e si trasportino tutto, le loro tradizioni e le cose più care. L’occhio vede confusamente andare un popolo
che ha comuni i bisogni e gli intenti, perdersi sotto gli alberi curvati
sotto le profonde cascate, procedere lentamente per le vie serpeggianti
della montagna, tutti guardano laggiù nella valle e si additano, l’uno
all’altro, le piccole case bianche. Alcuni pellegrini portano nelle bisacce
il pane, gli alimenti che li nutriranno durante la festa, le carovane dei
muli sono cariche e da un ammasso di penitenti e di pellegrini i canti
sorvolano e l’eco li ripete di balza in balza, come un suon di campane
che si ripercuote da un campanile all’altro. Quando su da un’altura i
fedeli vedono il Santuario, annidato nel fondo della valle, gridano con
gli usi dei pellegrini della Piana nel Santuario aspromontano. Un’altra tela, opera dell’artista
ottocentesco polistenese Nicola Rodinò Toscano, simile a quella custodita nella Matrice, si
trovava nell’abitazione della famiglia dell’arciprete Domenico Rodinò Toscano. Una singolare
ed efficace raccolta di cartoline che altrettanto bene può accompagnare lo studio sul fenomeno polsiano la possiamo trovare in RAFFAELE LEUZZI, Saluti da Polsi. Scritti e ricordi tra le
immagini, Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 2006.
52
Della Calabria illustrata. Opera varia istorica del m. r. p. Giovanni Fiore da Cropani,
Stamperia Domenico Roselli, Napoli MDCCXLIII, tomo secondo, p. 265.
53
FRANCESCO SOFIA ALESSIO, Feriae Montanae: Feste in Aspromonte presso il Santuario della SS. Vergine di Polsi. Poemetto latino approvato con la magna laude nel concorso poetico Hoeuffiano di Amsterdam nell’anno MCMXXXVI, Tipografia degli Orfanelli, Polistena
1936, p. 6. Degli stessi versi, offriamo la traduzione del prof. Ugo Verzì Borgese: «E si volgono
a te tutte quante le genti calabre / che sopportano i lunghi disagi del viaggio montano / e, con
passo veloce, ascendono le alte montagne / attraverso irti clivi ed attraverso opachi boschi». (In
UGO VERZÌ BORGESE, Polsiana. Arte e Fede per la Vergine di Polsi, Centro Studi Medmei,
Rosarno 2006, p. 425). Questo singolare testo del poeta rosarnese è «un commento lirico
composto da 6000 versi; un libro impreziosito da 1000 immagini; un quadro panoramico;
un’esegesi puntuale; un canto esaltante, amoroso, sensibile; un viatico bello; una ricostruzione
attenta; un opera grandiosa; una rivisitazione storico-poetica; un libro bello» (Ivi, p. 2) che
non si può dimenticare parlando del culto polsiano nella Piana.
54
Lapide posta sulla facciata della casa romana dell’illustre letterato nel 2006, a cura della
Fondazione “Corrado Alvaro”.
45
l’amore e la fede degli antichi naviganti che dal Pireo salutavano la comune madre Atena: Viva Maria! Alcuni hanno nudi il petto, altri hanno
cinto il capo di spine, altri sono vestiti da pellegrini e tutti cantano,
non mai stanchi e par che dal lungo viaggio li rinfranchi la canzone
dettata da un rapsodo occulto ch’è il più grande: l’animo del popolo.
Quasi tutti i pellegrini portano fucili, perché in questa festa i fuochi
artificiali non turbano le sane ombre della montagna. L’arma, perlopiù
dei loro padri, dà a tutti un incedere sostenuto e su quei vecchi fucili
borbonici gli uomini, nella carica, si piegano vigorosamente sulla verga.
Poi il bagliore, il colpo, il fumo di cento, di ventimila bocche di ferro
feriscono l’aria. E il silenzio accoglie il rombo, propagandolo da parte
a parte. Il pellegrinaggio, alcune volte, sembra una fantasia orientale: le
donne scalze, con le ceste sul capo, nelle quali sono i bimbi che dormono sognando e che le madri alzeranno in segno di offerta alla Vergine.
In altri punti, il pellegrinaggio sembra una processione: molti vanno
con i ceri votivi piamente cantando, con la cadenza del canto nel passo.
Essi giungono al Santuario che ogni anno visitano con la stessa fede,
con la stessa intensa commozione, perché, su quel popolo prostrato che
si picchia il petto e prega, su quelle donne che strisciano la lingua sul
pavimento, la fede impera sovrana. Le vecchie balze di Aspromonte son
piene di gente; dovunque, tra i castagni, sui dirupi, sul letto del fiume,
sulle vie, un groviglio di bestie tarde e di uomini dormienti occupano il
terreno. Nuovi pellegrini giungeranno incessantemente giorno e notte,
con il canto fatidico sulle labbra, perché la nuova sacra epopea fiorisca
da tutti i cuori. Il primo ed il secondo giorno di settembre, Polsi riceve
nella sua valle più di ventimila persone. Immaginate ventimila uomini
pieni di fede, di forza e di brio: ventimila uomini che non dormono
mai! Per le vie e sotto i castagni sono improvvisate osterie: si può dire
che sia tutto un accampamento. Il giorno della festa, nella chiesa si sente
una continua implorazione: lì vi son muti che gesticolano, chiedendo
la grazia della parola; paralitici che invocano dolorosamente di potersi
muovere: tutta l’implorazione della fede e del dolore è annidata fra pochi muri. Su tutto regna l’elegia cantata dalle donne. Tra la calca, alcuni
armenti sono portati in voto dentro la chiesa e gli animali, quasi fossero
compresi della grandezza nella quale si trovano, piegano le ginocchia sui
gradini dell’altare. I buoi piegano il collo legato da un nastro e il timido
pastore li guarda, ripone la berretta nella tasca e prega anche lui per le
cose più care, per i suoi armenti e quell’umile vestito di orbace, nella
prostrazione, si confonde con il vello delle agnelle. Alcuni uomini si
avanzano coi fucili rotti durante lo sparo ed essendone rimasti incolumi,
li offrono alla Regina dei monti che dal suo soglio abbraccia con l’occhio
tutta la turba».55
55
46
CORRADO ALVARO, Polsi nell’arte, nella leggenda, nella storia, Tipografia Serafino,
Le Carovane della Piana
Una lettera scritta da Radicena il 21 agosto 1891, ci tramanda, poi, i particolari del pellegrinaggio delle antiche Carovane che partivano dai paesi della
Piana per recarsi a Polsi:
«Esse partono per ogni settimana, in una notte fissata, con un fracasso
di schioppettate che spezzerebbe anche il sonno dell’orco della favola.
Sono dei petardi che talvolta scuotono le case e, per formarsi un’idea
pallidissima delle botte, bisogna figurarsi la sera della Vigilia di Natale
a Napoli; dove si giunge a sparare di un colpo, un’intera pentola di
polvere, chiusa a guisa di bomba. Ogni Carovana che parte ha la sua
fanfaretta. Per giungere al Santuario ci si impiegano diciotto ore circa.
Figurarsi sotto il sole d’agosto! Ma le noie del viaggio non si avvertono,
in mezzo ad una gita di tripudio, dove i sessi e le classi si raggruppano
per l’idea. Né poi la strada è monotona. Tutt’altro. Valli, colline, montagne, boschi, pianure, si succedono con una varietà ed un prodigio di
ottica. Al panorama magnifico, alquanto bizzarro e sconfinato, succede
assai spesso l’abetaia, in mezzo a cui la Carovana si caccia come in un
buco profondissimo d’ombra. Abeti secolari che mugghiano come il
mare al più lieve soffio di vento: faggi sterminati e decrepiti, dalla scorza
vellutata e macchiata largamente, come la pelle dei conigli, in mezzo a
cui sovente osservansi tracce di nomi incisi, di antiche lettere: vecchie
cicatrici, formate da una specie di connettivo di nuovo genere. All’Acqua
del faggio è il primo “Alt!” della Carovana, dove si fa colazione sotto
un’ombra fitta. Colà quante risate, quante gaiezze, quanti pensieri birichini, quante esclamazioni, quanti ricordi, fra un boccone ed un goccio
di vino! Quante occhiate buttate qua e là, in mezzo ad una folla seduta
a mucchi e nella quale sfolgorano visini rossi, luccicano chiome nere e
fitte, lampeggiano occhietti di fuoco! Che note acute, che sorrisi, che
scoppi tracotanti, che suoni metallici! Poi di là succede la fermata di
riposo detta Il Prete, sopra una cresta d’Aspromonte nuda, ove par di
sentire il rovaio che nell’inverno ora fischia sinistramente, ora mugola
come una lupa affamata che sale su dalle scoscese. Si chiama appunto
Il Prete perché giusto lì un povero prete, viaggiando, moriva di freddo.
Le Carovane che ci passano gridano: “Diamo fuoco al prete!” E ognuno
butta sulla terra, ove egli morì, un pezzo di ramo secco, portato dai boschi vicini. È la catasta presso cui lo spirito del prete dovrebbe scaldarsi
ogni notte. Poi si passa dall’Acqua della Pregna che la leggenda dice scaturita dalla rupe, dietro le preghiere di una donna incinta che si moriva
di sete. È una copiosa sorgente che sguscia in mezzo ad un burrone di
macigni, titanico, dove il sole non tocca mai il fondo. L’acqua è un vero
Gerace 1912, pp. 58-63.
47
ghiaccio. E poi di là a Polsi, al Santuario che sta in mezzo a una valle,
chiuso da montagne boscose. Montagne, sempre montagne, coperte di
scornabecchi, di abeti, di pini, di zappini e di faggi. Il Santuario per se
stesso non è nulla di grandioso. Un rozzo conventaccio, una chiesa. Ma
il bello sta nell’arrivo dei pellegrini. L’organo del convento e i cori di
uomini e di donne cantano l’Ave Maris Stella. Sono note che spingono
agli occhi le lacrime di un’ignota tenerezza. Dopo si va al riposo, fra la
frescura, lo stormire degli alberi, il rumoreggiare delle cascate e il belare
delle mandrie, sparse per quei macchioni a pendio»56.
Dinnanzi a simili manifestazioni di genuina pietà popolare, si domandava
mons. Giorgio Delrio, vescovo di Gerace:
«Quale virtù ha potuto cangiare la montagna inospite di Polsi in una
meta di annui pellegrinaggi che durano da secoli e che, lungi dall’affievolirsi come avviene delle cose terrene, si perpetuano piuttosto, si
consolidano e si accrescono? Che cosa è che determina queste migliaia
e migliaia di persone, vestite in diverse fogge, parlanti diverse favelle,
appartenenti a diverse stirpi, ad accorrere tutti gli anni al Santuario della
Vergine della montagna? A muovere così i popoli si richiede un potere
che non è umano, un’irradiazione di vita e di opere soprannaturali, un
fiotto incessante di favori celesti ed è ciò che ha fatto a Polsi la Vergine
Santa colle sue grazie e con i suoi prodigi»57.
Già nel 1731, tra i numerosi pellegrini che annualmente si recavano nel
sacro luogo, viene ricordato lo stesso vescovo di Gerace, mons. Ildefonso
«Pellegrinaggio al Santuario di Polsi», in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, XIII (1894) 1, pp. 259-261. Un’altra efficace e puntuale descrizione del pellegrinaggio
dei fedeli della Piana a Polsi è quella trasmessa dal polistenese Saverio Rodinò di Miglione,
scritta nel 1851 e recentemente riproposta da Giovanni Russo (RUSSO, Polistenesi a Polsi,
pp. 18-23). Mentre così più sinteticamente ne parlava l’illustre mons. Domenico Valensise,
anche lui polistenese: «L’andata del popol nostro al Santuario di Maria di Polsi, sito nella più
riposta e profonda vallata di Aspromonte, alla quale non si perviene che dopo due giorni di
disagevolissimo cammino, può ben dirsi un peregrinaggio che egli pratica costantemente in
ogni anno, associandosi a due e più centinaia. La devota Carovana muove fra spari, suoni e
canti religiosi che ne accrescono l’entusiasmo, del quale suol esser pieno un popolo che viaggia unito nella confidenza del Signore. Giunta al Santuario, nel primo giorno, riconciliasi con
Dio, deponendo a’ piedi di quei venerandi romiti le proprie peccata; nel secondo accostasi alla
Sacra Mensa e, sciolto così il sacro voto, in più lieta e fratellevole esultanza, ritorna alla patria.
Noi, checché ne dica il Guerrazzi, non possiamo che lodare questa cristiana pratica; sapendo bene che cosiffatte peregrinazioni, allorché si fanno con spirito di vera pietà e si ha cura
di renderle monde degli abusi, del libertinaggio e delle superstizioni, tornano utilissime alla
salute dell’anime» (DOMENICO VALENSISE, Monografia di Polistena, Tipografia Vincenzo
Marchese, Napoli 1863, p. 148).
57
Il Santuario di Polsi ed il suo cardinale protettore. Lettera pastorale di mons. Giorgio
Delrio, vescovo di Gerace, Tipografia del giornale “Il Sud”, Catanzaro 1919, p. 6-7.
56
48
Del Tufo, il primo presule di cui è nota la presenza a Polsi e che tanto fece e
realizzò per il Santuario, in nome della sua ardente devozione per la Vergine
della Montagna58 e, nel 1754, il canonico penitenziere Giuseppe Antonio
Parlà, aveva accennato alle migliaia di pellegrini che annualmente si recavano
al Santuario aspromontano, tra i quali non mancavano personaggi illustri
e distinti: «Quotannis festum peragitur pridie nonas septembris et plurima
hominum millia, inter quos dynstae non raro, aliique et genere et dignitate praestantes conveniunt» (Ogni anno si celebra la festa il giorno prima delle none
di settembre, e si radunano moltissime migliaia di persone, tra le quali non di
rado vi sono dinasti, e altre persone di elevata nascita e dignità )59.
Il Santuario
Il cittanovese Girolamo Raso ha così descritto quanto si presentava allo
sguardo del pellegrino, ormai giunto in prossimità della Valle di Polsi:
«Magnifico e meraviglioso era davvero il quadro che si scopriva di su
quelle vette al mio sguardo attonito. Di qua e di là aspri burroni, enormi
macigni, profondissime valli ed in fondo, poi, da una parte il Tirreno,
dall’altra il Jonio, sovente l’uno agitato mentre l’altro è tranquillo, presentando, insieme, la tempesta e la calma, fedele immagine dell’umana
vita! Mi stan dinnanzi monti accatastati a monti poi, lontano, lontano,
Tale visita fu minuziosamente descritta dal protopapa di Careri, Stefano Piteri De Napoli, in un manoscritto del 1732, scoperto dallo storiografo cittanovese Vincenzo De Cristo e
citato nel testo del Raschellà: «Saputasi di certo la venuta dell’illustrissimo e reverendissimo
monsignor Del Tufo, vescovo di Gerace, la sera delli 2 settembre precedente al felice pervigilio
della Vergine, si spararno molte volte li mortaretti e si fecero più e vari giochi di fuoco dai
signori Messinesi che con ansietà aspettavano il prelato. Il giorno poi seguente che fu alli 3 di
settembre sempre si stiede all’osservanza per l’accennata venuta e fu incredibile il giubilo di
tutti ma più dei signori Messinesi in sentirsi che monsignor di Gerace era vicino a giungere
al Santuario. Di subito uscì dalla chiesa il clero e attrovavasi in processione, precedendolo
uno squadrone di più di centoventi uomini armati, con tre tamburri, due trombette ed altri
sorti di istromenti, seguendolo col sagro vessillo della Vergine tutti li Messinesi in ordine di
processione. Fu ricevuto mons. Del Tufo col sparo di tutti li schioppi e mortaretti che sempre,
sin alla chiesa, replicaron il sparo; egli, posto sotto il baldacchino, accompagnato dai canonici di Gerace, portossi alla chiesa dove fatte le sue devozioni a Maria, ritirossi in camera
medesimamente col sparo di schioppi e mortaretti in segno di allegrezza con le solite acclamazioni di tutti li Messinesi che gridavan “Viva, viva Maria, viva Maria!”» (In VINCENZO
RASCHELLÀ, Nuove luci sul Santuario di Polsi, Scuola tipografica pontificia per i figli dei
carcerati, Pompei 1938, pp. 89-90). Il vescovo di Gerace, mons. Francesco Saverio Mangeruva (1872- 1905), essendo originario di Sinopoli, seguiva una via particolare per giungere a
Polsi: si recava in carrozza fino al Passo del Mercante, per poi proseguire in portantina fino
al Santuario, portato a braccia da 32 giovani di Scido, distribuiti in quattro turni. Pare che la
portantina si conservi ancora a Delianuova (Cfr. GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a
Polsi d’Aspromonte, p. 410).
59
In Constitutiones et acta Synodi Hieraciensis ab illustrissimus et reverendissimus domino Caesare Rossi episcopo celebratae diebus 10, 11 & 12 novembris 1754 cum appendice
vitisque episcoporum hieraciensium, Typis Vincentium Pauria, Neapoli MDCCLV, p. 347.
58
49
picchi coperti di eterne nevi e, da ultimo, un purissimo ed azzurro cielo
che chiudeva il quadro e mi lasciava alle spalle maestose ed immense
selve»60.
Francesco De Cristo, anche lui cittanovese, ha parlato, invece, di quanto si
poteva ammirare entrando nel cuore del luogo santo, la pittoresca chiesa con
al centro l’altare contenente la venerata effigie:
«Entrammo nella chiesa, illuminata da innumerevoli ceri, le cui luci
facevano rifulgere nella sua nicchia la Madonna della montagna, la
coronata statua di Maria che tiene sulle ginocchia il Divin Figliuolo,
tutti e due letteralmente coperti degli ex voto in oro che parecchi secoli
di fede ivi accumularono. La Vergine, ha uno sguardo indescrivibile,
quasi umano, affascinante, perduto nel vuoto e par che prometta ai
viandanti della vita, smarriti nel buio e nella tempesta, una sicura oasi
di tranquillità e di pace. Parecchie donne, venute da terre lontane con
i propri bimbi, erano sedute per terra, stanche, disfatte, in attitudine di
completa dedizione alla Vergine: coi figli addormentati sulle ginocchia,
fervidamente imploranti, costituivano dei veri gruppi scultorei che
avremmo volentieri dedicati alla speranza e alla fede»61.
Gli eremiti
Lo stesso autore, descrive gli eremiti62 che custodivano il Santuario e che
formavano uno degli elementi distintivi della tradizione polsiana perché,
GIROLAMO RASO, «Pellegrinaggio al Santuario di Polsi in Aspromonte», in Il Calabrese, I (1843) 1, p. 1.
61
FRANCESCO DE CRISTO, «La terza ascensione al Montalto-Agosto 1927», in Albori,
III (1927) 14-15, p. 5.
62
«L’eremita è un uomo divoto che si è ritirato nella solitudine, per meglio dedicarsi a Dio,
attendere all’orazione e alla contemplazione delle cose celesti ed ivi vivere lontano dal conversare del mondo» (GAETANO MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San
Pietro sino ai nostri giorni, Tipografia Emiliana, Venezia 1893, vol. XXII, p. 30). Gli eremiti o
romiti non emettevano i voti religiosi, non seguivano una regola specifica e non vivevano sotto un legittimo superiore ma vestivano semplicemente un abito religioso e vivevano in chiese,
solitamente poste ai margini delle città, lavorando un piccolo terreno che gli stava attorno,
alimentando le lampade votive ad olio e curando la pulizia e il decoro del luogo sacro. Intorno
al 1870, scriveva don Vincenzo Padula riguardo la loro presenza in Calabria: «Gli eremiti
prima erano molti, ora sono scemati di numero» (VINCENZO PADULA, Calabria prima e
dopo l’unità, Laterza, Roma-Bari 1977, vol. I, p. 12). «I veri eremiti lavorarono sempre e come
la loro vita era frugalissima, così il loro lavoro non solo somministrò sempre ad essi il sostentamento ma anche il modo di soccorrere i miserabili» (Enciclopedia dell’ecclesiastico ovvero
Dizionario della Teologia Dommatica e Morale, del Diritto Canonico, delle principali nozioni
bibliche, della Storia della Chiesa, de’ SS. Padri, dei grandi scrittori ecclesiastici, dei papi, dei
Concilii generali, degli scismi, delle eresie, della Liturgia. Opera compilata sulla Biblioteca
sacra dei pp. Richard e Giraud sul Dizionario enciclopedico della Teologia di Bergier e su altre
opere di scrittori chiarissimi, Stamperia di G. Ranucci, Napoli 1845, vol. I, p. 747).
60
50
durante l’anno, essi si portavano nei diversi paesi per effettuare la questua63
degli alimenti che sarebbero serviti a sfamare la Comunità e i pellegrini che
giungevano nel sacro speco:
«Seduto ai piedi di un arco, nell’antico chiostro, colpito in pieno dal
sole, sullo sfondo nero del corridoio, era fra Gioacchino, il Cannavaro,
magnifica figura di eremita, dalla testa pelata e dalla candida barba a
ventaglio. Coperto del rozzo saio di albagio con sul petto il simulacro
in rame della Madonna della montagna, il volto e la fronte corrugati dai
solchi che vi incidono il tempo e le privazioni, rappresentava per noi “un
numero” di prim’ordine che avrebbe figurato nelle nostre collezioni. In
pochi secondi, l’otturatore della Voigtlander scattò con grande soddisfazione del Cannavaro che ci pregò, con i gesti e con la mimica - è sordo e
quasi muto - a fare un’altra fotografia, più grande, per la carta d’identità.
Potevamo non accontentarlo?»64
Un’altra bella descrizione di questi religiosi la offre Corrado Alvaro: «Questi frati portano sul petto l’immagine della Madonna in una grande lastra di
rame, consumata dai baci. Poi, al tempo suo, ricambiano i donatori di offerte al
Santuario con le noci e le castagne del Convento che ha per vecchio privilegio
boschi di questi alberi»65. Precisa, inoltre, il canonico Giuseppe Pignataro:
«I questuanti che impropriamente prendono il nome di frati, (volgarmente, in alcuni luoghi, vengono designati col nome di patruzzi),
possono essere degli uomini con famiglia a carico, alla quale ritornano
trascorso il tempo del servizio promesso. Altri collettori sono ingaggiati a percentuale sul raccolto. Polsi ha un’organizzazione economica
rudimentale della quale fa parte, nei paesi di devozione, un’abitazione,
che si denomina Ospizio, dove soggiornano i busconi di transito con
le loro bestie e le loro scorte di viveri. La chiave dell’abitazione resta
in consegna al procuratore che rappresenta localmente il Santuario. Ai
procuratori spetta dirigere i pellegrinaggi e trattare gli eventuali interes63
«Questua, in senso generico, significa l’azione di chi va mendicando: stipem quotannis
emendicare a populo (Svetonio); in senso proprio indica l’azione di chi gira allo scopo di raccogliere elemosine per sé o per altri, a fine soprattutto pio. In Diritto canonico indica il diritto
o privilegio di cui godono alcuni Ordini religiosi, detti, appunto, mendicanti, di poter andare
a chiedere elemosine per il sostentamento dei religiosi o per l’attività del Convento. Il Concilio
di Trento (sess. XXI, cap. 9) allo scopo di togliere abusi che si verificavano a causa delle questue esercitate dai religiosi, tentò di abolire il nome e l’uso della questua ma già sotto il pontificato di Pio V, atteso il fatto soprattutto che una simile proibizione recava non pochi danni
agli Ordini mendicanti, non si volle negare ad essi l’esercizio di questo diritto» (Enciclopedia
cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il Libro cattolico, Città del Vaticano 1953, p. 407).
64
DE CRISTO, «La terza ascensione al Montalto-Agosto 1927», p. 5.
65
CORRADO ALVARO, Calabria, Nemi, Firenze 1931, p. 40.
51
si dell’opera. I frati “busconi” sono quasi scomparsi dalla circolazione;
erano degli uomini incolti, col labro superiore raso e il volto barbuto.
L’abito era monacale: rake di lana rozza stretta ai fianchi da cinghia di
cuoio, scapolare (con placca bronzea riproducente il rinvenimento e
una Madonna in alto) e cocolla. Un pileo proteggeva il cranio tosato
a corona. I busconi, in compagnia di un mulo robusto, giravano per
villaggi e paesi e presso le famiglie affezionate al Santuario lasciavano,
nel tempo invernale, un pentolino di coccio. E, come gli antichi d’ogni
parte più gustosa delle vittime offrivano un tocchetto alla divinità nel
piatto sacrificale, così i fedeli riponevano nel coccio, avuto dal frate a
nome della Madonna, bocconi ghiotti del maiale preparato al consumo
domestico, ricoprendoli generosamente di sugna calda. Dopo la Pasqua,
il medesimo frate ritirava e avviava al Convento della montagna le olline
ripiene per la mensa non soltanto dei frati»66.
In passato, inoltre, secondo l’Oppedisano, «alcune pie persone facevano
voto di vestire l’abito di eremita e questuare per un certo periodo di tempo, in
ringraziamento di grazie ottenute»67.
Gli ospizi degli eremiti nei paesi della Piana
Questi eremiti, come accennato, avevano delle case o, piuttosto, delle stanze
in diversi paesi della Piana, loro concesse dai devoti come punti d’appoggio in
occasione delle questue che svolgevano per il Santuario. Un Ospizio era stato
donato a Pedavoli nel 1820 e un altro fu acquistato dal superiore Salvatore
Palamara, nello stesso luogo, nel 1867, per la somma di 40 ducati68. L’Ospizio
di Oppido fu acquistato, per 138 ducati, nel 1828 ma si dimostrò ben presto
non sufficiente alle sue funzioni per cui, nel 1832, si rese necessario costruirvi
accanto una baracca che, però, non fu portata a termine per l’opposizione
di un canonico del luogo69. L’antico Ospizio di Palmi che «da immemorabil
PIGNATARO, «Polsi verso la fine del secolo XVII», p. 52.
ANTONIO OPPEDISANO, Cronistoria della Diocesi di Gerace, Tipografia Isidoro Cavallaro, Gerace 1934, p. 403. Giovanni Russo riporta l’esempio del polistenese Saverio Rodinò
di Miglione che vestì l’abito d’eremita nel suo pellegrinaggio a Polsi nel 1851 (Cfr. RUSSO, Polistenesi a Polsi, p. 15). In una lista redatta dal sindaco di San Luca Antonio Strangio l’8 marzo
1869, risultavano presenti, in quel momento, a Polsi 15 eremiti tra i quali erano originari della
Piana: fra Daniele Cosentino da San Giorgio, di anni 70; fra Giuseppe Nesci da Cittanova, di
anni 30; fra Michele Oliva da Radicena, di anni 28; fra Mansueto Sorbara da San Giorgio, di
anni 36; fra Vincenzo Deluca da Sant’Eufemia, di anni 40 e fra Pasquale Rao da San Giorgio,
di anni 28 (Cfr. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA CALABRIA, Santa Maria di
Polsi. Storia e pietà popolare. Atti del Convegno. Polsi 19-21 settembre 1988. Locri 21 settembre 1988, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1990, p. 283).
68
Cfr. GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte, p. 452.
69
Cfr. ibidem.
66
67
52
tempo vi esisteva»70, scomparve agli inizi dell’Ottocento e fu ricostituito nel
1823, con l’acquisto di una casa rurale solariata in contrada Garanta cosi
come «antichissimo»71viene definito quello di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Nel 1834, un Ospizio è documentato anche a Seminara72, altri si formarono
negli anni a Anoia Superiore e a Cittanova, dove una ormai diruta casa, sita in
via Aspromonte, apparteneva agli eremiti che dal Santuario di Polsi venivano
nella Piana per effettuare la questua dell’olio. Sulla facciata si trovava una
statua devozionale in terracotta, sovrapposta ad una lapide marmorea su cui
era scritto:
«O VIANDANTE CHE PASSI IN QUESTA VIA / ALZA LO SGUARDO A
SALUTAR MARIA / NEL TUO PEREGRINAR TI ACCOMPAGNA 7 LA SANTA
MADRE MARIA DELLA MONTAGNA».
In questi luoghi
«venivano accumulati i vari generi alimentari (vino, cereali) e diversi
materiali utili al sostentamento o, comunque, alla vita del Santuario.
In epoche stabilite dell’anno, si faceva la spedizione dei beni raccolti e
accumulati dagli eremiti nei vari Ospizi. Si chiamava vàtica una simile
spedizione e vaticàli i conducenti delle bestie che le costituivano. Due
vàtiche (giugno e novembre) partivano da Oppido e altrettante da Cittanova. A novembre le bestie giungevano cariche di legumi, granone,
patate e di barili e otri di vino, a giugno recavano soprattutto olio. Da
Sant’Eufemia la vàtica partiva il 4 novembre e depositavano nei capaci
depositi del Santuario vino e patate. Per avere un’idea della solennità
delle vatiche, bisogna ricordare che erano 20-25 le bestie da soma che,
in un solo viaggio, partivano da Oppido; erano 90-100 se partivano da
Cittanova e per lo meno 45 se partivano da Sant’Eufemia. Chiunque
possedesse una bestia da soma nei suddetti paesi poteva concorrere alla
vatica; i vaticali non erano mai pagati perché facevano ciò per devozione
verso la Madonna e, comunque, per una vecchia tradizione, in cambio,
bestie e vaticali venivano rifocillati appena arrivati a Polsi. Diversamente avveniva se al Santuario bisognava trasportare beni di natura diversa,
come, ad esempio, il materiale da costruzione; in tal caso i vaticali si
pagavano a dovere e il costo dei trasporti incideva notevolmente sulle
opere da effettuare: nel 1820, ad esempio, il viaggio di una bestia da
soma da Sant’Eufemia a Polsi costava 60 ducati»73.
La gran parte di questi Ospizi, dopo l’estinguersi degli ultimi eremiti intorCfr. ibidem.
Cfr. ibidem.
72
Cfr. ibidem.
73
Ivi, p. 453.
70
71
53
no agli anni 70 del Novecento, cambiò di proprietario o andò in rovina.
La venerata effigie di Maria SS. della montagna
Solenne è la descrizione che Corrado Alvaro offre della venerata e monumentale effigie di Maria SS. della montagna che, dall’alto del settecentesco
altare di marmo intarsiato, accoglie i devoti pellegrini che giungono, stanchi
ma pieni di fede e devozione, ai suoi piedi e a loro, come soluzione ad ogni
angoscia e risposta ad ogni speranza, offre il suo Divin Figlio:
«Sta la Donna augusta seduta, maestosamente, con la veste coperta
dall’oro dei devoti. Ha nell’atto l’abbandono d’un corpo imperioso che,
pur nell’inerzia delle membra, conservi la forza augusta degli esseri sovrannaturali: pare che mai alcuna forza, né di scalpello, né umana, possa
levarla dall’atto. Il viso direbbesi di carne viva animato da un pensiero
grande dell’anima. La chiarità luminosa d’uno spirito che sa d’essere
potente e si mostra umile con gli umili, trasparisce dagli occhi grandi,
miti e severi che si aprono sotto le folte sopracciglia sollevate gentilmente ad arco, nel principio, sotto la fronte purissima, meno rosea del
viso come quella dei grandi pensatori. L’occhio par che segua ovunque
tutti con quella serenità nelle iridi, con quella clemenza che conforta e
impera, che è mitezza e grandezza. Il solco che scende dagli occhi alla
bocca la rende severa e dà al viso l’impronta di una donna che abbia
molto sofferto. La bocca, tronca ai lati, rotonda, piccola, la distingue da
tutte le donne comuni: nella bocca, come negli occhi, balena il raggio
della Divinità. Nessuna statua pagana ebbe quell’impronta di venustà
sacra. La bocca dei monumenti di Minerva è sottile ed aguzza, qui è
tronca e severa: nelle statue dei classici si rivela la femmina, in questa
la Donna divina. Il Bambino che Ella sorregge nelle mani è pieno di
quella grazia infantile che hanno i putti delle Danae del Correggio: è
così che nell’infantilismo Egli conserva la gentile deità del giovin che
traeva il suo popolo al Giordano. Qui è la scuola siciliana che rivela la
potenza dell’arte che ereditò da quella antica del dodicesimo secolo, è il
Rinascimento in una delle più belle esplicazioni che nel tufo impresse
un’immagine grande e bella come è la leggenda. Ora l’impressione
luminosa della divinità ci tiene, poiché attraverso il tufo trionfale ci
appaiono le parole che il grande ingegno latino sorto nei tempi nostri
volle parlare: Hic inter glacie, abruptaque viscera montis non habitanda
viris, non habitanda feris extremae Ausoniae gente stibi templa sacrarunt,
o Virgo, o populi vita, salusque tui. (Qui tra le nevi e le nascoste viscere
d’un monte, inospite agli uomini e alle belve, le genti dell’ultima Ausonia
ti consacrano templi, o vita e salute del tuo popolo»)74.
74
54
ALVARO, Polsi nell’arte, nella leggenda, nella storia, pp. 13-15. I versi sono del latinista
È utile, poi, riportare la suggestiva descrizione che dello stesso simulacro
ha offerto l’illustre artista polistenese Vincenzo Ierace:
«Quale impressione provai innanzi a quel simulacro sculto in pietra
siracusana da rozza mano e da più barbare mani dipinto, senza regola
ne misura di grosse chiazze a guazzo, dalle corone regali in oro massiccio e tempestato dalla testa ai piedi di migliaia di voti aurei, pietre
preziose e gemme splendenti, non è facile descrivere esattamente. Restai
immobile, muto per più istanti, cercando di orientarmi innanzi quella
strana ed inusitata forma antropomorfica che mi turbava l’animo come
innanzi una figurazione misteriosa, enimmatica, abbacinante. Calmato
alquanto dalla impulsiva commozione, chiesi di poterla vedere più da
vicino ed aiutato montai sulla predella dell’altare. Tentai fissarla negli
occhi stralunati sibillini, le cui pupille scure, cerchiate di nero, sembravano agitarsi nel bruno ovale del viso. La figura al naturale ma alquanto
tozza e disadorna è seduta su di un informe masso e le sue braccia in
moto fermo e risoluto presentano all’umanità il frutto portentoso delle
materne viscere. Un putto nudo, ergentesi ritto sulle sue ginocchia,
forte e gagliardo quanto mai mente incolta ma ispirata potesse idearlo
e plasmarlo. Non è più il dolce e gentile fantolino biondo e grazioso
che abitualmente l’arte religiosa ha tramandato, di secolo in secolo, nelle
chiese e nei musei, ma un bimbo nella cui tenera impalcatura porta già
le tracce erompenti d’una divina energia. Il braccino destro, teso sul
seno materno, indica la Madre e il sinistro, piegato, serra nella manina
un piccolo cuore più grosso. Allora dalla rude, informe massa tufacea si
delineò, più che il venerato simulacro della Madonna, più che la figura
della Madre del Cristianesimo, la più schietta, palpitante incarnazione
di tutta la selvaggia e formidabile bellezza caotica del selvoso Aspromonte»75.
L’annuale festa settembrina e la processione
Il momento che nell’anno attira più pellegrini a Polsi è la festa, celebrata
nei primi giorni di settembre e preceduta da una partecipatissima ed attesa
novena. Di questi giorni santi è ancora l’illustre Corrado Alvaro ad offrire
un’efficace e ben riuscita descrizione:
«Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa: la gente
ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto
la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o
un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per
reggino Diego Vitrioli (Elegia VI).
75
In RUSSO, Polistenesi a Polsi, p. 29.
55
disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne. Uno,
denudato il petto e le gambe, si porta addosso una campana di spine
che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel
nostro spinoso paese e che ad ogni passo pungono chi sta in mezzo.
Una femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia e così le ragazze
fanno la strada ballando e balleranno giorno e notte per le ore che
hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate
al muro che muovo ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di
sparare alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla di porto d’armi
e i Carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno
al Santuario e sparano notte e giorno. Nella piazza ballano, suonano,
cantano notte e giorno, notte e giorno tuonano i boschi, alla fine sono
diecimila, quindicimila persone che non fanno altro in quella valle
stretta; l’eco ha un gran daffare a ripetere tutto quello strepito inestricabile e fa un lungo fragore confuso. I sopraggiunti vedono e sentono la
festa dalle terrazze sui monti, la valle che brucia come un vulcano e vi
si buttano dentro col loro rumore. Hanno fatto strade lunghe e difficili,
di sei o sette ore. Per la strada, chi non è intento ad altro, prende un
sasso e lo porta alla croce dell’altura in vista del Santuario, qui lo butta
in una mora di altri sassi e in due giorni si fa un cumulo di materiale
buono per la fabbrica del convento e degli ospizi dei pellegrini. Ci sono
le fresche fonti della montagna, desiderio del Calabrese, che ha paesi
poveri d’acqua. La notte, per illuminare la strada, si dà fuoco agli alberi
secchi colpiti dalla vecchiaia e dal fulmine e fanno da torce pel sentiero
difficile. Per quella turba magna, non basta né il Convento, né le case
della comunità, né le capanne e si sceglie ognuno il suo posto sotto i
boschi. Tien bottega ognuno all’aperto, le bestie macellate sono appese
agli alberi. Ci vengono i dolcieri della Sicilia, coi loro torroni dai colori
sgargianti sui tavoli coperti di lino bianco e i più famosi mendicanti.
Questo il Calabrese vuol vedere, col suo gusto pel presepe. C’è quello che
spiega, su un cartello dipinto a quadri successivi, le gesta dei Paladini;
c’è la frotta degli zingari; la sonnambula; i carabinieri che fanno paura
ai vendicatori e agli innamorati respinti. E si vedono le mille facce delle
Calabrie. La chiesa è spalancata, la gente vi si pigia a poco per volta;
presso l’altare i muti vogliono parlare76, i ciechi vedere, gl’infermi gua76
Così lo stesso Corrado Alvaro descrive il “miracolo” del muto che riacquista la voce, secondo un genere letterario comune anche ad altri Santuari calabresi come, ad esempio, quello
della Madonna dei poveri di Seminara: «Le donne, attorno al mutolo, lo premevano da tutte
le parti, gli gridavano ai sordi orecchi, gli mostravano, per fargli capire, come muovevano le
labbra gialle nell’atto di gridare: “La Madonna!”. Altre donne, appassionate di quel fatto, si
pigiavano intorno, si mettevano a battersi il petto col pugno, a gridare a squarciagola: “Fai il
miracolo, Madonna santa!”. Pareva che si fosse stabilita una gara invidiosa a chi ottenesse il
miracolo. Il mutolo, alto su tutta la folla, si era arrampicato sul marmo della balaustra e gli
pungevano gli occhi tutte quelle candele, le bocche aperte lo stupivano e le mani intorno che
lo reggevano parevano portarlo in alto, in alto, con gli angeli. Aveva capito e ormai la voce gli
56
rire. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna,
perché si commuova. Arrivano gli animali infiocchettati che si donano
per voto e cadono sulle ginocchia perché sembra che capiscano anche
loro. Viene il mulo carico di grano e di vino, le caprette coi loro campani
che suonano. Sul banco coperto di lino, le donne buttano gli orecchini
e i braccialetti; gli uomini, tornati da una fortunata migrazione, le carte
da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima
volta nessuno guarda con occhi cupidi. La Vergine guarda sopra tutti
e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido ricamo. Si
sta la dentro come in una conchiglia piena del rombo della folla come
d’un mare; la terra pestata dai balli che s’intrecciano in ogni angolo di
strada, su tutta la piazza, sotto una porta, sotto un albero, fa un rumore
come se vi si gramolasse tutti il lino della terra, si macinasse tutto il
grano. Nuove turbe arrivano d’ora in ora, sparando e gridando in quella
terra promessa. Al terzo giorno di settembre si fa la processione e si tira
fuori il simulacro portabile. Hanno il privilegio di portarlo gli uomini
di Bagnara, gente di mare, audaci e ricchi migratori, pescatori accaniti
di pescespada e di tonni. Sono loro i più abili a far correre, come se volasse, l’immagine della Madonna sul suo pesante piedistallo, mentre le
buttano intorno grano, confetti, fiori; non si sente altro, tra lo sparo dei
fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso; non si sente altro che
il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti: un rombo di umanità
viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti un’armonia più alta
della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla,
si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere»77.
I procuratori
Questi pellegrinaggi venivano organizzati - un tempo come oggi - dai procuratori che potremmo definire gli animatori, il trait d’union, tra il Santuario
e i pellegrini. Così li ha definiti il già citato mons. Delrio: «Procuratori della
Madonna di Polsi vengono chiamati coloro che presiedono alle questue che
sono loro affidate dai romiti nell’interesse del Convento. Vengono scelti tra le
persone più ragguardevoli dei paesi e accettano tale incarico per sentimento
di religiosa devozione»78. Fu il vescovo di Gerace, mons. Giuseppe Maria
usciva dalle labbra come un rantolo. Gli uomini, confusi tra la folla, pallidi a sentirsi stretti fra
le donne, si smarrivano. Di quando in quando, dal banco coperto di tela bianca, su cui i devoti
gettavano orecchini e anelli in un impeto, fremendo e gridando: “Madonna bella!”, il prete
levava gli occhi al soffitto, come se si vedesse volare quella voce divenuta articolata e quella
parola che avrebbe fatto saltare di urli la chiesa. Il mutolo si afflosciò sulla balaustra, gridò,
parve che gridasse distintamente: “Madonna mia, Madonna mia!”; la folla si levò tumultuando e battendosi il petto. Altre grida coprirono la voce: “Ha fatto il miracolo!”» (CORRADO
ALVARO, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano 1974, pp. 90-91).
77
ALVARO, Calabria, pp. 88-94
78
Il Santuario di Polsi ed il suo cardinale protettore, p. 18. Il compianto scrittore poli-
57
Pellicanà (1819-1933), «che nutriva una particolare devozione alla Vergine
Santissima della montagna»79, a disciplinare meglio la scelta e le attribuzioni
dei procuratori del Santuario che volle nominare personalmente su proposta
del superiore.
Il primo procuratore, di cui si ha ad oggi memoria storica, fu ufficialmente
nominato nel 1767 dal vescovo Pier Domenico Scoppa ed era originario di San
Giorgio Morgeto80. Durante l’anno, il procuratore aveva l’incarico di raccogliere offerte, specie in natura, da inviare o portare al Santuario nel giorno del
pellegrinaggio. Inoltre, quando il superiore si recava nei paesi meglio organizzati per mantenere vivo il legame con il santuario, il procuratore provvedeva
ad ospitarlo e lo informava scrupolosamente sulle offerte raccolte e sui nuovi
pellegrini che avrebbero partecipato al successivo pellegrinaggio annuale.
In genere, quindi, era lo stesso superiore a scegliere tra i diversi pellegrini
colui che doveva fare da procuratore, dopo aver sentito il parere del parroco
del paese, e, spesso, questa carica si tramandava da padre in figlio e si attribuiva ad una persona che godeva molta stima e fiducia presso i suoi compaesani.
Suo compito, inoltre, era quello di comunicare al superiore il giorno
dell’arrivo del suo pellegrinaggio che, solitamente, era lo stesso ogni anno. Era
lui a raccogliere e a radunare i pellegrini che avrebbero composto la Carovana
e partecipato al pellegrinaggio e a dar loro le istruzioni e le notizie utili per il
non facile viaggio e ad interessarsi per tempo a raccogliere la somma necessaria per pagare i mezzi di trasporto. Non di rado tale compito veniva affidato
anche ad una donna, particolarmente contraddistinta da spiccate qualità
organizzative e dotata di un certo prestigio nel suo ambiente. La carica del
procuratore, come ricordava lo stesso Corrado Alvaro, poteva durare molti
anni. Ad esempio, egli asserisce che Paolo Strangio da San Luca, che scrisse
in versi dialettali una canzone popolare che si cantava nei pellegrinaggi, ebbe
la carica per una tradizione familiare, tramandata di padre in figlio, per ben
otto secoli81.
La sosta ad Oppido Mamertina
Quando il pellegrinaggio si svolgeva a piedi, una sosta importante era ad
Oppido Mamertina dove «era tutto un viavai di pittoresche Carovane, i cui
componenti a piedi, a volta anche scalzi, suonando e cantando richiamavano
in strada grandi e piccoli. “Pàssanu i posari”, era la festosa voce che ci si dava
stenese Raffaele Zurzolo ha delineato un ideale profilo del procuratore che si può trovare in
RUSSO, Polistenesi a Polsi, pp. 41-44.
79
Ibidem.
80
Cfr. RASCHELLÀ, Nuove luci sul Santuario di Polsi, p. 54.
81
Cfr. ALVARO, Polsi nell’arte, nella leggenda, nella storia, p. 21.
58
l’un l’altro al loro apparire ed a catturare l’attenzione stavano le grandi immagini della Madonna della montagna tenute in alto da grossi rami d’abete, il
suono di zampogne, chitarre, organetti e tamburelli, il crepitio dei petardi e gli
emblematici canti popolari. Era soprattutto un lieto occorrere di bambini che
agli ansanti viaggiatori chiedevano la grazia di poter avere una posa (era un
rametto di abete che veniva staccato da un ramo più grande), un’immaginetta
o una medaglia ricordo. Quest’ultima era, naturalmente, la più ambita.
I posari, per la massima parte, erano felici di poter accontentare i più,
lusingati dalla chiassosa accoglienza loro riservata e, quindi, proseguivano
nel cammino che li avrebbe portati a casa, stanchi sì, ma soddisfatti di aver
compiuto un grande atto di fede. Avevano potuto riverire la Regina dei monti
nella sua sede naturale e sciolto un voto espresso di sovente in momenti poco
favorevoli. Che volevano di più? Da tempi remoti, prima che la motorizzazione avesse fatto così notevoli balzi in avanti, i pellegrini polsiani della Piana, da
qualunque luogo si partissero, erano obbligati a transitare da Oppido. Anzi,
quasi sempre si rendeva indispensabile effettuare in esso una sosta notturna.
Erano, allora, l’immenso pino di Tresilico, con la sua ombra protettiva, ed il
sagrato della Cattedrale, con l’adiacente piazza Mercato, ad accoglierli amorosamente e, per gran parte della notte, altro che riposarsi! A farla da padrona
era la classica tarantella. Da Oppido, poi, di buon mattino, si dava il via alla
scalata dell’Aspromonte»82. E così il celebre poeta tresilicese Geppo Tedeschi
celebrava i pellegrini a Polsi che transitavano dal suo paese:
«Due ignoti e polverosi pellegrini / parlano, piano, sul sentiero torto: /
“Bisogna, ad ogni costo, derubare / quel lento asinello / di nuvole / che
porta, santamente, / verso un vallone d’ombre, / tutti i broccati / del
cadente sole. / Curvi, attenti. / Curvi, attenti. / Offriremo il bottino, /
alla Madonna di Polsi / che ha il Santuario / in grembo alla montagna. /
Curvi, attenti. / Curvi, attenti. / Non ci vedrà nessuno”. / Li vide, invece,
/ da ciglione il vento, / e, in un baleno, disse tutto a Dio, con labbra
d’oro-argento»83.
Anche l’illustre scrittore di Maropati, Fortunato Seminara, nelle sue
opere, volge sul fenomeno religioso e antropologico polsiano «uno sguardo
essenziale per far cogliere il senso complesso del “viaggio religioso” e della
“pietà popolare” delle popolazioni di Calabria», descrivendo, «con attenzionee
82
ROCCO LIBERTI, Fede e Società nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi II. Quaderni Mamertini 43, Litografia Diaco, Bovalino 2003, pp. 21-22.
83
Ivi, p. 21.
59
partecipazione aspetti fondamentali del pellegrinaggio a Polsi»84.
Il pellegrinaggio
Oggi, oltre ad automobili adatte, a fuoristrada e a motociclette85, per
giungere a Polsi si usa un pullman di media grandezza poiché le strade aspromontane non consentono il transito di grandi pullman e se i pellegrini sono
numerosi ci si serve anche di due, tre o quattro mezzi di questo tipo mentre,
fino a qualche decennio addietro, ci si serviva di camion ben coperti con tende
e muniti di panche di legno sulle quali prendevano posto i partecipanti86. Nei
tempi ancora più antichi, invece, ci si recava a piedi o a dorso di mulo.
In genere, la partenza dei pellegrinaggi dai paesi della Piana, sia a piedi che
in pullman, avviene durante la notte, per arrivare al Santuario la mattina, sul
far del giorno. Durante il viaggio, le donne cantano gli antichi inni tradizionali
mentre gli uomini sono molto seri ed anch’essi cantano motivi religiosi. Si
arriva, così, ad un punto prestabilito, ben noto a tutti, dove la strada viene
meno e ha inizio il cammino a piedi. È questo il tratto più bello del pellegrinaggio prima di arrivare, anche se è il più faticoso, perché bisogna camminare
su viottoli difficili, nel cuore dell’Aspromonte e quando dall’alto si vedono le
bianche casette del Santuario, i pellegrini tutti esplodono in un grido di gioia
alla Regina dei monti.
Giunti nel recinto del Santuario, i pellegrini sostano al Calvario, pregevole
opera dello scultore polistenese Vincenzo Ierace. Uno dei pellegrini o lo stesso
procuratore, reca uno stendardo e, dietro a questo, vanno in processione tutti
gli altri, con passo spedito, incamminandosi verso la chiesa, cantando con
tutto l’ardore della propria anima e al suono delle fisarmoniche, dei tamburelli
e degli organetti. All’ingresso della chiesa, il superiore riceve i pellegrini, li
benedice con l’acqua santa, rivolge loro un fervorino di benvenuto ed ha poi
inizio la Santa Messa.
Durante il giorno, poi, i pellegrini si sistemano nel Convento che consideVITO TETI, «La teoria di uomini. Pellegrinaggio a Polsi e viaggio nelle opere di Corrado
Alvaro, Fortunato Seminara, Francesco Perri», in DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER
LA CALABRIA, Santa Maria di Polsi, pp. 584-596.
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Da alcuni anni, a cura di persone di Oppido Mamertina, viene addirittura organizzato
un pellegrinaggio di trattori.
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Questo pellegrinaggio a bordo di camion è stato ben descritto da Antonio Floccari (Cfr.
in RUSSO, Polistenesi a Polsi, pp. 54-59). Lo stesso autore ha, poi, fornito una bella descrizione
della statua della Vergine di Polsi: «La trovai perfettamente sintonizzata con le donne del mio
popolo: non appariva come immagine estranea alla vita di tutti noi e ciò faceva sgorgare un
sentimento radicato in un remoto lontano come se l’avessi conosciuta chissà da quanto tempo.
I suoi occhi mi portarono prodigiosamente agli occhi di mia madre, quando mi cantava le
ninne che favoriscono il sonno su quella sedia sgangherata che faceva da sottofondo alla voce
materna, sempre melodiosa e resistente più dei diamanti per tutta la durata dei nostri giorni»
(In RUSSO, Polistenesi a Polsi, p. 57).
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rano una cosa propria, o nelle case vicine al Santuario, o anche sotto gli alberi.
Spesso accade che s’incontrano due o più Carovane nel luogo sacro oppure
una è in procinto di partire mentre un’altra sta per arrivare.
Così il poeta palmese Francesco Salerno commemorava, nel 1954, con i
suoi versi vernacoli, questo pellegrinaggio:
«Ndi cogghimmu, pe’ lu menu, / pensu, cchjù di ‘na trentina / e passammu
‘u Ponti vecchj / Cireddhu e ‘a Ferrandina. / Ma chi nc’era pe’ dhi strati! /
Quali arretu e quali annanti / d’autri mezzi a filerati / carricati tutti quanti / d’autra genti chi venìa / pe’ lu munti di Maria. E nd’avìa cu’ scecchi e
muli / d’ogni cosa carricati, / vaticali chi lu passu / ti cercavanu affuddhati
/ e nd’avia cu’ tascapani, / cu’ sacco / e cirmiceddhi / quali ‘n coddu e cu’ a
li mani, / cu’ panara e gistruneddhi / e nd’avìa cu’ figghi ‘mbrazza / pecchì
ficiaru lu gutu»87.
Le date tradizionali della partenza dei pellegrini dai paesi della Piana sono
state raccolte da Salvatore Gemelli nella sua preziosa e documentata opera88:
Cittanova 12-20 giugno; San Ferdinando 9-15 luglio; Rizziconi 15-20
luglio; Plaesano 18-21 luglio; Gioia Tauro 20-24 luglio; Taurianova 2729; 22-26 luglio; 2-23 agosto; Cannavà 30 luglio; Polistena Lunedì dopo
la 3^ domenica di luglio; Candidoni Luglio; Bellantone Luglio; Laureana di Borrello Ultima domenica di luglio; Rosarno Luglio; Scroforio
Luglio; Feroleto della Chiesa 1-7 agosto; Drosi 1-8 agosto; Caridà 7-10
agosto; San Pier Fedele 9-10 agosto; Galatro 9-13 agosto; Cinquefrondi
11 agosto; Melicucco 1-19 agosto; Anoia Superiore 16-23 agosto; San
Giorgio Morgeto 20-30 agosto; 17 settembre; Maropati 19-20 agosto;
Varapodio 19-21 agosto; Tritanti 19-25 agosto; Oppido Mamertina 1926 agosto; Molochio
23-24 agosto; Anoia Inferiore 23-26 agosto;
Serrata 4-10 agosto; Eranova Agosto; Palmi Primi di novembre.
Manifestazioni della pietà popolare a Polsi
Appena i pellegrini giungono in chiesa, il loro sguardo cerca e trova
subito la venerata effigie della Vergine della montagna, posta sull’altare, la
quale appare loro di una bellezza veramente divina. Qui gli uomini pregano
come forse mai avevano pregato al loro paese. Tutti chiedono una grazia alla
Madre di Dio, tutti la ringraziano per i benefici ricevuti. Nel corso del giorno
In LIBERTI, Fede e Società nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi II, p. 23.
(Cfr. GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte, p. 413). In molti
paesi, è tradizione partire verso il Santuario “dopo i fuochi d’artificio” della festa patronale,
ad esempio a Laureana di Borrello dopo la festa di Maria SS. del Carmelo o a Polistena dopo
quella di Santa Marina (Cfr. RUSSO, Polistenesi a Polsi, p. 42).
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ed anche la sera e molto di più la notte, i pellegrini si confessano e, durante
le Messe, ricevono la comunione. Ogni pellegrino lascia un’offerta la quale
varia a seconda delle possibilità e lo stato economico e sociale di ciascuno.
Quelli, poi, che non possono andare personalmente al Santuario, per motivi di
salute o per ragioni varie, mandano la loro offerta per mezzo di altre persone.
Alcuni presentano anche degli ex voto per ringraziare la Vergine delle grazie
ricevute: questi doni votivi possono essere una collana89, un anello, orecchini
d’oro o d’argento, mentre altri portano membra modellate nella cera oppure in
lamine d’argento. In passato, capitava sovente che alcuni lasciassero in dono al
Santuario un vitello, un agnello o una pecora per ottenere la protezione della
Madonna della montagna sugli armenti .
Oltre a quelle ordinarie, i fedeli recitano alcune preghiere tipiche di Polsi
e contenute in un libretto intitolato “Pellegrini in preghiera a Polsi”, edito nel
1981 e curato dal celebre padre Stefano De Fiores, originario di San Luca90, che
contiene, tra le altre orazioni, i “Colloqui a Maria Santissima della montagna
che si recitano dai suoi devoti nei giorni della novena e sempre che han bisogno di qualsiasi grazia”, editi, per la prima volta, dall’arciprete Antonino Pelle,
superiore del Santuario, nel 1950 e caratterizzati da una canzoncina composta
dall’arciprete Domenico Fera, anche lui superiore di Polsi dal 1832 al 1860:
«Nel vasto mar del mondo, / tu sei l’amica Stella / e puoi la navicella /
dell’alma mia guidar. / In questa valle ancora / il nome tuo si onora»91.
Fino a pochi decenni fa, molte donne e parecchi uomini che pellegrinavano a Polsi, facevano voto alla Beata Vergine di strisciare con la lingua sul
pavimento, dall’ingresso della chiesa fino ai piedi dell’altare. Oggi, però, ancora
numerose donne ed anche alcuni uomini, entrano in chiesa e si dirigono sulle
ginocchia verso l’altare, invocando la Madre di Dio oppure fanno una parte
del pellegrinaggio scalzi92.
Molte Carovane compiono, inoltre, prima della conclusione della Messa,
una processione con il Santissimo Sacramento lungo il perimetro della piazza
antistante la chiesa, cantando inni eucaristici e recando candele accese. È il
momento in cui tutti pregano per gli ammalati e per le persone rimaste a casa.
Cfr. LETTERIO FESTA, «Le manifestazioni del culto e gli ex voto di San Rocco nel Santuario di Acquaro (RC)», in L’Alba della Piana, XIII (2022) 1, pp. 57-62.
90
Cfr. Pellegrini in preghiera a Polsi, Tipografia Colangelo, San Luca 1981.
91
Colloqui a Maria Santissima della montagna, Tipografia Panetta, Caulonia 1950.
92
«Arrivavano donne e uomini in ginocchio: alcuni chinarono il viso per terra e, umiliandosi incredibilmente, strisciarono fino all’altare quasi leccando la polvere inevitabile presente sul pavimento. Notai che accompagnavano questo loro procedere con un pianto che
commuoveva tutti i presenti» (ANTONIO FLOCCARI, Polsi! Aurora della vita, in RUSSO,
Polistenesi a Polsi, p. 57).
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Il ritorno dei pellegrini
Lo storiografo polistenese Giovanni Russo ha ben descritto quanto avveniva nei nostri paesi, fino a qualche decennio addietro, quando i pellegrini
ritornavano da Polsi: «Era antica consuetudine, fino ad una quarantina di anni
fa, che al ritorno dell’annuale Carovana da Polsi, i pellegrini, con in mano
rami di abete dell’Aspromonte, dopo aver attraversato il paese, con sparo di
mortaretti e canti festosi di ringraziamento alla Madonna, si recassero presso
la chiesa ove ricevevano la santa benedizione. Per coloro i quali non avevano
potuto partecipare al pellegrinaggio, quell’arrivo era, comunque, una festa,
anzi, questi aspettavano, dai partecipanti, un ricordo di Polsi, consistente o in
un ramo di abete, o in una medaglietta, o in una piccola pietra che ricordasse,
in qualche modo, il Santuario»93.
Conclusione
Del culto polsiano nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi si può dire
numquam satis, come, più in generale, i Padri della Chiesa affermano della
Madre di Dio. Molto resta ancora da valorizzare e, soprattutto, da ricercare
nei vari Archivi e Biblioteche nonché nell’arte, nella musica e nella letteratura
più “popolare”, spesso poco studiate. Il presente contributo vuole essere solo
un cenno, in attesa di un sondaggio ancora più ampio e meglio organizzato.
93
RUSSO, Polistenesi a Polsi, p. 17. Era uso dei pellegrini, oltre allo sparo a salve con i fucili, anche lo sparo di mortaretti e di piccole bombe “a muro” che si innescavano, appunto, battendole su un chiodo infisso in una parete: «tali bombette venivano confezionate dai fuochisti
locali che, in occasione dei pellegrinaggi, non solo le vendevano sul posto ma, addirittura, le
portavano per venderle anche a Polsi» (Ibidem).
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