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Vita e valori del vescovo Ettore Diotallevi negli affreschi dell episcopio di Sant Agata de Goti

2024

Questo studio propone l'analisi degli affreschi commissionati da Ettore Diotallevi all'inizio del suo episcopato nella Diocesi di Sant'Agata de Goti, realizzati all'interno dell'ala cinquecentesca dell'episcopio, oggi all'interno del percorso museale MILA

Rosanna Biscardi Vita e valori del vescovo Ettore Diotallevi negli affreschi dell’episcopio di Sant’Agata de Goti Premessa Questo studio propone l’analisi degli affreschi commissionati da Ettore Diotallevi all’inizio del suo episcopato nella Diocesi di Sant’Agata de Goti, realizzati all’interno dell’ala cinquecentesca del palazzo episcopale nella prima metà del XVII secolo. Non si conosce l’identità dell’autore delle pitture murali; le scene rispecchiano la personalità e i gusti del vescovo, già inquisitore del Sant’Ufficio a Malta, offrendo immagini laiche e mistiche appartenenti a contesti locali o esterni, oppure tratte dal Vecchio Testamento. I dipinti furono eseguiti sulle pareti di un ambiente molto riservato - un cunicolo predisposto alla penitenza e alla preghiera -, per offrire spunti di meditazione ed espiazione al vescovo. La trattazione analizza il contesto storico, geografico e architettonico in cui si sviluppò l’esperienza religiosa di Ettore Diotallevi, considerando i condizionamenti dell’amministrazione clericale e laica del suo tempo; effettua una breve excursus delle fasi di rifacimento del palazzo episcopale nell’arco di quattro secoli, sempre rispettose delle opere volute da Diotallevi; ricostruisce la figura del vescovo in relazione alla sua vita ed alla sua personalità di committente; offre, infine, spunti di riflessione su ciò che resta degli affreschi, visitabili all’interno del percorso del museo MILA di Sant’Agata de Goti. L’autrice INDICE IL CONTESTO - La Diocesi di Sant’Agata de Goti dalla formazione al XVII secolo - Amministrazione laica e clericale del feudo tra XV e XVI secolo - Trasformazioni del palazzo episcopale: il cunicolo IL VESCOVO - La formazione - Le origini nobili - Rapporti con confraternite e congregazioni - L’attività di Inquisitore GLI AFFRESCHI DEL CUNICOLO - Parete destra - Parete sinistra - Conclusioni IL CONTESTO La Diocesi di Sant’Agata de Goti dalla formazione al XVII secolo Nel 787, alla scomparsa del longobardo Arechi II principe di Benevento, si scatenò una lunga guerra civile tra gastaldati d’area beneventana e quelli d’ area salernitana. 1 Il conflitto si protrasse fino all'849, quando l'Imperatore Ludovico II il Pio tentò di frenare i conflitti, separando ufficialmente il Principato di Salerno da quello di Benevento. Nel trattato di divisione sottoscritto dai principi Radelchi e Siconolfo, vennero indicati due gastaldati originariamente beneventani passati sotto la giurisdizione di Salerno: Furcule e Capua. Nell'VIII secolo il gastaldato di Furcule (l'odierna Forchia) localizzato lungo l’Appia, fu assegnato al gastaldo Wacco filo-salernitano. Il gastaldato di Sant'Agata restò sotto la giurisdizione del Principato di Benevento continuando, però, a intrattenere rapporti economici e culturali con Salerno. All’indomani della divisione politica e commerciale, il gastaldo Marino di Sant’Agata parteggiò per Capua e Salerno, forte degli affari intrattenuti presso le aree costiere: nell’887, appoggiato dal patrizio romano Teofilatto, uno degli optimates bizantini, osò ribellarsi ad Aione principe di Benevento. La città visse una dualità politico-geografica che si palesò chiaramente dall'866 all'899, periodo in cui il gastaldato si schierò apertamente al fianco della comunità bizantina locale - gli optimates cosiddetti ‘romaniani’ dipendenti da Capua -, contro i Longobardi. Il motivo è semplice: gli optimates erano ricchi Patrizi e potenti religiosi con vantaggi economici e politici che non volevano tralasciare, godendo della protezione militare di Salerno. Dopo aver subìto due eventi sismici importanti nell'893 e nell'894, documentati in tutta l’area sannita, il gastaldato santagatese fu inglobato dal principe Atenolfo nel Principato di Capua, divenuto "Stato autonomo nell'Impero Romano d'Oriente", fedele alla politica di Bisanzio e alla religione cristiano ortodossa. L’ autorità imperiale influenzata dalla Chiesa Romana, intervenne tuttavia facendo in modo che la città ribelle tornasse al cattolicesimo occidentale. Nel 962 Ottone I di Sassonia, eletto Imperatore del Sacro Romano Impero, nominò i vescovi-conti per imporre la supremazia della Chiesa occidentale sui riti bizantini nelle terre beneventane. Nel 970 giunse a Sant'Agata il vescovo-conte Madelfrido, che prese sotto la sua amministrazione una nuova Diocesi con un perimetro attentamente ri-tracciato. Antonio Abbatiello scrive infatti che «nella restituzione della Cattedra i confini della circoscrizione diocesana vennero ampliati con i territori delle non più esistenti diocesi di Caudium, Suessola e Calatia»2. La Diocesi costituita nel 970 comprendeva i territori di ben quattro antiche città sannite: - Saticola (odierna valle di Dugenta, comune di Sant’Agata de Goti fino ad Airola) - Caudio (odierna valle di Montesarchio, Arpaia e Forchia) 1 2 Rosanna Biscardi Saticola città visibile e nascosta, 2019, su https://www.academia.edu Antonio Abbatiello, La cura d’anime a S. Agata de' Goti: dal Capitolo Cattedrale alle Parrocchie in Annali Parrocchiali n.1 del 30 giugno 1986, Parrocchia di S. Maria Assunta - Cattedrale Sant'Agata de' Goti - Suessola (valle di Arienzo, Cancello ed Acerra fino a Nola) - Calatia (odierna Maddaloni) Il perimetro della Diocesi di Sant’Agata de Goti del X secolo, ricostruito dallo storico Luigi Romolo Cielo, assecondava obbiettivi politici oltre che economici, quali: 1. dare all’importante gastaldato di Sant’Agata uno sbocco sull’antica via Appia che collegava Roma a Benevento, aggiungendo i territori di Arpaia e Forchia 2. spingere il confine diocesano quanto più possibile vicino alla costa, aggiungendo Acerra 3. inglobare l’Isclero o Iskla, ‘isola fluviale’, cioè il sistema formato dal fiume Faenza e dalle sorgenti presente nelle valli di Airola, Sant’Agata de Goti e Dugenta, che rendevano fiorente l’economia agricola fin dal tempo dei Romani3 Villaggi come Airola, (che comprendeva i casali di Mojano, Luzzano e Bucciano) Frasso, Dugenta, Orcoli, Valle, Durazzano, Cervino, Forchia di Cervino, Messercola, Arpaia compresi nella Diocesi, derivavano da antiche villae rusticae romane, da vici sanniti o da posti di vedetta longobardi, perfezionati dai Normanni e sfruttati dagli Angiò-Durazzo per la difesa dei loro territori. Il castello di Bagnoli, ai piedi del monte Longano, apparteneva alla Mensa vescovile, costituendo beneficio riservato al vescovo che ne era il barone. I monti Cancello, Sant’Angelo a Palombara, Castello, Vorrano ricadevano nel territorio diocesano di Arienzo, unito a San Felice e Santa Maria a Vico4. Francesco Viparelli ci dà un’esatta cognizione dell’entità abitativa del feudo di Sant’Agata ai tempi del vescovo, affermando che «prima della peste del 1644 S. Agata componea una popolazione di circa 23.ooo anime, come si conosce da uno stato del numero degli abitanti di questa Città, ordinato da M.r Diotalleri nel 1632 osservato in questo Vescovile Archivio».5 Nei 25 anni che precedettero la nomina di Diotallevi a vescovo della Diocesi di Sant’Agata de Goti i suoi tre predecessori furono membri di Ordini monastici: il vescovo Feliciano Ninguarda era un Predicatore Domenicano; i vescovi Evangelista Pellei e Giulio Santucci erano entrambi Francescani dei Minori Conventuali6. Vincenzo De Lucia, nel riassumere la trattazione di Ferdinando Ughelli7 come fa più tardi Francesco Viparelli, pone l’accento sulla scarsa presenza fisica dei tre vescovi in territorio diocesano, seppur artefici di atti importanti. La lontananza si deve, probabilmente, al breve periodo della loro carica. Visitò tre volte questa Diocesi, scrive De Lucia a proposito del vescovo Ninguarda, in carica dal giugno 1583 al dicembre 1588; rilevando la sua predilezione per la residenza nel monastero di Santa Maria a Vico in Arienzo giacchè in tale monastero aveva studiato la teologia sotto il lettore P.M. fra Michele Ghislieri, che poi fu glorioso R. Biscardi op. cit. Luigi Romolo Cielo, Insediamento e incastellamento nell'area di Sant'Agata de Goti, in "Mélanges de l'Ecole française de Rome.Moyen-Age", tomo 118, n°1 anno 2006 5 idem 6 ibidem 7 Federico Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiae [...]rebusque ab iis praeclare gestis deducta serie ad nostram usque aetatem opus singulare provinciis XX distinctum in quo ecclesiarum origine urbium conditiones, principium donationes recondita monumenta in lucem proferuntur, I-IX, Roma, 1644-1662 3 4 pontefice sotto il nome di Pio V. 8 Il successore Pellei, nominato vescovo da Papa Sisto V, fra tutti caro al detto pontefice, restò in carica dal 1588 al 1595; anch’egli nel tempo della sua gestione visitò tre volte questa diocesi. Infine, a proposito del vescovo Santucci in carica dal 1595 al 1607, De Lucia rimanda sbrigativamente all’Ughellio. 9 Figura 1 Perimetro della Diocesi di Sant’Agata de Goti fondata nel 970 secondo Luigi Romolo Cielo (2006) 8 Francesco Viparelli, Memorie storiche della città di S. Agata dei Goti, per l'epoca dal principio dell'Era volgare sino al 1840, Napoli, 1841 9 idem pag.29 Amministrazione laica e clericale del feudo tra XV e XVI secolo Nel 1414 la regina del Regno di Napoli Giovanna II successe a Ladislao, suo fratello, già erede di Giovanna I morta assassinata. Nel 1432 la regina prese sotto la sua protezione Baldassarre De la Rath10, nobile di origine catalana conte di Casa Hirta, al quale donò il feudo di Sant'Agata. Scomparsa Giovanna II, subentrò alla guida del regno Alfonso d'Aragona, re tra il 1443 e il 1458. Costui continuò a proteggere i De La Rath che si batterono strenuamente per conservare la proprietà del feudo. A metà del Cinquecento Caterina De la Rath duchessa di Caserta sposò in seconde nozze Andrea Matteo Acquaviva già duca D'Atri, desideroso di accrescere la sua potenza all'interno del Regno di Napoli anche acquisendo la fortezza santagatese11. A seguito della mutazione dello scenario politico, i De la Rath - Acquaviva persero il feudo, che passò alla famiglia Cossa (detta anche Coscia o Salvacossa), originaria della Grecia, il cui casato derivava dall'Isola di Ischia, chiamata appunto anticamente Coxa. Uno dei componenti, Pietro Cossa settimo Signore di Procida, nel 1510 sposò in seconde nozze Camilla Carafa della Stadera, discendente di Antonio Carafa della Stadera, Conte di Maddaloni e Airola, soprannominato Malizia per le sue ineguagliabili capacità diplomatiche, soprattutto ai tempi di Ladislao e di Giovanna II. Ma presto gli Acquaviva subentrarono nella contesa del feudo santagatese, acquisendolo fino al 1529. Dopo questa data il titolo di duca di Sant'Agata dei Goti passò a Giovanni Camillo Cossa. Marito di Cornelia Pignatelli, nobile benefattrice alla quale Sant'Agata deve la ristrutturazione dell'antica casa di accoglienza e cura fondata dai monaci Ospitalieri nel 1229, avvenuta proprio nel 1529, «epoca in cui fu affidata la cura ed assistenza degli infermi poveri ai Fate-bene-Fratelli di Napoli, e prese il nome di Ospedale di San Giovanni di Dio».12 Il figlio di Andrea Matteo Acquaviva (morto nel 1529 col titolo di Gran Siniscalco del Regno di Napoli), Giulio Antonio Acquaviva, perseguendo le politiche del padre si impossessò ancora una volta del feudo di Sant'Agata divenendo nel 1579 Principe di Caserta e di Teano con l’appoggio del re Filippo II d'Asburgo. La lotta tra famiglie per il possesso della rocca di Sant'Agata continuò: nel 1585 Francesco De la Rath marito di Donna Altobella Gesualdo, riuscì ancora una volta a riconquistare favori e titolo...contrastato da Giovan Paolo Cossa, il quale riuscì ad avere la meglio nello stesso anno, ottenendo anche il feudo di Mirabella in Principato Ultra, oggi provincia di Avellino. Dopo ulteriori efferate lotte dinastiche il feudo di Sant'Agata venne acquisito dalla nipote di Diomede Carafa II, della famiglia dei Carafa della Stadera duchi di Maddaloni e Frosolone; terzo Conte di Maddaloni, 10 Il nome in origine si riferisce probabilmente alla Tuath, fortificazione a forma di anello, formata da rialzi di terreno in forma di scarpata, che nell'antichità protegge abitati itineranti e isolati sparsi sul territorio. Il "Signore della Tuath” (o della Rath) più estesa veniva riconosciuto quale capo assoluto della comunità che vi abitava, decidendo per essa Rosanna Biscardi L’arco in fondo alla valle – il mistero architettonico di Sant’Agata de Goti, Napoli, Cervino, 2015 (a cura di) Archeoclub D'Italia sede di Sant'Agata dei Goti, Statuto organico dello Spedale di San Giovanni di Dio del comune di Sant'Agata dei Goti, Benevento, 1879.pag. 10 11 12 sposato tre volte, Diomede fu uomo ricco di discendenze e morì nel 1523. Alla fine del Cinquecento, Giovanna Carafa portò il feudo di Sant'Agata in dote al marito, membro della famiglia dei Principi di Colubrano; ma non è possibile indicare l'anno esatto. 13 Dal 1546 il Capitolo della cattedrale di Sant'Agata dei Goti, sempre più potente sul territorio, modificò la sua gerarchia aggiungendo ai Canonici nuove figure, cosiddette Dignità: l'Arcidiacono, il Decano, i Primicerii e il Tesoriere. 14 Di conseguenza dieci parrocchie sulle diciassette esistenti furono rette dal Capitolo o da un gruppo di Canonici o da una Dignità; inoltre, «[…] il Capitolo si trovò ad essere una "potenza" per il numero dei membri, per la disponibilità economica, per l'accentramento della cura d'anime, per il monopolio su ogni altra celebrazione di culto». 15 L'acquisizione di nuovi estesi possedimenti nel feudo contribuì non poco all'espansione del potere clericale. Tale acquisizione fu possibile grazie alla soppressione di tre importanti abbazie fondate nel XII secolo e poi decadute: San Lorenzo a Pietrapiana, Santa Sofia e San Menna. Secondo quanto scrive Viparelli, il vescovo Michele Capobianco, eletto nel 1487, riuscì ad ottenere nel 1505 l'abbazia cistercense di San Lorenzo a Pietrapiana e i suoi beni, che erano stati dati in commenda nel 1495 all'abate Melchiorre Limata di S. Agata; «[…] solo aggiungiamo, che con l’addizione della badia di S. Lorenzo a monte divenne il Capitolo padrone di parte del pascolo dei demani di questa città, che col tratto del tempo fu dallo stesso Capitolo transatto per la decima parte in virtù di concordia, e convenzione solennemente conchiusa fra il Rev. Capitolo ed i Magnifici Eletti al buon governo di questo comune di allora, mediante stipulato del fu notar Giovanni Domenico Marzocco del 4 febbraio 1613, copia del quale atto esiste in questo vescovile Archivio, ed abbiamo letta». 16 A proposito dei benefici acquisiti dal Capitolo Cattedrale di Sant’Agata de Goti è ancora Francesco Viparelli a riferire in una nota in calce: «… Non si va molto lontano dal vero se si dice che tale crescita avvenne tra la fine del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento, anche in vista della richiesta di annettere alla massa Capitolare le vaste proprietà dell’abbazia cistercense di S. Lorenzo a Pietrapiana e di quella benedettina di S. Sofia in città, inoltrata a Roma nel 1503 e ottenuto assenso nel 1505 per la prima e nel 1506 per la seconda, da tempo l’una e l’altra date in commenda». 17 A proposito della chiesa e della badia di San Menna Viparelli scrive: «Sotto il pontificato di Gregorio XIII nel 1575, (...) la cura delle anime fu unita alla Parrocchia di Sant'Angelo in Munculanis, e la Badìa con le rendite fu data in commenda all' abbate don Pompeo Bozzuto (...). Morto il Bozzuto nel 1597 da Clemente VIII la chiesa colle rendite fu data al collegio Gesuitico Santa Maria Scozzese di Roma, che la possedé fino al 1773». 18 I personaggi più importanti della famiglia Acquaviva, Andrea Matteo III vissuto tra il 1456 e il 1529, e Claudio Acquaviva vissuto tra Enciclopedia Genealogica del Mediterraneo, Libro d'Oro della Nobiltà Mediterranea voci: De la Rath -Cossa-Acquaviva-Carafa Antonio Abbatiello, La cura delle Anime...op. cit. pag. 12 15 Idem pag.13 16 F. Viparelli, op. cit. pag. 72 17 idem pagg. 70-72 18 Ibidem. pag. 24 13 14 il 1543 e il 1615, ebbero un ruolo importante per il feudo all’epoca della spartizione dei beni abbaziali. È importante ricordare che dal 1567 Felice Peretti, futuro Papa Sisto V, fu vescovo di Sant'Agata dei Goti e che all’epoca il feudo era una proprietà di Claudio Acquaviva, generale dei Gesuiti, figura determinante per l'espansione di questo Ordine in tutto il mondo, al quale toccò spesso il ruolo di intercessore presso il Pontefice nella difesa delle regole e dei principi dei confratelli. Potrebbe essere di questo periodo la fondazione del Collegio dei Gesuiti di S. Maria Scozzese di Roma a Sant'Agata di cui parla Viparelli che, a quanto scrive, acquisì le terre e i beni appartenuti alla badìa di San Menna nel Medioevo. La denominazione Santa Maria Scozzese suona inedita, considerando l'inesistenza di una dedica del genere riferita alla Vergine Maria: non risultano infatti chiese o edifici religiosi con questa titolazione. Riferendoci alla Capitale, l'unica chiesa che possa collegarsi al collegio menzionato da Viparelli è quella di Sant'Andrea: «Nella strada Felice è situata questa chiesa dedicata al detto San Apostolo Protettore del Regno di Scozia, e ad essa è unito il Collegio di quella Nazione fondato da Clemente VIII nell'anno 1600 dato poi alla cura dei Padri Gesuiti dal Pontefice Paolo V». 19 Nel catasto Onciario del 1754, si fa menzione dei beni del Sacro Seminario della Nazione Scozzese di S. Menna... 20 Qui sembrerebbe una denominazione d'altra natura, riferita ad una ‘Nazione’21 stabilitasi nell’antico convento di San Menna. Infine, sulle Parrocchie santagatesi alla vigilia dell’arrivo di Diotallevi, Francesco Viparelli riporta: «...Nel 1590 sotto M.r Pelleo le Parrocchie furono ridotte a sette [...] Esse erano: 1. Cattedrale, alla quale era unita la Cura di S. Giovanni in astraco 2. S. Maria de Futinis, che riuniva in sè le cure di S. Agata sopra la porta, S. Martino e S. Simeone 3. S. Giovanni a Corte a cui era aggregata la Cura di S. Marco22 4. S. Angelo de-munculanis, che in sè racchìudea la Cura di S. Menna 5. S. Bartolomeo de ferrariis e S. Pietro de Sterponibus governato dal Primicerio primo, detto Curato 6. S. Agata de Marenis governata dall’ Archidiacono, a cui era annessa la Cura di S. Donato 7. S. Nicola al Borgo, ed alla stessa incorporate le Parrocchie di S. Benedetto e S. Angelo di Lajano».23 Come si vede, all’inizio del XVII secolo all’arrivo di Diotallevi esistevano solo le parrocchie racchiuse tra le mura del borgo, essendo decadute tutte quelle extramoenia. AA.VV. Roma sacra e moderna già descritta dal Pancirolo ed accresciuta da Francesco Posterla...Roma, 1725, pag. 212 Angelina Zeoli, Bruno R. Lepore, Sant'Agata de' Goti nel Catasto Carolino dl 1752 - lineamenti di storia urbana e territoriale, Benevento Torre della Biffa, 2002 21 la Nazione è una corporazione di mestieri di fondazione medievale 22 oggi chiesa di Santa Maria delle Grazie 23 F. Viparelli op. cit pag. 27 19 20 Trasformazioni del palazzo episcopale: il cunicolo Nel paragrafo dedicato ad Amoratto, nobile patrizio capuano eletto vescovo di Sant’Agata de Goti nel 1455, Vincenzo De Lucia scrive che, a seguito del terremoto del ’56, «vi fu il rovesciamento dell’episcopio e di buona parte della cattedrale. E fu da lui in poco tempo rifatto l’una e l’altra».24 Nei primi anni del Cinquecento anche Monsignor Giovanni Guevara ristaurò le fabriche dell’episcopio con farci delle notabili aggiunzioni.25 Infine, del vescovo Pellei dice genericamente che rifece l’episcopio. 26 Si giunge al 1608, anno della nomina a vescovo di Ettore Diotallevi nobile e nativo di Rimini, che si insedia a Sant’Agata de Goti in un palazzo già ampliato e ristrutturato più volte. Diotallevi lasciò il suo segno negli ambienti cinquecenteschi commissionando alcune pitture decorative alle pareti; ed eresse un pubblico pozzo in mezzo al cortile del suo episcopio27. Secondo Viparelli, che si basa su una iscrizione commemorativa, si tratta dello stesso pozzo che essendo rovinato col tremuoto de’5 giugno 1688 fu ristorato e restituito al pubblico uso da M.r Albini. 28 L’area di collocazione del pozzo e degli affreschi è oggi al piano terra e ammezzato del lato est del complesso episcopale. Gli affreschi furono completati nel 1613, come riporta il cartiglio sulla parete; gli autori sono ancora anonimi. Nell’arco di tre secoli le modifiche alla residenza episcopale si susseguono; De Lucia parlando del successore di Diotallevi, Giovanni Agostino Gandulfo nominato nel 1635 da Urbano VIII, dice che Costruì il quarto superiore del suo episcopio; 29 il vescovo Muzio Gaeta de’ duchi di San Nicola, patrizio napoletano parente del consigliere di Carlo III di Borbone Carlo Gaeta, tra il 1723 e il 1735 amplia e ricostruisce sia la cattedrale, sia l’episcopio con un progetto unitario. La parte settecentesca viene saldata a quella cinquecentesca attraverso il corpo di una scala veramente maestosa che non poté perfezionare per la sua celere partenza da Sant’Agata. 30 Il suo successore Flaminio Danza de’ duchi di Faicchio perfezionò la fabbrica del vescovado rimasta incompleta dal suo predecessore. 31 Dal 1818 il vescovo Orazio Magliola già vescovo di Acerra, in occasione dell’unione delle due Diocesi «rinvenuti gli episcopi di Sant’Agata e di Arienzo rovinati e mal ridotti per la lunga vacanza della sede di circa anni 20 e che perciò si erano resi inabitabili, li riattò a proprie spese».32 Dal 1828 il vescovo Emanuele Maria Bellorado, nobile napoletano di origine spagnola, «Ricostrusse sul vecchio episcopio di Sant’Agata un’elegante abitazione, erogandovi circa 3000 ducati: se avesse avuto più lunga vita avrebbe perfezionato anche il novo palazzo fabbricato dal Vincenzo De Lucia, Cenno topografico e storico della città e diocesi di Sant’Agata de Goti, compilato da Vincenzo de Lucia Canonico della Cattedrale della medesima città, Napoli M. Avallone, 1844, pag. 23 25 idem, pag. 25 26 ibidem pag.29 27 De Lucia, pag.31 28 F. Viparelli op. cit. pag. 85 nota (1) 29 V. De Lucia, op. cit. 32 30 idem pag.35 31 Ibidem pag-38 32 De Lucia, pag. 42 24 suo antecessore Gaeta».33 Nonostante gli ampliamenti e le ristrutturazioni ad opera dei vari vescovi, gli affreschi dell’episcopio commissionati da Ettore Diotallevi furono rispettati. Oggi si ammirano all’interno di quattro locali voltati collocati al piano terra presso un cortile ‘minore’; nella parte alta delle pareti si aprono le piccole aperture di un corridoio cieco collocato in ammezzato, nascosto in una doppia parete, detto oggi ‘cunicolo alfonsiano’. Gli affreschi decorativi sulle pareti del cunicolo mostrano elementi riferiti ai valori cristiani di Ettore Diotallevi, in un linguaggio pittorico semplice ma espressivo. I contenuti mistici e laici raffigurati furono strumento di meditazione e penitenza del vescovo agli inizi del XVIII secolo, come d’uso al suo tempo. Figura 2 Episcopio, piano terra est: cartiglio con la datazione degli affreschi 33 idem. pag. 43 IL VESCOVO La formazione Le esperienze e i valori di Ettore Diotallevi, nominato vescovo della Diocesi di Sant’Agata de Goti il 4 febbraio 1608 da Papa Paolo V34, sono di grande importanza per comprendere il significato degli affreschi all’interno del palazzo episcopale della città, oggi compreso nel percorso di visita del MILA, Museo dei Luoghi Alfonsiani. Il giovane Ettore si può considerare, per un breve volger di anni, contemporaneo di Felice Peretti, morto nel 1590, frate Francescano dell’Ordine Conventuale, vescovo di Sant’Agata dal 15 dicembre 1566 al 17 dicembre 1571, trasferito alla Diocesi di Fano e poi eletto Pontefice col nome di Sisto V dal 28 Luglio 1585. Felice prese i voti a 14 anni nel 1534, cominciando la sua opera di predicatore nel 1540 e Continuò negli anni seguenti nei piccoli centri dei dintorni di Ferrara e di Bologna35. Dal 1545 al 1551 predicò a Rimini, Macerata, San Gimignano, San Miniato al Tedesco, Ascoli, Fano e Camerino, riscuotendo grande seguito. All’epoca era in corso il Concilio di Trento per combattere la Riforma protestante di Lutero; Peretti fu invitato a Roma nella chiesa dei Santi Apostoli, dove la sua seguitissima predica purtroppo gli valse un’accusa di eresia, presto sconfessata dall’Inquisitore Cardinale Ghislieri, che lo prese a benvolere. Negli anni trascorsi a Roma Felice Peretti conquistò la benevolenza e la fiducia di Papa Pio V, anima ardente di religioso e per taluni aspetti fanatico che lo nominò vescovo della nostra Diocesi «antica e prestigiosa, ma ove l’attività febbrile di Felice Peretti ebbe ben scarsa occasione di esplicarsi [...]»36. Come scrive de Feo, il vescovo Peretti «era d’esempio ai suoi diocesani negli esercizi di pietà cristiana che lo vedevano sempre esemplare e partecipe [...] tuttavia, di tanto in tanto si allontanava dalla sede per sbrigare le faccende dell’Ordine che esigevano la sua presenza a Roma o altrove».37 Il vescovo ricopriva, infatti, anche la carica di Consultore dell’Inquisizione romana e di Procuratore Generale dei Francescani, «una carica altissima che lo poneva in diretto quotidiano contatto con la Curia. Nel 1570 fu eletto Cardinale e in questa occasione assegnato, per la sua competenza in materia di libri, alla Congregazione dell’Indice e a quella dei Vescovi e Regolari che trattava più specificamente degli affari e dell’organizzazione della Chiesa [...]».38 Per comprendere il clima in cui si forma Ettore Diotallevi, «è necessario fermare l’attenzione su ciò che Sisto fece affinché i decreti del Concilio tridentino riguardanti il clero e gli ordini religiosi fossero eseguiti. Egli non era uomo di mezze misure; lo stesso Pio V, rigidissimo in fatto di costumi e che aveva dato prova d’intransigenza in molte occasioni, appariva mite a suo paragone [...] il Papa voleva che la Curia e gli ecclesiastici di Roma servissero di modello a tutto l’orbe V. de Lucia, op. cit. pagg. 31-32 Italo De Feo Sisto V, un grande Papa tra Rinascimento e Barocco, Milano, Fabbri Editori,1987, pagg 51-53 36 idem 37 ibidem 38 De Feo, op. cit. pagg.47-53 34 35 cattolico»39. L’azione di Papa Sisto V lascia il segno: «Le carceri di Roma si riempirono presto di un numero tanto grande di giocatori, scommettitori, bestemmiatori, truffatori che non bastavano a contenerli. Il Papa combatté anche l’indisciplina dei clerici vagantes, che si spostavano di monastero in monastero ufficialmente per recare notizie e dispacci. Si era al punto, infatti, che nel Cinquecento i frati abbandonavano i conventi per sentirsi più liberi e, pur conservando l’abito e le sue prerogative, di fatto menavano una vita mondana».40 Come francescano conventuale il Papa sentì la necessità di disciplinare il clero regolare, allineandolo ai canoni del concilio tridentino. E a ciò contribuì l’attività delle Congregazioni. Nel 1586 Peretti appoggiò Camillo de Lellis fondatore della Congregazione dei Padri della buona Morte dedita all’assistenza dei poveri infermi molto attivi a Napoli durante l’epidemia di peste del 1588. Fondò anche altre Congregazioni in cui volle come coadiutori sia i venerabili vescovi suoi fratelli [...] sia l’illustre ordine dei cardinali. 41 Anche l’atteggiamento verso l’ebraismo fu determinante: Papa Sisto V concesse agli ebrei la libertà di stabilirsi con le loro attività in tutto lo Stato ecclesiastico, tollerando i loro riti, le loro leggi e costituzioni, concedendo l’apertura di loro scuole e sinagoghe per esercitare i loro offici. Dettò anche delle restrizioni: «[gli ebrei] non possono abitare nei villaggi, non possono avere a servizio cristiani; benché quando viaggiano per i loro traffici, come quando si recano alle fiere, siano esentati dal portare il segno che li distingue [...] nessuno li può costringere a cambiare religione loro malgrado: sono vincolati soltanto ad ascoltare prediche di oratori cattolici tre volte l’anno».42 Riassumendo, il giovane Ettore Diotallevi incamminatosi sulla strada del sacerdozio si formò nel clima del Concilio di Trento che promosse la Controriforma, basata su rigidi principi morali e attuata con tutti i mezzi da Papa Sisto V, Felice Peretti. Non possiamo escludere che sia venuto a contatto con lui negli ultimi anni del suo pontificato. Le origini nobili Circa l’etimologia del cognome e la collocazione nel casato ramificato dei Diotallevi non si ha certezza; studi dell’Accademia Araldica Nobiliare italiana riportati nel Libro d’Oro della Nobiltà italiana vol. IX segnalano la presenza di un capostipite Francesco Diotallevo a Rimini nel 1398, consigliere di Carlo Malatesta. Un Alessandro Diotallevo fu gesuita alla fine del Seicento. Un Pietro Diotallevo risulta Commendatore di Malta e collaterale delle armate pontificie al tempo di Urbano VIII. Coevo ad Ettore risulta Francesco Diotallevi, nato nel 1580, che studiò filosofia e teologia al Collegio Romano della Compagnia di Gesù, molto vicino alle posizioni di Bellarmino. Il idem Ibidem pag.51 41 De Feo, op. cit. pag. 52 42 idem pagg 163-164 39 40 21 luglio 1614 Francesco fu creato vescovo di Sant'Angelo dei Lombardi e inviato poi in Polonia come nunzio. Il suo compito fu di impedire le ingerenze del re nelle nomine cardinalizie; applicare i canoni del concilio tridentino ristabilendo la moralità perduta di parroci e vescovi; creare seminari vescovili, domare i clerici più riottosi e indisciplinati. Oltre a ciò, fu incaricato di negare concessioni ai protestanti, recuperando le chiese parrocchiali, nel tentativo di convertire gli eretici ricorrendo all'azione dei gesuiti. 43 Il casato dei Diotallevi è diviso tra più rami: i nobili del Sacro Romano Impero, i patrizi di Rimini, i patrizi e marchesi di San Marino. Nondimeno, a suggello della sua origine e provenienza il vescovo Diotallevi fa riprodurre il suo stemma sulle pareti al piano terra dell’episcopio. Lo stesso corrisponde ad un’immagine tratta dal manoscritto 319 custodito nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma riferito ai patrizi Diotallevi di Rimini e di Modena: di rosso al putto di carnagione, la destra alzata, la sinistra appoggiata all’anca, col capo d’azzurro all’aquila al nero dal volo spiegato fra 3 stelle di sei raggi d’oro. Sulle pareti affrescate si trovano raffigurati, a mo’ di decorazione, anche gli elementi compositivi del cimiero44 della stessa famiglia: un tronco di quercia; ai due lati tre rami circondanti lo scudo, in alto sul tronco un elmo coronato d'oro sormontato da un'aquila di nero linguata di rosso. Della famiglia di Ettore Diotallevi sappiamo che aveva due fratelli minori appartenenti alla Confraternita di San Girolamo di Rimini. Nell’Inventario dell’archivio storico della stessa, infatti, al capitolo Registro dei beni annessi alla sindacheria al n. 19 si legge: Legato delle primogeniture Diotallevi di Ettore Diotallevi vescovo prima di Sant’Agata de Goti e poi di Fano, istituito in data 1° dicembre 1626 a rogito del notaio Cesare Florelli a favore dei fratelli Giorgio e Alessandro (48 lire di monte fruttanti ogni anno 216 denari) 45. A conferma di ciò, nel 1587 nell’elenco dei confratelli compaiono Alessandro Diotallevi (fino al 1601) e Giorgio Diotallevi, quest’ultimo morto nel 1625 e sepolto nella chiesa di San Giovanni Evangelista. 46 Matteo Sanfilippo, voce Diotallevi, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani, 1991, vol. 40 emblema di guerra della famiglia, nel Medioevo fissato in cima all’elmo in segno di riconoscimento sul campo di battaglia 45 (a cura di) Silvia Crociati, Inventario dell’archivio storico della confraternita di San Girolamo e SS Trinità a Rimini (1442-1968), SA per l’Emilia Romagna, 2009 serie 1.10 registri dei beni annessi alla sindacheria, sec. XVIII seconda metà; reg.1 pag. 111 46 Idem, Appendice 1 Elenco dei confratelli dalla fondazione al 1841, pag. 101 43 44 Figura 3 Episcopio di Sant’Agata de Goti, ambienti est del piano terra: stemma del vescovo Ettore Diotallevi Figura 4 Dettaglio dello stemma dei patrizi Diotallevi di Rimini e Modena, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma Figura 5 Episcopio, ambienti al piano terra: simboli del cimiero della famiglia Diotallevi Rapporti con Confraternite e Congregazioni Fin dal Medioevo Confraternite e Congregazioni di laici dediti alla penitenza hanno rappresentato per la Chiesa mezzi per ricucire maglie sociali allentate da pericoli, guerre, epidemie e carestie. La segretezza e la ripetitività della penitenza laica si deve a San Colombano che la diffuse in Europa nel VI secolo47. Nel 960 si concesse ai penitenti francescani laici servi e coloni la flagellazione e la fustigazione pubblica, attraverso uno strumento chiamato disciplina.48 Con Papa Sisto V le processioni penitenziali laiche diventarono strumento di contrasto alla Riforma Protestante. Negli anni in cui fu un semplice frate predicatore a Roma, infatti, Felice Peretti conobbe grandi personalità come Ignazio di Loyola, Gian Pietro Carafa, (diventato poi Papa Paolo IV) e Filippo Neri. Quest’ultimo iniziò venticinquenne la sua formazione ascetica percorrendo a piedi per un decennio i sentieri accidentati che conducevano alle chiese disperse nella campagna romana. Filippo compiva questi cammini devozionali da solo; col tempo gli si affiancò qualche amico. Così, le devote passeggiate attraverso boschi e campi coltivati si trasformarono in vere e proprie processioni di penitenza e meditazione, che toccavano più chiese o le catacombe di San Sebastiano, cunicoli naturali luoghi di preghiera preferiti di Neri. Gli effetti di queste processioni furono così toccanti che nel 1548 Filippo Neri fondò la Confraternita dei pellegrini e dei convalescenti per il culto, l'apostolato, la preghiera e l'assistenza agl'infermi; era 47 48 Antonio Fregona L’Ordine francescano secolare, storia, legislazione, spiritualità, Limena, Ed Imprimenda, 2007 pag.24 idem pag.27 ancora laico, ma cominciò a tenere discorsi nelle chiese. Divenne sacerdote nel 1551, andando a vivere nella Casa Canonica presso la chiesa di San Girolamo della Carità. Nel 1558 fondò la Congregazione dell’Oratorio, riunendo solo devoti laici; dal 1559 i congregati iniziarono a praticare abitualmente le passeggiate devote verso le sette chiese di Roma. Nel 1572 la Congregazione dell’Oratorio aprì le porte anche al clero regolare: teatini, somaschi, barnabiti e gesuiti. Neri si affiancò ad Ignazio di Loyola, ideatore e fondatore della Compagnia di Gesù. 49 Papa Sisto V fu favorevole alle Congregazioni, pur entrando talvolta in conflitto con Oratoriani e Gesuiti. Varie Congregazioni e Confraternite nacquero ai tempi di Ettore Diotallevi: già dai primi del Cinquecento a Napoli esisteva la Confraternita di Santa Maria della Pietà; qualche anno dopo fu fondata quella detta dei Bianchi, per l’assistenza dei condannati a morte. In Veneto nacque la Compagnia dei Servi dei Poveri, per assistere gli orfani; infine, nel 1535 nacque la Congregazione dei Fratelli della Misericordia chiamati poi ‘Fate bene Fratelli’, per la cura delle malattie mortificanti. Il sacerdote e ricercatore George Vassallo, coordinatore dell'Arcidiocesi di Malta, per il quale Diotallevi sarebbe nativo di Roma, scrive quanto fosse noto per la sua saggezza e la vita esemplare che condusse.50 Dal 1602 al 1608 Ettore fu nella Capitale, dal momento che ricoprì la carica di prefetto della Congregazione mariana dell’Assunta detta ‘dei Nobili di Gesù’ fondata nella notte di Natale del 1593 in una chiesetta annessa alla chiesa del Gesù di Roma. 51 Come scrive Pier Giorgio Imbrighi, «la Congregazione nacque e fu denominata sin da principio ‘dei Nobili’, tali essendo per nascita e pietà i gentiluomini che la fondarono, e la Regola prevedeva una devozione speciale alla Santa Vergine e al mistero della Sua gloriosa Assunzione... Fu uno dei primi sodalizi istituiti dai Gesuiti sotto il titolo e il patrocinio della Vergine Santissima». 52 Nel 1593 si stabilirono anche i doveri dei congregati: tenere conferenze spirituali, praticare l’esercizio della disciplina, visitare i carcerati e gli infermi degli ospedali e fare orazioni delle Quarantore al Gesù. Il patrono secondario della Congregazione, Luigi Gonzaga, gesuita morto nel 159, fu anche patrono della gioventù cattolica. Il 21 giugno per festeggiarlo si teneva una solenne Messa cantata con il prefetto e nove congregati preceduti dal Padre Direttore, in processione dalla sagrestia della chiesa all’altare, con le torce spente in mano in offerta al celebrante. Il clima di profondo misticismo instaurato da Confraternite e Congregazioni penitenziali, nonché la stessa appartenenza alla Congregazione dei Nobili nel ruolo di prefetto, condizionarono l’episcopato di Ettore Diotallevi; ciò è avallato da quanto afferma De Lucia: ...Istituì le Congregazioni de’ casi morali nella città e diocesi53. Pericle Perali, voce Filippo Neri, santo in Enciclopedia Italiana Treccani 1932 https://www.treccani.it Vassallo, The Inquisitors in Malta 1561-1798, 2014 in Birgu, A. Maltese Maritime City Vol II su https://vassallohistory.wordpress.com/2014/02/19/the-inquisitors-in-malta/ 51 (a cura di) Francesco Pacelli, Congregazione Mariana dell'Assunta, Notizie storiche su tutti gli appartenenti, Roma 2004-Elenco dei prefetti della Fondazione (1593) in https://www.congregazionemarianadellassunta.it/organigramma 52 Giorgio Imbrighi, Quattro secoli di Storia in https://www.congregazionemarianadellassunta.it/home 53 V. de Lucia op.cit. pagg. 31-32 49 50 George L’ attività di Inquisitore La Congregazione dell’Assunta, di cui Ettore Diotallevi fu prefetto dal 1602 al 1608, contava un numero considerevole di prelati, vescovi e religiosi, canonici e abati. Ma anche cavalieri e dame del Sovrano Militare Ordine di Malta e dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. 54 È forse questa circostanza a spingere il giovane Diotallevi verso una carriera di Inquisitore a Malta. 55La sede inquisitoria del Sant’Uffizzio dell’isola, diretta dal 1530 dall'ordine religioso dei Cavalieri di Malta, era stata istituita nel 1561. Con la diffusione del protestantesimo (i cui accoliti avevano fondato la Confraternita dei Buoni Cristiani), fu necessario, infatti, combattere l’eresia; l’attività inquisitoriale a Malta contrastò questo fenomeno, occupandosi poi anche di stregoneria e Massoneria. Gli Inquisitori erano prelati che muovevano i primi passi nel loro cursus honorum, diventando sorta di ministri plenipotenziari pontifici con mansioni di nunzi. 56 Il Sant’Uffizio dell'Inquisizione (o Santo Ufficio) fu una rete di tribunali riorganizzata dal Papa Paolo III con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 per reprimere le eresie negli Stati dell'Italia centro-settentrionale. Il Sant’Uffizio di Roma fu riformato da papa Sisto V con la bolla Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1588. L’Uffizzio indagava e inquisiva, quindi accusava e condannava, tutti coloro che andavano contro i principi morali della Chiesa, la fede cristiana e, in generale, la morale comune. Era considerato lo strumento principale del controllo e del potere papale, importante custode della disciplina e dell’ordine sociale. La Congregazione del Santo Uffizio giudicava reati come l’apostasia e lo scisma; il mancato rispetto dei sacramenti e dei costumi morali; gli atti di bigamia, poligamia, stupro, sodomia, stregoneria, superstizione, usura. Questi atti convergevano nell’accusa di eresia, giudicata gravissima, in quanto si riteneva che gli eretici destabilizzassero la società. Il Papa era prefetto della Congregazione del Santo Uffizio, aiutato da un cardinale segretario, dall’assessore e dal commissario dell’Ordine dei Domenicani, cosiddetti Predicatori. Collaborava anche la Consulta teologica, composta da un gruppo di religiosi, un avvocato fiscale, l’avvocato dei rei, il capo notaro e della cancelleria. La presenza dell’avvocato fiscale era necessaria per emettere la condanna, che consisteva nel sequestro dei beni ai condannati, assimilati al patrimonio della Chiesa Romana e dello Stato Pontificio. L’applicazione della condanna colpì pesantemente i più ricchi e potenti, privati di tutte le loro proprietà.57Nel Regno di Napoli non operarono né l'Inquisizione romana, né la spagnola che invece fu attiva in Sicilia; il Sant’Ufficio fu gestito solo da vescovi e tribunali diocesani. Nel 1585 nacque a tal’uopo nel Regno di Napoli la figura del ministro del Sant'Uffizio: il primo fu Carlo Baldini, arcivescovo di Sorrento. Il ministro rappresentò l'Inquisizione romana con compiti limitati; idem Censimento degli archivi inquisitoriali in Italia, Fondo Sant’Ufficio di Malta, Inquisizione di Malta 1546-1798, SIUSA, 2012 su https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgibin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodente&Chiave=56465&RicSez=produttori&RicFrmRicSempli ce=ettore%20diotallevi%20&RicProgetto=inquisizione&RicVM=ricercasemplice 56 voce Sede inquisitoria di Malta in Cathopedia l’enciclopedia cattolica su https://it.cathopedia.org/wiki/Sede_inquisitoria_di_Malta 57 Francesca d’Avino, La confisca dei beni agli eretici nella Napoli di età moderna, Tesi di Dottorato in Diritto Romano e tradizione romanistica su http://www.fedoa.unina.it/8581/1/davino_francesca.pdf 54 55 ma il suo operato non fu benvisto a Napoli. Il compito di scoprire, indagare e condannare gli eretici, infatti, scattava a seguito di denunce anonime; il loro carattere segreto divenne presto oggetto di abuso. Nacquero così controversie legali che condizionarono la giustizia ecclesiastica; per tutto il XVII secolo le azioni del Sant’Uffizio nel Regno di Napoli furono, infatti, legalmente avversate dagli accusati. La denuncia legale sfociò in una vera e propria protesta nel 1661, a seguito della pubblicazione di un libro anonimo intitolato Raggioni per la Fedelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisizione. Secondo il libercolo, l’Inquisizione agiva in modo troppo superficiale: i giudici, avvalendosi di “inusitati riti” raccoglievano da “persone notoriamente infami le frivole prove” abusando dell’usitato stile di cavar la verità da' Rei per mezzo de' tormenti 58. La denuncia anonima dava indubbiamente credibilità a testimoni non attendibili, desiderosi spesso di vendicarsi di presunti eretici che tali non erano. Il disagio, però, fu anche un altro: a seguito delle condanne inferte ai nobili libertini, i sostanziosi sequestri dei beni pesarono sull’economia del Regno di Napoli, andando ad aumentare il patrimonio dello stato Pontificio. Una situazione mal vista soprattutto da Carlo III dei Borbone, che appoggiò in parte le richieste dei nobili accusati. 59 Nel biennio 1605-1607 Ettore Diotallevi ricoprì la carica di Inquisitore a Malta, dove gli inquisitori furono anche delegati apostolici o nunzi in corrispondenza con la Segreteria di Stato, e rappresentanti di varie Congregazioni: del Concilio, di Propaganda Fide, dei Vescovi e Regolari, dell'Immunità ecclesiastica. Gli inquisitori di Malta, 63 in tutto, vennero sempre nominati direttamente dal Papa e dalla suprema Congregazione del Sant'Ufficio. 60 Scrive Vassallo al proposito di Diotallevi: «In gioventù fu nominato Inquisitore di Malta il 24 maggio 1605. I cavalieri lo consideravano troppo intransigente e ostentato. Il suo atteggiamento fu rimarcato anche da Roma allo scopo di correggere i suoi errori di inesperienza giovanile. Il suo eccessivo zelo era alla radice della maggior parte dei suoi litigi. Lasciò Malta nel gennaio 1607 e, l'anno successivo, fu nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti» 61. Francesco Viparelli aggiunge una notizia interessante: «[...]E’ sempre memorabile, e degna di eterna riconoscenza dei vescovi suoi predecessori l’aurea difesa della giurisdizione del castello di Bagnoli da esso sostenuta il dì 11 settembre 1631 innanzi a’ Ministri del Regio Collateral Consiglio, con giungere fino a scomunicarli, e dopo guadagnata la causa, si recò in Roma, ove in ricompensa de’ suoi servigi resi a questa Chiesa nel giro di anni 27 che la resse con tanto zelo e prudenza, fu traslocato li 17 settembre 1635 dal Pontefice Urbano VIII alla Chiesa Vescovile di Fano»62. Ciò confermerebbe una figura di vescovo dedito all’esercizio della sua integrità. L’esperienza di Inquisitore a Malta, idem ibidem 60 (a cura di) Frans Ciappara, Censimento degli archivi inquisitoriali in Italia, Fondo Sant’Ufficio di Malta, Inquisizione di Malta 15461798, SIUSA, 2012 Inquisitori di Malta 1561-1798 su https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgibin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodente&Chiave=56465&RicSez=produttori&RicFrmRicSempli ce=ettore%20diotallevi%20&RicProgetto=inquisizione&RicVM=ricercasemplice 61 G. Vassallo op. cit. 62 Viparelli, Memorie istoriche… op. cit.pag. 87 58 59 seppur data per fallimentare in termini di carriera, arricchì indubbiamente l’animo del giovane Diotallevi; che scelse, in qualità di vescovo di Sant’Agata de Goti, di ammonire sé stesso prima di tutti gli altri, attraverso le immagini dipinte sulle pareti del cunicolo episcopale. In questo luogo segreto volutamente angusto si ritirava solitario in meditazione ed espiazione, su modello dei grandi penitenti Ignazio di Loyola e Filippo Neri in preghiera nei cunicoli catacombali. Le scene affrescate volute dal vescovo, riferite ad immagini del Vecchio Testamento, ricordi e cronache del suo tempo, trasfigurano i valori morali della Controriforma. GLI AFFRESCHI DEL CUNICOLO Parete destra Oltre l’ingresso del cunicolo, sulla parete destra è affrescata la scena di una processione, chiusa da una croce con uno stendardo come era d’uso per le congregazioni. I partecipanti si incamminano a coppie verso un edificio sovrastato da una cupola, su un loggiato ad archi intersecanti a tutto sesto e colonne. L’edificio è molto ben caratterizzato, segno che rappresenta un focus importante nel racconto pittorico. Le linee della costruzione sono romaniche, in pietra squadrata chiara. Nella processione le figure in abito nero sono vestite come Gesuiti; le figure barbute in saio di sacco con cappuccio portano l’abito francescano; le figure in saio e cappuccio rosso63 potrebbero appartenere a membri del Pontificium Collegium Germanicum et Hungaricum romano, un Seminario per l’educazione del clero secolare delle aree mitteleuropee, fondato nel 1580 e retto dai Padri gesuiti. 64 Il Collegio Germanico-Ungarico nacque dalla fusione di due collegi, attuata per motivi di risparmio. Nello specifico: il Collegio Germanico era nato nel 1552 grazie al papa Giulio III e a Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia dei Gesuiti, nominato primo rettore. «Durante il pontificato di Pio IV il Collegio Germanico assunse la regola del seminario per chierici e l’abito, ad eccezione del colore che per i collegiali era rosso[…] il collegio Germanico Ungarico è considerato da Brizzi uno dei due modelli di collegi retti da Gesuiti insieme al Collegio Romano». 65 La struttura aveva lo scopo di accogliere i giovani rampolli di nobili famiglie germaniche per prepararli all’esercizio di alte cariche ecclesiastiche, pronte a combattere la diffusione del protestantesimo luterano originato proprio nel nord Europa. A destra nella scena le figure in abito rosso portano il Crocefisso; altre figure sono collocate all’interno di ambienti rupestri, sedute nell’atto di leggere un testo, probabile riferimento a Sant’Ignazio di Loyola. Nato Iñigo López de Loyola, egli visse fino alla conversione religiosa come soldato mercenario al servizio di Antonio Manrique Velara a Pamplona, in Spagna. A seguito di un grave incidente di guerra, che gli procurò danni ad una gamba ed una lunga convalescenza, Iñigo decise di cambiare la sua esistenza, rinunciando alle attività militari: guerre, duelli, ma anche tornei e sfide. Dopo un viaggio in Terrasanta nel 1552 si rifugiò in preghiera in alcune grotte, proprio come Filippo Neri, scrivendo gli Esercizi Spirituali che diventarono guida per la Compagnia dei Gesuiti; abbandonata definitivamente l’armatura da cavaliere, prese i voti in un monastero della Catalogna. Da questo momento il suo ascetismo estremo lo condusse ad un grave stato di indigenza. Secondo De Feo, «la prima grande intuizione di Loyola consisté nel comprendere quale elemento di forza era stata la coesione spirituale, la disciplina che lungo i secoli s’era stabilita nella Chiesa attorno alla figura del Papa[...] la Compagnia, che assunse a propria di abiti e stoffe ecclesiastici ad uso degli artisti – Collegi romani in http://www.araldicavaticana.com Istvan. Bitskey, Il Collegio Germanico-Ungarico di Roma: contributo alla storia della cultura ungherese in età barocca, Roma Viella, 1996 65 Paolo Dinaro, Il collegio germanico –ungarico; un confronto fra la fondazione romana e la fondazione pavese, 2014 su https://www.viqueria.com/il-collegio-germanico-ungarico/ 63 Dizionario 64 denominazione il nome stesso di Gesù, nacque sotto l’insegna militare. I Gesuiti vennero conosciuti, sin dal loro sorgere, come ‘milizia del papa’, cui erano tenuti a obbedire[...] il Collegio romano della Compagnia fondato nel 1551 divenne un vivaio per la formazione di preti che univano la grande preparazione dottrinale con la più profonda pietà cristiana».66 L’iconografia tradizionale raffigura Sant’Ignazio di Loyola in tre modi: vestito con l’armatura da cavaliere spagnolo; oppure emaciato, vestito poveramente mentre è intento a scrivere tra le rocce. Infine, alla maniera di Rubens, in vesti sontuose. Il dipinto del Gianolo della prima metà del Settecento offre un’immagine di Ignazio da Loyola che si avvicina concettualmente alla figura nell’affresco santagatese: Sant'Ignazio, in abito monacale giallastro, inginocchiato su una pietra entro una grotta, scrive gli Esercizi Spirituali... 67. Figura 6 Episcopio, cunicolo al piano ammezzato: particolare della scena della processione sulla parete destra Italo De Feo op. cit. pagg. 33-35 Catalogo Generale dei Beni Culturali codice di catalogo nazionale 0300071031 in https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0300071031 66 67 Figura 7 Episcopio, cunicolo: particolare della scena sulla parete destra) e vari cherubini. Figura 8 Sant’Ignazio di Loyola scrive gli esercizi spirituali, Giacomo Parravicini detto Gianolo, 1700-1749 Andando oltre sulla parete è raffigurata la storia biblica del conflitto fra Caino e Abele nei suoi momenti salienti: i due fratelli intenti nelle loro attività di pastore e agricoltore all’interno di un paesaggio bucolico scarno, agli albori dell’Umanità sulla Terra; l’aggressione di Caino che stringe l’osso della mascella di un asino a mo’ di arma, secondo l’interpretazione ebraica della storia. I toni di colore sono seppiati; l’anatomia dei corpi dei due giovani appena ricoperti da pelli d’animale è ben definita, plastica, a differenza delle figure in processione, stilizzate ed estremamente spiritualizzate. L’autore delle scene di Caino e Abele conosce le regole pittoriche legate alla luce e alle proporzioni. Figura 9 Episcopio, cunicolo: l’immagine di Caino, agricoltore che vanga sulla parete destra del cunicolo Parete sinistra Sulla parete a sinistra, frontale agli affreschi di Caino e Abele è la scena che ha fatto pensare alla rappresentazione del Diluvio Universale (settimo e ottavo capitolo della Genesi), racconto in cui la sovrabbondanza delle acque travolge gli umani colpevoli di idolatria e corruzione. I toni di colore appaiono freddi e cupi; anche qui i busti delle figure maschili sono dipinti con precisione anatomica, sfruttando chiaroscuri più netti; spicca un particolare: la figura maschile in primo piano indossa un elmo da guerra di foggia spagnola non ascrivibile ai tempi narrati nella Bibbia. Le figure maschili a torso nudo sono miste a figure femminili vestite e a cavalli equipaggiati con selle e finiture. Non v’è traccia della raffigurazione dell’Arca di Noè. Le acque sono chiaramente agitate, si notano scogli e brandelli di spiaggia. La scena potrebbe riferirsi ad una interpretazione ebraica midrashica68, che parla di un’alluvione precedente al Diluvio Universale in cui perde la vita un terzo dell’umanità a seguito di una punizione della corruzione dei comportamenti umani e animali sulla Terra: I peccati furono l'idolatria, l'omicidio, l'immoralità ed infine il furto, infatti anche i giudici erano corrotti, non rispettando le leggi e i tribunali 69 Altra ipotesi interpretativa è che si tratti di un evento catastrofico (una tempesta, un naufragio in cui perdono la vita uomini, donne e animali) realmente accaduto all’epoca di Diotallevi, che rimanda figurativamente all’immagine del diluvio del Vecchio Testamento. Figura 10 particolari della prima scena sulla parete di sinistra 68 69 midrash è il metodo usato dai Rabbini per risolvere le contraddizioni ed eliminare le ambiguità nella Bibbia (a cura di) Alfredo Ravenna, Bereshit Rabbah, Midrash sulla genesi, Firenze, ed Giuntina 2024 Proseguendo sulla parete a sinistra dell’ingresso, in forte contrasto le scene precedenti sono rappresentati vivaci scorci di vita laica in più episodi pittorici chiari ed espressivi. Le pitture illustrano usanze e costumi sociali in auge tra fine Cinquecento e inizio Seicento; non si può escludere che si tratti di ricordi del giovane Diotallevi a Malta, in Spagna o in Italia. Altra ipotesi è che siano le ‘registrazioni’ pittoriche di eventi che hanno fatto scalpore al tempo, ispirando insegnamenti morali di supporto ai valori della Controriforma; infine, potrebbero essere episodi legati alle vicende di vita di uno specifico personaggio mistico o santo. Le ocre, le Terre, le luci e l’abbigliamento delle figure si riferiscono d un contesto mediterraneo. Il luogo urbano è reso da architetture generiche, con facciate dai loggiati arcuati, affacci molteplici, finestre; nessun elemento, tuttavia, mostra dettagli stilistici o costruttivi distintivi. E’ chiaro che l’autore usi la pittura del costruito come semplice contesto in cui collocare le figure umane femminili e maschili, focus della rappresentazione. I personaggi singoli o in gruppo sono, infatti, ben caratterizzati attraverso l’abbigliamento, la fisicità, le espressioni e i gesti, come per un ‘fumetto’. La scena è distribuita su due piani di rappresentazione; il contesto di sfondo è uno spettacolo all’aria aperta a cui assiste un denso pubblico. Davanti agli spettatori passano cavalieri armati di picca70 su destrieri bardati e imbrigliati lanciati al galoppo. Alle finestre sono appese bandiere e stendardi mentre la grigia folla che assiste, appena abbozzata, è schierata dietro le transenne e sulla tribuna d’onore. Da notare che, mentre le figure delle cavalcature risultano dipinte in modo particolareggiato, quelle dei cavalieri sono solo tratteggiate nei contorni, bianche al loro interno. La precisione e nitidezza del disegno, che in una delle figure riporta persino la sagoma del cimiero sull’elmo, lascerebbe supporre che siano rimaste incomplete. In primo piano sono rappresentati due gruppi che si fronteggiano, impugnando brocchiero71 e spada. Nel XVII secolo, nell’ultimo capitolo del Principe, Machiavelli conferma l’efficacia di questi strumenti in guerra: «nella battaglia di Ravenna, [...] gli Spagnoli, con l’agilità del corpo e l’uso dei loro brocchieri, erano penetrati sotto le picche nemiche e li colpivano stando al sicuro, senza che i Tedeschi vi avessero scampo; e se non fosse arrivata la cavalleria che li assaltò, li avrebbero uccisi tutti»72. Fournel e Zancarini spiegano che «Nei pressi della cittadina romagnola, tornata nel 1509 sotto il controllo della Chiesa, la domenica 11 aprile 1512, giorno di Pasqua, si combatté la battaglia decisiva fra le truppe spagnole e pontificie dell’esercito della lega Santa voluta da Giulio II, con alla testa il viceré di Napoli Ramon de Cardona e le truppe francesi comandate da Gaston de Foix»73. Picca e brocchiero sono dunque armi che Diotallevi ha visto usare nella sua vita. Le figure dei due gruppi, tutte maschili, vestono secondo la foggia dell’epoca lanciata in Spagna tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento; dagli abiti si distinguono i loro ruoli 70 arma simile alla lancia formata da un’asta in legno di frassino lunga fino a 6 metri, sormontata da una punta metallica scudo da pugno o da mano quasi sempre in metallo decorato in cuoio 72 Jean-Louis Fournel, Jean Claude Zancarini, voce La battaglia di Ravenna in Enciclopedia Machiavelli, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, 2014, vol. I pagg. 388-391 73 idem 71 militari: il moschettiere74 con cappello piumato a larghe tese, (il coppo rivestito internamente di metallo), camicia, gorgiera, farsetto in pelle, pantaloni cannions al ginocchio e stivali (segno di appartenenza al corpo militare). Il picchiere75 con copricapo di ferro, corazza senza maniche, pantaloni lunghi alla turca e scalzo. La figura frontale in primo piano indossa una bandoliera, molto di moda nella seconda metà del Cinquecento, portata trasversalmente sul petto e sui fianchi come una cintura, per agganciare la spada e il pugnale. Figura 11 Episcopio, cunicolo: la scena principale sulla parete a sinistra dell’ingresso i moschettieri, originati nel 1550, si affermarono nelle armate imperiali di Carlo V. Combattevano nel Tercio spagnolo accanto ai picchieri e agli spadaccini usando moschetto, spada e daga 75 I picchieri (in spagnolo piqueros) erano soldati armati di picca, adottati per primi dagli svizzeri nella fanteria. Nel XV secolo divennero bande irregolari di mercenari al soldo dei potenti. Usavano la picca e la spada indossando una corazza semplice senza maniche e un cappello di ferro. Fonte: Mariano Borgatti, voce Picchiere in Treccani, Enciclopedia italiana, 1935 in https://www.treccani.it/enciclopedia/picchiere_(Enciclopedia-Italiana)/ 74 Scrive Fulvio Sŭran: «Nel ‘500 nobili e militari iniziarono a ricorrere al duello d’onore per “risolvere la gran parte delle loro controversie al di fuori di qualsiasi intromissione statale” [...] Il diritto al singulare certamen era “percepito come un intangibile diritto naturale, che si legittimava nella terra e nella storia, nel sangue antico di nobili antenati e nell’integerrima osservanza delle virtù marziali”[...] Ceto sociale le cui regole di condotta si basavano su una presunta missione che consisteva nell’attuare la giustizia naturale per una specie di vocazione innata, che aveva ereditato con il proprio sangue e che con il proprio sangue doveva saper realizzare».76 In relazione e ciò nell’affresco voluto da Diotallevi sono raffigurati due tipi di duello; il primo, di origine medievale ma praticato in Spagna ancora nel XVI secolo, chiamato giostra o duello in torneo, mira a dare una dimostrazione di valore in pubblico, «a mantenere in allenamento quanti esercitavano il mestiere delle armi, ad esprimere in un linguaggio festoso e fastoso la complessità dell’etica cavalleresca, a trasmettere consuetudini e modelli comportamentali nobiliari».77 Questo tipo di duello fu però condannato dall’autorità ecclesiastica, determinandone la decadenza attraverso la scomunica dei partecipanti. Secondo Sŭran, «ciò avviene con il succedersi della Riforma e della Controriforma che divise l’Europa cristiana in due, e dunque in un clima poco propizio a fatui giochi di guerra, sia col verificarsi di alcuni tragici episodi che – a cominciare dalla morte in torneo nel 1559 del re di Francia, Enrico II – suscitarono un’enorme impressione e presentimenti sinistri nei contemporanei».78 Figura 12 Enrico II re di Francia (1519-1559) ritratto di anonimo datato XVII-XVIII secolo Fulvio Sŭran, Il duello nel Rinascimento e il ripensamento etico sul duello di Francesco Patrizi, Dipartimento di studi di lingua italiana, Università Juraj Dobrila di Pola in https://hrcak.srce.hr/file/172398 77 Marco Cavina, Il sangue dell’onore, storia del duello, Bari, Laterza, 2005 78 Sŭran, op. cit. 76 In calce alla scena principale è raffigurata una scena ‘minore’, con figure anche qui caratterizzate dai diversi abbigliamenti, seppur approssimati. Colpiscono soprattutto gestualità e atteggiamenti: sulla sinistra stanno uomini distinti dall’atteggiamento composto, vestiti con abiti interi scuri, gorgiera e cappello, secondo la foggia in uso degli uomini anziani, dei professori o dei medici, come testimonia il ritratto dello scienziato inglese dottor William Gilbert Wellcome, morto nel 1603. I tre uomini sono dietro ad tavolo massiccio di cui sono evidenti i pannelli specchiati, in atteggiamento attento. Accanto a loro una terza figura maschile in farsetto e stivali, armata di spada, denuncia la sua appartenenza al mondo militare. La figura, protagonista centrale della rappresentazione, non è molto nitida: della stessa spiccano un mantello, la bandoliera (alla quale è agganciato un cappello) e la corporatura possente, muscolosa e di statura maggiore alle altre. L’uomo è rivolto verso una figura maschile vestita assai poveramente con le mani dietro la schiena, in atto di presentarla agli astanti allungando un braccio. Nel gruppetto figurativo di destra che assiste, si nota la sagoma barbuta di un chierico in sottana nera. L’ipotesi è che si tratti di un episodio legato alla tratta degli schiavi avviata nei primi anni del Cinquecento dagli spagnoli per sopperire alla mancanza di manodopera nel Nuovo Mondo. Solo dal 1537 Carlo V d’Asburgo, Imperatore del Sacro romano Impero, decise di adeguarsi alla bolla Sublimis Deus di Papa Paolo III che condannava lo schiavismo, e il 20 novembre del 1542 abolì con un decreto la schiavitù, accogliendo le teorie di teologi e giuristi spagnoli unanimi nella condanna. Nella seconda metà del Cinquecento, dunque, la schiavitù e il traffico di esseri umani furono considerati illegittimi e banditi da tutto il Vicereame della Nuova Spagna. Con l’eccezione, però, dei corsari Barbareschi, algerini che appartenevano all’Impero ottomano, divenuti pirati di religione musulmana. Dal 1609 al 1616 i corsari berberi catturarono 466 navi mercantili inglesi i cui equipaggi vennero ridotti in schiavitù e detenuti per il riscatto. Le incursioni piratesche mirarono anche alle coste europee, imbarcando dal XVI secolo in poi migliaia di prigionieri venduti come schiavi. Un’ ingente quantità fu riscattata e salvata grazie ai fondi del "Monte della Redenzione degli Schiavi” istituito a La Valletta, capitale di Malta, per liberare soprattutto i maltesi79 che solitamente venivano deportati ad Algeri. Robert Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast and Italy 1500–1800, 2004, p.45,ISBN1-4039-4551-9. 79 Figura 13 Episcopio, cunicolo: particolare della scena minore sulla parete sinistra Figura 14 Ritratto di William Gilbert Wellcome, XVIII secolo, National Library Of Medicine Una seconda scena minore frontale alla precedente, realizzata nella parte bassa della parete sinistra come in continuità, ritrae due figure maschili di età avanzata, barbute e vestite riccamente con un copricapo ‘a turbante’ di colore bianco, sormontato da un berretto di preziosa stoffa verde ricadente sulle spalle. La caratterizzazione dei due personaggi è data dalla mise e dal turbante, copricapo di cultura islamica che emula quello indossato da Maometto. I colori del turbante in generale sono diversi, perché corrispondono a varie categorie religiose. Il turbante bianco è da sempre tipico dei sayyid, i ‘signori’, appellativo che nell’Africa maghrebina di qualche secolo fa (ed anche in quella odierna), si rivolgeva ai marabutti, santi locali o monaci guerrieri. Il copricapo verde veniva aggiunto al turbante dai musulmani sufi80. La presenza di questa raffigurazione si ricollega a quanto scrive Francisco Jarauta: «la mistica spagnola del ‘500 nasce al crocevia di diverse tradizioni che trovano un luogo di incontro privilegiato nella Spagna di quel secolo. In particolare […] la tradizione islamica e sufi, che aveva individuato il proprio registro più efficace nelle forme del discorso letterario e poetico […]».81 L’autore dell’affresco rende forte il contrasto tra le figure dei due sayyid e quella di un uomo seminudo, vestito poveramente e senza cappello, dal torso muscoloso, chinato a trascinare un peso, forse una cassa. Una terza figura maschile sembra indicarlo col gesto della mano ai due ‘signori’ che lo osservano con interesse. Figura 15 Particolare della scena minore sulla parete destra in basso Proseguendo sulla parete sinistra, accanto all’ingresso del cunicolo l’affresco ritrae una composizione di scene distribuite su tre livelli visivi, in cui la rappresentazione prospettica è inesistente. La profondità degli spazi è affidata, infatti, soltanto a una diversa caratterizzazione delle figure: in primo piano sono più dettagliate rispetto allo sfondo secondo una gerarchia visiva. Thomas K. Gugler, Parrots of Paradise - Symbols of the Super-Muslim: Sunnah, Sunnaization and Self-Fashioning in the Islamic Missionary Movements Tablighi Jama'at, Da'wat-e Islami and Sunni Da'wat-e Islami, su crossasia-repository.ub.uni-heidelberg.de, 22 aprile 2008,DOI:10.11588/xarep.00000142 81 Francisco Jarauta, Immagini della mistica spagnola del Cinquecento, tra cristianesimo, ebraismo e Islam, conferenza alla fondazione Collegio San Carlo aprile 1996 su https://www.fondazionesancarlo.it/conferenza/immagini-della-mistica-spagnola-delcinquecento/ 80 Assenti effetti di luce che danno plasticità, mentre nei personaggi con evidenti sproporzioni è molto curata la caratterizzazione degli abiti, che mira chiaramente a mostrare i ruoli sociali. Il contesto in cui si inseriscono le figure umane è confuso; si distingue una costruzione con loggiato arcato affollato da coppie di gentiluomini e dame, allietati da un suonatore che imbraccia uno strumento a corda simile ad una mandola, sorta di chitarra medievale che nel Cinquecento ebbe varie dimensioni. All’esterno della costruzione, con uno sfondo di arcate, spiccano due ingombranti tavoli protetti da separé. Attorno ai tavoli ricoperti da drappi stanno sedute gruppi di figure maschili e femminili separati nell’atto di conversare. Non essendo presenti immagini di stoviglie e servi, non si tratta di un banchetto, a meno che la scena non sia incompleta. Il gruppo ritratto intorno al tavolo in primo piano, quasi caricaturale, si caratterizza per gli atteggiamenti e per gli abiti che indossa, rispondenti alla moda francese e olandese diffusa nella seconda metà del XVI secolo in Europa; un esempio è nel dipinto di scuola fiamminga del 1586 Elisabetta I nutre la mucca olandese di autore anonimo. Figura 16 Episcopio, cunicolo: particolare della prima scena sulla parete di destra presso l’ingresso La prima figura da destra indossa un cappello ‘a sacco’ come Lutero nel 1517, e un farsetto con colletto rabat formato da due grosse pezze di lino bianco, tipico abbigliamento dei pastori protestanti. I tratti del viso sono orientalizzanti, l’atteggiamento è discorsivo ma vigile, con la mano sinistra poggiata sull’elsa della spada. Alla sua destra, in atteggiamento difensivo col braccio ripiegato sul tavolo, siede una figura maschile con baffi e pizzetto, vestita con farsetto e gorgiera da cerimonia e cappello ‘da porta-dispacci’ munito di falde per proteggersi dalla pioggia, tipico di Basilea. Si tratta quindi di un uomo abituato a viaggiare a cavallo. Il personaggio centrale è imberbe e senza cappello; veste con gorgiera da cerimonia e farsetto. Ha l’aspetto di un giovinetto bruno dall’espressione mite, col capo graziosamente reclinato sulla destra, mentre tende la mano destra col palmo rivolto verso l’alto al suo vicino. Si rivolge ad un personaggio dall’aria autorevole seduto a capo tavola, anziano e barbuto, che indossa una skufia russa, usata sia dagli ebrei sia nei riti cristiano-ortodossi, e una vestaglia. La pittura che caratterizzava la stoffa delle sue vesti e la tovaglia sul tavolo è fortemente lacunosa; si distingue tuttavia sul piano della tavola di fronte all’anziano una massa di monete d’oro che lui protegge con la mano destra mentre con la sinistra sembra frenare la mano protesa in gesto di richiesta del giovinetto. Figura 17 Elisabetta I nutre la mucca olandese, dipinto fiammingo di Anonimo, 1586, Wallraf - Richartz Museum di Colonia. Esempi di abbigliamento signorile della fine del Cinquecento ispirato alla moda olandese Figura 18 Il rabbino Jakov Fishman durante il Rosh haShanah nella Sinagoga Corale di Mosca l 27 settembre 1973, indossa la tradizionale skufia russa (fonte: Russia beyond) Figura 19 Martin Lutero illustra le sue 95 tesi appena affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittemberg, Ferdinand Pauwels 1872, museo di Dresda. Lutero indossa il berretto ‘a sacco’ del 1517 Figura 20 La chiamata di San Matteo, particolare. Caravaggio, 1599, Roma chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli CONCLUSIONI L’osservazione degli affreschi commissionati da Ettore Diotallevi, patrizio riminese vescovo della Diocesi di Sant’Agata de Goti tra il 1608 e il 1635, anno in cui fu trasferito alla Diocesi di Fano, offre spunti di riflessione importanti per comprendere la condizione del clero e dei laici nel feudo all’indomani della Controriforma. Le pitture, realizzate sulle pareti di un cunicolo nascosto all’interno dell’ala più antica del palazzo episcopale, non hanno funzione decorativa, bensì rafforzativa della vocazione penitenziale del vescovo, già impegnato come Inquisitore all’interno della Congregazione del Sant’Ufficio di Malta. Le scene affrescate sono state eseguite secondo sue precise indicazioni, basate su ricordi e cronache di vita laica che rispecchiano grandi problemi del suo tempo, ai quali la Chiesa cercava di porre rimedio dopo il Concilio di Trento. Si aggiungono episodi esemplari tratti dal Vecchio Testamento o indicativi della devozione presente tra gli abitanti del feudo. Nulla sappiamo sugli esecutori delle pitture, se non che lo stile e la tecnica presentano differenti livelli di maturità artistica. Nel complesso, gli affreschi rappresentano un patrimonio ineguagliabile per l’arricchimento della storiografia santagatese. Sant’Agata de Goti, 14 luglio 2024