Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

Saticola, città visibile e nascosta

2019

Il saggio "Saticola, città visibile e nascosta" è un'indagine sull’ antica città dei Sanniti, che sfrutta l’archeologia ed i segni del paesaggio per individuarne lo spazio urbano e indicare una tutela sostenibile. La ricerca fa riferimento a discipline come la Sismografia storica, la Poliorcetica e la Toponomastica per definire le forme urbane ed architettoniche di Sant'Agata de Goti, borgo nato nel Medioevo dall’ espansione di Saticola. Partendo dalla connessione tra la morfologia dei luoghi, le datazioni, le testimonianze storiche e le tracce archeologiche ufficialmente schedate come reperti sannito-romani del IV-I secolo a.C., si cerca di ‘visualizzare’ Saticola nel moderno territorio. Un aiuto importante proviene anche dal confronto con altre città della stessa natura, studiate dagli archeologi negli anni. Ricostruendo la città-tipo dei Sanniti con le sue aree funzionali, si giunge ad un’ipotesi finale sul non-luogo dove sorgeva Saticola nel IV secolo a.C. Saticola, infatti, diventò vera e propria area urbana solo con la conquista dei Romani, nel 313 a.C., che la trasformarono in Colonia di Diritto Latino. L’ipotesi è che, dopo quella data, gli abitanti sopravvissuti allo scontro ottennero uno spazio abitativo e religioso su un'altura di Tufo protetta da due fiumi, al margine della valle occupata dalle centurie dei soldati Veterani. Le centurie si trasformarono, entro qualche secolo, in grandi proprietà terriere dei Senatori Romani. Nel 42 a.C però, Ottaviano Augusto, tornato vittorioso da Filippi e Azio, distribuì queste proprietà ai suoi soldati, arruolati in Oriente, costruendo sulla rocca tufacea un castrum militare. Il castrum fu la prima cellula urbana razionalmente organizzata in uno spazio urbano agricolo abitato solo nei vici. Nel Tardo Impero, con Diocleziano, la rocca del castrum fu fortificata secondo le norme militari bizantine, conservando oggi la cinta difensiva intatta. Tra il VII e il IX secolo, sotto i Longobardi, il nucleo arroccato diventò borgo medievale, col nome di Sant’ Agata. I vici sparsi nel territorio assunsero la fisionomia di masserie fortificate all'interno di Curtis. Oggi si identificano con le contrade all’ interno del perimetro comunale. La città di Saticola si divise per due secoli tra il potere dei duchi longobardi e quello dei vescovi e dei dux bizantini. In essa si praticò sia il culto cristiano cattolico sia quello cristiano ortodosso. Nel IX secolo la dipendenza economica dal Principato di Salerno e quella politica dal Ducato di Benevento divennero conflittuali. La città aveva una posizione geografica strategica sul territorio, al confine fra Campania e Samnium. Era dotata di una vasta area rurale con pianure e colline, corsi d'acqua e sorgenti, molti edifici ecclesiali sparsi nel territorio, frutto di un sincretismo cultuale senza precedenti, che ha lasciato segni architettonici singolari. Dalla Curia episcopale e dal castello Ducale si esercitavano i due poteri, in piena indipendenza politica rispetto alle Leggi dell’Imperatore. In questa forma, nel X secolo, l'antica Saticola, intitolata a Sant’Agata dopo l’arrivo di reliquie da Costantinopoli, diventò Diocesi ed entrò a far parte del Sacro Romano Impero. Rosanna Biscardi

ROSANNA BISCARDI SATICOLA CITTA' VISIBILE E NASCOSTA Premessa Una città, visibile solo agli occhi di chi vuole cercarla, si nasconde abilmente dentro le tracce che il Tempo ha lasciato, come per gioco, lungo un percorso secolare. E' la città di Saticola, fondata dai Sanniti Opici nelle nostre terre, distrutta e ricostruita più volte con sembianze sempre diverse. Questo studio sostiene che la città di Saticola sia perfettamente rintracciabile attraverso i reperti archeologici, considerati ancor più concreti di documenti storici. Ad essi si aggiungono i segni nel Paesaggio e la Storia degli eventi. Lo zoccolo duro su cui fonda l'intera trattazione è dato dagli studi del professor Giuseppe Aragosa, che ha saputo cogliere, a mio avviso, messaggi preziosi provenienti dalla Saticola "visibile e nascosta", innescando una serie di interrogativi fecondi che non possono non stimolare un approfondimento. Esso è articolato sulla divisione in cinque fasi della vita della città sannita, prefigurate grazie a studi e cronache elaborati dall'antichità ad oggi. Il primo capitolo è un compendio delle tracce utili per ri-conoscere Saticola partendo dal IV secolo a.C. fino al X secolo d.C., epoca in cui assume una nuova identità nei documenti ufficiali. I capitoli seguenti affrontano il ruolo storico-urbano e la forma assunta rispetto agli avvenimenti politico-sociali e alla evoluzione costruttiva. In appendice si affronta il tema del riconoscimento della città storica e del paesaggio come forma di consapevolezza della propria appartenenza ai luoghi. Riconoscimento che deve avvenire in forma condivisa e utilizzando gli strumenti visivi che ci offre la tecnologia avanzata. Solo attraverso la consapevolezza la città antica si salva, anche se materialmente sembra perduta rispetto al moderno. In realtà essa è solo nascosta e cerca disperatamente di mettersi in contatto con noi, per farsi vedere. L'autrice capitolo I Ri-conoscere Saticola I.1 Storie, luoghi e datazioni L'esistenza dell'antica città di Saticola in territorio sannita può scandirsi in periodi molto diversi tra loro. Il primo partirebbe dalla sua nascita, quale semplice insediamento di pastori, intorno al IV secolo a.C., epoca in cui i Sanniti vissero in funzione della transumanza delle greggi. Sul popolo dei Sanniti esiste una vasta bibliografia. L'opera di E.T. Salmon resta una delle migliori trattazioni Si praticava quest'attività nelle pianure più fertili – delimitate da corsi d'acqua navigabili e da montagne –, dall'autunno alla primavera, facendo la spola tra le città e le terre pugliesi. Ciclicamente si battevano i tratturi, sentieri scavati dal passaggio degli armenti lungo i monti; col tempo alcuni di essi divennero veri e proprie direttrici di collegamento, lungo le quali si formarono i fori, aree d'incontro e di scambio per i pastori. I viaggiatori si ristoravano nei vici, agglomerati geograficamente distanti tra loro, ma appartenenti allo stesso pagus. Luogo d'incontro con gli déi era invece il bosco sacro (húrz), recintato e arricchito da una serie di altari, presso i quali i pellegrini sanniti si recavano per partecipare ai sacrifici e alle libagioni, all'interno di riti che duravano giorni e giorni. L'area sacra della città sannita, in generale, si trovava lungo le pendici dei monti, in punti "magici" dove potevano manifestarsi gli déi. L'hurz era «un elemento importante della religiosità sannitica, strettamente legata al mondo delle acque per la loro importanza centrale nella prevalente economia pastorale, che faceva dei corsi d'acqua e delle sorgenti capisaldi fondamentali per lo spostamento delle greggi transumanti». Andrea R. Staffa, L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium, ne "Il mondo dell'Archeologia 2004", Enciclopedia Treccani Infine, i luoghi di sepoltura, le necropoli, si attestavano poco distante dai vici, a volte presso le arx, vaste zone recintate da possenti muraglie, collocate sulle alture più impervie. Messi al sicuro le famiglie e gli armenti al loro interno, i guerrieri sanniti ne uscivano solo per tendere imboscate tra gole e precipizi (come dalle celebri narrazioni di Tito Livio), forti della profonda conoscenza dei monti e della loro vita selvaggia. Lo studio archeologico di Andrea R. Staffa a proposito della composizione urbana sannita, afferma sulle città: «Fra queste strutture esistevano generalmente nessi precisi: gli abitati e i mercati più importanti si sviluppavano in aree pianeggianti o con leggero declivio (ad es. Bovianum, Venafrum, Saepinum), nei pressi dei santuari, mentre sulle alture vicine s'erano sviluppate cinte difensive fortificate in evidente connessione con i sottostanti abitati». idem pagg.6-7 In caso di pericolo i pastori lasciavano i vici insieme alle greggi per rifugiarsi nelle arx. Da quanto è stato accertato grazie agli studi di archeologia, gli elementi compositivi della città-tipo sannita furono: 1) il pagus, corrispondente alla superficie completa di estensione della città, con un andamento altimetrico mediamente pianeggiante, circoscritto da fiumi e da pendii montuosi, indispensabili per la pratica della pastorizia. L'area è assegnata ad un'unica tribù, associata a un toponimo che poteva riferirsi sia all'etnia sia alle caratteristiche fisiche dei luoghi. Giacomo Devoto, voce Pago in Enciclopedia Italiana Treccani, 1935 Il più delle volte il pagus si estendeva geograficamente sui due versanti opposti di un monte. I boschi e i pascoli in altura venivano utilizzati in condivisione dagli abitanti residenti nei vici sorti sui due versanti. 2) i vici, nuclei abitativi non stanziali, costituiti da un'edilizia funzionale all'agricoltura e alla pastorizia (capanne e rifugi rudimentali in legno, grotte). Erano dislocati in maniera sparsa nel pagus e non avevano collegamenti viari tra loro, se non corsi d'acqua. Ai pastori e alle greggi bastava, infatti, seguire le sponde dei fiumi e dei torrenti negli spostamenti da un'estremità all'altra della città, avendo alla portata l'acqua e le erbe di sostentamento. 3) le necropoli, luoghi di sepoltura collegati ai nuclei abitativi, ubicati poco distanti dagli stessi. 4) le arx in altura, recintate da rozzi elementi lineari in pietra muniti di porte, con superficie d'estensione fortemente sovradimensionata, allo scopo di contenere la popolazione di più vici e le loro greggi, salvandoli dai pericoli della valle. C'erano poi le funzioni urbane, localizzate in media pianura: 5) L'hurz, spazio recintato nascosto tra i boschi presso i fiumi, in cui si trovavano gli altari consacrati agli dèi sanniti, punto di riferimento per gli abitanti dei vici, che vi si recavano in pellegrinaggio. Fu utilizzato dai Sanniti precedentemente all'incontro con la cultura romana. 6) Il foro, mercato e centro produttivo artigianale, creato lungo i tratturi principali, risultato di una evoluzione urbana conseguente all'incontro con i Romani, all'indomani della creazione dello Stato Sannio. La scelta del terreno pianeggiante consentiva ai Sanniti di abbinare all'allevamento la coltivazione dei cereali nel periodo estivo. Rosanna Biscardi, Cibum Concordiae- nutrire l'Armonia, Napoli, Cuzzolin editore, 2017 Nella ricerca di cibo il comportamento dei Sanniti fu sempre quello di imitare i bovini e gli ovini lasciati liberi al pascolo; e una volta accertatisi che non vi fosse alcun pericolo d'incantesimo, di accontentarsi dello stesso nutrimento, accompagnando le erbe selvatiche con un pezzo di caseus. Un elemento che nel tempo legò strettamente la produzione del formaggio romano a quello sannita, è dato dall'uso degli orci, nei quali il formaggio veniva stagionato: si tratta delle olle o anforette (se provviste di manici) di terracotta, che potevano essere da trasporto o da mescita se con anse, oppure da dispensa se ne erano prive. idem I ritrovamenti archeologici nell'area di Saticola consistono proprio in una quantità importante di tali contenitori, oltre ai preziosi crateri di fattura greca rinvenuti nelle necropoli e usati per il simposio, di cui i bellissimi vasi del maestro pestano Assteas sono il massimo esempio. AAVV, L'oggetto del desiderio è...un cratere, pubblicazione a cura del Comune di Sant'Agata de Goti e della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, 2014 Il carattere delle città sannite in area beneventana viene suddiviso dagli archeologi in una doppia tipologia: «villaggi di dimensioni medio-piccole prevalentemente derivanti da forme d'abitato d'epoca precedente e nuclei più ridotti con funzioni residenziali e produttive, poi trasformati in quelle ville rustiche che caratterizzano il quadro del popolamento a partire dal I secolo a.C.». Andrea R. Staffa, op. cit. pag. 12La tipologia insediativa della città di Saticola non è esattamente riscontrabile all'interno di tale schematizzazione ma contiene, a mio avviso, caratteristiche di entrambe, testimoniate dai ritrovamenti archeologici locali. Nel periodo successivo alle conquiste di Capua (l'odierna Santa Maria Capua Vetere) e Cuma (l'odierna Bacoli), avvenute nella prima metà del 400 a.C., si ha «la progressiva espansione anche in Campania, Basilicata e Calabria dei popoli sanniti che parlano osco e unificano linguisticamente e politicamente gran parte del Mezzogiorno...Si trattava di popolazioni che avevano dato tra VIII e III secolo a. C. un contributo fondamentale, probabilmente secondo solo a quello di Roma, alla storia dell'Italia centrale». idem, pag. 3 Dall'incontro con i Greci e dagli "scontri" con i Romani, i Sanniti di lingua osca ricevettero, loro malgrado, un condizionamento culturale che li costrinse ad evolvere anche l'urbanistica e l'edilizia religiosa. Dal III secolo a.C. si diffuse la costruzione del santuario su un'acropoli, altura naturale a terrazzo protetta da fiumi, appartenente alla città, ma isolata rispetto ai vici. Il santuario era composto di uno o più templa monumentali, dedicati a dèi come Eracle, Giove, Minerva, Dioniso, Venere, Feronia, Mefite. «Al santuario spettava il compito di regolare, nel rapporto con la touta e con i vici, una serie di funzioni importanti all'interno del relativo pagus connesse alla scansione delle festività stagionali, della vita religiosa e civile della comunità; esso inoltre ospitava attività civili, altrove differentemente allocate, a carattere economico, amministrativo, o connesse alla vita politica e militare della comunità...». ibidem, pag. 16Non c'è dubbio che la costituzione di un santuario significasse per una città sannita un passo avanti nella gerarchia urbana della regio Samnium. Esso consentiva alla popolazione di avere più voce in capitolo all'interno del Tauto delle tribù. Sulla base delle tracce archeologiche, Staffa riporta che per i Sanniti «gli originari luoghi di culto vanno trasformandosi in edifici templari veri e propri, assimilabili alle ben note tipologie etruscoitaliche...a seguito dei forti rapporti con Roma avviatisi dopo la fine delle guerre sannitiche. Con il II secolo a.C. il panorama va facendosi ancora più articolato e alcuni luoghi di culto sono oggetto di interventi di monumentalizzazione, protrattisi sino alla più tarda età repubblicana. Significativo appare l'intensificarsi degli interventi proprio in età augustea, al momento della creazione della regio IV, che appare occasione importante a livello locale per un programmatico perseguimento di forme di rinascita e sviluppo degli antichi culti italici». Andrea R. Staffa, op. cit. pag.16 Il santuario fu dunque l'elemento funzionale che dal IV-III secolo a.C., arricchì la tipologia urbana della città sannita, costituendo una presenza geograficamente importante nel territorio della città, poiché si insediava su un'altura isolata, protetta naturalmente per difendere quello che era il centro del potere. La sede in cui si esercitava la Legge e avvenivano i riti religiosi. Significativo in tal senso è quanto Staffa riferisce del complesso cultuale di Pietrabbondante (principale santuario dei Sanniti Pentri): nel IV secolo a.C., esso occupava un'ampia area collinare a forma quadrangolare posta lungo un importante asse viario, in posizione dominante sulla sottostante vallata del fiume Trigno. L'altura svettante su una valle, la strada-tratturo, il fiume: come si vede, gli elementi della città sannita qui sono tutti presenti. Sull'acropoli di Pietrabbondante, prima della guerra sociale fu avviata la costruzione di un tempio prostilo tetrastilo con tre celle, su alto podio, che non fu mai portato a compimento. I Romani, infatti, ne soppressero il culto e concessero l'area ai privati che si erano schierati con Silla nella guerra sociale. ibidem pag. 19 La tipologia degli elementi compositivi di Pietrabbondante – una terrazza naturale posta a quota maggiore rispetto a un pianoro, in cui scorre un corso d'acqua, e una direttrice viaria – risulta a mio avviso emblematica ai fini della ricerca di una possibile acropoli della città di Saticola. Dopo l'espansione, saranno i Romani a distinguere i Sabini, popolo italico che entrerà a far parte della res publica romana senza opposizioni, dai Samnites. Con tale nome essi identificarono i Carricini, i Pentri, gli Irpini e i Caudini, abitanti di città come Allifae, Saticola, Caudium, Suessola, Telesia, Combulteria, Trebula e Caiatia, che utilizzavano l'alfabeto osco come tratto distintivo della propria etnia, strenui oppositori al potere di Roma. «Intorno alla metà del IV secolo a.C. lo stato sannitico vero e proprio si estendeva, oltre che nell'attuale Molise e nelle aree interne dell'Abruzzo chietino, nella fascia pedemontana del Matese in Campania e in una parte del territorio dei Volsci nel Lazio». Andrea R. Staffa, op.cit. Tali popolazioni si sentivano assolutamente solidali tra loro in nome di una Lega fra tribù sannitiche di cui entrò a far parte anche l'Irpinia nel 346 a.C., contro Roma. In realtà nel 354 a. C. Sanniti e Romani avevano stretto un accordo secondo il quale i due popoli sarebbero vissuti indisturbati, stabilendo contatti solo passando nelle valli del fiume Liri e nei territori "neutri" dei Volsci e degli Ernici. Già nel 343 a. C. i Sanniti, aggredendo i Sidicini, provocarono l'intervento dei Romani, i quali corsero prontamente a difendere i loro alleati. In questa occasione i Saticolani, in forza del legame solidale fra tribù (il cosiddetto Tauto), parteciparono agli scontri con Roma, secondo il racconto di Tito Livio. Lo storico narra, infatti, di come il console Cornelio fu attratto da essi in un'imboscata sul fondo di una gola montuosa nei pressi di Saticola, avendo egli innalzato un accampamento sui suoi territori. Tito Livio Ab Urbe Condita Libro VII Ricordiamo che le tribù sannite erano obbligate a intervenire su più fronti, anche se non direttamente attaccate dai Romani, per indebolire il nemico cogliendolo di sorpresa. I Saticolani non si sottrassero al dovere di solidarietà. Dopo la guerra venne stipulato un nuovo accordo di convivenza pacifica con i Romani; comunque, nel 330 a. C., Capua acquisì la cittadinanza romana senza suffragio, così come fu resa colonia la città di Fregellae. Il cerchio si strinse intorno alla tribù dei Caudini dunque, a conclusione della prima "guerra sannitica". «Le lotte che ora si succedono fino verso la fine del secolo comprendono questi momenti salienti: vittoria sannita a Caudio (321) con umiliazione dei Romani prigionieri sotto il giogo e insufficienti garanzie di sicurezza strappate ai Romani; battaglia vittoriosa di Lautulae nel 315 a.C.; colonia di Luceria (315 o 314 a.C.); nuove sconfitte; colonia latina di Saticola (305 a.C.).» Giacomo Devoto, Sanniti, Enciclopedia italiana, Enciclopedia Treccani 1936 L'incontro/scontro con i Romani segnò l'inizio di una nuova vita per la città caudina e sancì l'avvìo della seconda parte della sua esistenza dal punto di vista economico, politico e architettonico. Esistenza strettamente legata ai legionari. I legionari a Saticola. la seconda vita della città Già dai tempi di Romolo l'esercito romano, composto da soli cittadini romani e comandato dal re e dai tribuni militum, era stato diviso in Legioni, ognuna di esse contando 3000 fanti e 300 cavalieri; dopo l'ampliamento di Roma iniziò la consuetudine di distribuire terre ai soldati congedati, per compensarli della loro fedeltà nelle campagne di conquista. Le proprietà fondiarie venivano strappate agli italici nelle città conquistate e trasformate in colonie sottomesse a Roma, parzialmente soggette a tassazione. Successivamente, «durante le guerre sannitiche e latine l'esercito venne organizzato in maniera più complessa...Rimaneva, ancora in quest'epoca, un residuo della formazione cittadina dell'esercito consistente nell'obbligo...di prestare entro i 46 anni, servizio nell'esercito per un periodo compreso tra i 10 e i 16 anni. L'importanza di servire lo Stato con le armi era tale, che nessuno poteva intraprendere il cursus honorum senza che avesse militato per almeno 10 anni nelle forze armate». Alberto de Luca, Le legioni di Roma: storia dell'esercito romano in "Lettere e beni culturali" su "Il sileno ONLUS" www.ilsilenoit 13.09.2012 In questo periodo i legionari dovevano provvedere da soli al loro equipaggiamento e dimostrare di avere un reddito minimo di 4000 assi. La conquista di nuove città e l'assegnazione di nuove terre risarciva equamente gli anni e i denari spesi a servizio dell'esercito. Ci si aspettava quindi una congrua ricompensa in vecchiaia, erogata dal proprio generale, costituita da terreni fertili in zone ben collegate e vicine a corsi d'acqua navigabili. Per esempio le terre dei Sanniti, che avevano ben scelto i luoghi in cui fondare le loro città. Stando a quanto afferma Tito Livio, la città di Saticola fu presa nel 313 a. C.; la sua trasformazione in "colonia di diritto latino" è ufficializzata sui registri, come riporta Giacomo Devoto, nel 305 a.C. Giacomo Devoto, voce Sanniti in Enciclopedia Treccani, 1956Sarebbero occorsi dunque otto anni ai Romani per organizzare la colonia, piegandola alle esigenze dei legionari romani in congedo; successivamente, nel 304 a. C. essi stipularono un ulteriore trattato di pace con i Sanniti. «Colonia è in Roma l'azienda agricola e nello stesso tempo una comunità stabilita dallo stato romano su un determinato territorio e con propria organizzazione cittadina». AA.VV. Colonizzazione, Enciclopedia italiana, Enciclopedia Treccani 1931 Le terre conquistate, divenendo proprietà privata, venivano centuriate andando a formare nuovi distretti amministrativi o ad accrescere quelli già esistenti attraverso l'assegnazione ai cittadini romani. «Quando una confederazione di città come la latina conquistava un territorio, poiché per ragioni pratiche non poteva dividerlo fra tutte le città socie, preferiva costituire su di esso una nuova comunità, formata con i cittadini provenienti da tutte le città socie; la nuova comunità entrava a far parte della confederazione come comune autonomo e sovrano al pari degli altri. Erano queste le colonie latinae o Latinorum...». Idem Ma la colonia di Saticola seguì le regole costitutive di una seconda. fase. Infatti, «sciolta nel 338 a. C. la Lega Latina, Roma continuò a dedurre colonie di diritto latino cioè a costituire nei territori conquistati... nuove comunità autonome, con le quali essa stringeva un rapporto d'alleanza regolato da un foedus modellato su quello che Roma aveva concesso alle comunità alleate dei consanguinei Latini... i coloni di queste nuove comunità erano in generale cittadini romani (vi partecipavano però anche alleati italici) che perdevano naturalmente la cittadinanza romana ed acquistavano quella della nuova città. Le colonie Latine avevano proprie leggi e quasi completa autonomia nei limiti del proprio territorio: non pagavano cioè tributo alcuno ma dovevano fornire a Roma contingenti militari e rimettersi ad essa per la politica estera». Ibidem Sotto questo profilo Giuseppe Aragosa fa un'osservazione importante riferendosi a quanto scrive Appiano e cioè che «i Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni d'Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano delle città, oppure nelle città già esistenti deducevano delle colonie, come riteniamo sia stato fatto per la colonia di Saticola. La parte non coltivata del terreno veniva lasciata alla libera occupazione, dietro pagamento di un vectigal, leges vectigales, (1/10 per le seminagioni, 1/5 per le colture arboree), e si consentiva, sempre dietro pagamento di un canone annuo (scriptura), l'uso del terreno per il pascolo da parte degli allevatori (ager scriptuarius/ager compascuus)». Giuseppe Aragosa, Viaggio nella Storia - da Saticula alle terre dei Gambacorta, Quaderno n.7, pubblicato dall'Associazione Terre dei Gambacorta O.N.L.U.S con il Comune di Limatola, Benevento, 2015 Sulla base di queste regole iniziò, come si è detto, la seconda parte della vita di Saticola città colonia di diritto Latino, urbanisticamente differente dalla Saticola caudino-osca. La trasformazione fu strettamente collegata al nuovo assetto economico, che ebbe forti ripercussioni sul paesaggio e sulle infrastrutture. La modifica più importante si ottenne con l'introduzione di una agricoltura intensiva nelle terre – fino a quel momento invase da pascoli verdeggianti – a seguito della loro parcellizzazione in centurie, e la contestuale costruzione di importanti direttrici viarie. Su tale argomento risulta illuminante lo studio di Aragosa basato sulle tracce archeologiche rinvenute nei territori di Dugenta, Frasso, Melizzano e Limatola, localizzate anche nella parte del territorio a nordest di Sant'Agata de Goti, Idemsul fiume Isclero, a distanza di circa 4 Km dalla rocca tufacea su cui sorge il borgo. Nel suo approfondito studio, Aragosa afferma: «...Da centuria, che era la più piccola divisione di una legione, in teoria di circa 100 uomini, si passò alla centuria in campo agricolo, che corrispondeva a 100 piccoli poderi di due iugera ciascuno (0,504 ha, cioè un moggio e mezzo di oggi)...». Molto importanti, in questa limitatio del terreno da assegnare ai veterani, erano i limites, solchi di separazione e di confine della lottizzazione, che davano vita a un piccolo rialzo del terreno su un fossato: elemento che ancora oggi rimane nel mondo rurale locale con il termine dialettale lemmete, a designare un piccolo terrapieno su un fosso, spesso usato come scolo per le acque piovane o di irrigazione. Il concetto legato all'elemento pieno sviluppato in altezza, posto sul ciglio di un avvallamento profondo, si è riferito nel seguito a conformazioni del suolo naturali o antropiche, fino ad essere applicato ad una tipologia edilizia vera e propria, la Lamia normanna. Il toponimo Lamia, da lamis, derivato proprio da limites, è oggi ancora presente in due punti del territorio saticolano: 1) a nord della rocca di Sant'Agata e Goti, presso la località Romagnano (San Pietro), prossima alla località Cotugni; 2) nell'area compresa tra le odierne Dugenta e Limatola, a poca distanza dal fiume Volturno, in direzione nord ovest rispetto alla rocca santagatese. È possibile che in corrispondenza di questi toponimi territoriali si attestasse il limite ultimo dell'antico pagus di Saticola sottoposto a centuriazione. Aragosa è d'accordo nel ritenere che «la fondazione della colonia di Saticola avvenne nello stesso territorio dove si ipotizza il sito dell'antica città sannita di Saticula», Idem pag. 41e questo riferimento non può che essere applicato all'ipotetico pagus della città, geograficamente racchiuso tra i bacini fluviali del Volturno a nord - nordovest, dell'Isclero a sud, e dal monte Taburno ad est. Rapporti fra Capua e Saticola La completa sottomissione dei Sanniti ai Romani fu raggiunta solo tra il 272 e il 268 a. C., mediante accordi di pace separati con le etnie più resilienti, cioè gli Irpini, i Pentri e i Caudini. In seguito, non solo non si verificarono altri atti di ribellione, ma nel 225 a.C., durante la seconda guerra punica, il Sannio mise a disposizione dei Romani 70.000 fanti e 7.000 cavalieri contro Annibale e i Cartaginesi: Giacomo Devoto, op. cit. Tuttavia, durante la guerra punica contro Annibale vi fu una città sannita che rimase ostinatamente ribelle: Capua, definita da Tito Livio «città lussuriosa per la sua prosperità e per la benevolenza del destino, massimamente corrotta da ogni genere di dissolutezza della plebe, che esercitava la libertà senza limiti». T.Livio, XXIII, 2.1. Il severissimo giudizio probabilmente è ispirato dalle tortuose vicende che portarono Annibale ad ottenere l'alleanza con la città, all'epoca la più popolosa della penisola italica dopo Roma, e a questa contrapposta. Non è accettata dagli epigrafisti la teoria secondo la quale le campagne militari per domare l'alleanza tra Capua e Annibale videro, nel 215 a.C. anche il coinvolgimento di Saticola nell'attacco a Nola, altra città campana avversa. Infatti, secondo quanto scrive Tito Livio, il console Quinto Fabio Massimo Verrucoso, incaricato di fermare il condottiero africano, attraversato con il suo esercito il fiume Volturno, occupò le città di Cubulteria, Trebula e Austicula, alleate tutte dei Cartaginesi e all'interno delle quali i Romani catturarono moltissimi prigionieri campani. Idem, 39. 1-6 La città di Austicula potrebbe identificarsi secondo alcuni con Saticula, giacché Livio la menziona solo in una circostanza e non vi sono altre notizie su di essa. Ma le fonti documentarie, sempre scettiche riguardo l'esattezza delle indicazioni liviane, tendono a non accreditare tale ipotesi. (A cura di) Marisa Squillante, Massimo Squillante, Antonella Violano, AAVV, Sant'Agata e Goti: tracce dai testi e dalle epigrafi verso un sistema informatico territoriale, Milano, Franco Angeli editore, 2012. Ancora a proposito degli abitanti di Saticola, Valeria Viparelli, nell'analisi della citazione di Virgilio contenuta nel libro settimo dell'Eneide, che ne fa un brevissimo cenno, non riesce a spiegare compiutamente l'aggettivo asper ad essi riferito (Saticulus asper: Aen, 7,729)... si trattava di un popolo "abitante di aspre montagne" o di un popolo "aspro" di carattere, bellicoso e minaccioso? idem Quale immagine accettare dei Saticulani, dunque, quella dei miti montanari sconosciuti, lontani dai conflitti e dalla Storia? O quella dei ribelli pronti a dar man forte ai "lussuriosi" Capuani e ai Campani, opposti al potere di Roma? La risposta al quesito contribuirebbe non poco alla definizione del carattere politico, economico e urbano della città in quell'epoca. La riforma dell'esercito del 107 a. C. ad opera di Gaio Mario trasformò notevolmente la figura e il ruolo sociale del legionario romano. Dal II secolo a.C., l'esercito di cittadini organizzati, accomunati dal desiderio di conquista, divenne un insieme di spietati professionisti, spinti soprattutto da interessi economici condivisi con il proprio generale. Col cambiamento dell'etica militare, anche la colonizzazione romana entrò in una nuova fase. Riguardo al nuovo esercito, «I proletari chiamati a formarlo non avevano né fortune né, dopo la lunga ferma, professione civile e al momento del congedo si doveva provvedere ad essi con assegnazione di terreni. Ebbero così inizio le coloniae militares, per le quali i terreni si procurarono (essendo oramai quasi esaurito l'agro pubblico in Italia) con acquisti da parte dello Stato e soprattutto con la confisca totale o parziale dei terreni delle città o dei privati che nelle guerre civili avevano preso posizione contro i vincitori... Ciò portò sotto Silla a un profondo rivolgimento della proprietà fondiaria in Italia. Con Ottaviano Augusto la deduzione di queste colonie divenne regolare; egli le dedusse specialmente in Italia e per vie legali, indennizzando i proprietari dei terreni incamerati». Ibidem Secoli dopo la seconda guerra sannitica, si risveglierà lo spirito combattivo dei Sanniti proprio nella cosiddetta "Guerra sociale" del 91 a. C. che li coinvolse come partigiani di Gaio Mario contro Silla. Il loro desiderio era di ottenere il diritto di cittadinanza per tutte le tribù e non solo per una parte di esse, come da proposta di legge del console Lucio Cornelio Cinna, alleato di Mario, nell'87 a.C, bocciata politicamente. Davide Galluzzi, Gaio Mario Un Homo Novus che segnò i destini della Repubblica, in www.instoria.it n.90 2015 Alla fine del II secolo, lo stato romano era afflitto da non pochi problemi sociali causati da lotte intestine tra le istituzioni, che si riflettevano sui cittadini intemperanti. Molte le cause dei malesseri: la personalizzazione del potere, la deriva autoritaria, la crisi della Repubblica sempre più tendente alla monarchia... quattro anni dopo la prima proposta, una seconda legge, più articolata, fu presentata da Mario Livio Druso. Il suo assassinio sancì, di fatto, la ribellione degli italici delusi e scatenò una vera e propria guerra antiromana. Scrive Mario Attilio Levi: «Le classi politiche di Roma avevano avuta la cecità di mettersi sulla china pericolosa che portava a recidere le fonti della potenza dello stato, negando giustizia agli alleati, tentando di ridurli al livello dei sudditi, rinnegando un passato di comune milizia e di gloria che aveva dato ai Romani, ai Latini e Italici ogni diritto di continuare per sempre a formare un solo popolo...le tribù del Piceno iniziarono il movimento scambiandosi ostaggi e facendo strage dei Romani...il movimento si estese: le tribù marsiche, sabelliche, picenti, al nord, le tribù osche, sannite, lucane al sud si organizzarono in una forma federativa centralizzata...che ebbe due consoli, il marsico Pompedio Silone e il sannita Papio Mutilo, un senato e un'organizzazione militare e politica foggiata su quella romana». Mario Attilio Levi, Paola Zancan, voce Guerre sociali in Enciclopedia Treccani, 1936 Come spesso è accaduto nella Storia, i generali dell'esercito romano reagirono assumendosi il compito di guidare le parti avverse imponendo la propria volontà, approfittando della debolezza politica di chi avrebbe dovuto decidere. Sostenuti da centinaia di soldati fedeli – perchè interessati ai saccheggi dei beni "concessi" dalle campagne militari –, Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla si contesero il ruolo di dittatore in un'aspra guerra civile che vide il trionfo di quest'ultimo. La battaglia decisiva, avvenuta nell'83 a. C. a Preneste, in cui i Sanniti furono guidati da Gaio Ponzio Telesino, sfocerà nella fine del Sannio come Stato. Non pochi studiosi concordano nel ritenere che all'indomani di questo evento, la città di Saticula si riducesse a un mero insignificante villaggio, non più menzionato nelle testimonianze storiche del tempo. (A cura di) Marisa Squillante, Massimo Squillante, Antonella Violano, AAVV, op.cit. La terza vita di Saticola e il castrum Durante l'oscuro periodo della Guerra sociale, per sollecitare il collaborazionismo militare da parte degli italici sottomessi, tra gli anni 90 e 88 a. C. il governo si affrettò a concedere la cittadinanza agli alleati fedeli a Roma e ai ribelli che si fossero subito arresi. Il provvedimento salvò solo dieci delle trentacinque tribù coinvolte nella richiesta di cittadinanza e non concesse loro una effettiva partecipazione alle assemblee di governo. Nel 49 a.C. Roma emanò nuove leggi per l'estensione della cittadinanza romana agli italici, dimostrando grande senso di opportunismo politico: «Con un effetto unico nel panorama del Mediterraneo antico, l'Italia del I secolo a. C. era giuridicamente Roma, e gli abitanti dei suoi circa quattrocento municipi erano tutti cittadini romani». Idem Non si parlava più di "coloni" e di schiavi bensì solo di "cittadini romani" non più obbligati a corrispondere al Governo tasse per la coltivazione delle terre concesse. Infine, «gli insorti furono vinti e la guerra costò trecentomila vite; la severa repressione di Roma modificò inoltre profondamente lo stesso assetto sociale in Italia». M.A.Levi, P. Zancan, op. cit. Alla morte del dittatore Silla i disordini e le ribellioni continuarono, controllati dal 60 a.C., da un triumvirato formato da Pompeo, Cesare e Crasso. Dopo lo scioglimento dell'alleanza fra i tre e il breve governo del dittatore Giulio Cesare, Roma ripiombò nel caos con il suo assassinio nel 44 a.C, risultato dell'odio dei senatori e dei sostenitori della tradizione repubblicana. Nel 42 a.C., il figlio adottivo di Cesare, Ottaviano, tornando dalla missione vendicativa sugli assassini del patrigno, ottenne di governare l'Italia e la Spagna, approfittando della disponibilità di un nutrito esercito mercenario conseguenza delle leggi di cittadinanza appena varate. Come afferma Staffa, «significativa appare la diffusione nell'intero Sannio di fondazioni coloniali tarde, la deduzione di coloni di Augusto (43 - 41 a.C.) e Vespasiano (75 a.C.) a Bovianum, la costituzione di una colonia augustea a Venafrum, l'assegnazione documentata a Saepinum di terre prima a veterani della guerra sociale in occasione della costituzione del municipium, poi a veterani delle guerre germaniche di Druso e Tiberio in età augustea». Andrea R. Staffa, op. cit. pag. 32Ciò validerebbe quanto afferma Francesco Viparelli, storico locale, quando scrive a proposito della città di Saticola: «Ottaviano Augusto vi condusse una colonia romana, 42 anni innanzi Gesù Cristo», Francesco Viparelli, Memorie storiche della città di S. Agata dei Goti, per l'epoca dal principio dell'Era volgare sino al 1840, Napoli, 1841, pag. 13confermando un'ulteriore fase di esproprio nel territorio di Saticola, di fondi da destinare ai soldati veterani di Ottaviano, questa volta acquisiti "legalmente". E' chiaro che le terre vennero strappate ai saticolani che nel corso degli scontri civili avevano parteggiato per gli assassini di Cesare... Segno questo, che Saticola era città oggetto di interessi economici di famiglie patrizie e senatorie, danneggiate dalle politiche populiste del dittatore. Alla prima centuriazione dal 313 a.C, era seguita quella in agro campano nel territorio di Capua, dopo il 211 a.C.. Le centuriazioni del I secolo, effettuate sotto Giulio Cesare (59 a. C.) e sotto Ottaviano Augusto (42 a.C.), cancellarono completamente le precedenti coinvolgendo una superficie complessiva di 40 - 50.000 Ettari in tutta la Campania interna, Giulio Pane, Angerio Filangieri, Capua architettura e arte, Catalogo delle opere vol I Vitulazio 1990 ed. Capuanuova 1994sconvolgendo quindi anche la città di Saticola. Centuriazioni e schema urbano della città di Saticola Riassumendo, le fasi coloniali di Saticola di cui si hanno tracce sono due, molto differenti tra loro sotto l'aspetto sociale e politico: 1) la prima si ebbe entro il 305 a. C., epoca in cui una centuriazione avviata nel 313 a.C. assicurò le terre a veterani militari romani benestanti, trasformatisi in possidenti terrieri, che vi abitarono misti ai vetere possessores delle terre, quest'ultimi privi di ogni diritto e soggetti a tassazione. Così divisa la città fu registrata come "Colonia di diritto Latino", stabilendo con precisione i diritti e i doveri dei vinti e dei vincitori. In tale fase di colonizzazione è lecito pensare ad uno schema urbano di Saticola composto da: a) un'area centuriata estesa sulla massima superficie del pagus pianeggiante e in misura minore nell'area pedemontana del Taburno, con caratteristiche di fertilità adatte alla produzione di grano e cereali, e alla coltivazione della vite e dell'olivo; b) alcune aree residenziali stanziali presso gli antichi vici nel pagus trasformati in vere e proprie fattorie; c) alcune aree, funzionali ai vici, riservate alle necropoli romane, spesso affiancate a quelle di epoca sannita; d) un'area, cosiddetta subsicivia, esclusa dalla centuriazione perchè malsana o accidentata, dunque scarsamente produttiva. Essa solitamente veniva assegnata ai vetere possessores (in questo caso ai Sanniti), all'indomani della colonizzazione, in cambio del pagamento di un pesante censo. Nei pressi di tale area si creava una "riserva" abitativa nella quale si confinavano i veteres possessores, liberi di conservare i loro usi e costumi, ma totalmente emarginati dai cittadini romani. Una sorta di ghetto, la cui integrazione nella città richiese tempi molto lunghi. Era prevista però una politica di "accoglienza" per invogliare gli sconfitti sopravvissuti a restare sul posto, i profughi a tornare e premiare chi aveva avuto un ruolo di "mediazione" nella guerra. Per la legge «la particella di terreno eccedente la misura nella divisione della terra da assegnare (chiamata subsecivum da sub e seco, secare, tagliare fuori), era assegnata a chi ne facesse richiesta». G.Aragosa, op. cit. Non bisogna escludere l'ipotesi che dopo l'incontro con la cultura romana, poteva essersi formata anche a Saticola un'area cultuale su un'acropoli, le cui caratteristiche geografiche rispecchiavano quelle di altre città sannite, come ad esempio Pietrabbondante. 2) La seconda colonizzazione, di natura ben diversa, apportatrice di un profondo sconvolgimento dell'assetto sociale in cui spadroneggiavano i latifondisti, dovette verificarsi a partire dal 42 a. C.. I soldati veterani al soldo di Ottaviano, ben diversi dai precedenti poiché reclutati secondo le regole di Gaio Mario, non avevano requisiti di censo. Cosiddetti "proletari", di estrazione sociale molto bassa, erano a caccia di mezzi di sostentamento per se stessi e le famiglie. Dobbiamo pensare, in questa seconda fase, a un vero e proprio saccheggio autorizzato, un esproprio forzato punitivo di un ceto privilegiato qui formatosi in epoca Repubblicana. Persone che avevano spinto per l'assassinio di Giulio Cesare, e per questo furono immiserite dei loro beni da Ottaviano Augusto, che assunse storicamente il ruolo di vendicatore del dittatore e di suo erede. All'interno delle città ribelli, infatti, nel tempo si era accresciuta una fascia sociale privilegiata dotata di potere politico, per lo più appartenente alla classe senatoriale. Come scrive Staffa, «il quadro insediativo del III-IV secolo a.C. ...andò evolvendosi nel I secolo a.C. con la definizione di grandi proprietà pertinenti a quelle famiglie – fra le più rilevanti – che erano riuscite a conservare status e beni nonostante le vicende della guerra sociale, fra cui, ad esempio, quel Gaio Stazio Claro che, passato fra i sostenitori di Silla dopo l'iniziale adesione alla rivolta, era stato poi ammesso a far parte del Senato. Accanto ai nuclei superstiti del popolamento rurale italico vanno diffondendosi in quest'epoca grandi ville rustiche...che ripropongono schemi e modelli laziali (Capini 1991) e che costituiranno il modello per una loro ben più ampia diffusione, anche a seguito della formazione nel tessuto sociale locale di quella classe di ricchi proprietari che si rendono particolarmente attivi come trafficanti e banchieri nelle aree del Mediterraneo orientale». Andrea R. Staffa, op. cit. pag. 14 All'epoca della seconda fase di colonizzazione il segno urbano più forte presente nel pagus di Saticola era dato sicuramente dall'esistenza di una o più villae rusticae, proprietà di latifondisti divenuti molto influenti al Governo. L'esproprio forzato delle loro terre determinò un cambiamento sociale e urbano notevole. L'ipotesi è che in concomitanza fu decisa l'occupazione militare dell'altura su cui aveva sede l'antica acropoli della città. Sulla rocca tufacea circondata da due torrenti, in ottima posizione di difesa, si costruì il castrum per l'amministrazione della giustizia e la sorveglianza militare delle operazioni di riassegnazione fondiaria, dal momento che l'acropoli era quasi inaccessibile. Il kastron bizantino di Saticola L'esproprio fondiario del 42 a. C. condusse, nello spazio dei tre secoli successivi, ad un'ulteriore fase di vita per la città, coincidente con l'ascesa al potere dell'Imperatore Diocleziano, dopo ben 50 anni di disordini e anarchia nell'Impero: in questo lasso di tempo, implodendo il pagus saticolano, similmente a molte altre città romane nate dalle colonie, si giunse ad una conformazione urbana atrofizzata ma paradossalmente dal segno più riconoscibile, punto di riferimento per gli scarsi abitanti della valle. Diocleziano, salito al potere nel 284 d. C., di origine dalmata quindi proveniente dalle province orientali, bizantino di cittadinanza romana, fu autore di una ennesima riforma militare da cui prese avvìo l'opera urbana più incisiva: le mura di difesa. .La suddivisione geografica dell'Impero da lui attuata portò alla formazione della Diocesi Italiciana, governata dall'Augusto d'Occidente Massimiano, di cui fece parte la Regio unificata Latium et Campania e Samnium, all'interno della quale si collocò Saticola. Accrescendo il numero dei soldati, Diocleziano concepì di distribuire gli stessi in maniera capillare sul territorio, in posizioni strategiche da cui era possibile intervenire rapidamente in caso di emergenze. Per rendere efficiente il nuovo sistema militare concepito, Diocleziano ristrutturò innanzitutto gli agglomerati urbani a vocazione fortilizia, (per ubicazione naturale, posizione geografica e funzione militare sperimentate) già esistenti nelle regioni romane, piccoli ma numerosi sul territorio. Al loro interno arruolò speciali residenti addestrati militarmente con il compito di allertare i militari di stanza sul territorio in caso di bisogno. Raimondo Bacchisio Motzo e Angelo Segre Voce Diocleziano Gaio Aurelio Valerio, in Enciclopedia italiana Treccani 1931A tale scopo l'Imperatore dispose l'obbligo dei proprietari terrieri locali di fornire un certo numero di braccianti agricoli. Una categoria disprezzata nella società romana, perchè collegata all'antico status di schiavo, ma preziosa per coltivare le terre, i cui frutti sfamavano soprattutto i plebei di Roma. I grandi proprietari terrieri, potenti padroni di centri rurali oramai autonomi, cedettero all'esercito i lavoranti più scarsi, inadatti a coltivare la terra. In alternativa, fornirono finanziamenti economici per assoldare i militari presso i popoli "barbari" delle province conquistate in Europa. Con Diocleziano acquistarono diversa sostanza anche i ceti sociali – dai contadini, agli artigiani, ai curiali, (gli impiegati nella curia) – trasformati in “caste” chiuse, per le quali l'obbligo di trasmissione dell'attività lavorativa da padre a figlio assicurò la continuità nel tempo, ma senza alcuna possibilità di emancipazione. È facile intravedere nelle azioni riformatrici di Diocleziano le basi per il feudalesimo medievale, che obbligava i contadini alle corveé presso i castelli in cambio della protezione del feudatario e gli artigiani a rifugiarsi all'interno di "corporazioni", ossìa famiglie di lavoratori governate da proprie regole e comportamenti. Le tracce del cristianesimo Un Imperatore chiuso e assoluto creò piccoli nuclei a loro volta arroccati e assoluti, lontani dalle pratiche religiose cristiane già affacciatesi sulla scena sociale e ferocemente avversate. Eliodoro Savino ci descrive la Campania di Massimiano come una provincia governata da correctores o presides, a cui erano subordinate le magistrature dei municipia e delle curiae. Un particolare utile a questo studio è rappresentato dalle circostanze che per brevi periodi, dal 378 d.C, avrebbero portato la provincia campana ad essere governata da proconsules, sotto il regno di Graziano, per cercare di frenare il dilagare degli scismi religiosi. L'affidamento del governo ad amministratori di religione greca-ortodossa promossi al rango di proconsole, avrebbe, infatti, dato agli stessi i poteri necessari ad intervenire nelle questioni religiose, molto dibattute in quella Regio. Eliodoro Savino, Campania tardoantica (284-604), Parte 3, p. 295 L'efferatezza della persecuzione religiosa attuata dai proconsoli a danno dei cristiani cattolici era nota già dal secolo precedente. Sotto il regno di Decio, nel 250 d. C., Agata, quindicenne catanese di buona famiglia votata alla nuova religione, si era negata al proconsole Quintiano pagando questo atto con la morte, causata da anni di torture psicologiche e fisiche. La ragazza era così divenuta popolarissima per la sua ribellione nel nome di un nuovo stile di vita, più sobrio e lontano dalla sensualità del paganesimo, del tutto inedito presso i Romani. Il culto per Agata iniziò dal giorno stesso del suo martirio. Infatti, per poterla punire definitivamente dopo anni di inutili torture, si ordinò che venisse bruciata. Tuttavia, «mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, allora il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo. Dopo un anno esatto, il 5 febbraio 252, una violenta eruzione dell’Etna minacciava Catania, molti cristiani e cittadini anche pagani, corsero al suo sepolcro, presero il prodigioso velo che la ricopriva e lo opposero alla lava di fuoco che si arrestò; da allora S. Agata divenne non soltanto la patrona di Catania, ma la protettrice contro le eruzioni vulcaniche e gli incendi». Antonio Borrelli, Sant'Agata vergine e martire, in http://www.santiebeati.it/dettaglio/22650 Per un approfondimento si leggano gli Atti del martirio di Sant'Agata pubblicati su http://www.cattedralecatania.it/atti.aspx Nei secoli seguenti, il culto di Sant'Agata nelle province meridionali della Diocesi Italiciana fu connesso alla punizione inferta dalle catastrofi naturali – terremoti, eruzioni, inondazioni –, nelle quali i Romani pagani intravedevano un chiaro riflesso della disgrazia politica, e rispetto alle quali si era certi che la martire garantisse tutela, a condizione che si abbandonasse il paganesimo. L'immagine di Agata, donna di cocciuta purezza e intransigenza, dovette convincere sempre di più i pagani della Regio Samnium, tartassati da terremoti distruttivi (di cui il più forte avvenuto nel 346 d.C. segnò pesantemente queste terre), del suo straordinario potere nel governare il sisma, guadagnando nel tempo un carisma che travalicherà il misticismo e li deciderà a dedicare alla Santa una città ritenuta preziosa: Saticola. Dal kastron alla cittadella fortificata Nel IV secolo d.C. Saticola è urbanisticamente un kastron bizantino circondato a nordest da terreni paludosi, posto a guardia di un oppido scarsamente abitato. In esso domina il latifondo e la città ha pochi abitanti, provati dai disastri naturali oltre che dagli scismi religiosi campani. Fernando La Greca, I terremoti in Campania in età romana e medioevale, sismologia e sismografia storica, in "Annali storici di Principato Citra", V,1,2007 La profonda trasformazione subita della città saticolana si colloca all'interno di fenomeni di urbanizzazione di portata europea, dibattuti sia da archeologi, sia da storici. Da un lato, il medievalista Pierre Toubert nel 1973 ha stabilito che la forma dell’insediamento sparso in terra italiana è sopravvissuta fino al X secolo, e soltanto dopo sarebbe avvenuta la “rivoluzione castrale” con l’accentramento della popolazione nei castrum fortificati, per iniziativa delle aristocrazie locali. Dall'altro, Richard Hodges e David Whitehouse, – autori di importanti analisi di centinaia di ritrovamenti archeologici, il cui risultato è stato reso noto nel 1983 – hanno sostenuto la tesi secondo la quale la crisi del sistema urbano romano era già concreta a partire dal III secolo d.C., con il progressivo crollo dei livelli demografici e la riconquista delle sommità alla fine della tarda antichità. La città fu inclusa in un sistema di sorveglianza diffuso in tutto l'oppido, che aveva sulla rocca tufacea l'antico castrum augusteo. Nei due secoli successivi, la popolazione della valle dell'Isclero, minacciata periodicamente da guerre civili, carestie, pestilenze e terremoti, si rifugiò sempre più volentieri nel kastron fortificato, fino a diventare stanziale: è in questo momento che si sviluppa la cittadella di Saticola, con caratteristiche urbane tipiche del basso Impero e derivanti dalle antiche città greche. Letizia Pani Ermini, Lo sviluppo urbano in AA.VV., Il fenomeno urbano. Periodo tardoantico e medievale, voce "Il mondo dell'Archeologia" in Enciclopedia Treccani, 2002. Il nuovo nucleo urbano "raggomitolato" su se stesso, fu racchiuso in una cinta difensiva di chiara concezione bizantino-dioclezianea, aggiunta alle difese naturali già sfruttate nei secoli precedenti. E "messa in sicurezza", rispetto agli eventi sismici, adottando espedienti edilizi concepiti dagli ingegneri romani già dal II secolo d.C., in auge fino al XII. Rosanna Biscardi, Progetti di sostegno-progetti sostenibili - storia dell'edilizia e di consolidamento a Sant'Agata de Goti“Castrum” romano tra la Regio Samnium e la Regio Latium-Campania dal 42 a.C. intervento al seminario formativo "Progettare l'incontro"di Federarchitetti ottobre 2017 La tesi che qui si afferma è suffragata dallo studio sul metodo di impiego del materiale di spoglio presente all'interno delle strutture portanti del tessuto abitativo della città, visibile ancora oggi. Uno studio di Angela Palmentieri sui materiali impiegati nel portico della Cattedrale dell'Assunta ad esempio, ha evidenziato che «spicca nel paramento interno ed esterno, una sequenza di filari di blocchi parallelepipedi di riuso, posti orizzontalmente uno sull'altro e decorati sulla fronte da un doppio riquadro rettangolare o da un incavo a forma di "L". ...Essi sono stati murati volutamente in modo da ruotare di 90° la base, che in antico presentava il lato lavorato in alto...Allo stesso tempo un nucleo omogeneo di blocchi ad "L" sono reimpiegati agli angoli delle strade del borgo e all'interno del cortile di un palazzo seicentesco...Se ne contano un totale di sette, appartenenti al tipo a "L" a coprire l'intero territorio urbano circoscritto dalle mura medievali. Ad una analisi tipologica, tutti questi pezzi che si differenziano in minima parte per le dimensioni del blocco e per le misure dei riquadri della facciata o della profondità dell'incavo, sono riconducibili agli oggetti comunemente impiegati dalla tarda età repubblicana nei torcularia delle ville rustiche, dove erano destinati al ciclo di produzione dell'olio e del vino... I gruppi di materiali si riferiscono a una categoria specifica di turcularia quelli del tipo a leva, in cui l'ingranaggio era azionato mediante l'abbassamento del prelum a verricello...» Angela Palmentieri, Civitates Spoliatae, recupero e riuso dell'antico in Campania tra l'età post - classica e il Medioevo (IV-XV secolo), Tesi di dottorato di ricerca in Scienze archeologiche e storico-artistiche Università Federico II di Napoli, anno 2009/2010. I reperti tutt'ora visibili nel borgo testimonierebbero quindi il reimpiego di elementi che componevano macchine per la frangitura e la torchiatura dell'uva e delle olive, usate nelle ville rustiche romane databili alla seconda metà del II secolo a.C. fino al Tardo Impero. idem Quanto sopra affermato consente alcune considerazioni: 1) È esistita nella città un'attività agricola imperniata sulla coltivazione del grano, della vite e delle olive, per la produzione di vino, farina e olio destinati a Roma, dal II secolo a.C. fino al Tardo Impero. Fu praticata necessariamente nelle aree pianeggianti presso i corsi d'acqua e sulle immediate pendici collinari, e nacque con la centuriazione coloniale. Si intensificò con il latifondo alla fine dell'età Repubblicana per ridimensionarsi nel III secolo d.C. Essa fu ripresa nelle stesse aree del pagus nel XII secolo, dalle famiglie monastiche presenti sull'area, come testimoniano i resti delle grancie benedettine cistercensi sopravvissute ancora oggi nel territorio di Sant'Agata de Goti e Dugenta; Rosanna Biscardi, L'Arco in fondo alla valle - il mistero architettonico di Sant'Agata de Goti, Napoli, Cervino Edizioni 2015 2) Le rovine dei frantoi da cui provenivano i materiali reimpiegati potrebbero derivare da crolli collegati a una successione di eventi sismici ampiamente documentati nel territorio a partire dal I secolo d.C.; 3) Nelle costruzioni esaminate da Angela Palmentieri, la posizione delle pietre riutilizzate è angolare o basamentale rispetto alla muratura perimetrale portante oppure è inglobata nei pilastri di sostegno. Chiaro espediente di rafforzamento antisismico derivante dall'ingegneria romana in auge nel Tardo Impero; 4) Le pietre dei torcularia, datate da Angela Palmentieri tra la seconda metà del II secolo a.C. e il Tardo Impero, si trovano nel portico della cattedrale dell'Assunta e nella facciata del campanile della chiesa di Sant'Angelo de-munculanis, entrambe ufficialmente fondate in epoca longobarda, cioè circa sette secoli dopo! Si tratta di un lasso di tempo troppo lungo per pensare di reimpiegarle in una costruzione. Ritengo invece probabile che il loro reimpiego venisse attuato al più tardi nel III-IV secolo d.C., proprio nel momento di sviluppo della città bizantina, (ma non è da escludere che sia iniziato già in età augustea), reiterato in occasione di ogni evento sismico distruttivo, fino al V-VI secolo. Circa la localizzazione delle ville rustiche di provenienza dei reperti, Angela Palmentieri afferma: «Tornando agli ingranaggi saticulani, non è escluso che essi provengano dall'entroterra caudino. A conferma della vocazione agricola della valle e della particolare destinazione d'uso della terra, è prova il racconto delle fonti, in particolare di Virgilio e Plinio, che ricordano gli olivi dell'area del Taburno e la vite giunta in età neroniana fino in Gallia, nella valle del Rodano», aggiungendo: «Un ulteriore indizio del tipo di colture praticate nello stesso periodo si desume dalla presenza di un complesso specializzato nella produzione di contenitori per vino...nei pressi di Dugenta». osservazione che ci riporta all'antica colonia di Saticola e all'area centuriata. Giuseppe Aragosa, op. cit. La presenza di Villae rusticae potrebbe rispecchiarsi nei toponimi che segnano l'antico territorio saticolano: a nord le contrade Fagnano (dalla gens Fannia o Fannius, nome diffuso nel II secolo a.C. collegato a Gaio Fannio Strabone, console nel 122 a.C. avverso agli Italici), Cassano, (dalla gens Cassia, o Cassianus). A ovest Capitone (nome collegato a Gaio Ateio Capitone, giurista romano tra il 38 e il 22 a.C. nominato Console da Augusto); a sudest, Bucciano (riferibile a Guggiano o Cucciano, derivato dalla Villa di Cocceio nominata da Orazio, e collegato alla gens Cuccejanus); Moiano, da fundus Movianus. Nella contrada Santa Croce, in territorio santagatese, sono stati ritrovati resti di complessi agricoli risalenti ad età tardo repubblicana. In contrada Paolini è stata scavata in tempi recenti una Villa composta dalla pars rustica dominica con muri in opus quasi reticolatum, anch'essa di età repubblicana. Angela Palmentieri, op. cit. Dal IV secolo d.C., quella parte dei saticolani rifugiatasi nel kastron bizantino abbandonò progressivamente le terre, riuscendo così ad affrontare la dura stagione dei feroci attacchi barbarici alle città dell'Impero Romano, iniziata dopo l'ascesa dell'Imperatore Costantino, sostenitore del cristianesimo. Il presunto passaggio dei Goti Non vi sono notizie storiche né tracce archeologiche, né motivazioni d'altro genere per credere allo stanziamento di una colonia di Goti nel territorio della città bizantina, se non ipotesi di storici locali, da qualche tempo confutate dalla storiografia ufficiale. L'episodio storico che viene considerato occasione di un ipotetico contatto tra saticolani e Ostrogoti (che peraltro non hanno mai fondato colonie), è registrato negli scritti di Procopio di Cesarea, allorquando descrive la battaglia di Cuma fra Teia, luogotenente di Totila, e il generale bizantino Narsete, nel corso della Guerra Gotica: «Teia, poi, giudicandosi meno forte di quanto credeva per misurarsi da solo con l'esercito romano mandò una ambasceria con la promessa di molto danaro, al re dei Franchi Teudeberto invitandolo ad allearsi con lui nella guerra. Ma costoro molto più propensi a preservare, come io penso, i propri vantaggi, ed a guerreggiare sciolti da ogni legame, disdegnavano di mettere a repentaglio la loro vita a favore dei Romani o dei Goti, potendo essi stessi conquistare l'Italia. Totila, come ho narrato, aveva posto in serbo qualche parte del tesoro entro le mura di Ticino, tuttavia il più di esso era conservato in Cuma, fortissimo castello della Campania, il cui presidio obbediva a suo fratello e ad Erodiano. Narsete dunque, fermo nel proposito di prendere quel forte, inviò truppe ad assediarlo, trattenendosi egli in Roma, per ordinarvi il governo. Inviò allo stesso tempo altri militi per espugnare Centumcelle. Teia pertanto, nel timore che avvenissero sciagure alla guarnigione cumana ed al tesoro, e non sperando più negli aiuti dei Franchi, se ne partì con le sue genti, quasi avesse in animo di incontrarsi al più presto col nemico. Ma Narsete, scoperto l'inganno, gli spedì contro nella Tuscia, Giovanni nipote di Vitaliano e Filemut con le loro truppe, al fine di impedirgli, essendo quivi stanziati, di procedere verso la Campania, e perché affrettassero la caduta di quelle fortezze, o con l'espugnazione, o col mettere gli assediati nella necessità d'implorare la resa. Se non che il re, incurante delle comode strade alla sua destra, procedette con molte e lunghissime giravolte, e quindi per la costa del seno Ionico, ed ebbe modo di compiere i propri apprestamenti senza darne il minimo sospetto ai nemici. Narsete allora, avutane la consapevolezza, richiamò Giovanni e Filemut, cui aveva affidato il passo nella Tuscia, e con essi anche le truppe di Valeriano, che da poco avevano espugnato Petra Pertusa. In questo modo, riunite la sue forze, mosse alla volta della Campania con tutto l'esercito, dispostissimo a sperimentarvi la sorte delle armi». Procopio di Cesarea, Storia delle guerre di Giustiniano, IV libri da 26) a seguire.Assistiamo dunque alla preparazione di uno scontro fra Ostrogoti (provenienti dalla costa ionica) e Bizantini (provenienti dalla Tuscia), in Campania, il cui esito fu condizionato dai movimenti dalla flotta ostrogota, in viaggio sul fiume Sarno per recare i rifornimenti alle truppe: essi furono bloccati da Narsete, per cui gli Ostrogoti scelsero di ripararsi sui Monti Lattari, nella penisola sorrentina, «dove speravano che la malagevolezza del luogo li avrebbe protetti dalle offese delle armi nemiche; ma ben presto compresero l'errore commesso, trovandosi lassù privi d'ogni alimento per sé stessi e per i cavalli». Messi alle strette, gli Ostrogoti decisero di affrontare in una disperata battaglia i Bizantini, scendendo dai monti e assalendo il nemico a valle, sul versante nord: la battaglia si svolse nel 552 d.C. e, stando a quanto afferma Procopio, Teia si distinse per le sue particolari abilità di guerriero restando però ucciso nel conflitto. Continuando la battaglia per due giorni di seguito, secondo quanto racconta Procopio, «alla fine, Narsete ricevette alcuni ottimati barbari che accettarono la resa e si sottomisero a Bisanzio. Teia fu l'ultimo re dei Goti». Procopio di Cesarea, op.cit.Dall'esito della battaglia si comprende che gli sconfitti non avrebbero mai potuto accampare diritti sulle città bizantine vittoriose, meno che mai su Saticola, che nel racconto non viene mai menzionata. Una seconda battaglia, stavolta tra il franco-alemanno Butilino (Buccelino) e Narsete, dopo la morte di Teia, si svolse invece presso Capua nel 554 d.C.: «Posto l'accampamento a Capua, Butilino decise di affrontare in una battaglia decisiva Narsete: i due eserciti si scontrarono dunque nella battaglia del Volturno in cui ebbe la meglio Narsete che distrusse l'esercito franco costringendolo al ritiro». IdemAnche questa vittoria bizantina esclude qualsiasi possibilità che l'esercito Franco, alleato con quello Ostrogoto, abbia favorito lo stanziamento di una "colonia di Goti" a Saticola. L'esito della battaglia sancì la fine delle grandi operazioni militari della guerra gotica, celebrate da Narsete a Roma. L'ultima città a sud del Po ancora effettivamente in mano Gota fu Conza. Posta in assedio da Narsete, nonostante la strenua resistenza della guarnigione nemica, essa capitolò nel 555 d.C.. Negli anni successivi Narsete procedette alla sottomissione delle restanti fortezze ancora in mano gota e franca ma ubicate a nord del fiume Po. Per cui è corretto ritenere che Saticola continuò a ricoprire il suo importante ruolo di kastron bizantino nella Valle Caudina, senza risentire di alcuna dominazione Gota (della quale non esistono segni se non una equivoca interpretazione del nome registrato nel Medioevo). Sulla vicenda del nome si rimanda ad altri scritti dell'autrice Più sofferto, invece, fu il suo ruolo nello scontro tra i due culti cristiani: quello cattolico e quello ortodosso. Gli edifici ecclesiali Dopo una parentesi monofisita con l'Imperatore Anastasio I, sarà Giustiniano, Imperatore rappresentante della Chiesa d'Oriente, ad opporsi ai pagani fino al 565 d. C., anno della sua morte. Il passaggio dai riti cristiani ortodossi a quelli cattolici (fortemente inficiati dall'eresia ariana) fu graduale, discontinuo e, come si è detto, non privo di conflitti. «Lo scisma ebbe origine dal nome del patriarca di Costantinopoli Acacio (morto nel 489) il quale per porre termine alle controversie tra cattolici e monofositi, accordandosi con questi ultimi suggerì all'Imperatore Zenone di Bisanzio di promulgare nel 482 l'Enotico, formula di unione dei due pensieri religiosi; la formula, diretta a tutto l'Impero, non risolvendo alcuni punti teologici delicati, alla fine non soddisfece nessuno. Il papa Felice III depose e scomunicò Acacio nel 484 iniziando così lo scisma cosiddetto "acaciano" durato 35 anni» Antonio Borrelli, voce San Germano di Capua in www.santiebeati.it Fu il vescovo Germano di Capua, eletto nel 516, a svolgere la delicata missione diplomatica a Costantinopoli per sancire la pace tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente, sottoscritta dall'Imperatore Giustino. Per questa mediazione egli ricevette in dono alcune reliquie di Sant'Agata, allo scopo di proteggere la città di Capua. La sovrapposizione dei culti nella città bizantina di Saticola, è testimoniata dall'esistenza tra le mura di edifici religiosi usati sia per i riti cristiano-ortodossi, sia per quelli cristiano-cattolici, sia per l'eresia ariana, riconoscibili dalle dediche e dalle reliquie ivi presenti. Sui riti religiosi bizantini trasmessi ai longobardi, sono utili le linee guida tracciate da Mimma de Maio per la storia di Solofra: «Nel frattempo i Longobardi erano diventati fedeli dell’arcangelo Michele, figura rispondente al loro spirito guerriero. Nella diffusione del culto micaelo, già esistente nelle zone d’influsso bizantino, essi lo aggiunsero alle realtà religiose preesistenti senza stravolgerle, ripetendo in questo il già individuato comportamento di rispetto delle realtà locali. Ciò portò alla pratica della doppia intitolazione delle chiese nelle contrade occupate. Essi in sostanza aggiungevano il nuovo culto, segno di un sigillo religioso proprio, a quello precedente dando però anche inizio ad un graduale processo di sostituzione del culto antico. Questa pratica si riscontra nella doppia intestazione della pieve di S. Angelo e S. Maria, confermata dal documento nel quale è chiara l'origine longobarda di quel “S. Angelo” che si aggiunge alla precedente titolazione “S. Maria”, perchè la festa del santo Angelo, che è quella centrale celebrata nella chiesa, cade l’8 maggio, è cioè la festa longobarda, quella di S. Maria cade invece il 15 agosto, è cioè la festa bizantina». Mimma de Maio, Alle radici di Solofra, Avellino, 1997, in www.solofrastorica.it L'arrivo del Vescovo-conte cattolico nel X secolo d. C., determinò dei cambiamenti, come testimoniano i documenti e soprattutto le strutture architettoniche ecclesiali. Nell'arco di tre secoli la città sarà rivalutata dai Longobardi – alcuni di essi ariani, altri convertiti al cattolicesimo –, che la faranno risplendere all'indomani della generale conversione al cristianesimo, avvenuta nel 750, in nome del culto per Agata. Il corpo della santa era in Oriente, e nel 491 Lorenzo Maiorano, investito dall'imperatore di Costantinopoli Zenone della carica di nuovo vescovo di Siponto (oggi città di Manfredonia), in Puglia, alla sua partenza decise di portare con se le reliquie unite a quelle di Santo Stefano. Maiorano fu accolto nella Chiesa Romana da Papa Gelasio I, mettendosi al servizio dei cattolici. Lorenzo volle seguire le istruzioni del Papa riguardo le azioni più opportune da intraprendere per contrastare il paganesimo ariano in terre pugliesi. Molto probabilmente trattenne a questo scopo le reliquie di Sant'Agata nelle terre da lui amministrate. Infatti, scrive Maria Stelladoro: «Il 5 febbraio di ogni anno si assisteva a Costantinopoli, in una delle due chiese dedicate alla vergine e martire Agata, come si diceva, al miracolo dell’olio traboccante dalla lampada. Tale prodigioso evento è conosciuto anche dalla tradizione occidentale». Maria Stelladoro, Agata la martire, Jaca Book, Milano 2009 Da notare che storicamente San Lorenzo Maiorano fu anche il vescovo che intensificò il culto per l'Arcangelo Michele, a lui apparso più volte nelle grotte pugliesi. Nel VI secolo il Papa Simmaco ufficializzò il culto di Sant'Agata che ben si prestò, nei secoli successivi, a ridedicare le chiese di culto ariano. Un'altra parte delle reliquie di Sant'Agata fu invece portata in Italia nel 730 d.C. dal patriarca di Costantinopoli, Germano. Rino Cammilleri, Il grande libro dei Santi protettori, Piemme Roma, 1998 La presenza di una reliquia della martire a Saticola fu indispensabile per fondare la prima chiesa a lei dedicata, Sant'Agatella, avvenimento non necessariamente contestuale alla dedica dell'intera gastaldia alla santa, ma che avviò sicuramente una politica di conversione dei gastaldi. La chiesa di Sant'Agatella ha cambiato il nome alla città? Lo storico locale Francesco Viparelli parla nella sua trattazione della costruzione di una prima chiesa, grazie al contributo dei fratelli Radoald e Grimoald protetti da Arechi, intitolata a sant'Agata, «oggi non più esistente». Francesco Viparelli, op. cit. pag. 10 Radoald e il fratello minore Grimoald erano profughi dal ducato del Friuli, giunti a Benevento nel 625 in qualità di figli adottivi del duca Arechi I. Furono ingaggiati come "guardie del corpo" per il figlio Aione, colpito da una menomazione mentale. E' accertato che i due furono sempre di religione ariana, per cui sembra improbabile che si adoperarono per fondare una chiesa di culto cristiano cattolico a Saticola. Dopo il 641, morto Aione, Radoald gli successe alla guida del ducato di Benevento per cinque anni. A seguito della sua scomparsa, gli successe il fratello Grimoald, in auge per venticinque anni. Dunque, prima della fine del 600 i due fratelli erano entrambi scomparsi; per tutto il periodo del loro regno nel ducato non abbiamo notizie di una conversione al cattolicesimo da parte loro né da parte di Arechi, sebbene la regina Teoderata promuovesse il cattolicesimo al sud e il re Agilulfo si fosse convertito a suo tempo. Anche il figlio di questi, Adaloaldo, era stato battezzato su insistenza della regina Teodolinda: «Il fatto che questi si fosse battezzato con rito cattolico nel 603, non comportò però la conversione in massa dei Longobardi, a causa soprattutto della resistenza dei duchi, tenacemente legati alle tradizioni nazionali e per tutto il VII secolo si alternarono sul trono re cattolici e ariani». Giuseppe Dalfino, Ritratto Longobardo, Giugno 2017 pubblicato in www.academia.edu Negli ultimi anni del pontificato del Papa Gregorio I i rapporti tra questi e Arechi I consentirono la restaurazione di alcune sedi vescovili in Campania, precedentemente soppresse per le ostilità del duca beneventano verso la Chiesa cattolica. Ma il duca e i suoi protetti non si spinsero mai fino all'abbandono dell'arianesimo. A proposito dei cristiani stanziati nei gastaldati, «questi vennero considerati come vinti, costretti a pagare tributo, ma non perdettero la loro personalità giuridica e non furono sottoposti a particolari gravezze dopo il primo periodo dell'invasione...I Longobardi di Arechi, per la massima parte ancora pagani, non infierirono contro i cattolici e i loro luoghi di culto...Lo stesso Papa Gregorio ammette che non vi furono persecuzioni religiose da parte loro, e attribuisce il fatto a un intervento speciale della Provvidenza divina; è anzi questo papa, inoltre, che ci dà la significativa notizia di frequenti fughe di Italici, vessati dai funzionari bizantini, presso i Longobardi, e non solo di persone per cui, come gli schiavi e i coloni, ogni cambiamento era in meglio, ma di possessores, di milites e perfino di ecclesiastici. Tutto questo fece si che invasori e vinti venissero a formare un complesso omogeneo: allo stato attuale delle nostre conoscenze, nulla sappiamo di odi di razza o di rivolte tentate dall'elemento italico contro i Longobardi, anche nei momenti di maggior pericolo per questi ultimi.» Paolo Bertolini, voce Arechi I in Enciclopedia Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4 1962 In conclusione, sebbene nel 698, sotto il regno di Cunimperto a Pavia, si svolgesse un concilio longobardo per suggellare il passaggio al cattolicesimo Giusepe Dalfino, op. cit.è altamente improbabile che una chiesa dedicata a Sant'Agata in questa terra sia ascrivibile a Radoald e Grimoald, longobardi conservatori. Si tratta di un atto che sembra più consono al regno di Arechi II, Principe di Benevento dal 774, di spirito estremamente risoluto e indipendente, il quale esercitò la giurisdizione con diritto di grazia, investendo vescovi ed abati, lasciando inalterata la suddivisione territoriale in gastaldatus e comitatus legati ai castrum. Come scrive Paolo Bertolini, sotto Arechi II «il comes, i cui compiti erano analoghi a quelli del gastaldus, rimane, nonostante l'influenza franca, un ufficiale del principe senza piena giurisdizione». Paolo Bertolini, op.cit. Arechi II non ebbe rapporti brillanti con il papato e promosse un'alleanza tra beneventani e bizantini per sottrarre alla sede apostolica l'insieme dei patrimonia S.Petri compresi nel ducato di Napoli, alla fine del 700. Qualche anno dopo egli scatenò una lotta fra Greco-italici e Longobardi in Campania, difendendo il patrimonio beneventano dalle mire del Papa Adriano I. Tuttavia di lui sappiamo che fu «Profondamente religioso, manifestò la sua fede sia facendo traslare a Benevento, perchè vi avessero degna sepoltura, molte reliquie e corpi dei santi, sia curando la costruzione di numerosi edifici religiosi...Arechi II ebbe dalla moglie Adelperga cinque figli: Romualdo, Grimoaldo, Adalgisa, Teoderada, Alahis». Idem Potrebbe dunque essere stato Arechi II – sulla scia della conversione ufficiale di tutti i Longobardi avvenuta nel 750 e dopo l'arrivo delle reliquie della santa –, l'artefice della costruzione della chiesa di Sant'Agatella, patrocinando un comes. In tal caso, la collocazione al suo interno della lapide funeraria di Madelgrima, sposa di "Radoald comitis", testimoniata da documenti diocesani del 1354, sarebbe stata un atto successivo, senza alcun nesso con la fondazione della chiesa. È utile riportare anche la versione di Luigi Cielo che afferma: «Quanto a S. Agata dal punto di vista storico una presenza di Goti – documentata nel Sannio – è stata ipotizzata negli anni trenta-cinquanta del VI secolo nella valle telesina e a S. Agata, ma con riscontri labili, mentre agli anni successivi, ormai in regime bizantino, risale una epigrafe del console Giustino (570) Luigi Cielo nella sua datazione si riferisce a Flavio Pietro Teodoro Valentino Rusticio Boraides Germano Giustino, generale bizantino figlio del cugino dell'Imperatore Giustiniano, nel 565 magister militum per Illyricum, da cui dipendevano due duci dell'Illirico: dux Daciae ripensis e dux Moesiae primae (entrambi a guardia del limes danubiano). Ma è diversa l'attribuzione dell'epigrafe riportata da Ruggero Longo in Il pavimento in opus sectile della chiesa di San Menna. Maestranze cassinesi a Sant'Agata de Goti, contributo al convegno di studi sulla chiesa di San Menna tenutosi nel 2010, che a pag. 116 segnala "quattro epigrafi marmoree del pavimento, una delle quali menziona Giustino, imperatore bizantino dal 518 al 527". Si tratta di Giustino II, che permise al vescovo Germano di Capua di portare le reliquie di Sant'Agata nelle sue terre....è inoltre da segnalare la lapide sepolcrale di Madelgrima, moglie di un Radoald comitis, che, qualora si possa identificare con Radoaldo duca di Benevento (641/2 - 646/7), confermerebbe l’esistenza di un gastaldato o comitato di S. Agata in tempi piuttosto precoci e insieme di una chiesa, S. Agata de Marenis o de Amarenis, in pieno VII secolo, vale a dire nei momenti dell’incipiente conversione dei Longobardi alla religione cattolica». Luigi R. Cielo Insediamento e incastellamento nell'area di Sant'Agata de Goti, In: Mélanges de l'Ecole française de Rome.Moyen-Age, tome 118, n°1. 2006. pp. 37-58 Per chiarezza aggiungeremo che Vito Loré nel 2016 ha rettificato questa ipotesi: «È solo congetturale l'identificazione del nostro Radoaldo con il conte omonimo ricordato nell'epigrafe sepolcrale della moglie, Madelgrima, e dei figli. L'epigrafe, priva di riferimenti cronologici, era un tempo a Sant'Agata dei Goti ed è nota solo da una trascrizione settecentesca (C. Russo Mailler, Il senso medievale della morte nei carmi epitaffici dell'Italia meridionale fra VI e XI secolo, Napoli 1981, pp. 67 s.). È molto più probabile una datazione dell'epigrafe al tardo IX-XI secolo, quando Sant'Agata è effettivamente testimoniata dalle fonti narrative come centro di rilievo, sede di gastaldi e conti». Vito Lorè, voce Radoaldo in Enciclopedia Treccani - Dizionario Biografico degli italiani, 2018 Rispetto a questa notizia occorre aggiungere che il 16 febbraio del 2010 fu avanzata la «Richiesta di delibera del Consiglio Comunale per il rientro della lapide di Madelgrima e sistemazione nella chiesa di San Francesco in Sant'Agata de Goti», per cui dal 15 novembre del 2012 la lapide è effettivamente rientrata nella città grazie alla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, collocata all'interno dell'ex chiesa di San Francesco, più volte sede espositiva di reperti archeologici locali di inestimabile valore. Torna a Sant'Agata la lapide di Madelgrima articolo pubblicato il 14/11/2012 su www.ilquaderno.it La chiesa di Sant'Agatella, chiamata Sant'Agata de Marenis alla fine del Quattrocento, a seguito dei restauri voluti da Monsignor Francesco de Marenis, fu abbattuta nell'Ottocento. Le tracce bizantino-longobarde Il rapporto di civile tolleranza tra bizantini cristiani e longobardi ariani nella città – sviluppatosi fin dai tempi di Arechi I – è dimostrato dalla molteplicità delle dediche negli edifici religiosi esistenti: ad esempio per la Cattedrale, la dedica a Santa Maria Vergine Assunta, o la chiesa di Sant'Angelo de-munculanis. Gregorio Rubino, Vega de Martini, Strutture altomedievali nella chiesa di Sant'Angelo in Munculanis a Sant'Agata dei Goti, in "Napoli Nobilissima" vol. XVIII, fascicolo VI, nevembre-dicembre 1979Una chiesa dedicata a San Michele Arcangelo si attesta in frazione Laiano, sulle pendici del monte Taburno. La testimonianza più preziosa è costituita dalla chiesa di San Menna, ristrutturata dai Normanni nel XII secolo, ma contenente anche le reliquie dei santi Brizio (vescovo di Tours venerato nel V secolo) e Socio o Sosio, (perseguitato ai tempi di Diocleziano, decapitato a Pozzuoli, il cui culto fu diffuso nel X secolo dai Benedettini in Campania). La stessa chiesa fu consacrata in tempi antichi anche alla Santa Croce (simbolo dell'esercito romano), a Maria Vergine, ai santi apostoli Pietro e Paolo e al SS. Salvatore (ai quali furono devoti anche gli ariani, così come lo furono di Santo Stefano e Sant'Agata). Culti che resistettero fino all'epoca normanna perchè collegati a una prassi devozionale legata ai terremoti, come testimonia il passo riportato da Angelo Pepe desunto da quanto trascrisse Giuseppe Del Re in "Cronisti e scrittori sincroni napoletani" nel 1845: «l'anno 1125... avvenne in Benevento un nuovo e terribile prodigio, e siccome abbiamo udito, il medesimo accadde in altre città e terre contigue a Benevento...di presente il popolo della città atterrito con lagrime e singhiozzi andò al Vescovado e altri cittadini accorremmo al monastero di S.Sofia, per pregare Iddio Salvatore di tutti...Stupefatti da tanto terremoto e presi da insolito timore noi pensavamo di discendere alle parti più basse; onde che infino alla levata del sole stando nelle Chiese de' Santi con gemiti e lagrime, pregavamo forte piangendo Iddio...adunque il suddetto Pontefice Onorio il quale dimorava di quel tempo nel sacro Palagio di Benevento, sentendo in quella notte la scossa di così gran terremoto, esce dalla camera, e andato alla basilica di S. Giovanni si distende per terra, e innanzi all'altare del Salvatore con gran copia di lagrime invocò la misericordia di Dio...» (a cura di) Angelo Pepe, I terremoti che hanno interessato il Sannio Matese con intensità pari o superiore a 5.0 (database di riferimento: http://emidius.mi.ingv.it/DBMI04) tabella sinottica in pm2010.altervista.org S'intuisce quindi che una veloce ricostruzione o un rafforzamento degli edifici ecclesiali cristiani con dediche specifiche, furono operazioni proritarie, indispensabili per esercitare i riti di penitenza considerati unico strumento di difesa dal sisma. A partire dal 970 d. C. l'antica città, morta come Saticola e risorta come Sant'Agata, con l'arrivo del Vescovo inviato dalla Chiesa Romana comincerà un rinnovato percorso di vita denso d'avvenimenti, acquisendo il prestigio storico e architettonico giunto fino a noi. Eppure, le sembianze di Saticola, date da una multiforme stratificazione, sono oggi ancora evidenti, seppur nascoste. Occorre solo saperle ri-conoscere. I.2 Regesto L'analisi precedente invoca un regesto degli avvenimenti storici rispetto alle epoche di trasformazione attraversate dalla città di Saticola. Sono state prese in considerazione testimonianze ascrivibili a sette tipologie: 1) Reperti archeologici (dati ufficiali di ritrovamento) 2) Cronache e ricerche storiche 3) Archetipi urbani desunti da città coeve 4) Geografia, Topografia e Geologia dei luoghi 5) Conformazione e sviluppo urbano. Toponimi 5) Economia storica locale 6) Sismografia storica locale Ai fini di una schematizzazione meramente chiarificatrice, di seguito si propongono cinque fasi di sviluppo urbano ipotizzabili per la città di Saticola, nell'arco compreso tra il V secolo a. C. e il 970, data in cui diventa a tutti gli effetti città-diocesi vescovile sotto la nuova denominazione di "Sant'Agata". I. LA CITTA' CAUDINA DI CULTURA OSCA (V-III sec. a.C.) II. LA COLONIA DI DIRITTO LATINO (III-I sec. a. C.) III. IL CASTRUM AUGUSTEO (I a.C. - III sec. d. C.) IV. IL KASTRON BIZANTINO-LONGOBARDO (III-X sec. d.C.) LA CITTA' CAUDINA DI CULTURA OSCA Arco temporale Avvenimento storico Trasformazioni nella città V secolo a. C. Arrivo della tribù sannita dei Caudini di cultura osca nella pianura campana. Fondazione della città di Saticola, costituita da un pagus e dai seguenti elementi urbani: 1. hurz (area sacra) 2. fora 2. vici 3. arx 4.necropoli 423 a.C. Conquista di Capua 421 a.C. Conquista di Cuma incontro con l'urbanistica greca IV-III secolo Lega delle tribù sannitiche 354 a. C. Accordo di non belligeranza tra Roma e i Sanniti 334 a. C. Aggressione sannita ai Sidicini. Prima guerra sannitica e vittoria dei Romani. 330 a. C. Capua diventa municipio romano. incontro con i culti romani. Probabile formazione di un santuario su un'acropoli 321 a. C. Sconfitta e umiliazione dei Romani a Caudio 313 a. C. Presa di Saticola Distruzione della città ed esodo dei cittadini sopravvissuti; espropriazione del pagus sannita LA COLONIA DI DIRITTO LATINO Arco temporale Avvenimento storico Trasformazioni nella città 305 a.C. Saticola è registrata come colonia di diritto Latino Assegnazione delle terre centuriate del pagus ai soldati veterani romani. Assegnazione di terre non centuriate (subsiciva) ai veteres possessore (res publica peregrina). 304 a. C. Accordo di pace tra Roma e i Sanniti al termine della campagna di colonizzazione Separazione residenziale tra coloni cittadini romani e res publica peregrina Formazione di villae rusticae senatoriali nel pagus Sviluppo del latifondo Prima metà del III secolo a. C. Terremoto distruttivo nel Sannio dopo la conquista romana Probabili danni alla città 272 - 268 a. C. Accordo di alleanza tra Romani e tribù sannite 225 a.C Capua si schiera con Annibale contro Roma 217 a.C. Terremoto con epicentro in Etruria avvertito in tutta Italia 107 a. C. Riforma di Gaio Mario dell'esercito romano: 91 a. C. Terremoto distruttivo dal Sannio a Reggio Calabria Probabili danni alla città 90 a. C. Guerra sociale per lo ius soli che oppone Mario a Silla. 90-88 a. C. Primo atto di estensione della cittadinanza romana agli italici che si schierano con Silla nella guerra sociale 83 a. C. Battaglia di Preneste contro Silla. Sterminio dei Sanniti, fine dello Stato Sannio 59 a.C. Lex Giulia campana Ridistribuzione degli agri redditi del latifondo al popolo 49 a. C. Secondo atto di estensione della cittadinanza romana ai popoli italici alleati 44 a.C. Assassinio di Giulio Cesare e fine dell'età Repubblicana 42 a. C. Ottaviano Augusto torna vittorioso dalla battaglia di Filippi per togliere le proprietà ai senatori cesaricidi Fondazione di un castrum militare di presidio alle operazioni di esproprio delle terre di proprietà senatoriale a favore dei soldati di Augusto. IL CASTRUM AUGUSTEO Arco temporale avvenimento storico Trasformazioni nella città 5 febbraio 62 d. C. Forte terremoto nell'area campana e distruzione di Pompei. Scosse di assestamento nel corso di vari anni. Plinio il vecchio afferma che Napoli non subisce danni "perchè dotata di caverne sotterranee" Distruzione della città e diminuzione demografica Decadenza del castrum militare sulla rocca 64 d.C. Scossa di terremoto a Napoli in occasione dell'esibizione di Nerone ma nessun danno 79 d.C. Eruzione del Vesuvio e distruzione di Pompei ed Ercolano preavvisata da una sismicità ripetuta Scosse sismiche distruttive sulla costa e maremoto IL KASTRON BIZANTINO - LONGOBARDO Arco temporale Avvenimento storico Trasformazioni nella città 5 febbraio 250 d. C. Morte di Agata ad opera del proconsole Quintiano dopo anni di torture e terremoto a Catania Nascita della devozione per Agata martire a Catania e a Costantinopoli 251 d.C. Il velo della martire cristiana Agata ferma l'eruzione dell'Etna Diffusione del culto per la martire protettrice dai terremoti e dalle eruzioni in Oriente 284-305 d. C. Regno dell'Imperatore Diocleziano, persecutore dei cristiani e riformatore dell'esercito Romano; formazione della Diocesi Italiciana governata da Massimiano con capitale a Milano in cui viene creata la provincia unica del Latium-Campania e Samnium. Fondazione di un sistema difensivo di presidio militare sulla rocca tufacea con costruzione di una cortina muraria Ripopolamento del pagus e creazione di kastron di sorveglianza in punti strategici Costruzione di edifici intramoenia secondo i criteri antisismici Scavo delle cavità ipogee nella rocca a scopo antisismico ed edilizio (cave di tufo) Abbandono delle necropoli a favore delle sepolture intra moenia. 306 – 337 d. C. Regno dell'Imperatore Costantino. Editto di tolleranza per la religione cristiana cattolica e condanna dell'arianesimo Coesistenza di culti diversi intramoenia Ridedicazione degli edifici pagani ai culti cristiano-cattolici Formazione sul kastron di una curia vescovile protetta Costruzione della prima Cattedrale 346-357 d. C. Regno dell'Imperatore Costanzo e dura condanna dell'arianesimo Terremoto distruttivo nell'area del Matese. La provincia Samnium viene amministrativamente staccata dal Latium Campania per consentire la ricostruzione post-sisma Decadenza degli edifici nelle villae rusticae Abbandono delle terre Danni alla città? 360-365 d.C. Regno dei Valentiniani Terremoto nel mediterraneo orientale attribuito all'eresia di Giuliano l'Apostata Danni alla città? 375 d. C. Terremoto distruttivo con epicentro a Benevento Danni alla città? 378 d.C. Regno di Teodosio La provincia Campana viene sottoposta per qualche tempo al governo dei proconsules per arginare i contrasti religiosi 383 d. C. Muore Ulfila, vescovo predicatore dell'arianesimo 391 d. C. L'Imperatore Teodosio proibisce i culti ariani; il Cristianesimo cattolico diventa religione di Stato. La capitale dell'Impero viene spostata a Costantinopoli Ricostruzione delle chiese principali con materiale di spoglio proveniente dai crolli e dagli edifici abbandonati 425 d. C. L'Italia viene colpita dalla Peste Spopolamento Abbandono e incuria delle terre Crisi economica 472 d.C. Eruzione del Vesuvio e diffusione di polveri sottili in tutta Europa Cambiamenti climatici Aumento delle eresie e della superstizione Danni alle coltivazioni Danni alla città? 482 d.C. Scisma tra la Chiesa cristiana d'Occidente e quella d'Oriente. Soppressione della sede vescovile cittadina 491-518 d. C. Regno dell'Imperatore bizantino Anastasio I di religione monofisita con padre ariano Coesistenza di culti e di dediche negli edifici religiosi della città Edifici di culto fortemente stratificati 491 d.C. Il vescovo Lorenzo Maiorana porta in Puglia le reliquie di sant'Agata e Santo Stefano per combattere l'arianesimo. Apparizioni dell'Arcangelo Michele in Puglia. Diffusione del culto dell'Angelo e fondazione di chiese rupestri. Ridedicazioni di edifici religiosi esistenti: chiesa intramoenia dedicata al Santo Angelo Edifici ecclesiali rupestri dedicati a San Michele nel pagus della città 512 d.C. Eruzione del Vesuvio con fenomeni sismici annessi Danni alla città? 516/19 d.C. Il vescovo Germano di Capua si reca a Costantinopoli per risolvere lo scisma di Acacio tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente L'Imperatore Giustino concede a Germano le reliquie di Sant'Agata poste nella chiesa dei SS.Apostoli di Capua. Dedica alla martire e a Santo Stefano. Diffusione del culto di Sant'Agata nelle terre capuane VI secolo Papa Simmaco sancisce l'ufficialità del culto di Sant'Agata martire, protettrice dai terremoti e dalle eruzioni vulcaniche 535-553 d. C. Guerra gotico-bizantina Belisario combatte con un esercito di mercenari slavi e unni. Baduila (Totila) re dei Goti arriva nel Sannio conquista Benevento e Napoli distruggendone le mura di difesa I traditori dell'Imperatore Giustiniano restano nascosti nelle terre capuane Nessuna notizia documentata di conquista della città da parte dei Goti Nessuna distruzione delle mura difensive 554-568 d. C. Dominio dei Bizantini in Italia dopo la vittoria sui Goti riportata dal generale Narsete, amministratore per conto di Giustiniano 570 d. C. Regno dell'Imperatore d'Oriente Giustino II sulle terre d'Occidente. Arrivo dei Longobardi ariani nel Sannio ai quali Giustino II non si oppone Accordo tra Bizantini e Longobardi nel Sannio Lapide dedicata all'imperatore Giustino II riutilizzata all'interno di un edificio ecclesiale Edifici di culto condivisi da cristiani e longobardi ariani 590 - 615 d. C. Regno di Agilulfo fondatore del ducato di Benevento e delle gastaldie, convertito al cattolicesimo da Teodolinda Edifici ecclesiali dedicati al SS Salvatore, alla Santa Croce e a San Pietro VII secolo Teoderada moglie di re Romualdo promuove la conversione al cattolicesimo in meridione 625 Radoald e Grimoald di religione ariana vengono adottati da Arechi I a Benevento 642-647 d.C. Radoald è il conte reggente di Benevento. Alla sua morte gli succede il fratello Grimoald 671 d.C. Morte di Grimoald 685 d.C. Eruzione del Vesuvio con fenomeni sismici annessi Danni alla città? 698 d.C. Governo di Cunimperto. Concilio longobardo a Pavia che sancisce la conversione al cattolicesimo 720 d. C. In Campania i cristiani di rito bizantino cacciano i monaci cristiani cattolici che fuggono a Roma Prevalenza dei riti cristiano-ortodossi bizantini su quelli cattolici 729 Governo di Liutprando di religione cattolica sul ducato di Benevento Probabile costituzione di una sede vescovile Probabile costruzione di una prima Chiesa Cattedrale 730 d. C. Germano patriarca di Costantinopoli, esiliato, porta in Italia le reliquie di Sant'Agata 706-731 d.C. Governo di Romualdo II fondatore della chiesa di San Pietro presso la grotta di San Michele arcangelo in Puglia Divisione del ducato di Benevento in 32 gastaldati tra cui è menzionato quello di "Sant'Agata" 746 d.C. Il Concilio lateranense limita il culto dell'Angelo consentendolo sono per Gabriele, Raffaele e Michele, per evitare sviluppi magico-ereticali 750 d. C. Conversione ufficiale dei Longobardi al cristianesimo cattolico ad opera di Papa Leone Magno Adozione del culto dell'Angelo da parte dei Longobardi. Probabile restauro della chiesa già esistente con materiale di spoglio proveniente da macerie ed edifici abbandonati 774 d. C. Arechi II Principe di Benevento annette la città bizantina di Salerno alle terre longobarde Lapide di Madelgrima, sposa di Radoald comitis, senza data, appartenuta alla chiesa di Sant'Agatella. Probabile fondazione della chiesa. Formazione di una chiusa longobarda di difesa del territorio contro i Franchi riutilizzando la difesa bizantina Nuova denominazione della piramide in località castrone, adibita a kastron bizantino. Il nome "Ariella" deriverebbe da Ariel, angelo della guerra di culto longobardo 787 d.C. Morte di Arechi II Eruzione del Vesuvio con fenomeni sismici annessi Danni alla città? 801 d.C. Guerra civile nelle terre longobarde Terremoto con epicentro in Appennino centrale avvertito in tutta Italia Danni alla città? Spopolamento abbandono delle terre 844 Inizio del regno di Ludovico II detto il Giovane, re d'Italia, Imperatore carolingio e re di Provenza. Opposizione ai Saraceni musulmani a Benevento e in Puglia 847 d.C. Terremoto nel ducato longobardo di Benevento Danni alla città? 848 d.C. Forte sisma distruttivo nell'area del Sannio-Matese Danni alla città? 849 d.C. Divisione del Principato di Salerno dal Ducato di Benevento La gastaldia di Sant'Agata viene compresa nel ducato beneventano ma partecipa alla vita economica e politica del Principato di Salerno 866 d. C. La gastaldia di Sant'Agata è alleata dei Bizantini contro l'Imperatore Ludovico II che a Benevento si oppone ai Saraceni musulmani Ricostruzione degli edifici religiosi e prevalenza del culto cristiano di rito greco bizantino Soppressione della sede vescovile 871 d. C. Isembert gastaldo di Sant'Agata alleato del patriarca di Costantinopoli sostiene i bizantini contro l'Imperatore Ludovico II 875- 877 d. C. Morte di Ludovico II Marino gastaldo di Sant'Agata segue la politica del predecessore Isembert 893-894 d.C. Terremoto nel Sannio Danni alla città? 899 d. C. Atenolfo unisce Capua e Benevento fondando il principato di Capua, Stato autonomo nell'Impero Romano d'Oriente, che segue la politica di Bisanzio La Gastaldia è inglobata nel principato di Capua e si allea con Bisanzio nel conflitto contro Roma. 962 d. C. Ottone I di Sassonia, eletto Imperatore del Sacro Romano Impero, nomina i vescovi-conti per imporre la supremazia della Chiesa occidentale sui riti bizantini nelle terre ribelli 970 d. C. Madelfrido diventa primo vescovo cristiano cattolico della Diocesi di Sant'Agata, nominato a Benevento Annessione alla città-diocesi di nuove terre Inizio della costruzione della nuova chiesa Cattedrale dedicata alla Santissima Maria Assunta 989 d.C. Terremoto distruttivo nel Sannio e nell'Irpinia Danni alla città? Ricostruzioni e riparazioni degli edifici ecclesiali esistenti e della Cattedrale capitolo II La città caudina di cultura osca II.1 Sulle tracce del “non-luogo” saticolano Su Saticola si è detto e scritto da sempre, rimanendo tuttavia la città nascosta a chi l'ha lungamente cercata: nel 1966 Mario Napoli la definì addirittura "centro noto attraverso testimonianze letterarie", lasciando trasparire un certo scetticismo sull'esistenza reale della città nel Sannio. I ritrovamenti archeologici hanno stabilito con certezza che Saticola è materialmente esistita. La misura di questa convinzione è data dal moltiplicarsi delle ipotesi circa il luogo esatto nel quale poteva essere ubicata. In virtù di tale realtà, permane la necessità di mettere ordine tra i dati esistenti su questo affascinante argomento, che resta oltremodo confuso. Giuseppe Aragosa ha effettuato nel 2014 una interessante ricognizione utile a determinare "lo stato delle idee" sulla posizione materiale della città di Saticola. «Gli studiosi che si sono interessati di Saticola sono molti a partire dal Settecento», scrive Aragosa. «Per comodità di studio in relazione all'ubicazione di Saticola possiamo dividerli in vari gruppi...». Giuseppe Aragosa, Viaggio nella storia da Saticula alle terre dei Gambacorta, Associazione Terre dei Gambacorta, Quaderno n.7 2014In base alla sua attenta ricognizione i luoghi presso i quali studiosi di chiara fama hanno supposto Saticola sono i seguenti: 1) Caserta vecchia 2) Le "Terre dei Gambacorta" (da Frasso Telesino per Melizzano vecchio alla piana di Dugenta e Limatola fino alle propaggini di Sant'Agata tra il Tifata e il Taburno, l'Isclero e il Volturno 3) Il borgo di Sant'Agata de Goti 4) Limatola 5) La frazione Faggiano - Cotugni di Sant'Agata de Goti Dal suo canto Aragosa aggiunge: «La località archeologica più accreditata come il sito di Saticula, cioè le contrade Faggiano e Cotugni di Sant'Agata de Goti, sembra non essere abbastanza ampia per l'estensione di una città come Saticula, che poteva contare nel 316 a.C. dai dieci ai quindicimila abitanti, se i Romani per occuparla impiegarono due legioni di circa quattromila soldati ognuna». Idem. Circa l’entità della popolazione di Saticola prima della colonizzazione si è già chiarito che essa non è riconducibile alla superficie di estensione dell’intera città, perchè questa mancante di un’area stabilmente residenziale; le problematiche spaziali connesse alla residenzialità si posero solo per gli occupanti romani, ammontanti secondo Aragosa a 8000 persone (due legioni di soldati alle quali si dovrebbero però aggiungere le famiglie). In conclusione, la popolazione saticolana al momento della presa della città avrebbe potuto essere anche molto scarsa e la superficie assegnata alla tribù assai sovradimensionata, perchè inclusiva di aree "produttive" destinate al pascolo degli armenti. All'interno di questo studio non si intenderà rafforzare o indebolire le une o le altre ipotesi elaborate dagli studiosi, bensì capovolgere i termini della ricerca e spiegare non già dove si localizzasse la città ma perché è a tutt'oggi non individuabile in un punto preciso, all'interno di territori in cui le sue tracce sono tuttavia realtà tangibile. In altre parole, non interessa l'identificazione di un luogo ma la ricerca di un "non-luogo" attraverso la sua "ricomposizione" funzionale, avallata da concreti dati archeologici e architettonici, oltre che storici, geologici, economici e paesaggistici. Rispetto alla scoperta, in epoca moderna, di nuovi reperti archeologici, dal Settecento ad oggi non risultano invece aumentate le testimonianze storico-documentarie su Saticola. Quello che questo studio si propone di aggiungere sull'argomento è un'osservazione di tipo architettonico e urbanistico connessa alla Storia, ai fenomeni naturali, alle tecnologie costruttive e al paesaggio, riferiti ad uno sviluppo urbano protrattosi nel corso di vari secoli. La città in generale è da intendersi, infatti, come entità organica, che non si esaurisce nel singolo episodio urbanistico collegato ad un'unica datazione, ma vive e si trasforma nel tempo, prendendo varie sembianze anche sotto lo stesso toponimo. Si procederà inoltre al raffronto con lo sviluppo di città omologhe, valutate come archetipi, salvo individuare le peculiarità distintive. La scheda informativa fornita dalla Soprintendenza Archeologica di Salerno costituisce la base da cui partire per la spiegazione del “non-luogo saticolano”, poiché aggiornata ai più recenti ritrovamenti: «Anche se non è sicura l'esatta ubicazione di Saticola, è certo che si trovava nell'area dell'attuale Comune [di Sant'Agata de Goti]; infatti, sappiamo dalla descrizione di Tito Livio che durante la seconda guerra punica (III secolo a. C.), Marcello Claudio seguì il percorso Casilino-Nola e superata la scafa di Limatola si immise nel territorio saticolano. Il territorio di Sant'Agata de Goti si trova proprio nella suddetta scafa. Recentissime indagini, effettuate in occasione dei lavori di potenziamento del metanodotto algerino e durante le quali sono stati effettuati ritrovamenti di tombe e di alcune strutture murarie, farebbero ritenere che il centro antico si trovasse nella zona dell'attuale Contrada Ponte Rotto» www.archemail.it scheda di Sant'Agata de GotiLa definizione di “centro antico” qui utilizzata per l’area di Ponte Rotto (tra Cotugni, Faggiano e l’Isclero, a nordest del borgo di Sant’Agata), merita un approfondimento, poiché rappresenta un determinante punto di partenza per la ricerca della città di Saticola. Lo studio che induce Aragosa ad identificare il territorio di Saticola colonia romana (e precedentemente città sannita) con l'area compresa tra i comuni odierni di Limatola, Dugenta e Sant'Agata, essendo suffragato da ritrovamenti archeologici e da attente misurazioni, è la base di tipo documentario di questa ricerca. L'area, infatti, è quella dello sviluppo storico della città, partendo dal nucleo originario, assunto come centro antico. Per comprendere la sostanza del non-luogo saticolano è necessario capire come fosse articolato il suo sistema urbano, per cui risulta indispensabile affrontare lo studio delle parti e delle funzioni che costituivano in generale una città sannita. Scrive Giacomo Devoto: «Secondo la tradizione (Strabone V, 250) i Sanniti sono dei Sabini che, in seguito a una "primavera sacra", sono giunti, guidati da un toro, nel paese degli Opici... nulla impedisce di credere che una fusione di Opici e di Sanniti abbia avuto già luogo in alcune regioni del Sannio ancor prima della conquista della Campania, in seguito alla quale dagli Opici e dai Sanniti confusi nasceva il popolo degli Oschi». Giacomo Devoto, Sanniti, Enciclopedia Treccani, 1956 La definizione di Oschi si riferisce all'adozione da parte delle tribù stanziate in Campania, dell'alfabeto etrusco per la lingua e della cultura greca per le usanze e i costumi. «La tradizione ci conserva notizie sopra usi sannitici come i giuochi dei gladiatori e sopra le armi... il rito funebre è sempre quello dell'inumazione... fra i culti notevole quello di Mamerte, corrispondente a quello di Marte nei Latini... L'ordinamento cittadino si fonda sui meddices». Idem Domenico Caiazza ha riportato diligentemente in un suo scritto notizie autografe sui ritrovamenti archeologici di Francesco Rainone, vissuto tra il 1711 e il 1783, all'interno dei fondi di sua proprietà, consistenti in «una masseria all'Ischitella (Dugenta)... una masseria a Orcola (Dugenta)... una masseria a Camporosa (area dell'Isclero)... una masseria a San Pietro (a nordest di Sant'Agata de Goti)... tre quarti di oliveto a San Bartolomeo di Faggiano (pendici del monte Taburno a nordest di Sant'Agata de Goti)». Si tratta di località comprese nell'area di Saticola. Nello specifico Rainone trovò «monete etrusche... ora trasportate nel Real Museo di Portici...come la quantità di vasi Etrusci vagamente dipinti, rappresentatino Baccanali Sacrifizj e Divinità del Paganesimo; ed alcuni di essi, benché più rari, con brevi epigrafie di carattere etrusco... in una lucerna antica si leggono parimenti impressi questi caratteri ed in una testa di un palmo di diametro... si leggono dipinte da mano maestra quattro figure, cioè un mietitore con manipolo di spighe, un vendemmiatore con cesto di uve, un cacciatore con della caccia in mano, e un pescatore con pesci, e tutti in atteggiamento di offerirli ad un Priapo Terminale... tutti ritrovati in una ben grande tenuta (che certamente doveva essere un sepolcreto di sì illustre città) nel luogo dove dicesi Sopra Campo, discosto da questa città dalla parte settentrionale circa un miglio, in dove moltissimi sepolcri giornalmente si scoprono, tutti in pietra dolce bianca di bellissimi pezzi lavorati, che non avessero potuto ricevere danno dall'acque, essendo taluno composto di sei soli pezzi, a diversità che il coperchio de' medesimi in alcuni si è osservato piano, ed in altra lavorato a modello di cielo di carrozza. E nell'altra parte orientale poi di questa città, dove dicesi Valle di Riello si ritrovano dei sepolcri tutti di pietra cotta, nel coverchio dei quali anche di creta vi è scritta la parola SEMED, voce certamente Saracina» Domenico Caiazza, Due esempi di collezionismo ottocentesco nell'alta terra di lavoro: la collezione Rainone di Sant'Agata dei Goti e la collezione Pacelli di San Salvatore telesino, pubblicato su www.bancacapasso.itFu proprio Francesco Rainone a proporre per primo l'ipotesi di coincidenza tra la città di Sant'Agata e l'antica Saticola. Considerando la natura dei ritrovamenti, egli non si allontanò dalla verità sull'argomento: «Scrive il Beloch, accettando una indicazione di Catone, che l'antica città di Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere) venne fondata dagli Etruschi attorno agli inizi del VI secolo a.C...Come attesta Polibio, l'antica Capua fu anzi la capitale di una dodecapoli etrusca, di cui poco si conosce, ma che si estendeva su gran parte del piano campano e fino a quello picentino...Verso la metà del V secolo, la calata dei Sanniti dall'interno mette fine al dominio etrusco ed in un tempo relativamente breve dà origine ad un popolo amalgamato che prende il nome di Campano ed in cui l'antica Capua, pur senza esserne più la capitale – poiché mancò una vera federazione fra le città campane – seguitò a progredire ed a svilupparsi» G. Pane, A. Filangieri, Capua: architettura e arte. Catalogo delle opere, vol. I, Vitulazio, 1990 ed Capuanuova 1994È plausibile dunque che la città di Saticola esistesse fin dalla metà del V secolo a.C., qui fondata e abitata da Sanniti Osci-campani. Ma dove fu costruita? Il nipote di Francesco Rainone, Fileno Rainone, arricchì tra il 1789 e il 1811 la collezione di famiglia con altri ritrovamenti quali «vasi d'impasto, di bucchero, un araballos ovoide del Protocorinzio medio, vasi geometrici arcaici, quattro vasi attici a figure nere, una ventina di vasi attici a figure rosse databili al V e al IV secolo a.C. qualche vaso apulo e lucano, quindici vasi pestani, una sessantina di vasi campani, inoltre vasi a vernice nera, oggetti di bronzo e lucerne romane». D.Caiazza op. cit Caiazza commenta queste notizie osservando che i due studiosi raccolsero prevalentemente vasi e medaglie, essendo le epigrafi "assai poco numerose nell'area della colonia saticulana". La mancanza di epigrafi nelle necropoli fa da contrappeso al diffuso reimpiego delle stesse nelle costruzioni sulla rocca, poiché possedevano la forma, la lavorazione e le caratteristiche tecnologiche adatte ad essere inglobate nella muratura, come rinforzi strutturali, in previsione di scosse sismiche. Le tracce archeologiche ritrovate dai Rainone confermerebbero che i "Sanniti di cultura osca" giunsero in Campania approfittando della decadenza etrusca, ma tenendo vivo il bagaglio culturale ereditato da loro, impadronendosi, nel 421 a. C., anche della città greca di Cuma, i cui abitanti fuggirono a Napoli. La comprensione delle scelte urbane da loro operate a Cuma, ampiamente documentate dai reperti archeologici, ci conduce a una schematizzazione della città-tipo sannita a ridosso della costa campana. Al momento dell'arrivo degli Oschi, la città era dotata di una cinta muraria monumentale a difesa di un collettore delle acque progettato da Aristodemo, e risultava divisa in due parti altimetricamente differenti: un'acropoli a quota più alta e una città "bassa", pianeggiante, con un tessuto urbano variamente articolato. Scrive Giovanna Greco: «Il processo di "oscizzazione" della società cumana fu rapido ed infatti, le grandi famiglie aristocratiche che detengono il potere, nella città ellenistica, sono osche sia per gentilizio sia per lingua». Giovanna Greco, La definizione degli spazi pubblici a Cuma tra Greci e Sanniti, Atti dell'"International congress of classic archaeology meetings between cultures in the ancient mediterranean", MIBAC Roma, 2008 Dunque la cultura sannita fin da subito si fuse con quella greca di Cuma, con ampi margini di scambio. I Greci presenti a Cuma fin dall'VIII secolo a.C. avevano realizzato, nell'area pianeggiante ai piedi dell'acropoli, un centro abitato stratificatosi nel corso di varie epoche, formato da raggruppamenti sparsi e diffusi, i cui collegamenti infrastrutturali non sono noti. In pianura vennero costruite anche alcune aree di culto esterne all'acropoli, area sacra per eccellenza. A partire dal VI secolo a. C., l'area insediativa a quota più bassa venne trasferita altrove dai Greci, per lasciare spazio a costruzioni a carattere pubblico e sacro: esse erano realizzate in blocchi di tufo squadrati e lavorati, intonacati di rosso con specchiature in bianco, coperte da tetti in terrecotte dipinte. Aristodemo corresse il tracciato viario e progettò la fortificazione, il collettore fognario e un grande fossato. Infine, l'acropoli sull’altura fu riservata a un monumentale tempio dedicato a Giove. Nel V secolo gli Osci demolirono completamente quella che abbiamo definito "la città bassa", frantumando i materiali costruttivi e votivi e stipandoli in fosse di deposito. Variando l'orientamento degli assi viari, ricavarono, lungo gli stessi, edifici con funzioni sacro-pubbliche, come era d'uso nella loro cultura religiosa. La costruzione risultata più significativa è un altare-mensa rettangolare e basso, con bordo modanato a toro, intonacato. A ovest della città insistevano altri altari e mense votive, a conferma che nella valle era situato l'hurz, l’area sacra sannita, del quale è stato rinvenuto la parte di un recinto che lo chiudeva. «Tutta quest'area pianeggiante ai piedi dell'acropoli è riorganizzata dai Sanniti con nuovi monumenti che pur presentando difformità e diversità rispetto ai monumenti pubblici di età greca sui quali si sovrappongono continuano tuttavia a rivestire una funzione pubblica e cultuale». Giovanna Greco, op.cit. Tra la fine del IV secolo e i primi decenni del III secolo (periodo di guerre sannitiche), le tracce archeologiche confermano che le costruzioni della parte pianeggiante furono completamente smantellate e ricoperte. «Lo spazio centrale viene completamente ridisegnato e riorganizzato assumendo ...la funzione di piazza pubblica. La fronte monumentale della piazza è ben definita e delimitata dalla costruzione di un imponente tempio su podio di tipo italico... la definizione dello spazio centrale viene marcata dalla costruzione di un possente muro di delimitazione costruito in blocchi di tufo giallo squadrati; è orientato Est-Ovest...Il perimetro di questo primo impianto, di quello che possiamo definire il Foro sannitico, è ben delineato...Monumentale ed imponente doveva essere il grande tempio su podio costruito alla fine del IV secolo a.C.». IdemEra nato il Foro. Possiamo concludere che dopo l'incontro-scontro con la cultura romana, nella città sannita la funzione del Foro si sostituì urbanisticamente a quella dell'orto sacro, divenendo simbolo di una evoluzione politica e sociale all'interno del Tauto. Esso, infatti, non fu presente in tutte le città dello Stato Sannio, ma solo in quelle divenute più importanti soprattutto grazie alla posizione geografica. Quanto alle necropoli, i Sanniti di Cuma adottarono il rito funerario della inumazione, già usato dai greci: collocate in aree poco distanti dai centri abitati, le necropoli cumane del periodo sannita ritrovate, hanno tombe a cassa in blocchi di tufo. È interessante osservare come, alla fine del IV secolo a.C., nei corredi funerari in esse contenuti si trovasse oltre alla olla e allo stamnos anche il cratere, il cui uso in vita è segno di evoluzione nei rapporti sociali, governati dalla pratica del Simposio. Come già detto, dell'area sacra saticolana esistono le testimonianze archeologiche nella zona di Ponterotto, prossima alla riva dell’ Isclero, mentre i limiti naturali della città si ritrovano facilmente nel monte Taburno a est, nel bacino fluviale dell’ Isclero a sud-sudovest e in quello del Volturno a nord. All'interno di questo invaso territoriale, sono infatti state ritrovate le testimonianze archeologiche dei vici, della arx, delle necropoli e del mercato, ricollegabili a Saticola. Non abbiamo alcuna traccia archeologica che attesti la formazione di un vero e proprio Foro per Saticola. Ma interessa certamente considerare, stando alla descrizione della Cuma greco-sannita, la presenza significativa – non lontano dall'area sacra – dell'acropoli collocata su un'altura, protetta da elementi naturali e sede di un tempio per il culto d’influenza romana. Tale necessità ci induce a indagare su una possibile collocazione dell' acropoli nell'area urbana di Saticola, quale parte irrinunciabile dei centri sanniti culturalmente influenzati dai Romani, la cui presenza è stata accertata nei centri di origine greca come Capua e Cuma. Riguardo all'identificazione del santuario con lo status di città, «è noto come nel mondo sannitico fossero i santuari rurali e non invece i centri urbani "classici" a svolgere un ruolo di grande importanza: il numero impressionante di luoghi di culto, monumentalizzati in pietra, che sono documentati nel paesaggio molisano, ne costituisce testimonianza». AA.VV. Santuari, villaggi, centri fortificati e prima urbanizzazione tra Sanniti e Romani, in reserchgate.net gennaio 2016Le ricerche archeologiche condotte nell'area dell'alta valle del Tappino hanno dato il via a una serie di interrogativi sull'importanza del Santuario sannita rispetto alla consistenza del vero e proprio centro urbano; alcuni studiosi hanno proposto l'idea che essi fossero lontani dall'abitato, posti alle frontiere delle diverse comunità le quali erano invece stanziate in centri fortificati; altri hanno avanzato l'ipotesi che si trattasse di siti costruiti lungo i percorsi di transumanza, alla stregua di centri di ristoro e di accoglienza, luoghi di sosta per i pellegrini e i commercianti che dalle colline del Sannio si dirigevano verso la Puglia e l 'Abruzzo o verso la costa. Questa visione nebulosa dell'urbanistica sannita si schiarisce leggendo quanto scrive Andrea R. Staffa: «Dal VI-V secolo a.C. il popolamento dell'ampia area oggi compresa tra Abruzzo, Molise e Sannio campano risulta caratterizzato da quell'assetto sparso paganico-vicano già supposto in passato sulla base delle notizie conservate dalle fonti antiche...E oramai ampiamente confermato anche dalle indagini archeologiche degli ultimi decenni...In una situazione che vede ormai consolidata alla fine del V sec. a. C. la proprietà privata dei suoli agricoli, questa forma di insediamento prevalente inquadrabile nel pagus, entità territoriale appartenente a una comunità ben definita, appariva dotata di strutture diversificate a seconda della necessità: villaggi (vici), mercati (fora), prevalentemente ubicati lungo gli assi viari di fondovalle poi ripresi dalle strade romane e dai successivi tratturi, santuari (templa), centri fortificati (oppida, castella) fattorie e altri insediamenti minori del territorio rurale». Andrea R. Staffa, L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium, "Il mondo dell'Archeologia 2004", Enciclopedia Treccani, pag. 20 L'intera città di Saticola è dunque da identificarsi con l'ampia superficie di un territorio povero di infrastrutture che non fossero corsi d'acqua e tratturi, e del tutto privo di un centro urbano stanziale, seppur di dimensioni raccolte. Ciò rende lecita la definizione di "non-luogo" in cui più che di parti urbane si parlerebbe di funzioni distribuite su un'area delimitata naturalmente, condivise da una stessa tribù. Una città identificata con una comunità omogenea, caratterizzata da spiccata mobilità e notevoli doti di adattamento, sia ai paesaggi della pianura, sia a quelli della montagna. Questa definizione avvalora le teorie di Aragosa riguardo l'area da lui chiamata “le terre dei Gambacorta”. G.Aragosa, op.cit. pag. 34 e seg. Nell'area della pianura campana dove, stando a quanto detto fin' ora, esisteva Saticola, assumiamo l'area sacra di Ponterotto (a quattro chilometri a nordest della rocca di Sant'Agata de Goti sulle prime pendici del Taburno) come fulcro del pagus. Consideriamo al suo introno una superficie territoriale compresa entro i limiti corografici già posti in precedenza, tenendo conto dei confini con le altre città sannite – identificate ufficialmente come Telesia, (Telese - San Salvatore), Caudium, (Montesarchio), Capua, Caiatia, (Caiazzo), Calatia (Maddaloni), Suessula (Acerra) –. Così collocata geograficamente, Saticola si inserisce perfettamente fra queste città. La delimitazione proposta include tutti i siti che hanno fornito testimonianze archeologiche di presenza sannita non ascrivibile ad altre città: partendo da sud est e procedendo in senso antiorario sulla mappa essi sono: Bucciano, Moiano, Dugenta, Melizzano, Frasso telesino, Faggiano-Cotugni. Si noterà che questa perimetrazione esclude l'area della rocca tufacea su cui sorge l'attuale Sant'Agata de Goti, l' area chiamata Castrone e le terre del lungofiume designate da toponimo Isclero fino alla contrada Biferchia. A mio parere, la superficie di estensione della città di Saticola risulta oggi identificabile con il pianoro di Dugenta e con una fascia scoscesa sul Taburno (Frasso, Faggiano-Cotugni, Moiano, Bucciano), in cui si attesta storicamente la coltivazione della vite e dell'olivo, nonché il pascolo di ovini e bovini, fino ad arrivare ad un'area a quota più alta (Torello di Melizzano), al confine con Telese. L'antica funzione rurale delle aree è perfettamente riscontrabile ancora oggi nel paesaggio e nell'economia dei centri urbani citati. La testimonianza materiale di quanto sopra si ritrova nel rilievo dei ritrovamenti archeologici riportato nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale elaborato e approvato nel 2012, in cui sono schedate notizie riguardanti i comuni citati, dislocati nelle quattro direzioni a una distanza di 15-20 chilometri dalla località Ponterotto di Sant'Agata de Goti. I rilievi risultano utili ad individuare parti funzionali urbane sviluppate intorno all'area sacra del territorio saticolano, e cioè vici, arx, foro, necropoli, mercato e deposito commerciale. Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale vol. A2 - parte strutturale, Sannio Europa S.C.p.A. Benevento, 2009 Le località annoverate nel Piano sono le seguenti: a sud, sud-est: 1) Bucciano 2) Contrade Ponte - Vado degli anfratti, (Moiano) a nord, nord-est: Frazione Faggiano-Porreti-Cotugni (Sant'Agata de Goti) Contrada Torello (Melizzano) Contrada Murto (Frasso Telesino) Similmente, dal documento sopra citato e da studi e rilievi di autori diversi, deduciamo notizie sui comuni in cui sono stati ritrovati reperti di epoca romana, alla stessa distanza da Ponterotto, e collegabili al periodo risalente alla città colonia di diritto Latino: a nord, nord-ovest: Contrada Romagnano (San Pietro) di Sant'Agata de Goti Località Maiorana - San Nicola - Santa Maria in Pesole - Orcole (Dugenta) A sudovest: 9) Bucciano Dalla ricognizione documentata dei reperti archeologici trovati in via Campi e via Canale dell'odierna città di Airola sappiamo che il primitivo vico sannita apparteneva al territorio della città di Caudium, mentre i vici delle odierne Amorosi e Nansignano accolsero sul loro territorio profughi di Telesia. Dunque escluderemo tali centri dalla nostra indagine. Non ultime sono da considerarsi le proprietà fondiarie di Francesco Rainone, ossìa le località di Campo de Rosa (Camporosa) e Sopracampo, San Bartolomeo a Faggiano, San Pietro a nord est di Sant’Agata; la località Campo Tre Pozzilli a sud ovest in contrada Santa Croce. Di seguito una tabella contenente i dati desunti dai rilievi archeologici relativi ai centri sopra citati, per immaginare il “sistema urbano” di Saticola. Si elencano le località secondo una direzione che procede da sud-est verso nord-ovest, seguendo il limite perimetrale di Saticola quale supposto tra il V e il IV secolo a.C. e dopo la trasformazione in colonia di Diritto Latino. Denominazione odierna Località, contrada, frazione Altimetria e posizione geografica Testimonianze archeologiche Epoca di riferimento Funzione Bucciano a sud del monte Taburno mt 240÷1275 Materiali vari ed epigrafi Epoca sannita e romana Vico Villa rustica romana Moiano Ponte Vado degli anfratti mt 189÷1264 -Sepolture - Vasi saticolani - tombe in Tufo -Urne cinerarie IV secolo a.C. Necropoli sannita Sant'Agata de Goti Faggiano Porreti mt 195 -Sepolture sannitiche in casse di tufo con corredi funerari costituiti da vasi a figure rosse e vasi a vernice nera -Sepolture romane IV secolo a.C. Necropoli sannita Necropoli romana Cotugni mt 210 -Tracce di insediamento antico pertinente alla Saticola sannitica e romana -Tratto di poderosa cinta muraria di epoca sannitica -Area sacra IV sec. a. C. Area sacra sannita Pezzetti Cotugni mt 210 Sepolture Fine VIII sec. a. C. - inizio VII a.C. Fine VI sec. a. C. prima metà del V a.C. Necropoli osco-sannita Cotugni mt 5 -210 Tombe a cassa con blocchi di tufo VI-IV sec. a. C. Necropoli sannita Denominazione odierna Località Altimetria e posizione geografica Testimonianze archeologiche Epoca di riferimento Funzione Romagnano (San Pietro) mt 190 Circa quaranta sepolture Strada romana I - III sec. d. C. Necropoli romana decumano Ponterotto mt 5 - 210 Sepolture e una poderosa struttura muraria IV sec. a.C. Area sacra sannita Necropoli sannite Campo Rosa (Campo de Rosa) Sopra Campo mt 5 - 100 Monete, vasi, epigrafi etruschi Sepolcreti piani e a cupola VIII-V secolo a.C. Necropoli etrusco-sannita Valle del Riello mt 5 Sepolcri di pietra cotta VIII-V secolo a.C. Necropoli etrusco- sannita Santa Croce mt 261 Pavimento e ruderi Tarda età repubblicana Villa rustica romana Dugenta Maiorana mt 27-230 Reperti vari Tombe romane Età del Bronzo Dopo il IV sec. a. C. Necropoli romana San Nicola mt 30 Tombe romane Dopo il III secolo a.C. Necropoli romana Santa Maria in Pesole mt 30 Tombe romane Tracce di centuriazione Fine III sec. a.C. Oppido romano Orcole mt 50 Deposito di anfore romane Tracce di centuriazione Fine III se. a. C. Mercato o deposito romano Oppido romano Vallone del Ferro (a sud di San Nicola) Ruderi Tarda epoca Repubblicana Villa rustica romana Melizzano Torello Santo Spirito mt 907 Cinta fortificata sannitica. Sepolture VII-VI secolo a.C. Arx necropoli osco-sannite Frasso Telesino Murto mt 65÷1220 Monete d’argento Fine V sec. a. C. Vico sannita II.2 Il “sistema urbano” Saticola: osservazioni Quanto analizzato induce alle seguenti osservazioni: - L'area su cui insisteva Saticola – contenente vici, arx, mercato e necropoli orbitanti intorno ad un'area sacra –, si identifica con l'intera superficie del territorio compreso tra i moderni comuni di Bucciano, Moiano, Sant'Agata de Goti (parte nord-nordest), Melizzano, Frasso Telesino, Dugenta. - Corograficamente l'area cittadina risulta definita dai seguenti elementi naturali: 1) da sudest a nordovest, dal bacino fluviale dell’ Isclero. Esso era per la città fondamentale fonte di approvvigionamento delle acque per l'agricoltura e guida per la transumanza delle greggi dalla pianura ai monti e viceversa. Nello specifico, il percorso del fiume traccia un tragitto che dalle pendici del Taburno a Bucciano lambisce Airola e Moiano, passa presso la località Ponterotto di Sant'Agata de Goti, sfiora la rocca tufacea a nord e prosegue a ovest verso Biferchia, da Ifercla, "tratto del fiume con acqua salubre e leggera [pulita]" (Francesco Granata, Storia Civile della fedelissima città di Capua...vol. I, 1752)vira fino a Dugenta per poi sfociare a Limatola nel fiume Volturno. Lo stesso nome Isclero indica proprio un'”isola fluviale”, ossia un territorio ritagliato intorno alle acque. Isclero deriverebbe dal greco tardo-imperiale Iscla, dal latino Insul - Insula. Usato in varie regioni italiane, il toponimo Iscla indica "una striscia boscosa e cespugliosa lungo il fiume"(Calabria) oppure "Terreno irriguo presso l'acqua" (Irpinia). Nel complesso "un'isola fluviale". (Massimo Pittau Il lessema latino Insula/Iscla in Sardegna, in www.pittau.it). Altre interpretazioni si collegano alla parola di origine semiotica i-schra, "isola nera", forse in riferimento a una caratteristica geologica. 2) a nord, dal fiume Volturno, che prolunga il collegamento fluviale abbracciando Dugenta (Santa Maria Impesole, Orcole) fino alla valle di Melizzano; 3) a est-sudest, dalle alture del monte Taburno, utilizzate per il pascolo e l’avvistamento del nemico proveniente dall’Appia. - I punti in cui potevano attestarsi i vici sono Bucciano a sud est e località Murto da Murta = Mirto pianta aromatica detta anche Mortella. Possibile che al maschile indicasse il frutto. Dal XIII secolo indicò anche il casato Murtasdi Frasso telesino a nord est, entrambi alle pendici del monte Taburno in leggero declivio; - Stando ai ritrovamenti sul Torello Nel dialetto locale Turiello, "piccola altura" (dall'etrusco tauroche), similmente a Toro e Toredi Melizzano, a quota 907mt a nord est sul monte Taburno, fu realizzata la arx di protezione per uomini e bestie, prossima al vico di Frasso; - L'area sacra intesa come hurz si localizzava in contrada Ponterotto nei pressi dell’ Isclero, estendendosi fino alla parte più bassa della contrada Cotugni, occupando una vasta radura recintata; - L'area per il pascolo a valle era localizzata nella pianura di Dugenta, il cui territorio presenta un'altimetria molto varia (tra i 27 e i 230 mt), tra San Nicola, Santa Maria Impesole, Maiorana e Orcole; - Le necropoli di Moiano a sudest potevano essere collegate al vico di Bucciano mentre quelle di Faggiano (Porreti) e Cotugni a nordest potevano afferire al vico di Frasso e all'area sacra. - I reperti d’epoca etrusca ritrovati nell’area di Campo de Rosa e Sopracampo da Rainone confermano la provenienza dei primi sanniti di lingua osca dalla Tuscia, qui stanziatisi nell’orbita della città di Capua. Si delineano così, interpolando i ritrovamenti archeologici allo studio di archetipi urbani sanniti, gli elementi compositivi di quella che poté essere la città di Saticola tra il V e il IV secolo: - due nuclei abitativi simmetricamente disposti rispetto al Taburno, in area pedemontana; - una arx prossima al confine settentrionale, a maggiore quota sul monte. - Più a valle necropoli collegate ai vici e l'orto sacro, per le funzioni religiose presso l’Isclero. La superficie produttiva era costituita dal pianoro dugentese, riservato alla pastorizia e alla coltivazione dei cereali, stretto tra i due fiumi. Manca l'identificazione archeologica di una acropoli in posizione dominante sulla pianura, dove i saticolani avrebbero potuto praticare un culto templare, dopo l’incontro con la cultura romana. Scriveva Mario Napoli, nel 1966, a proposito di Sant'Agata de Goti: «Si può supporre che la città attuale sorga sul sito dell'acropoli di Saticola, mentre la città doveva distendersi verso la valle dell'Isclero. Sull'altro versante della valle, su di un pianoro a due chilometri dall'attuale città, è stata esplorata tra il 1771 e il 1811, un'ampia e ricca necropoli e da allora, ed ancora oggi, nella regione vengono segnalati rinvenimenti di tombe» Mario Napoli, voce Saticula in Enciclopedia dell'Arte antica, 1966Di lì a qualche anno all'interno di quelle tombe sarà rinvenuto il meraviglioso cratere firmato dal maestro Assteas. Realizzato tra il 375 e il 350 a.C. a Poseidonia, città greca posta alla foce del fiume Sele, la città era stata conquistata dai Sanniti Lucani, e vi si era sviluppata una produzione ceramografa di eccezionale valore. Un vaso così realizzato, firmato dallo stesso maestro, (circostanza assai rara), poteva essere stato commissionato solo da una elìte ricca ed evoluta: ciò testimonia il grado di evoluzione sociale raggiunto dai saticolani grazie all'influenza della cultura greca, alla vigilia della conquista romana. L'assenza di testimonianze archeologiche puntuali sembrerebbe negare che l'acropoli della città di Saticola potesse essere la rocca tufacea su cui sorge l'odierna Sant'Agata de Goti; esistono però alcuni argomenti che permettono di ipotizzarlo. Fig. 01 I Caudini nel Sannio Fig. 02. Probabili confini della città di Saticola, tra l'VIII e il IV secolo a.C. II.3 La rocca e l'incidenza dei dati geologici e sismologici I ritrovamenti archeologici rinvenuti fino ad oggi nell'area esaminata si sono rivelati preziosi per l'accertamento dell'esistenza di una forma urbana saticolana e per la sua approssimativa localizzazione. Bisogna però considerare che molte delle tracce d'epoca sannita – come di quelle romane successive alla colonizzazione –, siano state distrutte da eventi sismici e da esondazioni dei fiumi. Fernando La Greca scrive: «Terremoti ed eruzioni del Vesuvio hanno sempre funestato la Campania, fin da epoche antichissime; la ricerca archeologica sta riportando alla luce eventi in precedenza sconosciuti. Nella prima metà del III secolo a.C., un terremoto distruttivo avvenne nel Sannio, quando il territorio era già stato conquistato dai Romani: esso è stato evidenziato non dalle fonti antiche, ma attraverso moderne ricerche archeologiche e archeosismologiche, in particolare nel santuario sannita di Ercole a Campochiaro». Fernando La Greca, I terremoti in Campania in età romana e medievale. Sismologia e sismografia storica, in "Annali storici di Principato Citra" Vol. I 2007 Le problematiche geologiche e sismologiche potrebbero aver condizionato fortemente la trasformazione della città, l'uso del territorio e nello specifico la scelta di costruire un tempio sulla rocca tufacea, ritenuta l'unico elemento territoriale predisposto alla funzione di acropoli sacra. La formazione della rocca su cui sorge Sant'Agata de Goti ebbe origine oltre 33.000 anni fa, a causa di un'eruzione vulcanica con fuoriuscita d'Ignimbrite Campana; lo testimoniano i depositi lacustri contenenti resti faunistici risalenti a questa data rinvenuti presso la Masseria Cambera. I costoni della rocca sono in pietra di tufo grigio compatto, con sviluppo di "pipe" (cioè di fenditure naturali verticali) secolari, per la fuoriuscita del gas lungo la superficie: ciò causò le caratteristiche formazioni “a colonna” perfettamente visibili sul versante a ovest. La rocca è al centro in un territorio ricco d'acque sorgive, lambita a est e ad ovest dai corsi del Riello e del Martorano, nell'antichità navigabili, oggi molto ridimensionati, utilizzati come vie di comunicazione verso l'Isclero e come bacini d'irrigazione nei campi. Si tratta di elementi naturali fondamentali per l'insediamento abitativo dei Sanniti e dei Romani, che hanno fortemente condizionato la forma e lo sviluppo architettonico della città. Abbiamo già rilevato come lo strato primitivo su cui si basa la rocca, il paleosuolo, sia un substrato argilloso; su di esso si succedono tre strati di Ignimbrite: il primo, detto lacustre (ignimbritico anteriore), depositandosi nel Quaternario creò uno sbarramento dei flussi delle acque presenti sul territorio. La conseguenza fu l‘alluvionamento dell'intera valle circostante e la formazione di un bacino lacustre con depositi argillosi. L'occlusione che sbarrò la strada al naturale deflusso dell'Isclero e dei suoi affluenti, determinò le condizioni per una perenne esondazione, in cui le acque ristagnarono intorno alla rocca per molti secoli formando una palude. Il secondo strato, di tipo fluvio-lacustre, fu forse originato dallo sblocco delle vie di deflusso delle acque a seguito di una erosione generalizzata dell'Ignimbrite "bloccante", oppure da movimenti tettonici, dovuti al sisma. Comunque i depositi piroclastici ostruenti, consumandosi, liberarono le acque ma l'erosione non si arrestò nel tempo, formando gli attuali terrazzamenti a est e a ovest intorno alle forre dei torrenti Riello e Martorano e alle sponde dell'Isclero, ai quali si aggiunsero gli effetti dell'erosione dei venti che ancora oggi si avverte sul versante nord est della rocca. Comune di Sant'Agata de Goti, Progetto di riqualificazione e messa in sicurezza del costone di Reullo Centro Storico di Sant'Agata de Goti finanziato con fondi POR Campania FESR 2007/2013 Le ricerche geologiche ritengono che il bacino alluvionale sia scomparso in epoca romana. D.Abate, T. De Pippo, E. Massaro, M. Pennetta, Evoluzione morfologica tardo-quaternaria della Valle Caudina (Benevento, Italia) su "Il Quaternario", Italian journal of Quaternary Sciences 11(2) 1998, 255-264Ancora nel XIII-XIV secolo l'area che parte dal monte Pietrapiana, passa per la contrada Bocca Riello, prosegue per Le tre Fontane fino a Reullo giungendo alla contrada Biferchia, aveva un carattere paludoso e insalubre, prosciugato grazie ad una intensa attività di dissodamento, bonifica e regimentazione delle acque da parte dell'uomo, protrattasi fino al Medioevo. Rosanna Biscardi, L'Arco in fondo alla valle - il mistero architettonico di Sant'Agata e Goti, Napoli, Cervino Edizioni, 2015 Riguardo alle catastrofi naturali, pur essendo la documentazione storica incompleta, sappiamo che in epoca romana la Campania era tra le regioni a rischio sismico elevatissimo, particolarmente nelle aree del Sannio e dell'Irpinia, per secoli duramente colpite da tali eventi. Grazie alla metodologia di ricerca basata sulla "sismografia storica", che studia le singole costruzioni nelle epoche pervenendo alla "cultura sismica locale“, è possibile reperire il vissuto sociale dei fenomeni sismici ma soprattutto soluzioni e comportamenti delle comunità rispetto agli stessi. In Campania e nel Sannio è di particolare interesse “leggere” le tracce di soluzioni escogitate nell'antichità che hanno sfidato il tempo, a testimonianza dell'efficacia di una cultura sismica locale avanzata da proporre come modello sostenibile a chi ha ereditato il compito di provvedere alla sicurezza dei luoghi. Nei confronti della sismografia storica del Sannio, Sant'Agata de Goti gode senz'altro, rispetto alla sua morfologia architettonica, di un posto rilevante come esempio di buona cultura sismica locale. L’antica città di Saticola – divenuta Colonia di Diritto Latino e poi Castrum –, superò come urbs e come civitas numerosi eventi catastrofici nell'antichità, giungendo a noi in tutta la sua particolare bellezza. Occorre innanzi tutto comprendere la mentalità diffusa tra gli antichi romani riguardo il modo di concepire, spiegare e affrontare i dissesti sismici; sostanzialmente essi assumevano due tipi di atteggiamento: 1) Il terremoto come "evento prodigioso“: in età repubblicana (cioè tra il 509 e il 27 a.C.), "prodigi" quali i terremoti o gli sprofondamenti ma anche le frane, le esondazioni e le eruzioni vulcaniche, vennero interpretati come reazione divina alla violazione della pax deorum, cioè del patto di concordia stipulato tra la cittadinanza e gli dei. All'indomani di un evento sismico, si celebravano riti religiosi e sacrifici verso una qualsiasi divinità che potesse intercedere. Nel successivo periodo Imperiale, gli eventi prodigiosi si interpretarono invece come segni premonitori sul futuro dell'Imperatore in carica. 2) La spiegazione del sisma data dalla Ragione, anelata da intellettuali e filosofi, tra cui il più attento è Seneca. Egli, pur conservando un atteggiamento stoico, cerca una teoria "scientifica", avversando la mera superstizione. Nel VI libro dell’opera Questioni naturali, esprime il convincimento che i fenomeni sismici non siano dovuti all'ira divina, bensì ad elementi che si "agitano" nel sottosuolo, come le correnti d'aria, classificando le scosse telluriche in tre categorie: sussultorie, ondulatorie e “vibratorie”. Seneca comprese anche l'esistenza dello "sciame sismico", scosse di assestamento che, in base alle sue osservazioni empiriche, si protraevano per due anni. Sulla scorta di queste teorie, si concretò la convinzione di poter mitigare gli effetti del sisma scavando gallerie sotterranee per facilitare il flusso delle correnti d’aria. Il sisma avvenuto a Pompei nel 62 d.C., distrusse, infatti, l’intera città ma non causò danni a Napoli, nel cui sottosuolo esisteva un fitto reticolo di cavità ipogee. Fernando La Greca, op.cit. Altro dato interessante da considerare per Saticola è che le cognizioni utili per la difesa delle strutture dal sisma furono attinte dalla Poliorcetica, disciplina praticata per la costruzione delle macchine d'assedio in guerra. Si deve a questa consuetudine l’incontro tra le esigenze della "messa in sicurezza" dal sisma, e quelle della difesa da attacchi nemici. Le due pratiche costruttive si coniugarono perfettamente nel caso della rocca tufacea saticolana: tra il IV e il X secolo essa si trasformò in una fortezza inespugnabile grazie ad un processo di "sedimentazione edilizia", ottenuto con frequenti interventi di rafforzamento della cinta muraria e delle abitazioni che via via popolarono il borgo. Il processo di rafforzamento consistette nella reiterata sovrapposizione di elementi di fabbrica in altezza, addossati a quelli originari sottostanti, allo scopo di aumentare il peso e lo spessore di base. Ciò permise, da un lato, di conferire maggiore stabilità alla cinta muraria, che tendeva a ruotare verso l’esterno. Dall’altro, di scoraggiare tentativi di arrampicata o di penetrazione da parte del nemico, in un perfetto coniugio tra prassi antisismica e militare. Tornando agli eventi naturali, in età imperiale si ricorse anche a credenze astrologiche e religiose per la classificazione delle zone sismiche. Per i pagani, infatti, il terremoto avveniva in zone soggette agli influssi di particolari condizioni astrali. Per i cristiani, invece, tali zone furono prescelte da prodigi collegati ai martiri, visti come punizioni per gli empi pagani. Quest'idea dominò il Medioevo, portando alla nascita di culti concentrati su determinate figure del mondo cristiano: come Gesù “Il Salvatore”, per il quale la terra si scuote subito dopo aver esalato l'ultimo respiro. Oppure Sant'Agata, che nel momento in cui sta per essere bruciata scatena un terremoto collegato all'eruzione dell'Etna. Considerata sotto questo aspetto, la dedica della rocca a Sant'Agata si collegò alla necessità di ottenere quella che per i cristiani fu la massima protezione dal sisma e in generale dagli eventi naturali avversi, in una zona del Sannio molto provata, ma politicamente ed economicamente preziosa. Di fatto la rocca, alla luce degli studi di sismografia storica, subì, presumibilmente a partire dall’età Imperiale, una serie di interventi considerati rafforzativi nei confronti del sisma: allo scavo del reticolo caveale sotterraneo visibile ancora oggi, fecero seguito i rafforzamenti edilizi alla parte abitativa e agli edifici ecclesiali man mano che si sviluppò la cittadella militare. Infine, qualche secolo dopo l'avvento del cristianesimo come religione ufficiale, grazie a circostanze politiche concilianti, la città, oramai identificata con la rocca, fu dedicata alla martire Agata. Tutto questo rese la rocca tufacea progressivamente inattaccabile, sia dagli eventi naturali sia dai nemici militari, a testimonianza dell'amore che hanno sempre avuto gli ostinati abitanti di questo territorio per i loro luoghi d'origine. Facendo una ricognizione dei soli eventi sismici che hanno coinvolto fin dall'antichità la Regio Samnium possiamo citare Idem: - Il terremoto della prima metà del III secolo a.C. avvenuto appena dopo la conquista romana del Sannio; - Il terremoto del 217 a.C. con epicentro in Etruria ma avvertito in tutta Italia che, come afferma Cicerone, causò sprofondamenti, frane e modifiche del corso dei fiumi; -Il sisma del 91 a.C. avvertito nel Sannio e in Calabria, dovuto, secondo gli storici dell'epoca, alla guerra sociale tra i Romani e gli italici che chiedevano lo Ius Soli; -Nel 62 d.C., il terremoto del nono grado della scala Mercalli che distrusse Pompei e le città della Campania appena qualche anno prima della sconvolgente eruzione del Vesuvio. Fu in questa occasione, come si è detto, che si pensò che scavare un reticolo ipogeo al di sotto delle case mitigasse le scosse sismiche; una simile pratica diede l' avvìo senz'altro allo scavo delle cavità nel tufo anche nella nostra città, unito alla necessità di cavare le pietre da costruzione per i primi edifici intramoenia. - Il sisma che si dimostrò decisivo per il destino del Sannio, quello del 346 d.C. avvenuto nell'area del Matese, che distrusse molte città di origine sannita come Alife e Telese. Alcuni storici affermano che partì da questo ennesimo evento il distacco amministrativo del Sannio dal Lazio-Campania per favorire la ricostruzione. Dopo questa divisione, la rocca si trovò sul limite tra le due Regio, acquisendo probabilmente una diversa funzione politico-amministrativa. I terremoti si susseguirono per tutto il Medioevo e oltre, molto violenti, spostandosi a partire dall'847 dalla zona del Matese al Molise e all'Irpinia. I motivi per cui la popolazione continuò ostinatamente ad abitare in luoghi soggetti a frequenti catastrofi naturali – alle quali si aggiunsero gli attacchi dei Barbari, la peste, le carestie, le guerre –, sono da rintracciare nell’alta rendita fondiaria. Essa era detenuta soprattutto dai patrizi e dai politici, che qui avevano acquisito nel tempo vaste proprietà intensamente produttive, soggette a reddito censuale. Fino a quando non si cominciarono ad applicare gli interventi "di sostegno", le costruzioni si mantennero presumibilmente basse ma realizzate con materiali leggeri (per esempio con impasti di pietre pomici) e con coperture lignee. E' assai probabile che dal Tardo Impero si re-impiegassero a più riprese, nelle ricostruzioni post sisma, elementi di fabbrica provenienti dalle macerie locali o di città limitrofe. Si trattava di materiale a basso costo scelto tra quello pronto per una rapida posa in opera. Il riuso continuò nell'VIII secolo con i Longobardi e fino al XII con i Normanni Drengot, in un'opera di continuo riassemblaggio delle parti strutturali più volte crollate, cercando in tutti i modi di raggiungere l'efficienza statica, soprattutto negli edifici ecclesiali. In questi ultimi si cercò anche di raggiungere un'armonia estetica, che conferisse autorevolezza e lustro all’artefice della ricostruzione. In conclusione, si afferma come dato fondamentale per lo sviluppo della città la conformazione geologica di tutto il territorio saticolano, nello specifico della rocca tufacea: alla luce delle vicende collegate a un numero imprecisato di distruzioni e ricostruzioni, è possibile che sulla stessa, inclusa nel territorio di Saticola come acropoli, fosse stato edificato un tempio di cui oggi sarebbe naturale non trovare alcuna traccia. II.4 L'area sacra, i vici e le arx di Saticola. Il ritrovamento di strutture riferite ad un'area sacra saticolana nelle contrade Cotugni e Ponterotto ci spinge a puntualizzare la sostanza di questo spazio e della sua funzione, considerando quanto scrive Staffa: «Intimamente connessa all'organizzazione paganico-vicana del popolamento...appare in area sabellica la distribuzione sul territorio dei luoghi di culto, in origine semplici sacelli all'aperto. Molti luoghi di culto erano giunti a catalizzare nei loro pressi (IV-II sec. a. C.) insediamenti anche di notevole articolazione, sovente rimasti anche in seguito ad uno stadio semplicemente vicano» Andrea R. Staffa, op. cit. La lastra di bronzo chiamata "Tavola Osca" risalente al 250 a. C., ritrovata ad Agnone e conservata a Londra, racconta di riti religiosi che furono praticati senz'altro anche dai Saticolani: per esempio, delle cerimonie dedicate alla dea Kerres e ad altre numerose divinità, scandite da periodi e date precise. Il “boschetto sacro” aveva l'estensione di circa un ettaro, ed era ricavato in un'area piantata con alberi di querce e cerri o in una radura. Sulla tavola Osca tale luogo è chiamato hurz, ossia "orto" sacro. La tavola di Agnone elenca ben diciassette divinità, adorate dai Sanniti all'interno dell'orto sacro: tutte erano connesse all'agricoltura, al mondo dei campi e dei raccolti, ai frutti della Madre Terra, tanto che ognuna era apostrofata col titolo di Kerrìiaìs ossia "Cereale", come se fosse un titolo onorifico. Nell'area sacra cittadina abitavano solo gli dei. Era un microcosmo, un miracolo racchiuso in un fazzoletto di terra percorso da processioni presso quindici altari disposti in fila, davanti ai quali la comunità ricordava quanto fosse preziosa la Natura. Le divinità abitavano stabilmente nell'orto sacro perso tra i boschi, ma era indispensabile, per i devoti bisognosi di protezione, indurle con gentilezza ad avvicinarsi a luoghi a loro più cari: la porta di casa, punto di passaggio tra la sicurezza del focolare domestico e l'esterno pieno d'insidie; la dispensa, in cui si conservavano tutti i cibi vitali. Gli dei vigilavano anche i campi dove cresceva il raccolto, le sorgenti la cui acqua preziosa rappresentava la salvezza, e le tombe che testimoniavano il passaggio dell’umanità dalla vita al mondo ignoto dei morti. Ritenere che il recinto dell'orto sacro fosse un luogo solenne e triste non è esatto: nei giorni delle processioni e dei riti questo spazio immerso in una totale bellezza naturale ospitava anche riunioni politiche, mercati e vendita di bestiame, rappresentazioni recitate nel teatro-tempio, occasioni d'incontro e di scambio di notizie, innescati dal comune culto religioso. Vi si teneva qualcosa di molto affine alle odierne feste patronali, che sono occasione di ossequio a un Santo protettore ma anche d'incontro e divertimento. In relazione ai vici e alle arx, invece, è interessante quanto scrive Staffa: «In territorio molisano i centri fortificati rappresentavano sino a qualche tempo fa la principale forma di stanziamento sannita nota e appaiono prevalentemente riferibili alle fasi del confronto con Roma (tardo IV sec. a. C.), come confermano sia le fonti antiche (Diodoro Siculo, Livio) sia le indagini condotte al loro interno (Monte Santa Croce, Monte Vairano, Morcone, Oratino, Terravecchia di Sepino, Monte Pallano); non va tuttavia dimenticata... la presenza in alcuni siti... di materiali connessi a una frequentazione sin dal VI-V a. C., ben prima della realizzazione delle cinte murarie oggi visibili. Tali centri esercitavano un ruolo fondamentale nel controllo del territorio e svolgevano la funzione di arx nei confronti di sottostanti abitati vicani riferibili all'articolato tessuto del popolamento sparso, come nel caso degli insediamenti vicani ─ poi divenuti municipi ─ di Boiano, Venafro e Sepino... monte Cavuto alle pendici sud-orientali del Matese nella Campania sannita, identificate queste seconde con il centro di Callifae...Un'imponente cinta fortificata doveva esistere anche presso l'importante centro di Caudium, ubicato ai confini occidentali del territorio sannita verso la Campania, in corrispondenza dello storico valico delle Forche Caudine, da cui si accedeva all'entroterra sannitico...Le cinte fortificate erano sovente di grandi dimensioni, atte a ospitare popolazione e armenti ...e in taluni casi sono sede di insediamenti vicini a una dimensione protourbana...Generalmente, tuttavia, le cinte presentavano dimensioni più ridotte, con plausibile funzione puramente militare o comunque ristretta solo a determinati periodi dell'anno, in connessione da un lato con le dinamiche dell'economia pastorale e dall'altro con l'esigenza di garantire la sicurezza degli armenti...I centri fortificati non rappresentavano comunque la forma d'insediamento prevalente in area “safina-sabina”, come hanno rivelato progetti mirati di ricognizione, condotti a partire dalle ricerche svolte in Molise dalla British School at Rome, anche in altre aree della media Italia appenninica e adriatica...». Andrea R.Staffa, op. cit. Quanto sopra getta luce sul carattere dei resti di fortificazione ritrovati al Torello di Melizzano, probabilmente una arx funzionale alla difesa delle greggi portate al pascolo sul monte Taburno e della popolazione dei vici su questo versante del territorio saticolano. A sud dello stesso, il vico di Bucciano potrebbe invece collegarsi alla cinta di difesa di Caudium. Riguardo il territorio dell'odierna Limatola, Giuseppe Aragosa la colloca al centro di una vicenda urbana autonoma, anche se comunque collegata ai saticolani. «Il primitivo nucleo di Limatola sorge intorno al VII secolo a.C. con la presenza degli Oschi che acquistarono ceramiche e oggetti ornamentali dalle vicine colonie greche di Pithecusa (Ischia) e Cuma... nel secolo VI a.C. gli Etruschi sono già presenti a Limatola, il cui territorio entrerà poi a far parte della federazione di dodici città: la famosa dodecapoli etrusca che aveva come capitale Capua, Urbs maxima opuletissimaque Italiae, uberrimus ager (Livio L. VII)... di poi Limatola si incrementa con una parte della popolazione di Saticula, IV sec. a.C., essendo questa una di quelle città sannitiche di cui dice Strabone: Itaque aliae urbes in pagos degeneraverunt aliae prorsus abolitae (Strabone, Geogr. L.V). Limatola poi, sorta dalle ceneri di Saticula o da una esigua parte degli abitanti sfuggiti al suo eccidio, non raggiungendo le dimensioni di una cittadina, fu sottomessa da Caiatia (Caiazzo)... il Varrone in proposito dice: "Limatola, compresa nel campo caiatino non credo avesse avuto altro nome che quello generale di Caiatia... durante il lungo periodo dell'Impero Romano Limatola divenne sede privilegiata per la costruzione di non poche ville rustiche lungo le verdi pendici dei monti Tifatini...E' probabile che fosse incluso nel territorio di Caiatia e quindi temporaneamente in età sillana, almeno nell'agro campano» G.Aragosa, Un antico centro del Medio Volturno, Limatola e il suo casale di Biancano,Kat ed. 1994 pp.32/38. Essere città sannita per Limatola non era una questione legata al numero della popolazione, bensì alla superficie territoriale, inclusiva di aree pianeggianti e montuose. E' legittimo dunque supporre che se in un primo momento fu vico di sosta per i mercanti sanniti diretti dall'entroterra alla costa, dopo la presa di Saticula nel 313 a.C. diventò luogo di esilio temporaneo per i profughi. A conclusione della centuriazione, essi sarebbero tornati presso le loro terre. Ciò giustificherebbe la successiva affiliazione del vico limatolese al pagus Caiatino. capitolo III La colonia di Diritto Latino III.1 La duplice città Le cronache di Tito Livio hanno legittimato l'esistenza di una città chiamata Saticola, all'interno del Touto sannita, che nel 313 a. C. i Romani riuscirono a sottomettere e distruggere, ed otto anni dopo dichiararono ufficialmente "colonia di Diritto Latino". Ciò avvenne a seguito delle operazioni di cancellazione e “ridisegno” degli spazi e delle funzioni urbane nell'area conquistata. «Quanto al nome le colonie del periodo più antico lo assumevano dalla località in cui venivano fondate», Andrea R. Staffa, op. cit.per cui il toponimo Saticola indicò una città dall'assetto urbano ed economico totalmente cambiato. Scrive Lorenzo Gagliardi: «La fondazione delle colonie romane si basava su operazioni di limitazione e divisione del territorio. Le difficoltà maggiori, al fine del compimento delle necessarie operazioni gromatiche, nascevano quando una colonia sorgeva su un territorio nel quale già esisteva un centro abitato da indigeni, i quali occupassero le terre sulle quali Roma intendeva fondare la nuova comunità. Ciò per due ordini di motivi: innanzi tutto perché il territorio doveva essere sgombro, affinché l'area interessata potesse essere oggetto di parcellizzazione. In secondo luogo, perché la fondazione delle colonie avveniva per distribuire le terre ai coloni (nell'Impero principalmente ai veterani), sicché evidentemente, ancora una volta, le terre dovevano essere liberate dai precedenti occupanti». Lorenzo Gagliardi, Fondazione di colonie romane ed espropriazioni di terre a danno degli indigeni, Mélanges de l'Ecole francais de Rome, "Antiquité, mefra.revues.org 2016 Ai membri della comunità sottomessa, privata di mezzi di sostentamento (i pochi sopravvissuti agli scontri), veniva talvolta trovata una nuova sistemazione abitativa e attribuiti nuovi connotati giuridici. La casistica, riguardo l'atteggiamento dei Romani verso i vinti, è triplice e in una di esse rientrò certamente la sorte degli abitanti di Saticola sopravvissuti alla guerra: 1) Il caso più raro e scarsamente documentato è quello in cui gli sconfitti, scacciati dalle loro terre ma remunerati a titolo di risarcimento, emigravano in un'altra località esterna alla colonia a formare un nuovo insediamento. Su tale eventualità si basa l'ipotesi di un insediamento di saticolani nel territorio di Limatola, dove secondo Giuseppe Aragosa, sarebbero presenti tracce archeologiche e toponimi indicativi in località Giardoni. G.Aragosa, op. cit. pag.80 e seg. 2) Altra eventualità – ritenuta anch'essa rara – era l'elevazione degli indigeni allo status di cives Romani, per cui anch'essi ottenevano in affidamento delle terre in qualità di coloni. Questa ipotesi nel nostro caso sarebbe però in contraddizione con quella dello schieramento contro Silla durante la guerra sociale. 3) La soluzione intermedia (il caso più frequente), induceva i Romani ad ospitare gli italici sopravvissuti nel territorio della colonia, ma in condizioni d'asservimento ai coloni romani. Questa soluzione prevedeva che la comunità di sconfitti continuasse a risiedere ottenendo uno status d'autonomia e mantenendo la propria cittadinanza. L'italico, in qualità d'incolae (privato cittadino tenuto a versare una tassa al governo di Roma) poteva anche far parte di una res pubblicae di peregrini (collettività obbligata a versare un censo comune al governo). L. Gagliardi, op. cit. Secondo quanto ha scritto Siculo Flacco, gromatico incaricato delle centuriazioni e autore dell'opera De condicionibus agrorum, non tutti gli italici sconfitti restavano privi delle loro proprietà terriere: «A seguito delle espropriazioni avvenivano dunque alcune restituzioni di terre a vantaggio degli indigeni entro le colonie... potevano darsi, in particolare, restituzioni a titolo individuale, ma anche restituzioni a titolo collettivo». idem Flacco afferma che gli auctores divisionis lasciavano una parte esigua e scadente della terra ai popoli espulsi in precedenza, confinandoli in "riserve", isolate ubicate negli oppida coloniali, concedendo una giurisdizione autonoma solo al loro interno. A tal proposito Giovanna Greco riporta significativamente che «il 338 a.C. segna una svolta per Cuma e per le altre città campane; con l'assunzione della civitas sine suffragio, la città sannita ottiene di mantenere una larga autonomia interna che si manifesta nell'autorizzazione ad adoperare ancora la lingua osca, ad avere un'assemblea ed una magistratura locale (meddices), a conservare divinità e culti locali...». Giovanna Greco, op. cit. Poteva tuttavia anche accadere che pur affidando alcune terre ai veteres possessores l'area restava in ogni caso sotto la giurisdizione di Roma. Il caso più frequente verteva, secondo le testimonianze di Flacco, proprio in questa soluzione poiché le terre venivano affidate non a singoli proprietari, ma ad una res pubblica peregrina, ossia l'intera comunità d'indigeni sottomessi privati di diritti. Ricordando che ogni civitates aveva leggi istitutive particolari e che non esistono documenti ufficiali sulla sorte amministrativa di Saticola e sullo stato giuridico dei suoi abitanti, si possono formulare solo ipotesi basate proprio su tale mancanza. Secondo il gromatico Igino, le terre delle colonie venivano innanzi tutto distribuite ai nuovi abitanti della regione, cioè i cittadini romani veterani dell'esercito. Si trattava in questo caso di agri dati o redditi in un'area centuriata. A queste terre si aggiungevano nella centuriazione gli agri redditi o commutati ai veteres possessores, gli sconfitti precedentemente abitanti dei luoghi. Infine è interessante considerare i terreni detti subsiciva, o excepta, terre pubbliche non divise né assegnate, soggette a vectigal, vale a dire a un censo da pagare allo Stato. Parte di queste terre erano agri concessi ai veteres possessores membri di una res pubblica di peregrini, dunque di una comunità che restava emarginata e priva di diritti. In questi casi, secondo Igino, la gestione delle terre era affidata agli indigeni stessi e sottratta alla sovranità della colonia, in cambio del pagamento del vectigal. È plausibile che il nuovo status di colonia dividesse territorialmente Saticola in due parti ben distinte tra loro dal punto di vista etnico e giuridico. La storia di tali parti testimonia la continuità di vita della città nel tempo, elemento fondamentale, dato che non poche città sannite non sono sopravvissute all'impatto con i Romani. La res pubblica di peregrini nella sua interezza era, secondo Gagliardi, esclusa dal dominium ex iure Quiritium e manteneva una sorta di proprietà peregrina delle terre. Invece lo status personale dei veteres possessores, se soggetti ai magistrati della colonia, era quello degli incolae, residenti nella colonia nelle stesse aree abitative dei cittadini romani. Una parte degli incolae potevano essere oriundi da altre città, e una parte indigeni. Qualora essi non fossero soggetti ai magistrati romani, le aree residenziali abitative e produttive si dividevano in due parti separate geograficamente: quella utilizzata dalla comunità di cittadinanza romana (la migliore in termini di resa economica e risorse naturali), e quella, più scadente, assegnata ai veteres possessores. Questi ultimi erano obbligati a pagare un tributo fondiario a Roma, ma avevano una loro amministrazione giuridica. «Bisogna precisare che i coloni non sempre pagavano il tributo fondiario: non lo pagavano sulle terre italiche e sulle terre delle colonie dotate di ius Italicum, poichè su di esse avevano il dominium ex iure Quiritium che era completamente esente da tasse». Lorenzo Gagliardi, op. cit.Inoltre il canone di concessione veniva pagato dagli incolae sui terreni cosiddetti subsiciva (i peggiori) concessi a loro e non su agri redditi. Ricapitolando, dal 313 al 305 a. C. i Romani operarono a Saticola una centuriazione dell'oppido (di cui sopravvivono le tracce, oggetto di attenti studi da parte di Giuseppe Aragosa), nella parte pianeggiante della città. Le particelle fondiarie furono assegnate ai coloni romani, soldati veterani già benestanti; ma è plausibile che alcune di queste terre (agri redditi) siano state assegnate anche agli incolae provenienti da altre città o agli indigeni locali sopravvissuti. Invece, le terre peggiori ai limiti dell'oppido – per esempio quelle paludose nei pressi dei corsi d'acqua a nord-est, lungo il corso dell'Isclero –, chiamate subsiciva, potrebbero essere state affidate, in cambio di un censo, a una res pubblicae di peregrini, della quale non abbiamo notizie ufficiali. Questo lascia intendere che fosse soggetta all'amministrazione di Roma e del tutto priva di diritti. Analizzando il carattere rurale e produttivo del territorio saticolano così come precedentemente definito, si è propensi a considerare che la divisione tra aree fertili centuriate e aree malsane non centuriate fosse abbastanza semplice: la parcellizzazione in centurie fu ricavata in un'area adatta alla coltivazione di cereali, vite e olivo. L'area subsiciva non poteva che essere a sud est, nei pressi dell’Isclero, dove storicamente le terre avevano carattere paludoso da secoli, conservando ancora oggi una conformazione terrazzata e frammentaria. Queste terre partivano dalla contrada Ponterotto, si estendevano fino a Moiano e Bucciano, lambendo Caudium, come testimoniano i depositi fluvio lacustri rilevati dagli studi geologici dell'area. AA.VV. Evoluzione morfologica tardo-quaternaria della Valle caudina (Benevento - Italia) in "Il Quaternario - italian journal of qaternary sciences", 1998 «La presenza di un insediamento romano nel centro della valle (antica Caudium) consente di ritenere che il bacino abbia subito un forte ridimensionamento o addirittura si sia estinto tra i 5000 a.B.P. e l'epoca romana (circa 2000 a.B.P.)». Idem È ancora evidente nel moderno paesaggio la conformazione a terrazze dell’isola fluviale tra le odierne Moiano, Sant'Agata e Dugenta. Lungo questo percorso, a partire dal XII secolo, si svilupparono strutture di irregimentazione idrica, probabile opera dei monaci Cistercensi, beneficiati dal re Ruggiero il Normanno dopo il 1140. Esse furono in parte ristrutturate dai Borbone; ne restano tracce nell'area di Reullo, in località Tre Fontane e, seguendo il percorso fluviale fino a Biferchia, nel territorio di Dugenta, presso la Grancia di San Martino e il cosiddetto Vallone del Ferro. 05. Funzioni urbane di Saticola colonia di diritto latino (305 a.C.) III.2 Ipotesi su un castellum saticolano All'interno dell'amministrazione romana esisteva la figura dell'Edile investito del ruolo di praefectus iure dicundo vectigalibus quinquennalibus locandis. Egli era incaricato di dividere secondo legge le terre cittadine tra i coloni e i peregrini della colonia. Questi ultimi venivano confinati nei castella, L.Gagliardi, op. cit.agglomerati non romani, a volte fortificati, da cui originariamente dipendevano le terre restituite ai veteres possessores, membri della res pubblica peregrina, gli italici sconfitti. Scrive Lorenzo Gagliardi che in tali castella, «le civitates peregrinae avevano una certa indipendenza, ma dovevano in qualche modo essere soggette all'autorità romana della colonia, entro i confini della quale si trovavano incluse: vi erano sottoposte, in particolare, qualora sorgessero questioni in materia di confini tra gli indigeni e i coloni». Idem Il compito del praefectus in loco era dunque quello di tenere sotto controllo l'esatta divisione dei terreni divisi tra coloni e indigeni, poiché i secondi dovevano corrispondere un tributo fiscale per le terre pubbliche. Come si è detto, non sappiamo di preciso a quale modello politico-amministrativo fu sottoposta la colonia di Saticola. La storia dei secoli successivi si basò certamente su un processo di "romanizzazione", comune ad altre città italiche conquistate, ottenuta non senza ribellioni politiche e militari, culminate con la concessione della cittadinanza. D'altra parte la successiva confisca delle terre, operata da Augusto a vantaggio dei suoi Veterani, ci fa dedurre che alla fine dell'età Repubblicana la società saticolana fosse costituita da latifondisti ostili alla politica di Cesare e da servi ad essi sottoposti. Scrive Aragosa: «Fin dalla metà del II secolo a.C. l'impegno dei proprietari contadini in attività militari portò all'ampliamento dei latifondi a vantaggio di pochi ricchi. Questi, infatti, acquistavano le proprietà terriere di coloro che partivano per la guerra e incrementavano sempre più l'ampiezza dei loro poderi. Nacque così il latifondo, che non produsse vantaggi all'economia e all'agricoltura, in quanto i vecchi proprietari erano costretti a lavorare spesso sui loro antichi fondi in condizione di servi». G.Aragosa, op. cit. pag. 64, nota 163 Probabilmente la res pubblica peregrina saticolana fu confinata com'era l'uso in un castellum, presso terre pubbliche indivise, in condizioni di emarginazione geografica e politica. All'interno del territorio della colonia oltre all’oppido centuriato e alle terre subsicivia, la parte urbana adatta a formare un castellum poteva essere soltanto l'antica acropoli, individuabile nell'altura tufacea isolata dai due fiumi. La città romana, rispetto a quella sannita, si sarebbe dunque trasformata, a partire dal 305 a. C., in un sistema urbano costituito da: - un oppido centuriato in pianura coltivato dai coloni veterani romani, in cui dopo meno di un secolo si sviluppò il latifondo; - un oppido non centuriato, ubicato sulle pendici del Taburno, riservato ai coloni e poi acquisito dai latifondisti, nell’area dei primitivi vici, della arx e delle necropoli; - un castellum isolato abitato da una res pubblica peregrinae, prossimo alle terre malsane della colonia, il subsiciva, sull'acropoli saticolana e sull'antica area sacra dell’Isclero fino a Ponte Rotto, sede di necropoli. Presso la nuova rete viaria dell'oppido – di cui esistono chiare tracce archeologiche –, si sarebbe sviluppato parallelamente ai cardi e ai decumani, un sistema di canali (dal toponimo I Fossi) per il drenaggio delle acque di esondazione dei fiumi, riversate nel Volturno. Idem, pag. 39 Le terre furono destinate ad una fiorente produzione di grano, e all’immagazzinamento e allo smercio del vino e dell'olio destinati a Roma. I vici divennero piccoli agglomerati rurali per i coloni, alcuni dei quali si trasformarono, con l’avvento del latifondo, in villae rusticae e fattorie. Le terre dei subsiciva non centuriate, comprese nel tratto dell'"insula fluviale" emarginato dal sistema viario romano, Idemrimasero forse insalubri, blandamente coltivate e sfruttate soprattutto per l'allevamento di bovini e ovini, perché ricche di sorgenti e adatte solo al pascolo. La zona abitativa degli italici, avente carattere edilizio di scarsa qualità, poté concentrarsi sull'altura tufacea, divenendo castellum. Il varco di passaggio per i pastori "prigionieri", che si spostavano dalle terre subsiciva al loro ghetto sulla rocca, fu necessariamente aperto a est, presso l' “abbocco” (il punto di incontro) col “piccolo Rio”. Il Riello sarebbe stato usato per la lavorazione dei prodotti agricoli e come riserva d'acqua per l'attività di pascolo nelle terrazze a est. Un varco di minore importanza poteva essere a nord del castellum, per mettere in comunicazione l'abitato dei peregrini con l’area nord dell'Isclero, dove erano l’orto sacro e le necropoli riservati ai loro culti. III.3 Il paesaggio urbano nella colonia in epoca Repubblicana In termini di estensione, il territorio della Saticola colonia di Diritto Latino non poté subire accrescimenti; fu invece rivoluzionata l'organizzazione urbana dello spazio, con il tracciato dei collegamenti viari romani, dando un inedito impulso agli scambi commerciali e sociali. L’indagine sulla centuriazione saticolana è reperibile in una pubblicazione del 1987 intitolata Structures agraires en Italie centre-méridionale, Cadastres et paysages ruraux, a cura di una équipe di studiosi dell'Università di Besançon: «gli assi della centuriazione, ormai sepolti, e scoperti con sofisticate tecniche... oltre trent'anni fa, nel luogo dove fu dedotta la colonia di diritto latino Saticola, agli inizi dell'Ottocento erano più evidenti, come dimostra la Statistica del Regno di Napoli. In essa tra l'altro si legge che"[...] quella di Dugenta (la valle) talché i suoi terreni declinerebbero a divenir pantanosi, se un'agricoltura attivissima, colà introdotta, e fortemente sostenuta non cercasse continuamente di aprire e tenere espurgati i fossi (quelli della centuriazione) in direzione del fiume"». G.Aragosa op.cit., pag. 87 e seg. Il paesaggio dell’oppido saticolano a nord, in direzione Capua, fu descritto da Cicerone nel De Lege agraria, oratio secunda, come "il più bel dominio del popolo romano, fundum pulcherrimum populi romani, la fonte della ricchezza, l'ornamento della pace, il sostegno della guerra, la base delle entrate, la risorsa contro la carestia, caput pecuniae, pacis ornamentum, subsidium belli, fundamentum vectigalium, solacium annonae". Nell'area pedemontana est invece, il paesaggio dell’oppido era caratterizzato da vaste estensioni di vite maritata, «ovvero alberata, legata cioè per lo più a pioppi, olmi, ma anche a noci e ulivi, in più filari sovrapposti». IdemVirgilio, nelle Georgiche, lodò a sua volta le piantagioni di uliveti che aveva avuto modo di ammirare sui costoni del monte Taburno. Ancora nella Statistica era riportata una descrizione del paesaggio che ha conservato fino ai tempi moderni un carattere rurale che si intuisce simile all'oppido saticolano intorno agli antichi vici: «I vitigni del capoluogo di Melizzano, di Frasso, bianchi quelli della valle di Dugenta, nell'estensione del Tifata, da Maddaloni a Santo Iorio sono tutti bianchi. Anche la vite maritata si continua a coltivare. Nelle vigne alte dove le viti sono appoggiate a lunghi e grossi tronconi di castagne, vicino al piolo che sostiene la vite madre, si adatta un ramo selvaggio detto frasca, affinché in primavera, sbocciando le nuove gemme, i sarmenti possano attaccarvisi per mezzo dei capreali». (a cura di) D.Demarco Statistica del Regno di Napoli nel 1811, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1988, tomo IV, p.138 Le fonti storiche che descrivono l'agricoltura in epoca romana sono assai ricche, consistendo nei testi lasciati da Catone, Varrone, Columella e Palladio, oltre che di testi d'altra natura come Le Georgiche di Virgilio o La Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Gli scavi archeologici delle villae rusticae campane hanno consentito di ritrovare attrezzi agricoli semplici come vanghe, zappe a lama triangolare e quadrata di diverse dimensioni, asce e rastrelli, falci, roncole, picconi e forconi. Non sono mai stati trovati aratri e dispositivi più complessi, che pure furono utilizzati per la lavorazione della terra. Un dato, questo, che dimostrerebbe la grande disponibilità di mano d'opera schiavistica sul posto. Michele Borgongino Le colture extraurbane in "Homo Faber - Natura, scienza e tecnica nell'antica Pompei", Electa, 1999 Secondo Giuseppe Aragosa, «la colonia di diritto Latino Saticola, dedotta nel 313 a.C. in Samnio ad confinia Campaniae, comprendeva 2500 coloni... la suddivisione del territorio di Saticola rientrava per la sua disposizione per strigas et scamna, tra le centuriazioni più antiche... per quanto riguarda l'urbanizzazione, si costruirono, oltre ai vari insediamenti abitativi, le vie carrozzabili, come il Decumanus maximus di Saticola. Questo faceva da collegamento tra la via che proveniva da Capua e passava per il territorio di Caiatia e la stazione itineraria di Syllas, [identificata con Squille presso il fiume Volturno a nordovest nell’oppido], per poi attraversare il ponte sul Volturno... inoltre la via del Decumanus maximus... si prolungava oltre la pianura della zona collinare, a nord della gola dell'Isclero, con un tracciato forse non del tutto rettilineo, raggiungendo, attraverso la necropoli tra Faggiano e Cotugni... l'area difesa dal muro di fortificazione [si riferisce alle tracce sannite a sudest presso Bucciano], per raccordarsi poi con Caudium». G.Aragosa, op. cit., pag. 36 L'assetto viario rintracciato e descritto dagli archeologi francesi, emarginava la rocca tufacea e le terre subsicivia; è altresì possibile che l'area sacra presso Ponterotto e le sue necropoli continuassero ad essere utilizzate solo dagli abitanti confinati sul castellum: i ritrovamenti archeologici di epoca sannita-romana nelle contrade Faggiano e San Pietro lo confermerebbero. Angela Palmentieri precisa: «Le testimonianze archeologiche superstiti d'epoca romana sono ampiamente attestate lungo la valle caudina e quella del fiume Isclero, un territorio che offre una documentazione cospicua per quanto spesso poco conosciuta. Contrariamente non vi sono tracce analoghe sul pianoro di Sant'Agata, fatta eccezione per le antichità classiche riutilizzate» Angela Palmentieri, Civiatates spoliatae. Recupero e riuso dell'antico in Campania tra l'età post classica e il Medioevo (IV-XV secolo), Tesi di dottorato a.a. 2009/2010e aggiunge: «Se le testimonianze dei reimpieghi di Sant'Agata sembrano fornire pochi dati di rilievo per la ricostruzione delle vicende monumentali e socio-economiche dell'antica colonia di Saticola, sono al contrario significative per aggiornare il quadro della ricerca sulla monumentalizzazione dei centri della Campania antica tra la prima età augustea e quella tardo-imperiale». III.4 La traccia del Santo Angelo sulla rocca La direttrice nord-sud oggi chiamata via Roma, rettificata in alcuni punti nel corso dei secoli, separa il borgo in due parti, secondo l'urbanistica delle città altomedievali. Sul tracciato originale era la "via major" o "platea", e vi si innestavano a baionetta le stradine trasversali, in base alla disposizione delle porte d'accesso e all'andamento delle mura di difesa. Esse seguono la sinuosità naturale dei costoni tufacei basamentali, con una forma allungata, definita dagli storiografia urbana "a fuso". La definizione è stata attribuita dalla professoressa Maria Luisa Scalvini, docente della facoltà di Architettura all'Università Federico II di Napoli, nell'ambito del corso di Storia dell'Architettura delle città. Per la studiosa la tipologia urbana a forma di fuso della città medievale si affianca alla tipologia a ventaglio e alla tipologia a sviluppo caotico. La piazza Ludovico Viscardi è oggi uno slargo sulla via Roma, ridisegnato a partire dal XVI secolo in occasione della costruzione di dimore patrizie di famiglie immigrate nel territorio del feudo santagatese. Al centro del largo sorge la chiesa di Sant’Angelo de-munculanis, esemplare di basilica romanica che oggi appare alla vista in due strati di fabbrica sovrapposti, ben distinti dal restauro moderno: quello sottostante, di origine altomedievale, è coperto da una “camicia” muraria settecentesca, parzialmente asportata. Il restauro del 1979, ha rispettato l'intervento che inglobò l’edificio in un “guscio” teso, molto probabilmente, a rafforzare la statica dell’edificio, mascherandone le sembianze originarie. Grazie a un fortuito episodio, il priore della confraternita della Santissima Maria Addolorata, alla quale è affidato l'edificio di culto, consentì alla Soprintendenza di Caserta di riportare alla luce 5 colonne a fusto liscio nascoste all'interno dei pilastri. Gregorio Rubino, Vega de Martini, Strutture altomedievali nella chiesa di S.Angelo in Munculanis a Sant'Agata dei Goti, in "Napoli Nobilissima", vol. XVIII, fascicolo VI, novembre-dicembre 1979 Tali elementi, per la loro diversità di altezza, di proporzioni e di materiali, sono senza dubbio di spoglio, cioè composti da "moduli" provenienti da altri edifici, riassemblati tra loro. Le parti furono scelte in base alle finiture, alle qualità meccaniche e a quelle estetiche, perchè già pronte per la posa in opera. Questa pratica – che alcuni studiosi ricollegano all'assenza sul posto di maestranze competenti Angela Palmetieri, Testimonianze romane nel centro di Sant'Agata dei Goti loro reimpieghi, in "Napoli Nobilissima", Ser. 6, vol. 4, anno 2103; Conoscenza e riuso dell'antico nel Medioevo. Torcularia d'età romana nel Duomo di Sant'Agata de Goti in "Annali dell'Istituto Italiano degli Studi Storici, vol 23, anno 2008. e alla necessità di ottenere una sorta di "nobiltà" costruttiva con poca spesa –, convalida l’ipotesi di un rifacimento avvenuto nel XII secolo. In questo periodo anche l'edificio di San Menna fu ristrutturato con lo stesso metodo dal conte normanno Roberto Drengot, ma in maniera molto più articolata, in quanto cappella di culto personale, colma di simbologie legate al Santo Sepolcro. La pianta della chiesa del Santo Angelo è basilicale a tre navate senza abside (forse del tutto eliminata perché crollata o fortemente danneggiata), orientata nord-sud; l'ingresso alla chiesa avviene da un portico rivolto a sud, con arco di tufo leggermente ogivale, sostenuto da due colonne di granito e capitelli con motivi geometrici a losanga, questi ultimi attribuiti al periodo tardo longobardo. Gregorio Rubino, Vega de Martini, op. cit. Una caratteristica molto importante, segnalata da Luigi Cielo, è la sopraelevazione del pavimento che confermerebbe a suo dire un fenomeno tipico del tardo Impero, in cui il calpestio delle nuove costruzioni andava a sovrapporsi agli antichi pavimenti di monumenti precedenti. Cielo nota infatti alcuni resti di pavimento a mosaico bianco e nero che lascerebbero immaginare una preesistenza romana sul luogo della chiesa, L.R. Cielo, Decorazione a incavi geometrizzanti nell’area longobarda meridionale, NN, n.s., 17, 1978, pp. 174-186; Strutture altomedioevali nella chiesa di S. Angelo in Munculanis a S. Agata dei Goti, NN, n.s., 18, 1979, pp. 220-226circostanza che non è ancora mai stata approfondita. È diffuso, nella struttura dell'edificio, l'uso di elementi di spoglio di vario genere: tronchi di colonne, basi, capitelli d'età tardo imperiale mescolati a materiale alto medievale del IX secolo. In facciata, il campanile in asse con il portico d'ingresso è a due ordini: il primo presenta una monofora in conci di tufo giallo e grigio e il secondo una bifora con colonnina e capitello di spoglio a stampella. Anche qui sono stati inseriti nella muratura elementi di cornici romane tardo-imperiali in marmo di spoglio, al di sopra delle teste delle lesene realizzate in cotto, decorate come capitelli, a motivi che richiamano le foglie d’acanto, tipiche dello stile corinzio. La chiesa di Sant'Angelo de-munculanis sulla rocca tufacea, nel suo linguaggio architettonico sedimentato, testimonia le epoche più importanti per lo sviluppo del borgo di Sant'Agata: quella tardoimperiale bizantina (VI-VII secolo), quella longobarda (VII-X secolo) e quella normanno/romanica dell'XI-XII secolo, oltre ai successivi rifacimenti avvenuti a partire dal XVIII secolo ad oggi. Risulta emblematica soprattutto la dedica dell'edificio religioso all'Angelo: a mio avviso essa lascia intravedere la sua origine di sacello pagano, poi trasformato in tempio devozionale cristiano. Gli Arcangeli erano infatti già venerati nel mondo copto, egizio ed etiope, simboleggiando "l'annunzio di dio" o "la cura di dio". Il culto siriaco egiziano si trasmise ai greci, ed ebbe notevole diffusione nelle terre pugliesi grazie ai pastori, trasformato dai Romani in devozione per il dio-eroe Ercole, le cui fatiche erano interpretate come prove per l’essere umano contro le avversità della Natura. Con l’incontro fra culti greci e romani avvenuto nel IV secolo, i pastori Sanniti di cultura Osca potrebbero aver costruito sulla rocca un sacello dedicato all'Arcangelo poi trasformato in Ercole. Il dio veniva tradizionalmente raffigurato come un pastore, perché protettore della transumanza delle greggi verso la Puglia, terra presso la quale essi si dirigevano ciclicamente, percorrendo i tratturi abbruzzesi. Il culto per gli Arcangeli continuò ad essere praticato in epoca bizantina nelle terre romane d’Oriente, e anche dopo l'ufficializzazione della religione cristiana sotto Costantino. La Chiesa Romana era diffidente verso la devozione per gli Angeli, soprattutto a causa della mancanza di reliquie, indispensabili per fondare le chiese. Si decise di trasformare il mito pagano in quello cristiano dell'Arcangelo Michele, identificato nella figura del giovane guerriero che uccide il demonio, protettore dei cavalieri e dei capitani di ventura. Anna Pia Giansanti, Da Ercole a San Michele, un culto legato alla transumanza, in "Apocalypsis" 21.01.2012 Il culto dell'Angelo si trasmise dai Bizantini ortodossi ai Longobardi, nel momento della conversione religiosa di quest’ultimi. Fu utilizzato in Puglia e in Campania dai cattolici per combattere l'arianesimo, su idea del vescovo Lorenzo Maiorana. È acclarato che ai miti pagani la chiesa di Roma sostituì gradualmente santi e martiri cristiani dove possibile, incentivando la trasformazione degli edifici pagani esistenti. Un' operazione che potrebbe essere avvenuta anche per un tempio dedicato a Ercole sulla rocca, contestualmente a una nuova dedica approvata sia dagli ortodossi sia dai cattolici. La chiesa intitolata all'Angelo sulla rocca di Saticola viene denominata negli atti delle Sante Visite "de-munculanis" Acta Primae Visitationis Civitatis et Dioecesis habitae ab Ill.mo...Philippo Albino, Sant’ Agata dei Goti, Archivio Vescovile, Atti Sante Visite, XIV, cc. 7v-58v. e varie ipotesi sono state fatte su tale nome: alcuni storici sostengono l'appartenenza dell'edificio a una comunità o a una famiglia, altri a una pieve. Sulla scia della prima ipotesi il nome potrebbe derivare dal latino do-muncula sinonimo di "casula" (casetta, cellula minima) o di "tuguriolum" (capanna). Si vedano: Vocabolario degli Accademici della Crusca alla voce “Casa” e seguenti e Nuovo dizionario de'sinonimi della lingua italiana di Nicolò Tommaseo, 1838, voce “Casuccia” nota (6) Il suffisso -anus al termine della parola denoterebbe una forma di appartenenza: Sant'Angelo do-munculanus/do-munculanis = "ll Santo Angelo della gente nelle capanne", ossia dei pastori e dei viandanti. Ammettendo l'ipotesi che, prima dell'avvento del cristianesimo e della costruzione di una chiesa di Sant'Angelo, sulla rocca insistesse in quel punto un sacello dedicato al culto di Ercole, venerato dai Sanniti, il termine do-munculanis sarebbe rimasto a indicare nel Tardo Impero, la funzione specifica di punto cultuale riservato a una comunità viandante, composta da pastori, mercanti e mercenari. In conclusione, l'esistenza di un luogo di culto dedicato a Ercole, trasformato nel Tardo Antico in chiesa bizantina dedicata all'Arcangelo Michele e poi in chiesa cristiana cattolica in epoca longobarda, sarebbe indicativa dell'utilizzo della rocca come acropoli saticolana e come castellum per la res publica peregrinae. Infatti, «a partire dal Tardo Impero, ai cristiani fu consentito di occupare aree precedentemente appartenenti ai culti pagani, purché le mettessero a coltura». G.Aragosa, op. cit. pag.57 Il paesaggio sull’Acropoli saticolana, nel IV secolo a.C., potrebbe essere stato quello di un luogo selvaggio e incontaminato, occupato da abitazioni precarie, strette intorno a un piccolo tempio pagano. Dal III secolo d.C., sulla rocca potrebbe essere stata avviata un’attività rurale funzionale all’abitato stanziale, sorto intorno alla chiesa cristiana. Fig. 06 Colture e paesaggi nella colonia II.5 Il reimpiego dei materiali di spoglio sulla rocca Il fenomeno costruttivo che vide il reimpiego di elementi di spoglio d'epoca romana nelle strutture edilizie sulla rocca, ebbe inizio, secondo le ricerche storiche più aggiornate, in epoca augustea, fino al Tardo Impero. Esso conobbe una seconda fase nell'alto Medioevo con i Longobardi, raggiungendo la sua massima espressione con i normanni Drengot, all'inizio del XII secolo. La spiegazione che giustifica il "riciclo" di parti ritenute provenienti da monumenti importanti, localizzati in territori limitrofi della stessa area culturale, è ricollegata tradizionalmente dagli studiosi alla penuria di maestranze esperte sul posto e al desiderio, soprattutto da parte dei Normanni, di conferire "monumentalità" ad edifici con funzioni simboliche, come le chiese. Angela Palmetieri, Testimonianze romane nel centro di Sant'Agata dei Goti loro reimpieghi, in "Napoli Nobilissima", Ser. 6, vol. 4, anno 2103 Nello stesso tempo, a questa particolare pratica costruttiva sulla rocca fa riscontro la totale assenza di tracce archeologiche che testimonino un'edilizia antecedente all'età augustea. La spiegazione del fenomeno del riuso – riscontrabile a vista nella maggioranza degli edifici nel borgo oltre alle chiese –, può avvalersi a mio avviso del contributo della storiografia sismica locale. F. La Greca, op. cit. In occasione dei disastri naturali, la cultura antisismica dei Romani si riferì ai contributi teorici di osservatori – militari, intellettuali, filosofi –, che avevano maturato idee e soluzioni empiriche sull'argomento, dei quali non esistono molte testimonianze scritte. Come osserva Fernando La Greca: «L'unico autore classico che ci parla esplicitamente di accorgimenti antisismici è Plinio il Vecchio. Descrivendo il celebre tempio di Artemide ad Efeso, afferma che esso fu costruito in una zona paludosa appositamente per evitare terremoti o spaccature del suolo; le fondamenta tuttavia furono rafforzate stendendo al di sotto di esse uno strato di frammenti di carbone ed uno di velli di lana. Sembra che questi "cuscini" di terra molle, o sabbia, fossero spesso utilizzati sotto le antiche costruzioni: l'archeologo Blegen trovò che sotto le fondazioni delle mura di Troia (peraltro costruite anche con altri accorgimenti antisismici) vi era un cuscino di terra fra la roccia del fondo ed il basamento. Un altro esempio noto è quello dei templi di Paestum (e di Metaponto): qui le fondazioni, molto profonde, poggiano su un cuscino di sabbia che le separa dal fondo roccioso, e consentono di mantenere basso il baricentro degli edifici, con una vulnerabilità sismica ampiamente nei limiti di sicurezza, secondo recenti misurazioni strumentali e calcoli strutturali...solitamente gli edifici fondati sulla roccia sono più resistenti, ma a volte si osserva il contrario, e le costruzioni fondate su terreni molli subiscono danni minori. Questa idea, peraltro, è coerente con le teorie antiche che ritenevano il terremoto causato dall'accumulo di aria nelle cavità sotterranee: i terreni alluvionali, formati da strati sovrapposti di limo, e privi di vuoti interni, secondo la teoria dovevano essere meno soggetti ai terremoti...». Idem Sulla scorta degli studi di sismografia storica sono possibili per Saticola alcune osservazioni: - L'assenza di tracce di edilizia databili tra il IV-III secolo a.C. e l'età Repubblicana sulla rocca e nel territorio di Saticola, potrebbe essere senz'altro dovuta al susseguirsi dalle distruzioni causate dal sisma, a cui fecero seguito ricostruzioni approssimative, attuate con materiali leggeri e facilmente deperibili; - Il processo di riciclaggio delle macerie e di reimpiego delle stesse, nato nel Tardo Impero e proseguito fino all'alto Medioevo, può essere stato avviato per gli edifici sulla rocca escludendo altre parti della città, per ovvi motivi di sicurezza, sia verso le scosse, sia verso gli attacchi nemici; - Il reimpiego delle macerie di edifici non riconvertibili ad altri usi, rispose innanzi tutto al carattere di emergenza della ricostruzione, aggravata dalla scarsità di mano d'opera e maestranze, ma soprattutto di materiale nuovo, conseguente al susseguirsi di disastri naturali, conflitti, pestilenze; - Il materiale di fabbrica reperito e riutilizzato non sarebbe stato cernito e assemblato solo per le caratteristiche estetiche, ma soprattutto per le caratteristiche di finitura e resistenza meccanica, in vista di un miglioramento statico dei telai di irrigidimento, soprattutto negli edifici religiosi (ad esempio i colonnati nella chiesa di Sant'Angelo de-munculanis, nel portico e nella cripta dell’antica Cattedrale). Elementi di spoglio continuarono ad essere impiegati per consolidare murature portanti ammalorate, fino al XII secolo (in esse le posizioni angolari di blocchi e colonne sono una prova inequivocabile). La reiterata operazione di ricostruzione e ristrutturazione, dopo i danni causati dal sisma, usando materiale riciclato dalle stesse macerie, contribuì a caratterizzare enormemente la conformazione architettonica dell'abitato sulla rocca rispetto alle altre città di fondazione sannita. Questa peculiarità indica la fortissima volontà politica di conservare l’abitato sulla rocca, a partire dalla fondazione del castrum augusteo, attuando per questa parte della città, più che per le altre, uno sviluppo sostenibile. Fig. 08 I kastron rintracciabili e i luoghi di culto dell'Angelo (V-VI secolo d.C.) capitolo IV IL CASTRUM AUGUSTEO IV.1 Il castrum sulla rocca La conformazione urbana della città di Saticola conobbe un'ulteriore sviluppo a partire dal 42 a.C. Infatti, da questa data Francesco Viparelli fa iniziare la "colonizzazione augustea", a seguito della costruzione del castrum sulla rocca di tufo per i soldati di Ottaviano. Francesco Viparelli, op. cit., pag. 13 Isabella di Resta conferma tale affermazione quando scrive: «lo attesta materialmente la dedica a Cesare Ottaviano Augusto scoperta nel 1728, inserita tuttora nella facciata del duomo santagatese» parlando di un'epigrafe datata dagli archeologi tra il 42 e il 39 a.C. Francesco Abbate, Isabella di Resta, Sant'Agata dei Goti, in "Le città nella storia d'Italia", Bari, Laterza, 1989 pag. 12, fig.12 La vita delle Province e nelle colonie romane – in epoca repubblicana sconvolte da problematiche sociali e lotte di potere –, era fortemente condizionata dall'esercito e dai generali, le cui azioni militari accompagnarono i cambiamenti politici, con pesanti ricadute sulle città. Divenuti oramai soldati professionisti “prestati” dal ceto rurale, i militari seguivano e appoggiavano opportunamente, di volta in volta, i capi disposti a regalare loro maggiori occasioni d'arricchimento. A tale scopo i Generali usavano gli "espropri", veri e propri saccheggi autorizzati legalmente, perpetrati a danno degli sconfitti, o di coloro che avevano parteggiato per i politici spogliati dei privilegi dopo la morte. Un esempio di questa prassi è dato dalle conseguenze della guerra sociale tra Mario e Silla. Con il trionfo di quest'ultimo, infatti, seguì l'assegnazione di nuove colonie ai veterani suoi sostenitori, grazie alla Lex Cornelia, varata tra l'82 e l'89 a.C. I soldati s'impossessarono così delle terre appartenute agli italici ribelli, "romanizzandoli". Tale atto non comportò certamente il ritorno della pace nella Repubblica: nel 44 a.C., l'assassinio di Giulio Cesare condusse alla fine dell’epoca repubblicana. A Cesare gli studiosi attribuiscono due brillanti progetti per il riequilibrio sociale, riguardanti le riforme delle assegnazioni agrarie: la lex Iulia e la lex Iulia Campana, entrambi risalenti al 59 a.C. «Il primo... escludeva dalle assegnazioni l'Ager Campanus. Il progetto fu il risultato di una mediazione tra opposti interessi. Da una parte, i proletari che insieme ai veterani di Pompeo aspiravano ad ottenere un podere nel territorio campano e dall'altra, la classe senatoria che preferiva invece conservare il territorio campano nella condizione di ager vectigalis. Il secondo progetto disponeva, invece, l'assegnazione dell'ager Campanus ai proletari e veterani di Pompeo. Ciò fu possibile per il rafforzamento politico di Cesare, il largo consenso popolare e l'intesa di Cesare con Pompeo». G. Aragosa op. cit. I due progetti divennero leggi prima del suo assassinio: di fatto la Lex Iulia Campana stabilì l'assegnazione dell'Ager Campanus ai Veterani e ai proletari con almeno tre figli. Si trattò di circa 20.000 persone, e ad ogni nucleo familiare fu assegnato un lotto di dieci iugeri. idem A seguito di questa decisione, si intensificò l'avversione verso Giulio Cesare da parte dei senatori interessati alla fiscalizzazione delle terre campane, avendo visto leso il proprio tornaconto di latifondisti che riscuotevano i censi dagli italici. Furono Marco Antonio e Ottaviano a riordinare le istituzioni di Roma dopo la sua morte, ma le successive vicende politiche decretarono il trionfo assoluto dell'"Augusto", autore di una rivoluzionaria riforma che si ripercuoterà sull'organizzazione urbana delle città nell'Impero. Tornando alle sue direttive per Saticola, datate 42 a.C., ci si chiede se Ottaviano intendesse punire senatori latifondisti schieratisi con i cesaricidi. Se fosse così, ciò contribuirebbe a dare una misura del ruolo politico raggiunto dalla colonia saticolana in età repubblicana e in quale disgrazia dovette precipitare con l'arrivo di Ottaviano. I cesaricidi, infatti, furono tutti obbligati all'esilio dalla Lex Pedia, emanata nel 43 a.C. Ammettendo l'esistenza di fondi appartenenti a senatori romani nell'area della città nel I secolo a.C., il castrum di Ottaviano Augusto non poté che essere un presidio militare per sorvegliare e dirigere le operazioni di espropriazione, misurazione e riassegnazione delle stesse. Al suo interno vi si stabilì, come da prassi in questi casi, il mensores, figura ricoprente la funzione di giudice per le controversie tra confinanti – ma esperto anche di geometria, storia, aritmetica, filosofia e musica. Egli era generalmente coadiuvato da un corpo di guardia e supportato da un quaestorium, responsabile del finanziamento delle operazioni. Il castrum di Saticola fu certamente tracciato in base alle regole militari vigenti: l'incrocio ortogonale tra una via praetoria (principiata da una porta d'accesso, che si arrestava al praetorium, l'abitazione del comandante) e una via principalis. Il luogo giusto per l'accampamento si identificherebbe, a mio avviso, con l'antico castellum formatosi sulla rocca in epoca precedente, divenuto forte punto di riferimento per l'oppido. Le regole militari stabilivano che in tutti i castrum dovessero sorgere il tribunal per l'amministrazione della giustizia, l'auguratorium (sorta di tempio per consultare gli auspici legati agli uccelli), la aedes signorum e il forum, ossia lo spazio di incontro pubblico. Un castrum era generalmente accessibile attraverso quattro porte incrociate tra loro: la porta praetoria, rivolta in direzione dell'arrivo del nemico, per poterlo avvistare in tempo. Ad essa contrapposta, era la porta decumana, usata come uscita per i soldati puniti, dunque esiliati. Le porte a destra e a sinistra del percorso principale venivano utilizzate per il passaggio dei viveri e delle masserizie necessarie al sostentamento (poiché non esistevano coltivazioni sul castrum e tutto proveniva dall'oppido circostante). Andrea R. Staffa, op. cit. Esse dovevano posizionarsi necessariamente in corrispondenza di un percorso viario o fluviale, usato per veicolare le merci e le vettovaglie. Protraendosi le operazioni amministrative per un lungo periodo, la postazione militare dovette essere castra stativa, in età Repubblicana costituito da baracche ed edifici costruiti in terriccio, argilla e legno. Sulla base delle notizie riportate da Rainone nel Settecento, potremmo ritenere con buona approssimazione che la porta praetoria fosse stata sul lato sud, direzione di arrivo più agevole per i nemici dalla via Appia. La porta decumana poteva corrispondere a quella che Rainone definì, "porta dei Ferrari", sul lato nord. Posta a monte della rampa di via Fontana-Reullo, nacque forse su un varco più antico, giacché, come già detto, da questo punto si accedeva all’area sacra e alle necropoli sannite sull’Isclero. I soldati esiliati (e più tardi i viaggiatori), varcata la porta si immettevano, dopo aver fatto provviste, sul percorso parallelo al fiume, verso l'oppido dugentese. Da qui, dopo essersi fermati alla stazione di sosta di Squille, raggiungevano facilmente Capua. Seguendo invece la direzione opposta, usciti dal castrum raggiungevano le fattorie alle pendici del Taburno, all'estremo limite di Saticola, sui fondi di Bucciano e Moiano sul versante sud e sui fondi di Frasso e Melizzano sul versante nord. La porta secondaria dovette essere usata anche come passaggio per i cortei funebri. I due percorsi sopra descritti toccano, infatti, le necropoli romane di Dugenta-Maiorana a ovest e di Faggiano e San Pietro a est, ricchi di sepolture d'epoca imperiale. Vocazione religiosa confermata da quanto scrive Paolo Diacono sull'arrivo tra le mura delle reliquie di San Menna nel XII secolo, accolte dalla popolazione, «presso il fiume Isclero» e solennemente consegnate ai santagatesi dall'abate di Airola. Luigi R. Cielo, Monumenti romanici a S.Agata de'Goti, Rari Nantes, Roma, 1980, pag. 91 La terza porta a est, intitolata a San Marco, corrisponde a una rampa scavata nel tufo che dal borgo conduce al torrente Riello. Il "piccolo Rio" fu utilizzato fin dall'antichità per l'irrigazione delle terre di questo versante, coltivate a ortaggi, olivi e alberi da frutto ancora oggi. In questo punto la formazione extra moenia della contrada chiamata "all'abbocco del Riello", (oggi Bocca-Riello), testimonierebbe l'esistenza di un'attività contadina di servizio ai borghesi, fin dal Tardo Impero. Seguendo una prassi tipica dei borghi medievali, il piccolo agglomerato potrebbe essere originato dalla consuetudine di scambiare presso il Riello ortaggi e attrezzi da usare nel castrum romano. Ciò avvalora l'ipotesi che la popolazione emarginata nel castellum avesse proprio da questo lato l’accesso alle terre subsicivia da coltivare. Il Limites o Limes qui stabilito dai Romani, corrispose, nel XII secolo, alla Lamia di sorveglianza normanna che si vede ancora oggi sulla porta San Marco. Daltronde il termine è ripreso nell’espressione dialettale Lemmeto, in riferimento al rialzo del terreno su un solco, nel quale può scorrere talvolta dell’acqua. Il Lemmeto è considerato ancora oggi nel mondo rurale locale, confine divisorio tra un appezzamento di terreno e un altro adiacente. Non viene localizzata di preciso da Rainone la quarta porta sul lato ovest. La rocca qui è impenetrabile, protetta da uno strapiombo alto più di 150 metri sulle acque del Martorano, nell'antichità ben più consistenti di oggi. Il varco poteva quindi consistere in un punto di attracco, poiché l'unico modo di guadagnare la sponda era di risalire il corso d'acqua. È possibile dunque che da questo lato giungessero, provenienti dall'Isclero, merci e prodotti dell’oppido dugentese, tirati in alto attraverso un collegamento verticale mobile. Nel castrum permanente si realizzavano di regola tutte le strutture necessarie alla vita autonoma dei soldati: l'ospedale, i magazzini per i viveri, le officine per la riparazione delle armi, i servizi igienici pubblici. Per il rifornimento dell'acqua si scavavano cisterne di raccolta della pioggia o si realizzavano condotte idriche di attingimento alle sorgenti vicine. Scrive Isabella di Resta, citando Luigi Vanvitelli: «Dagli antichi scrittori si aveva notizia di un'acqua nomata Giulia, dal cognome di Caio Giulio Cesare, padre adottivo di Ottaviano, il quale... ne fece alla Colonia di Capua dono... niuno ne indicò la sorgente». Francesco Abbate, Isabella di Resta, op. cit. L'acquedotto, secondo la studiosa, attingeva dalle sorgenti sulle pendici meridionali del monte Taburno «In questo territorio su cui insiste Sant'Agata de Goti». idem La provenienza dei nuovi coloni giunti con Augusto è sconosciuta. Ottaviano aveva dovuto ingaggiare un esercito a proprie spese, in attesa che il suo ruolo di figlio adottivo del compianto Cesare fosse riconosciuto anche dal popolo. Una volta sancito il triumvirato, nel 44 a.C., con i suoi soldati si lanciò alla caccia dei cesaricidi rifugiatisi nelle Provincie d'Oriente. Proprio nel 42 a.C., nella grande battaglia di Filippi, in Grecia, gli eserciti di Ottaviano e Marco Antonio uniti distrussero le truppe di Bruto e Cassio, morti suicidi. A seguito della vittoria, Ottaviano ricevette dai triumviri l'incarico di premiare i soldati che vi si erano impegnati; utilizzando terre italiane appartenenti a senatori latifondisti, caduti nella disgrazia politica dopo la sua vittoria. L'operazione si ripeté all'indomani della sconfitta di Marco Antonio ad Azio, generando grandissimo malcontento soprattutto tra i parenti e gli amici del triumviro amico di Cleopatra. E' legittimo supporre che i veterani giunti nelle terre di Saticola nel 42 a.C., fossero mercenari al servizio di Ottaviano arruolati in terra greca, misti a Veterani di altre provenienze, già schieratisi con Giulio Cesare. Ad ogni modo, l'arrivo a Saticola di famiglie di cultura e religione differenti, costituì un elemento destabilizzante per una comunità qui stanziata da secoli, ma anche un fattore di riequilibrio delle disparità sociali e di arricchimento culturale. Nel 27 a.C., Ottaviano diventò il primo Imperatore romano. Come riferisce Plinio il Vecchio, egli divise l'Italia in undici regioni tra cui la Regio IV Samnium e la Regio I Latium e Campania. Nell'alleanza di Ottaviano Augusto con Marco Antonio, sfociata poi in dura avversione, si era già prefigurata una competizione tra parte occidentale e parte orientale dell'Impero. Dal IV secolo fino all'arrivo dei Longobardi, questo dualismo sarà intensamente vissuto a Saticola. I saticolani, non più "italici" ma romani "d'oriente e d'occidente", con origini disomogenee e costretti ad una forzata convivenza, continuarono in accordo la loro permanenza in questi luoghi. I nuovi arrivati ripopolarono l'oppido e le colline, avendo compreso la fortissima valenza economica dei loro territori e di conseguenza il loro peso nell’Impero. Le diverse comunità etniche presenti nella città vissero sotto la stretta sorveglianza dei funzionari romani, al riparo nella piccola fortezza sulla rocca. Il vecchio toponimo, una volta riferito a un esteso non-luogo, cominciò così a riferirsi soprattutto al castrum sull'altura tufacea. capitolo V Il kastron bizantino-longobardo V.I La civitas bizantina di Saticola Secondo Letizia Pani Ermini, «a partire dal VI secolo nelle fonti occidentali l'impiego del termine urbs sembra essere sempre più raro e sostituito da quello di civitas sia in riferimento alla popolazione che alle strutture materiali: i testi parlano di civitas a solo constructa, di civitas destructa, di civitas diruta, ecc. e i riferimenti topografici indicano costantemente, ad esempio, extra ovvero intus o infra civitatem. Il termine urbs rimane il più delle volte riferito a Roma per l'Occidente e a Costantinopoli per l'Oriente. Dal medesimo periodo la città, specie in trattati militari o in resoconti di guerra, è indicata spesso come castrum riferendosi in particolare al suo carattere d'insediamento fortificato». Letizia Pani Ermini, Lo sviluppo urbano, in "Il fenomeno urbano. Periodo tardoantico e medievale", Il mondo dell'archeologia, Enciclopedia Treccani, 2002Il fenomeno descritto fu la naturale conseguenza delle riforme dell'Imperatore Diocleziano. Le trasformazioni urbane dei kastron riguardarono l'ideazione e costruzione di fortificazioni concepite secondo i dettami bizantini, retaggio della cultura militare dell'Imperatore: «A partire dal III secolo la precarietà dettata dalla crisi dell'Impero e dalle prime incursioni germaniche comportò il ripristino delle fortificazioni urbane o la costruzione ex novo di cinte murarie con regole analoghe a quelle romane, ma con un uso massiccio di materiale di recupero e con lo sfruttamento di strutture preesistenti», scrive Francesca Romana Stasolla. «Nel caso della costituzione dei castra, può trattarsi di una riduzione topografica, e sovente anche di ruolo, della città retratta entro le ridotte mura castrensi, come in Gallia e come a lungo proposto anche per la penisola italiana, oppure, come sembra più credibile in quest'ultimo caso, della costituzione di un'area fortificata all'interno o ai margini del centro urbano… senza che per questo lo spazio intramurario corrisponda con il perimetro urbano e senza soprattutto che il nucleo fortificato abbia una particolare valenza nella definizione giuridica della città. Tale area, in alcuni casi, coincide con il recupero dell'acropoli preclassica, oppure con la scelta della parte più elevata dell'insediamento, secondo costanti ben evidenti in Oriente (Sparta, Aigai, Sardi, Filippi), ma che sembrano ripetersi anche in alcuni casi occidentali (Firenze).» Francesca Romana Stasolla, La distribuzione degli spazi e delle funzioni, in "Il fenomeno urbano. Periodo tardoantico e medievale", Il mondo dell'archeologia, Enciclopedia Treccani, 2002 È interessante rilevare due aspetti: il primo è che la predisposizione dei castra di nuova concezione è avvenuto sulle antiche acropoli. Ciò conforta l'ipotesi che la rocca tufacea saticolana fu l'acropoli della città, trasformata poi in castrum d'epoca augustea. Il secondo aspetto riguarda il ruolo urbano del castrum, che non coincideva con l'intera città, d'estensione ben più grande. Ciò consente di credere che la civitas di Saticola, nel V-VI secolo d.C., comprendesse sia la rocca fortificata, sia l’oppido, all'interno del quale nel si svilupparono le curtis organizzate e nuovi centri di culto. Inoltre, Stasolla afferma: «È stato comunque rilevato come, quale che sia la posizione del castrum, questo è topograficamente distinto dal complesso episcopale, sovente anch'esso fortificato a partire dall'Alto Medioevo, generando così un interessante fenomeno di bipolarismo urbano». L'osservazione è di stimolo per alcune considerazioni riguardanti l'area collinare ad est della rocca. Il toponimo Castrone, di chiara derivazione bizantina, nel Tardo Impero poteva indicare il punto in cui insisteva un presidio di sorveglianza gestito dai coloni bizantini. Se così fosse, sotto Massimiano, luogotenente di Giustiniano nelle terre italiane, a ridosso della rocca potrebbero essersi sviluppati due kastron ben distinti: uno di sorveglianza militare sulle colline di Castrone, l'altro di fronte, a protezione della curia, centro religioso-amministrativo in cui risiedeva un vescovo, figura amministrativa tipica della civitas bizantina. Gli anni del dominio bizantino videro a più riprese lo scontro con gli Ostrogoti: le fonti storiche che forniscono testimonianze sulla guerra "Gotica", combattuta tra il 535 e il 553 d.C., consistono essenzialmente negli scritti di Procopio di Cesarea, segretario di Belisario. Precisamente in 4 degli 8 libri della sua Storia delle guerre di Giustiniano, verso i quali sono ben note le riserve degli storici. Inoltre nelle Storie di Agazia, successore di Procopio, che testimonia la campagna militare di Narsete contro Franchi ed Alemanni. Infine, una testimonianza complementare a quella di Procopio è il De origine actibusque Gotarum dello storico Giordane, di origine gotica. In nessuna di tali fonti viene testimoniata la conquista della città di Saticola da parte dei Goti e la teoria può essere definitivamente abbandonata per alcuni motivi: - La totale assenza di testimonianze storiche e archeologiche della conquista della città, anche durante la guerra a Benevento e Napoli, che vide lo scontro fra Belisario e Totila, nel 543-544. «Quindi Totila prese le fortezze di Cesena e Petra; in seguito si recò nella Tuscia per tentare la presa di quei paesi, ma siccome nessuno volle consegnarsi passò il Tevere e, senza toccare i confini di Roma, giunse nella Campania e nel Sannio, dove occupò senza difficoltà la fortezza di Benevento e rase al suolo le sue mura, affinché le truppe che fossero giunte da Bisanzio, entrando nel forte non potessero usarlo contro i Goti. Quindi, siccome i napoletani, malgrado le sue offerte, non lo vollero lasciar entrare in città, dove era di presidio Conone con un migliaio di romani ed isauri, decise di porre l'assedio. Accampatosi con il grosso dell'esercito non lontano dalla città, rimase li e, spedita una parte delle truppe, s'impadronì del castello di Cuma e di altre fortezze, raccogliendone una gran somma di denaro» Procopio di Cesarea, Storia delle guerre di Giustiniano, Libro III 6) - L'integrità del tracciato della cinta muraria difensiva, di chiara matrice bizantina. Infatti, fu strategia militare di Totila abbattere sempre le mura difensive delle città conquistate in Campania, per evitare arroccamenti contro i Goti. Procopio di Cesarea riporta all'interno di un discorso del condottiero ai Goti queste parole: «Cosicché non appena cadde in nostro potere Benevento, e ne distruggemmo le mura, occupammo altre città, le quali ordinammo che soggiacessero alla stessa sorte, cosicché le truppe nemiche, impedite ad indugiare la guerra, dovessero venire in campo e combattere apertamente con noi. Allora, una volta ricacciate, io comandai la distruzione dei luoghi vinti, e voi ritenendo giusto l'ordine, prontamente lo eseguivate, tanto che si sarebbe detto, con ragione, opera vostra.». Procopio di Cesarea, Storia delle Guerre di Giustiniano, libro III, 25) Le incursioni di Totila/Baduila al comando dei Goti riguardarono anche la Regio Campania, stando a quanto scrisse Procopio nel dicembre del 547: « Giovanni, che assediava il castello di Acheronzia senza esito, concepì un piano ardito che fu la salvezza per il senato romano, e a lui procurò fama e gloria. Avendo udito che Totila con l'esercito assediava Roma, scelse i più validi della sua cavalleria, e senza comunicare ad alcuno le sue intenzioni, marciò sulla Campania, senza mai fermarsi, ne di giorno ne di notte, perché, sapendo che Totila aveva lasciati lì i senatori, contava di piombarvi all'improvviso e portarli via, dato che quei paesi erano quasi del tutto sprovvisti di mura». Idem, 26) Quest'ultima frase lascia intendere che vi fossero alcune città bizantine ancora dotate di cinta difensiva, quindi inespugnate. Continuando afferma: «In quel momento, però, Totila, temendo che i nemici potessero tentare di riprendersi quei prigionieri, aveva mandato della cavalleria in Campania. Costoro, giunti nella città di Minturna, si fermarono in gran parte lì per prendersi cura dei cavalli stanchi del viaggio, e mandare avanti degli esploratori e Capua e nei dintorni, tra quelli che si trovavano più freschi nelle forze, così come i cavalli. La distanza non è più di trecento stadi. Per caso quello stesso giorno giunsero a Capua anche Giovanni con la sua truppa, e contemporaneamente questi barbari, che erano circa quattrocento, senza che ne gli uni ne gli altri lo sapessero; non appena si videro vennero alle mani e fu subito battaglia. I romani ne uscirono vincitori e trucidarono la gran parte dei nemici; solo pochi tra i barbari riuscirono scampare, e, fuggendo di corsa, rientrarono a Minturna. Appena gli altri li videro, insanguinati e alcuni con i dardi conficcati nel corpo, incapaci di parlare e di riferire nulla dell'accaduto, fuggitivi e terrorizzati, immediatamente saltarono sui cavalli e fuggirono via con loro. Giunti da Totila gli annunziarono che vi era un numero indicibile di nemici, per mascherare l'onta della sconfitta». Come si vede, Saticola, pur essendo certamente collocata in quelli che Procopio chiama "dintorni" di Capua, non viene mai espressamente indicata dal cronista, e d'altra parte anche in questi luoghi i Goti furono sconfitti dai Bizantini. Il racconto di Procopio rivela la presenza di rifugiati romani nelle nostre terre, alcuni dei quali si erano arresi senza combattere: «Nella Campania vi erano anche una settantina di soldati romani, che già prima avevano disertato presso i Goti, e che si riunirono con Giovanni. Questi, tuttavia, trovò solo pochi dei senatori romani, mentre vi erano quasi tutte le loro mogli; difatti quando Roma fu occupata molti degli uomini, a seguito dei soldati che fuggivano, avevano raggiunto il porto. Ma le donne vennero tutte prese. Tra loro il patrizio Clementino, che si era rifugiato in un tempio, non volle seguire l'esercito romano, temendo l'ira dell'imperatore, per avere consegnato a Totila e ai Goti un castello presso Napoli. Anche Oreste, già console romano, essendo sprovvisto di cavalli dovette rimanervi suo malgrado». Procopio di Cesarea, op. cit. E' lecito supporre che una parte di profughi e di "traditori" dei Bizantini restò al sicuro presso Capua o nel suo circondario, perché vi erano roccaforti ancora inespugnate. Ciò che riporta Procopio di Cesarea è suffragato dagli studi di archeologia, a conferma che nel VI secolo, nelle terre del Mediterraneo, le città erano difese o da una cinta muraria o da un castrum. Letizia Pani Ermini, op. cit.Questa suddivisione tipologica si basa su due modi differenti di concepire la fortezza: il primo non è connesso al dato altimetrico, il secondo lo è strettamente, poiché sfrutta l'altura di un'antica acropoli. Alla luce di questo dato, la differenza tra le mura difensive della città di Benevento, ricostruite dai Longobardi dopo la distruzione gotica, e la cinta difensiva del kastron saticolano, confermerebbe che quest'ultima non fu distrutta. Probabilmente Baduila per non commettere gli errori di Vitige evitò di impegnarsi in estenuanti assedi, in cui i Bizantini potevano avere la meglio. Anche per questo motivo, quando conquistava delle città, ne abbatteva le mura, prevedendo che in caso di riconquista, lo costringessero ad un altro assedio. La città dunque, non fu mai presa dai Goti. Formalmente, l'"invenzione" della cortina di ambienti disposti in aderenza lungo il perimetro, seguendo l'andamento naturale a strapiombo sull’acqua, rimanda al palazzo di Diocleziano a Spalato. Il carattere architettonico del kastron bizantino si riconosce anche nell'impianto urbano del borgo, riconducibile a Caričin Grad, la Iustiniana Prima voluta da Giustiniano nel suo villaggio natale nell'Illirico, fondata nel 530. Qui, «il panorama urbano è caratterizzato da una viabilità ortogonale e dalla presenza di vie porticate e si discosta dai prototipi classici anche per l'assenza degli edifici di spettacolo, oltre che per la presenza massiccia di aule di culto, almeno sette oltre la sede vescovile». Letizia Pani Ermini, op. cit. La cittadella giustinianea ha una forma allungata di 500x1000 metri circa. Il tracciato viario si basa sul cardo colonnato, incrociato con il decumano, e una piazza-foro centrale, mentre la cattedrale domina l'area cittadina. Le trasformazioni subite dalla cinta muraria della rocca di Saticola in epoche successive non hanno mai alterato il tracciato di base: essa mostra sul versante ovest la sua matrice bizantina più chiaramente rispetto al versante est, afflitto dall'erosione e maggiormente sottoposto all'assedio nemico. Non a caso il castello normanno si affaccia proprio su questo versante. Gli interventi effettuati alle mura nel XII secolo comportarono il rafforzamento con contrafforti e muri scarpati, aggiunta di lammie e torrini di avvistamento lungo il perimetro, oltre alla costruzione del castello, presso la porta principale a sud. Infine, la presenza sul posto di un'etnia germanica poté essere dovuta solo ai soldati mercenari, arruolati dall’Imperatore Giustiniano e inviati nel sud Italia in soccorso ai generali bizantini, per sconfiggere i Goti. Infatti, «Nell'aprile 551 Narsete ottenne di nuovo il comando delle operazioni in Italia: Procopio di Cesarea, De Bello Gothico, IV, 21radunato un esercito imponente, senza farsi molti scrupoli di arruolare con generosi donativi barbari Unni, Gepidi, Eruli, Longobardi e Persiani fra le sue schiere, lo concentrò dapprima a Salona, dove si radunarono all'incirca 30.000 uomini». Idem, IV, 22 Solo alla luce di ciò sarebbe legittimo parlare, secondo l'uso romano, di "colonia" di Goti, riferita però a Veterani mercenari provenienti dalle Provincie barbare romanizzate. È da credere che l'importanza politica raggiunta nel VI-VII secolo dalla civitas saticolana, forse già sede vescovile, valse alla città forti alleanze con il governo centrale bizantino contro le azioni di Totila. Il potere di conquista del barbaro, infatti, si basò prevalentemente sulla collaborazione spontanea delle popolazioni rurali, prive di diritti e afflitte dai dazi. L'ingresso di Totila nelle città era di conseguenza ostacolato dai ceti privilegiati, i proprietari terrieri vicini all'Imperatore. In relazione, invece, alle incursioni barbariche guidate da Teodorico nel V secolo, secondo alcuni studiosi «nel meridione d'Italia e la Sicilia, a partire dallo stanziamento dei Goti con Teodorico, non si ebbero insediamenti di rilievo, se si eccettua il Samnium. Tale assenza fu dovuta all’intervento iniziale di Cassiodoro padre, il quale, nominato governatore della Sicilia da Odoacre, al sopraggiungere di Teodorico con gli Ostrogoti, già nel 490 - prima ancora che si risolvesse il conflitto a Ravenna con Odoacre - passò dalla parte dei Goti, consegnando loro la Sicilia e praticamente tutto il Meridione fino a Roma compresa. Con questo gesto evitò lo svolgersi di combattimenti nel sud e ottenne che le regioni meridionali, a partire dalla Sicilia, rimanessero esenti da insediamenti gotici. Solo il Samnium, che del resto si estendeva anche al centro d’Italia fino al fiume Pescara, ebbe la presenza dei Goti; Sicilia, Bruttium, Lucania, Puglia e Campania rimasero invece nelle condizioni precedenti: Teodorico si accontentò di inviare nelle città meridionali solo piccoli presidi con funzioni di controllo del territorio, e qua e là, come in Sicilia, piccoli reparti militari con funzioni di difesa.» V. Vito A. Sirago, Cassiodoro: dalla corte di Ravenna al Vivarium di Squillace, atti del Convegno internazionale di studi, Squillace 25-27 ottobre 1990, pp. 115-129 Stando a ciò, nel V secolo i bizantini campani ebbero la fortuna di conservare intatte le loro città sotto Teodorico, cresciuto a Costantinopoli e legato al mondo greco-romano, fautore di una politica di tolleranza tra le due etnie. Saticola, compresa nella Campania, continuò ad essere civitas fino all'alto Medioevo. Secondo Letizia Pani Ermini, «anche di recente, ponendo come "modello" la città classica, sulla base di giudizi negativi in tema di scambi, di regressione qualitativa delle strutture materiali e dell'affermazione del concetto di "città rustica", è stato negato il carattere urbano dei centri altomedievali (Carandini 1993). In sostanza, in tale periodo si avrebbero sistemi gerarchizzati di villaggi o centri protourbani e non centri urbani. A parte la dubbia legittimità di assumere il "modello" classico come riferimento nella definizione di città nell'Alto Medioevo, sembra più giusto richiamare un ulteriore criterio, che appare in verità meno controverso e fuorviante, e che pone come discriminante la percezione dei contemporanei: "si parlerà di città là dove le fonti stesse ricorrono al termine civitas per indicare un insediamento endemico contrapposto a villa o vicus" (Bordone 1980)...per quanto riguarda l'ordinamento, questo alla fine dell'Impero d'Occidente aveva raggiunto una fondamentale unità e la vita urbana si era raccolta nella curia, che nominava i magistrati cittadini e deliberava sulle materie riguardanti gli interessi comuni; tale ordinamento si conservò almeno formalmente nel periodo goto e nella restaurazione bizantina, in linea di diritto le città continuarono ad essere amministrate dalle curiae, anche se di fatto entrate in crisi. Con l'avvento dei Longobardi lo stato di guerra più o meno permanente portò, di fatto, al prevalere delle necessità militari su quelle civili e, quantunque la qualifica urbana sia stata in taluni casi tolta per punizione (Fedegarii Historia Francorum, I, IV, 7), pur tuttavia rimase inalterato il valore della città intesa come centro di potere e di difesa...accanto al potere civile e a quello militare, divenuto spesso preponderante, non solo si mantenne, ma fu potenziato il potere del vescovo nella capillare organizzazione diocesana costituitasi dal IV al VI secolo e ridimensionata da Gregorio Magno con l'accorpamento di Diocesi limitrofe». Letizia Pani Ermini, op. cit. Sotto Anastasio I (491-518) l'estensione delle prerogative dei vescovi, consentì loro di ordinare lavori di costruzione e di ristrutturazione delle cinte murarie delle città nonché della loro manutenzione, soppiantando i curatores civitatis. Durante il regno di Giustiniano, nel 530, fu varata addirittura una costituzione che pose i vescovi a capo dell'amministrazione finanziaria delle città, con la responsabilità di controllare le spese dei lavori pubblici. Un luogo fortificato che fosse anche sede vescovile – quale poté essere Saticola in periodo bizantino, come lasciano supporre le parole della Bolla ri-costitutiva del 969 –, conservava certamente alla fine del 500 la dignità di civitas. Stasolla, op. cit. La presunta soppressione della sede vescovile, se avvenuta nel VI secolo, fu quindi un atto clamoroso di decadenza politica, poiché equivalse a degradare la città giuridicamente e politicamente. D'altra parte, se Saticola fosse stata sede vescovile in quegli anni, sarebbe stata almeno menzionata, in qualità di civitas, nelle cronache di Procopio. A meno che non fosse stata rifugio dei patrizi traditori dell’Imperatore bizantino, in grado di imporre il silenzio più assoluto ai cronisti sul coinvolgimento della città nella guerra contro i Goti. A partire dal Tardo Impero, all'interno delle mura difensive dei kastron si moltiplicarono le chiese, gli oratori e i monasteri, sovrapponendosi alle proprietà private e agli edifici pubblici. Nel VI secolo, nell'urbanistica bizantina «l'invasione delle botteghe (ergasteria) su queste strade regolari porterà a lungo andare alla perdita della regolarità dei tracciati tardo-antichi e alla formazione dei bazar orientali...». IdemNacquero così le insulae abitative saticolane caratterizzate dall'incrocio caotico dei percorsi, rintracciabili ancora oggi nella parte più a nord del borgo sulla rocca, in gran parte demolite a partire dal XVI secolo. Se esistette un complesso episcopale nel kastron bizantino saticolano del VI secolo, esso fu fattore paleogenetico della formazione della futura città medievale. Il borgo arroccato non si separò dall'oppido, punteggiato di curtis amministrate dalla curia ma isolate e indipendenti economicamente. Il kastron si aprì alla fascia territoriale immediatamente a ridosso delle mura, lungo i varchi d'accesso, generando spazi "di servizio" extramoenia riservati agli scambi commerciali e artigianali. Nascono così le contrade Bocca del Riello e Reullo. Infatti, «il rapporto con il suburbio si fa in epoca tardoantica sempre più stretto: la fascia immediatamente extramuraria non è più solo destinata ad usi agricoli per le necessità cittadine, o sede di necropoli... la presenza di strutture architettoniche tipicamente urbane fuori dalle mura determina la proiezione della civitas al di fuori del perimetro della città e sancisce topograficamente la dilatazione dello spazio cittadino, la cui definizione non è più data esclusivamente dal perimetro murario». Letizia Pani Ermini, op. cit. A coronamento di quanto detto risulta interessante, anche se suffragata da scarsissimi riferimenti storici, la descrizione che fa Gaetano Zingales del kastron di Demenna, (oggi Val Demone, tra Palermo e Messina), trasformato in epoca bizantina in città-fortezza e presidio di sorveglianza contro le incursioni Saracene, sotto il governatorato del basilio Macrojanni. L'esistenza del kastron – oggi del tutto scomparso –, è testimoniata dai manoscritti di Ibn Al Atir, cronista del condottiero musulmano Ibrahim, che espugnò Taormina nel 902. Il primo elemento utile ad un raffronto, parla dell'assetto sociale ed economico della città, in cui «gran parte della popolazione stanziale viveva di rendita essendo proprietaria di terreni e fattorie, in cui lavoravano molti contadini; la restante parte era dedita all'artigianato o ricopriva incarichi negli uffici pubblici...l'economia era abbastanza florida giacché, oltre a vaste estensioni di terreno da coltivare a grano, si praticava l'allevamento del bestiame essendo il territorio ricco di pascoli e di acque sorgive». Gaetano Zingales, Tra Krastos e Demenna, pubblicato in www.academia.edu Si tratta di un assetto economico non infrequente presso le terre amministrate dai bizantini, prova ne è che alla prosperità dei luoghi essi affiancarono una fiscalizzazione oppressiva, causa in molte aree di una crescita del consenso verso i Longobardi. Il sistema di fortificazione descritto per Demenna si rivela utile anche per rintracciare un probabile sistema difensivo della Saticola bizantina. Zingales parla di una cinta muraria «innalzata alla periferia settentrionale, per separarlo dalla restante parte della città: gli abitanti vi si rifugiarono in caso di attacco nemico...», e della coesistenza di due torri di avvistamento, una sull'altura del kastron all'interno della cinta, l'altra fuori, «costruita sulla prospiciente cima, a cavallo delle due vallate, di Mylè e di Chidas, denominata di San Nicola; i soldati di guardia di quest'ultima nel momento in cui avvistavano il nemico, avvisavano la torre dirimpettaia, la quale provvedeva ad allertare la guarnigione di stanza in città». Si parla dunque di due kastron: uno utilizzato per la guardia e l'altro – protetto da mura -, per le truppe militari di stanza in città, allertate dalla guardia. La descrizione del secondo, stanziato sulla "rocca di San Nicola", ci dice che «era accessibile soltanto da una porta. Essa si apriva attraverso le mura costruite sull'orlo di un precipizio, a meridione della cresta rocciosa, e vi si perveniva per mezzo di un erto viottolo, il cui percorso in salita...terminava sfruttando la anfrattuosità e le sporgenze della parete, venti metri sotto l'entrata al fortilizio. Indi era possibile accedervi salendo lungo un ponte lavatoio a scalini, che veniva calato appositamente. La rocca era protetta ad est da uno strapiombo pauroso, inaccessibile, mentre dagli altri due lati non era penetrabile se non scalando un tratto roccioso sul quale erano costruite le mura; da cui attraverso i buttatoi, veniva respinto qualsiasi assalto». La descrizione di Zingales ricorda il varco della porta San Marco, punto di accesso alla rocca tufacea saticolana dal lato est. Esso consiste esattamente in un percorso in salita scavato nella roccia, fino a giungere a un "sopportico", a poca distanza dalla porta vera e propria. Il superamento degli ultimi metri, al di sotto del sopportico, avviene oggi attraverso gradini fissi. Sul versante opposto, la rocca di Sant’Agata era ed è protetta da uno strapiombo invalicabile sul torrente Martorano. Sul versante nord l'accesso avveniva da un forte pendio scavato nei costoni tufacei, fino al varco, protetto anche qui da un "sopportico" inglobato nella cortina muraria, oggi scomparso. Nel caso del kastron di Demenna, il dato più interessante consiste nella presenza di un sistema di torri d'avvistamento del nemico: «S'affacciavano, inoltre, sulle vallate del Chidas e del Mylè, una per ciascun versante, le torri del Kastro, che servivano per il controllo del territorio circostante, nonché per la ricezione di segnali dagli altri presidi militari bizantini, dai castelli, dai casali e dalle vette raggiungibili dall'occhio umano... sulle alture intorno agli avamposti erano dislocate le vedette, che dovevano rimandare visivamente i segnali di eventuali pericoli nemici, che incombevano sul territorio». Questo passo ci spinge a considerare i toponimi dell'area a nord-nordovest di Sant'Agata, che potrebbero indicare tracce di un sistema simile di sorveglianza per il controllo dell'oppido della città in periodo bizantino-longobardo. Partendo dalla già citata contrada Castrone, qui si riconosce morfologicamente una motta «come primo atto si provvede a delimitare l'area ammassando una quantità di terra dalla forma tronco piramidale del diametro variabile tra i 30 e i 300 metri rispetto al piano di campagna e a munirla scavandovi intorno un fossato il più largo e profondo possibile e circondando il basamento di questo terrapieno con un recinto di assi di legno compatto come un muro di pietra, e a seconda delle possibilità, con una o più torri disposte perimetralmente...Successivamente per dominare tutta la zona circostante si edifica all'interno e tangenzialmente all'area munita un secondo tronco di cono, anch'esso in terra, ma più piccolo del primo e coronata da una seconda palizzata legata alla prima e da una fortezza in struttura lignea (arcem), che funge da abitazione e rifugio sicuro...l'accesso alla porta d'ingresso alla motta avviene soltanto attraverso un ponte sul fossato...» (a cura di) Ester Lorusso e Alfredo Magnatta, Glossario ragionato delle opere di fortificazione, in "Mondi medievali", www.mondimedievali.net:artificiale a forma piramidale, sulla quale avrebbe potuto essere collocato un forte ligneo già prima del X secolo. I tale epoca, infatti, si hanno le prime notizie documentate di queste invenzioni militari, perfezionate dai Normanni nel meridione d'Italia. Proseguendo in direzione nord-nordovest nel territorio di Saticola, alla contrada Sopportico (toponimo riferito ad un accesso fortificato) seguono le contigue contrade Lamia (da Lamis, altura di vedetta sul territorio circostante fino al monte Taburno) e Sala. Questo toponimo longobardo indica un edificio ad unico ambiente, usato sia come dimora dei contadini, sia come deposito dei prodotti agricoli della curtis. Alla sala, intesa come struttura padronale, spettava la riscossione della tertia, la terza parte del raccolto. Essa dunque richiedeva un presidio di sicurezza in caso di attacchi. Lo stesso toponimo Ponterotto – che ha un omologo nel territorio tra Apice (BN) e Mirabella Eclano (AV), sulla via Appia, presso i resti di un viadotto di epoca romana datato tra I a.C. e VII d.C. –, lascerebbe intendere la presenza di un passaggio in posizione strategica sull'Isclero. Più a valle, il toponimo della contrada Sopra Campo che sovrasta effettivamente la località Campo de Rose (o Camporose), farebbe pensare alla presenza di un Campo Dal latino cămpu(m) "luogo aperto, campagna, poi "campo di battaglia" (Treccani)per le esercitazioni o per l'accampamento militari. A nord della rocca di Sant'Agata de Goti, il toponimo Romagnano testimonierebbe, secondo Cielo, uno stanziamento concesso dai Longobardi ad una comunità di "romaniani" (bizantini). Da Romaneamus ,"appartenente alla Románia" termine tardo latino che indica un luogo dei "Romani di Bisanzio". Nel nord Italia la Romagna, terra bizantina, dal 527 ebbe come capitale Ravenna, con l'accordo dei Longobardi fino a quando nel 773 i Franchi la conquistarono includendola nel Sacro Romano Impero.(Gina Fasoli, L'Emilia Romagna, Teti editore, 2012)A nordovest, verso Dugenta, la località Torretta In francese antico tourette diminutivo di torre (dal lat. turris), edificio mobile di quadrato di solito spostato su ruote e impiegato in avvicinamento a un luogo fortificato per trasportare soldati e armi (voc. Garzanti)e, ancora più a nord, una seconda Lamia tra Dugenta e Limatola, verso il Volturno, farebbero pensare ad altre postazioni di sorveglianza sul versante capuano. Andando oltre potremmo quindi ipotizzare, nell'area tracciata, l’esistenza di una Chiusa Clusae Longobardorum, sistema di fortificazione longobarda per lo più ligneo realizzato all'imbocco delle valli alpine per impedire la penetrazione del nemico. longobarda, creata su resti di fortificazioni bizantine, simile a quella rinvenuta in Val di Susa, utilizzata per fermare la discesa dei Franchi nel 773. Negli anni successivi, infatti, Carlo Magno minacciò di attaccare anche il ducato di Benevento, di cui faceva parte la gastaldia di Sant’Agata. Fig. 09 Ipotesi di ricostruzione dei punti di vedetta e di presidio difensivo sul territorio di Saticola V. II Le dediche religiose come tracce del carattere urbano Con la sua affermazione: "forma romana dello Stato, cultura greca e fede cristiana sono le sorgenti fondamentali dello sviluppo storico bizantino", Georgij Aleksandrovič Ostrogorskij, Storia dell'Impero bizantino, Einaudi, 1975Ostrogorski spiega efficacemente l'importanza del culto per Sant'Agata nella Saticola bizantino-longobarda. Già agli inizi del VI secolo, giunsero a Capua le reliquie della martire che sancirono la pace tra greco-ortodossi e cattolici in Campania. «Il culto di Sant'Agata è radicato in tempi molto lontani nella regione campana: sappiamo che l'Imperatore Costantino donò alla città di Capua una basilica dedicata ai SS. Apostoli...oltre gli apostoli la dedica fu ampliata ai santi Stefano e Agata dal vescovo Germano, che donò alla chiesa quelle reliquie dei due santi da lui ricevute dall'Imperatore Giustino, quando si recò nel 519 a Costantinopoli per una ambasceria voluta da Papa Ormisda e finalizzata a muovere lo scisma Acaciano». (a cura di) Marisa Squillante, Massimo Squillante, Antonella Violano, AA.VV. Sant'Agata de Goti: tracce dei testi e delle epigrafi verso un sistema informativo territoriale, Milano, Franco Angeli, 2012 La scelta martire catanese fu soprattutto politica: si trattava di una figura venerata da cattolici e ortodossi e ammirata dagli eretici ariani, protettrice da eventi naturali molto frequenti a quel tempo. Le reliquie di Agata costituirono il mezzo ideale per conquistare la fiducia di un popolo superstizioso, confuso e impaurito, quale era quello delle città dell'entroterra campano. A partire dal VI secolo, lo sviluppo edilizio della città seguì i dettami dei trattati militari bizantini i quali, «raccomandano di non dare peso alla bella apparenza delle strutture urbane, quanto invece alla sicurezza... le mura divengono l'elemento essenziale e qualificante i centri urbani: la loro antica sacralità viene potenziata dalle dediche delle porte ai martiri, i cui sepolcri erano ubicati lungo le vie di accesso, a santi militari e agli angeli... sulle medesime porte è attestata la presenza di oratori o "cappelle" anche lignee, come menziona già Gregorio di Tours per le città di Parigi, Amiens e Rouen, ovvero come conosciamo nell'antico Palazzo di Diocleziano a Spalato. E l'intera città sarà posta sotto la protezione divina». idem Insomma, la sicurezza delle città del VI-VII secolo fu assicurata nel triplice aspetto militare, antisismico e religioso, senza alcuna distinzione. Una traccia importante è la dedica della porta est a San Marco, martire prediletto dal culto cristiano-ortodosso, venerato anche dai cattolici. «La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680) e Giovanni di Samanhud (680-689). In questo luogo nell'828 approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malaocco e Rustico da Torcello, che si impadronirono delle reliquie dell'Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio dell'828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l'arenarsi di una secca». Antonio Borrelli in Santi e beati, voce "San Marco" in www.santiebeati.itNel ducato, molto vicino a Costantinopoli, si costruì la Basilica dedicata al santo evangelista, considerato protettore degli scrivani e rappresentato da un leone alato che artiglia un libro con la scritta "Pax tibi Marce evangelista meus". L'immagine è nella Cattedrale di Maria SS. Assunta, raffigurata nel prezioso mosaico pavimentale in Opus sectile, in marmo e pietre naturali, residuo della prima cattedrale d'epoca longobarda, della quale è sopravvissuta solo una parte nel transetto. Nicola Severino Il pavimento musivo figurato del Duomo di Sant'Agata de Goti in Le Luminarie della Fede.collana Arte Cosmatesca, vol 4 Roccasecca 2011 La titolazione a San Marco è riscontrabile anche per le porte nelle cinte di altre città italiane come Siena, sede vescovile sotto Liutprando; Pistoia, sede vescovile sotto i bizantini e i longobardi; Viterbo, castrum longobardo sotto Liutprando, posto al confine con il ducato bizantino. Ciò conferma la convivenza tra i due popoli, sia di tipo cultuale, sia di tipo politico. Liutprando, cattolico devoto, costruttore e restauratore di chiese a Pavia, salvatore delle reliquie di Sant'Agostino, coltivò, infatti, fino al 725 la pace con i bizantini, assumendo il controllo dei ducati di Spoleto e Benevento a partire dal 729 e nominando gastaldi in questi territori. Lo schema urbano bizantino attuato sulla rocca di Saticola, caratterizzato dalla presenza di una significativa quantità di edifici ecclesiali, in parte perduti, è avvalorata da quanto scrive Letizia Pani Ermini: «Nel mondo bizantino le strutture religiose, in particolare quelle monastiche, tendono con maggior frequenza ad essere intramurarie... nella città tardo antica viene generalmente conservata la trama essenziale della viabilità romana, con un progressivo allentamento del reticolo viario che nel corso dell'Alto Medioevo comporterà la progressiva invasione del suolo stradale da parte di privati, fino alla nascita della "curvilinearità" caratteristica di molte città medievali...Parallelamente al degrado della viabilità romana si assiste, nei primi secoli del Medioevo, all'alterazione dei livelli pavimentali, con rifacimenti e risarcimenti continui che determinano un progressivo innalzamento di quota di alcune aree». Letizia Pani Ermini, op. cit. Rispetto alle scarne notizie archeologiche sugli edifici altomedievali in generale, alcune tracce ancora percepibili nel tessuto odierno testimoniano che anche sulla rocca saticolana la tipologia della casa fosse ad unico piano, frazionato in più cellule abitative, composto da pochi ambienti affacciantisi sul fronte stradale. Questa edilizia faceva uso intensivo del legno e, solo per gli edifici importanti, di materiale di spoglio proveniente da strutture romane dismesse, soprattutto per realizzare le fondazioni. Una circostanza che trova il noto riscontro storico nella lettera del 28 dicembre 1728, in cui Fileno Rainone dà notizia al conte Matteo Egizio di una eccezionale scoperta, proprio nelle fondamenta della curia vescovile santagatese, «di un blocco di calcare relativo al culto di Giove Massimo» e a distanza di pochi mesi, nelle stesse fondamenta, «di un ulteriore frammento iscritto, poi perduto, che menzionava un collegio augustale», da lui trascritto nel 1729. Biblioteca Nazionale di Napoli, Sala Ms, XIII C 92 (158 Isidoro Rainone, Lettera a M.Egizio, Sant'Agata de' Goti Nelle costruzioni o parti delle stesse ancora oggi esistenti, risalenti all'Alto Medioevo, è evidente l'impiego dei calcari epigrafati nelle strutture fondanti e alla base delle mura portanti, di colonne di spoglio nella formazione di telai di irrigidimento, delle pietre prelevate dai torcularia o dai cippi funerari per rafforzare i cantonali – materiali in massima parte d'età Imperiale. idem Ciò dimostra che ci si è avvalsi più volte di materiali provenienti dallo smantellamento di teatri e anfiteatri, necropoli e villae rusticae del circondario. Nelle ricerche storiografiche però, finora non è stato evidenziato che si trattò di pratiche soluzioni edilizie mirate a combattere l'instabilità sismica negli edifici. Una delle ricerche storiografiche più accreditate sui reperti reimpiegati negli edifici del borgo, afferma che «La quantità degli spolia recuperati dalle ville rustiche e dai monumenti funerari locali, in prevalenza calcari, confermerebbe lo sviluppo delle valli circostanti in epoca tardo-repubblicana fino all'età imperiale, in accordo con quanto tramandato dalle fonti e confermato dagli scavi archeologici. L'analisi dei capitelli e delle colonne suggerisce il saccheggio degli edifici pubblici datati tra l'età augustea e il IV secolo a.C. ... le dimensioni monumentali delle colonne in granito, specie quelle della cattedrale, indicano la spoliazione di edifici considerevoli, quali i teatri e gli anfiteatri della Campania settentrionale, solitamente decorati con sculture di pregio... ad una fase più recente sarebbe invece riferibile il recupero di altri manufatti nella chiesa dell'Annunziata e nei palazzi del centro cittadino; in particolare i lapides pedicines, le basi o i cippi e i tronchi delle colonne furono reimpiegati agli angoli dei palazzi o delle chiese sulla scia delle nuove esigenze culturali, le stesse che si andavano maturando a Capua in età umanistico-rinascimentale». Angela Palmentieri, op. cit. L'analisi è precisa, ma tralascia di considerare che la città, fin dalla sua fondazione, fu danneggiata dai terremoti, e quindi dovette essere più volte ricostruita (o quanto meno "riparata"). Di qui l'aspetto architettonicamente variegato degli edifici fino al pieno Medioevo. Gli studi citati ritengono che, per la costruzione della Cattedrale dell'Assunta nel XII secolo, «le cantieristiche medievali si sarebbero approvvigionate in parte di materiali poveri da costruzione a valle, spostandosi successivamente fino all'ager campanus e al territorio di Benevento per il recupero dei manufatti più preziosi...è' possibile che parte di queste pietre squadrate siano state donate dalle città o dai monasteri con cui il centro aveva dei legami. Si può ipotizzare il saccheggio sistematico di alcuni monumenti in rovina di centri monumentali come Nola, Telesia e Alife, facilmente accessibili attraverso la via Appia e i suoi diverticoli o le vie fluviali che attraversano la regione». idem L'osservazione non va considerata nell'ottica del "saccheggio sistematico" più di quella di un'operazione progettata scientificamente: essa consistette semplicemente nel riciclo di macerie post-sismiche. Ipotesi plausibile se si tiene conto che nell'848 un terremoto distruttivo colpì l'area del Sannio-Matese e del Molise occidentale e che Telese fu tra i centri più danneggiati, tanto da essere ricostruita in pianura. Gianluca Soricelli, op. cit. Dal X-XI secolo fu avviata la costruzione di una Cattedrale come atto conseguente alla ricostituzione della sede vescovile; ma molto probabilmente l'operazione fu inficiata dal sisma del 25 ottobre 989 (testimoniato dagli Annales Beneventani monasterii Santae Sophiae e dal Chronica Monasterii Casinensis). Il sisma danneggiò il Sannio e l'Irpinia, causando distruzioni a Benevento e a Capua. E forse la cattedrale fu danneggiata ancora dai terremoti che si verificarono il 19 aprile del 1044, il 14 gennaio del 1094 e l'11 ottobre del 1125, quest'ultimo con scosse protrattesi per vari giorni, con gravi danni a Benevento e nella valle Telesina. Dunque le operazioni di ri-assemblaggio o di consolidamento degli edifici ecclesiali, indispensabili sedi di raccolta dei fedeli in preghiera contro il "castigo divino", furono eseguite ogni volta con il materiale crollato recuperabile. Esso venne reperito sia dalle vicine città abbandonate, sia in loco, talora integrato con pezzi di nuova fattura, e ricollocato seguendo regole d'ingegneria sismica maturate nei secoli. Il materiale scelto fu usato nelle strutture portanti, in modo da garantire innanzitutto la sicurezza statica degli edifici, ponendo l'estetica in secondo piano. Dunque le motivazioni che giustificano la presenza di una pietra al posto di un'altra, nelle murature, sono da ricercare innanzitutto nelle sue caratteristiche di resistenza e di finitura, per una rapida ed efficace messa in opera. Non tutti gli edifici ecclesiali così rabberciati supereranno i successivi attacchi del sisma, tanto che nel XVIII secolo – dopo il terribile terremoto del 1688 –, la Diocesi vescovile deciderà per molti di essi l'abbattimento o un totale rifacimento. Principi di sicurezza valsero, in epoca bizantino-longobarda, anche a garantire la sopravvivenza dagli assedi nemici: il tessuto abitativo dentro le mura fu dotato di pozzi e cisterne per l'approvvigionamento idrico e si predisposero aree coltivate ad orto, colombiere, ricoveri per animali e fosse per i rifiuti a ridosso del circuito murario. Il ritrovamento di sepolture sulla rocca – come quella sottostante la Chiesa di Sant'Angelo de-munculanis –, testimonia la diffusione, a partire dal V secolo, delle sepolture nell'ambito del circuito urbano. «Questo dato è stato interpretato a lungo nella storia degli studi come un indizio della ruralizzazione dei centri urbani, fondandosi sulla legislazione di età romana che prevedeva una netta distinzione tra spazi abitativi ed aree sepolcrali e che trova riscontro nelle ricerche archeologiche dei siti di epoca classica. La mancata distinzione tra "spazio dei vivi"e "spazio dei morti" si profila come una delle caratteristiche della città altomedievale, che assiste da un lato al diffondersi delle sepolture in urbe, dall'altro all'espandersi del popolamento attorno a santuari e centri martiriali». Letizia Pani Ermini, op. cit. Seguendo il modello urbano bizantino, l'abitato sulla rocca si distribuì in piccoli quartieri nati intorno alle costruzioni religiose. Similmente, nell'oppido circostante furono erette chiese in corrispondenza degli agglomerati più importanti, che assunsero in tal modo un'identità precisa. Stando alla ricognizione che operò Francesco Viparelli basandosi su una «prima origine della divisione de'beni delle Parrocchie, eseguita da Monsignore Nicola da S.Ambrosio nel 1354 e rettificata nel 1398... la Città, ed aggregati avea diciassette Parrocchie... 14 erano in Città, e 3 fuori le mura», F.Viparelli, op. cit.le chiese sopravvissute a quell'epoca sulla rocca erano: Santa Maria Assunta (la Cattedrale annessa certamente al palazzo vescovile), Sant'Agata Sopra la Porta (sulla porta dei Ferrari a nord), F.Abbate, I. di Resta, op. cit.San Martino, San Simeone, Santa Maria de-futinis, San Giovanni in Astraco, da tectum vel astracum, solaio molto soleggiato detto anche Lamia o astrachene. Una chiesa posta quindi presso una torretta di sorveglianzaSan Pietro de Sterponibus, San Marco, San Donato, San Bartolomeo de Ferraris (nell'attuale Largo Santa Maria di Costantinopoli), Sant'Angelo de-munculanis (S. Michaelis Archangeli de Munculanis) oggi in piazza Ludovico Viscardi. Sant'Agatella tra Largo Ostieri e via dei Fiori, F.Abbate, I. di Resta, op. cit. San Giovanni a Corte (presso il Largo omonimo, vicina al castello), la cappella palatina. Quest'ultima dovette essere una delle chiese "personali" presenti nella cultura religiosa longobarda, oratori esclusivi dei gastaldi. Infatti, «una parte della tradizione germanica cede il passo al cattolicesimo, sebbene... per un superstite senso individualistico del culto, voglia il proprio oratorio e proprie tombe separate... la chiesa privata non poteva diventare la parrocchia di tutti gli abitanti della corte; ...l'oratorio (o basilica) eretto venne dedicato ad un santo che generalmente appartenne al numero di quelli venerati comunemente nel mondo cristiano di allora, in gran parte legato a Costantinopoli e all'Oriente». Paola Arcani Menichini Situazione delle chiese occupate dai Longobardi in "Chiese e castelli dell'Alto Medioevo in Bassa val di Cecina e in Val di Fine (secoli V-XI) ", Livorno 1993 pubblicato dall'autrice sul suo sito http://ricordare.xoom.it/index.html La cappella palatina per il comites, usata già dal VII-VIII secolo, era dedicata al Santissimo Salvatore, (come la cappella personale di Arechi II a Benevento, presso la rocca dei Rettori), e a San Pietro. Anch'essa aveva subito danni significativi, se, come riferisce Paolo Diacono, nel XII secolo il normanno conte Roberto Drengot ne curò personalmente la ricostruzione, usando ancora una volta materiale di spoglio, Per approfondimenti Ruggero Longo, Il pavimento in opus sectile della chiesa di San Menna. Maestranze cassinesi a Sant'Agata de Goti, in AA.VV. La chiesa di San Menna a Sant'Agata de Goti, Atti del convegno di studi 19 giugno 2010, pubblicati a cura della Parrocchia della SS. Annuziata di Sant'Agata de Goti, ottobre 2014. E' proprio nel reimpiego dei marmi per il pavimento che si è individuata la lastra marmorea in cui è menzionato Giustino, già osservata da Luigi R. Cielo, da questi scambiato per il console, ma riferita da Longo all'Imperatore Giustino II in carica tra il 518 e il 527. per potervi collocare le reliquie dell'eremita Menna e fondare un grande centro di devozione martiriale, di forte richiamo in Campania e in Puglia. Fuori dalla rocca, nell'oppido, erano le chiese di Sant'Angelo a Laiano (sulle pendici del Taburno a nordest), San Benedetto (sull'omonimo poggio a nord della rocca, fondata nel 960) e San Nicola al Borgo (in una contrada extramoenia oltre la porta nord). Isabella di Resta, op.cit. Infine, parlando delle chiese santagatesi non parrocchiali, abolite nella prima metà del Cinquecento, Marcella Campanelli menziona quella di Sant'Angelo a Grotte (evidentemente rupestre) e di Sant'Angelo a Mairano, Santa Sofia e Santa Celeste, una seconda chiesa di San Nicola, una chiesa dedicata a Sant'Elena e una a San Vitaliano, una chiesa di Sant'Oronzo che «si trovava nel comprensorio di Sant'Agata de Goti "sopra San Giacomo della Polverera"». Marcella Campanelli, Centralismo Romano e "Policentrismo" periferico: chiese e religiosità nella diocesi di Sant'Alfonso Maria de Liguori, Franco Angeli editore, 2003, pagg. 161-162. La maggior parte di queste chiese scomparvero in gran parte entro la fine del XVI secolo, per mancanza di rendite o difficoltà di gestione; aggiungerò, soprattutto per degrado dovuto a danni sismici non riparati. Secondo Campanelli: «Per quanto riguardava le parrocchie, molte altro non erano che piccole chiese, a navata unica, con un solo altare, e non di rado, in pessime condizioni, come quella di San Giovanni a Corte...lo stesso dicasi per le chiese non parrocchiali, fra cui almeno una decina versavano in stato di abbandono», riportando gli scritti delle Sante Visite del tempo, sorta di rapporto tecnico per l'ampio progetto di demolizione che dava spazio a nuovi edifici religiosi. All'interno delle mura, le dediche al Santo Angelo o all'Arcangelo Michele, a San Marco, a San Donato, (martire sotto Diocleziano e venerato sul Monte Taburno), a Santa Sofia, erano di derivazione bizantina, tollerate e forse adottate, dopo la conversione, dai Longobardi. Tali dediche proteggevano parti urbane considerate nevralgiche per le loro funzioni o centri attrattori per i pellegrini e i viaggiatori. Anche la curia, centro religioso e amministrativo creato forse tra il VII e l'VIII secolo, racchiudeva una cattedrale dedicata a Maria Santissima Assunta, venerata dai bizantini il 15 agosto. Infine, anche le reliquie di Sant'Agata, se giunte in quest'epoca da Costantinopoli, furono oggetto di una fondazione ecclesiale per il culto cristiano di rito greco. Le reliquie più grandi di Sant'Agata sono custodite a Catania, Palermo (ulna e radio), Messina (osso del braccio), Alì provincia di Messina (osso del braccio), Roma (frammenti del velo), Sant'Agata de Goti (dito). Frammenti si custodiscono a Sant'Agata di Bianco, Capua, Capri, Siponto, Foggia, Firenze, Pistoia, Radicofani, Udine, Venalzio, Ferrara. Inoltre in Spagna, Francia, Belgio, Lussemburgo, Repubbica Ceca e Germania. Dediche religiose di origine bizantina si individuano anche nell'oppido di Saticola, ad esempio nella piana di Dugenta, dove sorse la chiesa di Santa Maria In Pesole. Impeso dal latino appensus = "impendere" (impesa=appesa,dipendente) in-pesole o impesole = nella "dipendenza", dipendente. Chiesa sorta in un'area pertinenziale di un possedimento ben preciso. Oppure alle pendici del Taburno, a Frasso, con la grotta sacra di San Michele Arcangelo. V.II la città longobarda e la "morte" di Saticola È con i Longobardi che Saticola città bizantina scomparve per risorgere come gastaldato di Sant'Agata, ricco di masserie sparse nell'oppido e sulle pendici montuose, associate a chiese dall'incerto culto cristiano, in cui si raccoglievano i plebei senza diritti. Fondamentale in questa "resurrezione" è la divisione dello stato longobardo in civitates o gastaldati. I gastaldi più importanti assunsero il rango di comites, appellativo di cui fu fregiato il Radoald menzionato sulla lapide di Madelgrima, collocata nella chiesa di Sant'Agata de Amarenis dopo i restauri. Occorre però ricordare che «anche la Chiesa aveva i suoi gastaldi per l'amministrazione dei propri beni e di quelli dei vescovi e dei monasteri»: Emilio Albertario, voce Gastaldo in Enciclopedia italiana Treccani, 1932Ciò prefigurerebbe una figura di comites cristiano cattolico, probabile fautore del culto di Sant'Agata e quindi della dedica alla martire dell'intera città. Ciò potrebbe essere avvenuto già alla fine del 600, come ipotizza Lugi Cielo, in concomitanza con la conversione sancita a Pavia, favorita emotivamente da una spaventosa eruzione del Vesuvio nel 685 d.C. La cultura – e di conseguenza l'architettura – bizantina e quella longobarda, si incontrarono nel gastaldato santagatese tra il VII e il IX secolo, con un risultato unico nella storia delle antiche città sannito-romane, molte delle quali erano andate in rovina o risorte in altri luoghi, a causa di eventi catastrofici naturali, carestie, pestilenze e soprattutto guerre. Di seguito vengono schematizzate delle ipotetiche fasi di sviluppo architettonico dell'abitato sulla rocca di Sant'Agata, in un periodo compreso tra il IV secolo a.C. e il X secolo d. C., all'interno del territorio di Saticola. Funzione Datazione trasformazioni Acropoli ai margini dell’area cittadina IV secolo a.C: culto di Ercole Luogo di confino per una res pubblica peregrinae sannita Dal 305 a.C. Castella con porta ad est, unico varco di collegamento con l'area del Riello e le terre su questo versante Castrum (Castra stativa) fondato da Ottaviano Augusto Dal 42 a.C. Edifici militari, 4 porte d'accesso, una via praetoria e una via decumana Kastron di presidio militare dopo la riforma di Diocleziano IV-VI secolo d.C. Cortina muraria difensiva Tessuto viario frammentato Edifici per il culto cristiano ortodosso Chiesa per il culto dell'Angelo Presidio militare sul confine tra Regio Sannio e Campania dopo il 346 d.C. Rafforzamenti della cinta difensiva e nell'abitato secondo principi costruttivi antisismici e militari Scavo delle cavità ipogee Fortezza inserita in un sistema di difesa bizantino-longobardo Rifugio per i profughi bizantini della costa durante la guerra gotica Sede vescovile ed elevazione a civitas? V-VI secolo d.C Rafforzamenti, restauri, ricostruzioni dell'abitato e delle mura Riedificazione di edifici ecclesiali distrutti con più dediche religiose Edificio della curia fortificato Gastaldato del ducato di Benevento VI-VII secolo Fondazione della chiesa di Sant'Agatella? Costruzione del palazzo comitale Sede vescovile? 729 -750 Costruzione di un palazzo episcopale e di una cattedrale? Formazione di una chiusa di difesa longobarda 774 Ristrutturazione delle chiese Formazione delle cortine abitative protette dai sopportici Soppressione della sede vescovile IX secolo Decadenza del palazzo episcopale e della cattedrale Schieramento da parte bizantina Ricostituzione della sede vescovile Istituzione della città-Diocesi 970 d.C. Restauri dell'abitato e delle chiese Ricostruzione del palazzo episcopale per il vescovo e della chiesa Cattedrale V.III Il gastaldato longobardo e i suoi dintorni Alla fine del X secolo il gastaldato longobardo di Sant'Agata è ribelle ai principi beneventani. Per questo motivo, l'area dell'antica Saticola viene inglobata all'interno della perimetrazione diocesana operata dalla Chiesa, e sottoposta all'amministrazione del vescovo-conte Madelfrido, ampliandola con nuovi possedimenti comitali. Dopo questa operazione, Sant'Agata entrò a far parte definitivamente del Sacro Romano Impero. Durante i due secoli della dominazione bizantino-longobarda l'organizzazione urbana si era trasformata, giungendo alla netta distinzione urbana fra centro politico cittadino, sulla rocca tufacea, e contado, costituito dai territori di Dugenta, Melizzano e Frasso, limitati dal fiume Volturno e dal monte Taburno e dai territori di Moiano e Bucciano, sul versante opposto. Nell'oppido erano sorte chiese e masserie abitate dal ceto rurale. Fu questa la struttura urbana amministrata dai Longobardi beneventani. «I gastaldi del ducato di Benevento ebbero una fisionomia diversa dagli altri. La loro maggiore autonomia li portò a considerare la proprietà ereditaria. Furono, in effetti, dei feudatari senza le specifiche caratteristiche di questi mentre il duca, il capo che risiedeva nella capitale del ducato, si chiamò vir gloriosissimus dominus gentis Longobardorum summus dux. L'individualità spiccata di questi gastaldati, che è d'influsso romano, portò il ducato a legarsi al territorio e fece acquistare valore ad una caratteristica longobarda, l'assemblea, elementi che caratterizzano fortemente la vis culturale delle popolazioni». G.P. Bognetti, L'influsso delle istituzioni militari romanesulle istituzioni longobarde del secolo VI e la natura della "fara" in "L'età longobarda", Milano, 1966 L'arrivo dei Longobardi, nel 570-71d.C., andò a contrastare il potere bizantino, che qui prosperava e aveva in Salerno il suo centro di riferimento. I Longobardi riuscirono però a strappare ai bizantini del Sannio le terre del ducato di Benevento. Nel VII secolo, divisi in gruppi familiari, le fare, le trasformarono in «gruppi armati permanenti ognuno dei quali teso a divenire una signoria locale in un preciso territorio, il gastaldato. La fara ricalcò l'organizzazione comunitaria trovata nei territori occupati, furono pertanto lasciati gli insediamenti fortificati, e fu favorito... un processo analogo a quello che aveva portato agli arroccamenti, l'incastellamento, cioè la ricerca della difesa, ma intorno ad un castello... I gastaldati furono quindi circoscrizioni territoriali autonome espresse anche nella toponomastica... e centri di una iudicaria in cui il gastaldo, il vero capo, era presente agli atti legali ed aveva propri ufficiali...residenti nei centri minori». G.P.Bognetti, op. cit. Dunque una fara o un complesso di fare guidato da un capo, si impossessò della città di Saticola. Nel castello della città potrebbe essere vissuto un gastaldo cattolico, cristiano o ariano, affiancato da un vescovo bizantino, residente nella curia. In tal caso, il palazzo comitale e il palazzo della curia furono le costruzioni emergenti nella conformazione urbana del borgo arroccato. L’abitazione del gastaldo nominato dal duca non era un vero e proprio castello, dal momento che «nella prima fase della loro conquista i Longobardi non costruirono nuovi punti fortificati, rinforzarono solo quelli esistenti». Mimma de Maio Alle radici di Solofra- Influssi bizantini e realtà longobarda in www.solofrastorica.it La terra fertile dell’oppido fu divisa secondo le leggi barbariche, e ai "romaniani" sottomessi, divenuti massari, fu concesso solo di coltivarla. La proprietà divenne collettiva, e i campi affidati ogni anno a fare diverse, non più soggette a coltivazioni intensive, non più coltivate a orti o frutteti. I Longobardi si accontentarono del solo raccolto proveniente dalla semina dei cereali essenziali. Si intuisce come fosse diventato diverso il paesaggio intorno alle città longobarde, da quanto scrive lo storico Zosimo: «Sin dal 395, per volontà di Teodosio, a Roma ebbe fine il rito dei sacrifici; e si trascurarono le altre cose, che provenivano dalla tradizione dei padri. Per questa ragione l'Impero decadde in parte, e divenne ricettacolo dei barbari; anzi, infine, sfuggito al controllo dei suoi abitanti, prese una forma tale che non si riconoscono neanche i luoghi dove prima erano le città». Zosimo, Storia nuova, in Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1959 Zosimo intese certamente criticare con queste parole la decadenza delle infrastrutture e l’abbandono delle politiche agricole romane, fattori che resero il territorio delle città desolato e poco sicuro. Fu Arechi I, nell'VIII secolo, a pianificare – in vista della conquista di Salerno –, una coltivazione più razionale delle terre, utile al potenziamento militare del territorio nelle aree interne. In questo momento oltre ai kastron già esistenti, si formarono nuovi centri fortificati, in modo da ottenere un controllo capillare sul ducato di Benevento. I kastron di più antica datazione, posti in posizione strategica, divennero anche Sale. Si trattava di punti di raccolta dei dazi e dei tributi dovuti ai Longobardi per le attività commerciali avviate tra la costa e l'area interna. In questo periodo, «Da una fase di non interferenza con le tradizioni locali si passò ad una fase di feconda apertura in cui le consuetudini locali (usus loci) acquisite o tenute presenti, vennero a far parte di tutta quella serie di norme non scritte che favorirono una profonda amalgama culturale». Mimma de Maio, op. cit. Da qui l'influenza dell'urbanistica bizantina su quella longobarda, che a Saticola si concretò probabilmente, nell'adozione della cinta muraria preesistente, nella costruzione di una dimora per il gastaldo in concomitanza con quella per il vescovo e nel rafforzamento dell'abitato, attraverso le insulae dette cortine. Si tratta di «pluri-abitazioni che si sviluppano intorno a un cortile a cui si accede attraverso un solo passaggio sotto le abitazioni, facilmente isolabile e difendibile, chiamato in loco con voce longobarda, di evidente assunzione posteriore, "wafio"». Mimma de Maio, op. cit. Il tessuto edilizio odierno sulla rocca è alterato dall'inserimento sei-settecentesco di edifici di scala maggiore, e dalle demolizioni urbane ottocentesche; dunque possibile solo fare ipotesi sulla originaria suddivisione del tessuto urbano in insulae "a cortina" – probabilmente corrispondente ai quartieri formatisi intorno alle chiese in epoca bizantina. Sono di aiuto le posizioni di alcuni sopportici, i varchi di penetrazione ricavati al di sotto delle abitazioni. I supportici, (sub-portico, ossia sotto la porta), opportunamente sbarrati e difesi in caso di pericolo, non servirono solo a "compartimentare" i quartieri. L'uso della volta ad archi rampanti in intradosso ai varchi tra le case, costituisce una delle "anomalie" architettoniche incluse da Fernando La Greca tra gli antichi interventi di rafforzamento antisismico. Per quanto riguarda la presenza delle chiese nei quartieri, i duchi e i gastaldi Longobardi ariani non contrastarono mai i culti praticati nel gastaldato, ortodossi o cattolici che fossero, favorendo la condivisione degli edifici ecclesiali. Dal canto loro, aderirono al cattolicesimo discrezionalmente, in generale divisi fra progressisti e conservatori della propria cultura. Al loro arrivo dal nord Europa, i Longobardi portarono un culto selvatico e pagano che si «praticava per la maggior parte in sacri boschetti... tali boschetti consistevano spesso in radure con pochi alberi sparsi nel mezzo, sopra cui in tempi antichi si appendevano le pelli degli animali sacrificati...nel sacro bosco non si poteva tagliare nessun pezzo di legno, né rompere nessun ramo e, in generale, alle donne era proibito d'entrarvi...». Rosanna Biscardi Cibum concordiae-nutrire l'Armonia, Napoli, 2017, Cuzzolin EditoreL'albero sacro adorato era la Quercia; ma già tempo prima i Greci e gli Italici avevano identificarono questa pianta con Zeus, il dio che governava il cielo, la pioggia e i fulmini. IdemIl toponimo "boschetto" usato per indicare l'area gravitante attorno al castello, L'odierna piazza Trieste, chiamata popolarmente "il boschetto"si collega, volendo basarsi su Rainone, all'esistenza del giardino della Corte in epoca normanna, ma affonda a mio avviso le sue radici in epoche più antiche. I Longobardi aderirono successivamente all'eresia di Ario e il processo di conversione al cattolicesimo puro necessitò di più fasi fino al 750 d.C.. Nel caso di Saticola, è da ritenersi che due furono i culti efficaci a condurre i gastaldi sulla strada del cattolicesimo: quello per l'Angelo, ereditato dai bizantini e diffuso dal vescovo Maiorana in Puglia; quello per la martire Agata, anch'esso bizantino, diffuso a Capua dal vescovo Germano e da lì irradiato nei centri limitrofi. Per entrambi si utilizzarono chiese trasformate e ristrutturate a più riprese tra il VI e il X secolo a seguito di crolli e danni, con l'appoggio dei longobardi, come testimoniano i materiali presenti in Sant'Angelo de munculanis. Con il regno di Arechi II, tra il 758 e il 787, «la forte presenza di elementi germanici unita al citato processo di integrazione con gli elementi greci e romani, il fatto che queste terre rimasero immuni dalla civilizzazione carolingia determinarono una configurazione culturale che andò sotto il nome di Longobardia minore». Mimma de Maio, op. cit. Saticola entrò nell'orbita di quello che diventò il principato di Salerno, accrescendo la sua importanza con l'accrescersi delle relazioni politiche ed economiche tra i bizantini della costa e quelli del Sannio. La simbiosi che nacque tra centro cittadino e campagna, sotto Arechi II, risvegliò l'attività agricola a Saticola e favorì la nascita di estese proprietà laiche ed ecclesiastiche, le cui tracce si ritrovano ancora nei toponimi del territorio. In questo ebbe un ruolo determinante la Chiesa di Salerno, organismo di grande rilievo politico ed economico. Mimma de Maio, op. cit. Secondo Pini e Imbarciadori, il fattore che condusse alla fusione tra città e contado in epoca longobarda fu la coltivazione della vite: oltre ad assumere un alto valore commerciale tra l'VIII e il X secolo, esso costituì un «genere che qualificava chi lo produceva, uno status simbol che differenziava chi viveva nella città dal rustico del contado». A.I.Pini, La viticoltura italiana nel Medioevo in " Studi sull'alto Medioevo, Spoleto, 1974 e I. Imbarciadori, Vita e vigna nell'Alto Medioevo, in "Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo", Spoleto, 1966 Possiamo immaginare dunque per Saticola un paesaggio fortemente segnato dalla presenza di vigne nelle aree di Frasso, Melizzano, Dugenta e in quelle terre extramoenia sulle quali erano nate le villae rusticae in epoca romana, a sudovest oltre il fiume Martorano, verso le contrade Longano e Santa Croce. Luoghi il cui paesaggio conserva oggi intatto questo tipo di coltura. La morte di Arechi II, nel 787, fu seguita da una lunga guerra civile che spinse nell'849 l'Imperatore Ludovico II il Pio a dividere il Principato di Salerno da quello di Benevento. Il gastaldato di Sant'Agata, incluso forzosamente in quest'ultimo, continuò a intrattenere rapporti economici e culturali col primo, non senza subire forti terremoti nell'847 e nell'848. La dualità politico-geografica, che già qualche secolo prima aveva caratterizzato la città, si palesa storicamente dall'866 all'899, periodo in cui il gastaldato lottò al fianco dei bizantini. I ricchi laici e il clero evidentemente ottenevano vantaggi economici e politici che non avevano intenzione di tralasciare, ma anche protezione militare. Subendo i sismi nell'893 e nell'894 documentati in area sannita, alla fine del IX secolo la città di Sant'Agata fu inglobata da Atenolfo nel Principato di Capua, divenuto "Stato autonomo nell'Impero Romano d'Oriente", fedele alla politica di Bisanzio. Fu l'intervento dell'autorità imperiale, influenzata dalla Chiesa d'Occidente, a sancire per la città ribelle il ritorno al cattolicesimo: nel 962 Ottone I di Sassonia, eletto Imperatore del sacro Romano Impero, nominò i vescovi-conti per imporre la supremazia della Chiesa occidentale sui riti bizantini nelle terre beneventane e nel 970 giunse a Sant'Agata il vescovo-conte Madelfrido, al quale fu affidata la nuova città-diocesi. Come scrive Antonio Abbatiello, «nella restituzione della cattedra i confini della circoscrizione diocesana vennero ampliati con i territori delle non più esistenti diocesi di Caudium, Suessola e Calatia» V.IV La città nel X secolo Dalle indagini che Luigi Cielo compie sul processo di incastellamento subito dal gastaldato di Sant'Agata, possiamo comprendere il tracciato territoriale della città-diocesi nel X secolo, periodo in cui fu centro importantissimo, avendo ricevuto l'annessione di alcuni territori limitrofi affacciantisi sull'Appia, come Arpaia e Forchia. Sulla nuova area si "disegnò" il perimetro della diocesi, ben più ampio. Scrive Cielo: «L’importanza di queste aree è avvalorata dal fatto che in quello che possiamo definire un fazzoletto di terra campana in parte longobardo e in parte di confine con i ducati della costa, ben tre vescovati sono tramandati dalle fonti, sia pure in forma di apparizioni temporanee e diacronicamente sfalsate, e cioè Caudi, Tocco, Suessola/Acerra, intorno ad uno dei più importanti, se non il più importante tra i vescovati suffraganei della metropolia di Benevento, vale a dire S. Agata dei Goti, come recita il ritratto del suo vescovo sulla porta bronzea del duomo beneventano». Luigi Cielo Insediamento e incastellamento nell'area di Sant'Agata de Goti, In: Mélanges de l'Ecole française de Rome.Moyen-Age, tome 118, n°1. 2006. pp. 37-58; http://www.persee.fr/doc/mefr_1123-9883_2006_num_118_1_9403 Sembra legittimo pensare, alla luce dei contrasti tra il gastaldato santagatese e i duchi beneventani nel IX secolo, che la città fosse diventata prezioso avamposto per i traffici economici tra Salerno e la Puglia: «S. Agata poco prima della Divisio Ducatus e cioè nell’845 risulta documentariamente attestata, ma già in definito assetto urbanistico (castello ad Sancta Agathe) e in connotazione politica di alto profilo, se è sede amministrativa con il suo gastaldo Isembardo – visto che si può sciogliere il dubbio affacciato ancora di recente sull’attribuzione al Sannio o alla Puglia – e se entrerà qualche lustro in avanti negli itinerari di penetrazione e di riconquista della campagna antisaracena che l’imperatore Ludovico II nell’860 va conducendo con l’assedio tra l’altro della civitatem Sanctae Agathe, che resiste per alcuni giorni fino all’intervento dell’abate cassinese Bertario, consanguineo del gastaldo della città, il richiamato Isembardo. L’importanza di S. Agata è ribadita dalla ribellione del gastaldo Marino nell’887, appoggiato dallo stratego imperiale Teofilatto, contro il suo signore, il principe di Benevento Aione». Idem I contrasti nacquero conseguentemente alla separazione tra le due parti del principato longobardo, quella salernitana e quella beneventana. Scrive Cielo: «E si arriva ad un anno cruciale, l’849, quando nel trattato di divisione del ducato di Benevento sottoscritto dai principi Radelchi e Siconolfo vengono indicati i gastaldati che passano a Salerno lungo una linea di discrimine che include appunto Salerno, Sarno, Cimiterium, Furcule, Capua. Dunque all’849 Furcule è con il principato di Salerno». Furcule (l'odierna Forchia) fu un gastaldato creato alla fine dell'VIII secolo e assegnato al gastaldo Wacco dai duchi beneventani. La spartizione dei gastaldati, avvenuta nel IX secolo, collocò Furcule nel principato di Salerno, ma non Sant'Agata, nonostante i due gastaldati fossero limitrofi ed entrambi importanti centri fortificati di più antica origine. «Anche Furculae è chiaramente in anticipo sul processo di incastellamento, costituendo un aggregato di uomini e di servizi in posizione arroccata, che sceglie la dominante posizione di Monte Castello, a oltre 600 metri di altezza, per garantirsi un solidissimo ruolo di guardia e di controllo della via Appia e dei tracciati che se ne distaccano». Luigi R. Cielo, op. cit. Da questo atto discriminatorio e penalizzante potrebbe aver avuto inizio la ribellione politica dei gastaldi santagatesi. Nell'area territoriale del gastaldato santagatese si svilupparono forme di aggregazione urbana in punti strategici, dei quali si hanno notizie storiche solo a partire dall'epoca normanna. Il primo luogo strategico è nella valle di Dugenta, sede storica dei maggiori latifondi saticolani, in origine solo un vico posto lungo la direttrice per Capua. «L’unica carta altomedievale, in cui viene registrata l’esistenza di un loco ubi dicitur Ducenta, sito in finibus cibitate Sancte Agathe, risale al 977. Il locus è chiamato in causa in una donazione di Sichelperga monaca che al monastero di appartenenza, quello femminile di S. Giovanni nella città di Capua, destina il podere, che in Dugenta ha ricevuto in eredità, e persino dei monili. Il documento da una parte contribuisce alla conoscenza di una città, Capua, che nella seconda metà del X secolo è in piena espansione, dall’altra permette di cogliere il ramificarsi e il radicarsi delle famiglie longobarde capuane nelle terre vicine. Il documento avrebbe potuto dirci qualcosa di più sul locus Ducenta e al ricercatore non rimane che un ragionamento a posteriori basato su altri dati, che, come si sa, per un piccolo insediamento sono sempre rari. Sulla indeterminatezza spaziale si posa però un toponimo, Sala, di sopra già richiamato, che indizia un rapporto seppure non del tutto sicuro, con la conquista longobarda operata intorno al 570 nelle terre del Sannio». Idem Altra località strategica per il gastaldato è il villaggio di Orcoli, Orcoli dal greco Orkane, "luogo da cui non si esce", da cui Orcio= contenitore chiuso. Il toponimo è coerente con le attività di deposito di grano e vino sviluppatesi in epoca romana nella colonia, attestato dai ritrovamenti archeologici di orci e anfore nella zona.tra Dugenta e Melizzano, detenuto da due vassalli di Roberto Drengot, Umfrido, figlio di Simone e Riccardo de Barulo. Qui, «La documentazione esaminata conferma l’esistenza di un villaggio in età normanna, chiuso da mura, oltre che dotato della sua ecclesia castri, la cui consacrazione a S. Nicola, spiegata con la titolarità del feudo nella persona di Riccardo de Barulo, esponente di una famiglia pugliese, ancorerebbe appunto a quella età la nascita di Orcoli. A questo punto della ricerca, ferma sull’ipotesi di un borgo arroccato e difeso da una cinta, una ispezione in loco ha verificato l’esistenza di tale cinta intorno ad una collinetta, sulla quale nel punto meglio difeso a nord-est, affacciato a strapiombo sulla riva sinistra del Volturno, un rialzo tufaceo risulta fortificato, con addossata a nord la chiesa, di cui si conserva la sola parete semicircolare dell’abside (ricordi orali menzionano presenza di affreschi), che deve la sua conservazione all’incastro nel banco roccioso. La scelta del sito fu dovuta alla facilità di controllo del fiume e insieme della strada in destra del fiume, in arrivo da Capua, superata la statio di Syllas (= Squille), e del tracciato Calatia - Telesia. E fu dovuta alla possibilità di riuso di strutture e di materiale di età romana e anche sannitica – si pensi alla vicinissima fortificazione di IV sec. a. C. sul colle di S. Spirito – su siti di frequentazioni antropiche ancora più antiche». Luigi R. Cielo, op. cit. L'agglomerato di Frasso si sviluppò, similmente, intorno a una funzione cultuale. Secondo Cielo, «la prima notizia su Frasso è, come si è visto, quella relativa ad una sua chiesa, dipendente dal monastero di S. Modesto a Benevento negli anni 991-992... si può solo procedere ad una prima ipotesi di insediamento demico intorno a tale chiesa – ma con evidente rapporto con un polo cultuale di chiara origine longobarda, quale quello della grotta sacra a S. Michele – e ad un successivo irraggiamento dell’abitato nell’area ancora oggi detta Terravecchia». Cielo conclude così il discorso su «Frasso, i cui connotati castrali si giocano nel passaggio da una cella monastica di fine X secolo – che è anche il segno di un estendersi della coltura in zone alte, come avviene ad es. nell’alifano – ad un borgo arroccato e fortificato sul fianco del massiccio del Taburno, nel punto in cui la collina si fa montagna, e montagna pronta alla difesa e al controllo della valle del Volturno, come già seppero i Sanniti con le loro cinte megalitiche, come quella in superba posizione di Pizzo del Piano», mostrando di essere d'accordo sull’antica funzione di arx sannita localizzata in questa zona. Riassumendo, il gastaldato di Sant'Agata, limitrofo a quello di Forchia, nel IX secolo condusse un'aperta ribellione verso il principato beneventano, a causa di un divisione politica ed economica tendente ad assegnare i due gastaldati ai due Principati separati, quello di Benevento e quello di Salerno. L'atto che valse a unire i due territori fu la formazione di un'unica Diocesi, avvenuta su imposizione dell'Imperatore alla fine del X secolo, appoggiato dalla Chiesa cristiana cattolica, che qui inviò un vescovo-conte, nominato unico responsabile amministrativo e religioso del territorio. Il documento che sancì la nascita della nuova città-diocesi fu esaminato da Luigi R. Cielo che riporta una descrizione dei suoi confini: «Veniamo ora all’atto che sancisce la definitiva centralità e supremazia di S. Agata nel suo circondario: la Bolla di consacrazione del vescovo Madelfrido del 970, firmata dall’arcivescovo di Benevento Landolfo, nella quale c’è una descrizione dei confini che segue per il versante meridionale della diocesi una direzione est-ovest, ribaltata cioè rispetto a quella seguita nell’atto del 958. Il descrittore, che viene dalle sorgenti dell’«Offizio», dopo aver superato la località Pantano esce in Ponte Leotari in ipsa strata, cioè la Via Appia e di qui sale al Monte Mesola per scendere in aqua quaevocatur Tabernulae, e procedendo per altri monti giunge nella località Sarto e sale al monte Palombara, scende poi all’acqua di Mefite e poco dopo si ricongiunge alla strata, quae dicitur a Benevento in Capua... il documento del 970 chiarisce che questa linea di confine Arpaia, Forchia, Arienzo, monte S. Michele o monte Palombara continua a rimanere valida anche per una delimitazione diocesana, andando anzi a coincidere parzialmente, su questo versante, quello sud, con una linea di confine che dodici anni prima era quella del gastaldato di Landolfo...Rimanendo entro i limiti cronologici del dominio longobardo, sono da segnalare nel territorio della diocesi e del gastaldato-comitato di S. Agata possessi, come quelli che la chiesa beneventana di S. Giovanni ha a Forchia e a S. Agata nel 936, luoghi coltivati e abitati, come Dugenta, dove una integra curte et terris, in finibus civitate Sancte Agathe loco ubi dicitur Ducente vengono donate al monastero puellarum di S. Giovanni a Capua nel 977... insediamenti monastici come il monasterium Sancti Benedicti qui constructum est in ipso monticello iuxta civitate S. Agathe, o chiese, come quella di S. Salvatore de Frasci (Frasso) in un praeceptum concessionis et confirmationis dei principi Pandolfo II e Landolfo V al cenobio beneventano di S. Modesto del 991-992. Allo scadere del secolo (999) si colloca la lapide sepolcrale del vescovo Adalardo in perfetta connessione seggio vescovile – civitas, quale è definita S. Agata nei due documenti appena ricordati... il castrum di Valle è, se non anteriore, di fondazione normanna, se, inglobato nella diocesi di S. Agata dal 970, come s’è visto, se ne presume la pertinenza al comitato di S. Agata, retto prima da Rainulfo e quindi dal figlio Roberto, alla luce della corrispondenza territoriale fra diocesi e contea... il caso di Airola è complesso, in virtù soprattutto della sua posizione, a controllo dell’asse viario valle Caudina-valle del Volturno-valle Telesina, di antica data, se già i Sanniti ne vollero occupare un punto preminente di passaggio, come il terrazzo tufaceo di Faggiano a nord-est di S. Agata e se l’imperatore Ludovico II nell’860 da Isernia -Alife-Telese passa a S. Agata dei Goti...» Luigi R. Cielo, Insediamento e incastellamento...op.cit. Come si vede, la superficie amministrativa della diocesi comprese le terre del gastaldato longobardo di Sant'Agata e quelle di Forchia, spingendosi fino a Luriano a sud ovest, ad Airola a nordest e a Valle di Maddaloni a sud. V.V Epilogo Le vestigia dell’antica Saticola sembrarono scomparire, nelle epoche seguenti, in cui la città, sotto il nome di Sant’Agata, attraversò per lo più fasi di splendore. Sempre più importante divenne il borgo fortificato, vero fulcro urbano dal quale irradiò il potere del feudatario congiunto a quello del vescovo. I terremoti del 1456 e del 1688 indussero ad abbattere o a riparare le strutture di alcune chiese considerate socialmente preziose. Il 1795 fu l'anno della riscoperta di Saticola città visibile e nascosta, che fu così inclusa in una Istorica descrizione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie…abbellita con tredici Carte Geografiche di tutto il Regno in generale, ed in particolare, realizzate dall’incisore casertano Giuseppe Maria Alfano per Vincenzo Manfredi di Napoli. Nella leggenda in calce all’opera si legge tra l’altro: «Situata su di un piano orizzontale e bislungo, vedesi questa città, che cinta quasi d’ogni introno da un largo affossamento forma l’idea di una Penisola attivissima alla difesa…Si vedono in questo basso piano caserme, Molini, Ferriera, e rottami d’antichi edifici. Di qui corre l’Isclero, la cui acqua detta poi Giulia fu menata da Ottavio parte a Nola e parte a Capua per sotterranei canali aduso de’soldati veterani dopo la vittoria riportata ad Azio di Sesto Pompeo…Circa due miglia distante s’inalza il celebre Taburno, menzionato da Virgilio, monte grande con immense pianure nel suo vertice, nelle cui cave si son trovati vari antichi sepolcreti costruiti in pietra dolce, e mattone, ed in questi Avelli non pochi ornamenti d’oro donneschi, armature militari, e gran numero di vasi d’ogni forma di fabbrica, e di rara sublimità, greca, Capoana, ed Etrusca con bellissime miniature rappresentantino Apoteosi, Sacrifici, Baccanali, Favole, ecc…Credesi la città di Sant’Agata l’antica Saticola più volte da Livio mentovata: una strada alle vicinanze di essa chiamasi tuttora la via de’Sanniti. Era questa un Oppido del Sannio eretto in Colonia dagl’Etruschi o Tirreni stabiliti circa il Volturno, la quale devastato il Sannio dà Romani l’anno della Repubblica 443 divenne una Colonia di Roma, e fu una delle 18 che la soccorsero di danaro, e di gente contro d’Annibale…fa di popolazione 3254». I reperti Saticolani, di grandissima fattura, furono in parte acquisiti dal Museo archeologico di Napoli, in parte da collezionisti privati e musei esteri, in parte distrutti, rivenduti o rubati. La città però è ancora qui, nascosta ma visibile a tutti. Appendice LA RICERCA DEL PAESAGGIO Strumenti di conoscenza condivisa del paesaggio per una tutela sostenibile Nel 2104 Salvatore Settis definì il Paesaggio come «il profilo, lo skyline, la tessitura delle città. Fra Paesaggio urbano, periurbano ed extraurbano esiste, infatti, una necessaria continuità e permeabilità reciproca. Essa fu più grande ed evidente in Italia che altrove; e più in Italia che altrove è stata, negli ultimi decenni, offesa, svilita, deturpata». Salvatore Settis, L'etica dell'architetto e il restauro del paesaggio, Lectio Magistralis, Reggio Calabria, 14.01.2014, Aula Magna Architettura Non ci si addentrerà qui nelle cause che hanno provocato il paradosso italiano da lui giustamente contestato. La proposta avanzata dal grande studioso, di istituire un "giuramento di Vitruvio" per il progettista che si accinga ad intervenire con modifiche pianificate del territorio – omologo del "giuramento d'Ippocrate" per il neomedico –, ci conduce alla figura di Marco Vitruvio Pollione. Vissuto nella seconda metà del I secolo a.C., egli era ufficiale sovrintendente alle macchine da guerra con Giulio Cesare e ingegnere-architetto di Augusto. Nel libro I del suo trattato De architectura, Vitruvio elenca quali dovrebbero essere le conoscenze degli architetti: ...cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche... saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia... Per Vitruvio la gamma di discipline necessarie al concepimento del processo progettuale e costruttivo tendeva a considerare sia il passato, sia il futuro, visto nell'ottica della previsione, dunque della sostenibilità. Non a caso fu Vitruvio il primo architetto ad ufficializzare il connubio tra quella che oggi avremmo definito, la "messa in sicurezza" militare e quella "naturale", collegata ad eventi catastrofici, inventando per entrambe stratagemmi costruttivi adottati fino al Medioevo. Giustina Ostuni - Voce Poliorcetica in Enciclopedia dell'Arte Medievale (1998) I requisiti raccomandati da Vitruvio e invocati ai giorni nostri da Settis devono necessariamente adeguarsi alle esigenze della contemporaneità. Il profondo cambiamento degli strumenti tecnici di osservazione, apprendimento, condivisione e partecipazione delle trasformazioni sul territorio, hanno accresciuto il ruolo della fotografia digitale, della rete social del web per la condivisione globale e la discussione pubblica in tempo reale, la pubblicazione on line. Le modalità di questo moderno processo di scambio culturale riguardano anche e soprattutto gli studi più approfonditi, che costituiscono ancora la base di partenza della Ricerca, intesa come bene comune. Preso atto degli strumenti di cui disponiamo oggi, la definizione di vita “maestra della storia" di Settis è particolarmente acuta: «Sono, infatti, le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente delle comunità umane. Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro». In base a queste parole, la tutela preventiva del Paesaggio può diventare forse più efficace dello stesso restauro, poiché essa «non vuol dire riproporsi il compito impossibile di far girare all'indietro l'orologio della storia», ma interviene nel presente e per il futuro. Come affermava Isaiah Berlin, se «il mio Paesaggio sono gli uomini», o come diceva John Ruskin, il Paesaggio è «il volto amato della patria», ci accorgiamo che per i contemporanei il Paesaggio ha assunto anche una notevole influenza sullo stato fisico e psicologico, oltre ad essere inesauribile fonte di ispirazione per l'espressione artistica umana di tutti i tempi. Ma come si "ri-cerca" oggi un paesaggio? Ancora una volta Settis ci suggerisce di guardare alle esigenze della "nostra geografia interiore" per individuare all'esterno gli elementi della geografia fisica adatti a noi: «vedute ancora accettabili, paesaggi ancora intatti, frammenti di un modello antico che viene ripensato, riscoperto e rilanciato anche da nuove modalità del viaggio e del turismo, dall'insediarsi saltuario di abitanti di (altre) città nei paesi abbandonati, dal disseminarsi di seconde case. A quel che resta della trama di paesaggi rurali e urbani, un tempo limpida e compatta, si sovrappone l'ordito di una nuova archeologia della mente, che riconosce il paesaggio storico (anche quando sia frammentario), lo classifica e lo presceglie, lo sente più "proprio"». Dunque il Paesaggio è legato fortemente al nostro mondo interiore, condizionato dalla percezione esteriore. Dall'esperienza fisica che utilizza i sensi, e che può aversi solo percorrendo il paesaggio, scaturisce la necessità di viaggiare in lungo e in largo, attraversandolo. È in quest'azione che si riconoscono i diversi paesaggi e le relazioni che li legano, soprattutto si riconosce l'unicità di ciascun paesaggio, contrapposta alla meta-città figlia della globalizzazione, priva di qualsiasi elemento caratteristico dei luoghi. "Viaggiare" nel paesaggio può implicare livelli di attenzione molto differenti tra loro: può dar luogo a una semplice osservazione distratta, oppure a uno stimolante coinvolgimento sensoriale sollecitato dalla particolarità dei suoi elementi. Può concentrare l'attenzione del “viaggiatore” su particolari precisi e innescare un desiderio di studio, di approfondimento, come forma di appropriazione culturale. Accanto al primo approccio al Paesaggio ritroviamo immediatamente il secondo, quello dell'osservazione. Se Goethe, nel suo viaggio italiano portò con sé un taccuino per le annotazioni scritte, è pur vero che si accompagnò all'amico pittore Tischbein, il quale impostò invece la sua esperienza sull'osservazione per immagini; nondimeno il pittore William Blake affermò: «Io non vedo con i miei occhi ma attraverso di essi», chiarendo il concetto secondo il quale la riproduzione del paesaggio attraverso le immagini rende fruibili le sensazioni, suscita emozioni in noi stessi e nelle persone intorno a noi, prima spinta all’esperienza reale e di conseguenza alla sensibilizzazione verso il rispetto e la tutela. Nel 1967 Roberto Pane scriveva: «Sembra esser ormai ovvio ed evidente che la fotografia di una scultura o di una architettura costituisca già il principio di una valutazione critica e che il testo dello storico dell’Arte debba esser necessariamente legato ad immagini, se non da egli stesso eseguite, da egli stesso dirette», legando indissolubilmente l’immagine allo studio del costruito (che è assimilabile al paesaggio), come bene culturale affine all’Arte e all’Architettura. «Il paesaggio bisogna, prima di tutto, saperlo “vedere”», affermano Flavio Trinca ed Emanuele von Normann, «e non solo nei suoi aspetti fisici, ma anche storici, antropici e culturali. Il territorio è frutto di trasformazioni geologiche, sconvolgimenti naturali, e modificazioni da parte dell’uomo; nel paesaggio in più c’è l’interpretazione: il paesaggio è frutto della cultura che lo identifica in quanto tale. Potremmo forse dire, radicalizzando e semplificando, che se il territorio è fisico, il paesaggio è letterario». Dunque non solo Architettura e non solo Natura: secondo Massimo Locci, il paesaggio «non è sinonimo di spazio non costruito (campagna – ambiti incolti – boschi) contrapposto a spazio costruito (città – aree produttive – infrastrutture). Esso è invece l’unità dei due termini, intesi come momenti delle relazioni territoriali e come loro espressioni morfologiche». Si giunge così alla terza fase dell'esperienza paesaggistica umana: quella dello studio e della conoscenza di ciò che si vede, per catturare, rielaborare intellettualmente l'immagine emozionale e trasformarla in esperienza consapevole. I mezzi più veloci e moderni per acquisire conoscenza oggi sono il web e la narrazione orale, strumenti che vanno utilizzati con competenza da parte di esperti. Le mappe, i dati statistici, le trattazioni e gli studi storici, geologici ed economici, costituiscono il bagaglio di contenuti più adatti a studiare il carattere dei paesaggi in relazione ai segni naturali e antropici, ma solo se verificati e suffragati da una metodologia di ricerca tradizionale. Diversamente, i dati in riscontro alle esperienze sensoriali rischiano di sconfinare nella mera informazione turistica, che troppo spesso è inficiata dal profitto economico. «Vi sono poi, le ragioni del turismo», scrive Roberto Pane, «Infatti, la conservazione che noi auspichiamo fa anche appello ai vantaggi economici dell'industria turistica, specialmente quando le ragioni culturali, che dovrebbero essere le più autorevoli, non riescono ad affermarsi con sufficiente forza di persuasione». E continua: «Ma una tipica difficoltà attuale è proprio quella di conciliare le esigenze culturali con quelle del turismo di massa che, com’è noto, tende a ridurre ogni valore qualitativo a ciò che è pratico ed essenziale; allo stesso modo con cui esso tende a limitare sempre di più lo spazio ambientale dei monumenti e dei paesaggi consacrati alla fama, onde moltiplicare le strade di accesso, gli alberghi, i luoghi di conforto ecc. In tale maniera le volgarità – come la più tipica e originale invenzione del nostro tempo – diviene il volto stesso dell’economia di profitto, nella sua tendenza a ridurre a zero ogni margine di mancata “valorizzazione». Paesaggio non come offerta turistica quindi, ma come vero e proprio serbatoio di raccolta della cultura collettiva, fautrice dello sviluppo futuro. Per dirla come Lucien Kroll, «ogni paesaggio è una forma di civilizzazione, un unione di naturale e culturale…Il paesaggismo è solistico, e un’architettura che su di esso si fondi diviene strumento di civilizzazione». La civilizzazione come traguardo finale si ottiene con l'approfondimento, attraverso le letture multidisciplinari del passato e del futuro del paesaggio, supportate dallo strumento della condivisione e discussione pubblica. Si tratta della fase in cui è indispensabile la crescita della capacità di immagina-azione, (che con il progettista diventa prefigura-azione), che apre la strada ai cambiamenti futuri. La Storia, in questo caso, insegna a saper disporre sulla linea del tempo le tappe di vita del Paesaggio e a dare un valido soccorso nel momento in cui ci si chiede qual è la trasformazione giusta da attuare, per quel momento e per il tempo che verrà. Le discipline coinvolte in questo processo sono varie: l'Architettura e la Geografia innanzi tutto, ma anche l'Ecologia e l'Archeologia, costituiscono le basi di partenza per pianificare una valida escursione percettiva dei luoghi; soprattutto la Storia, introduce alle tracce dei paesaggi del passato, favorendo la nascita del senso di appartenenza a un luogo specifico e l'acquisizione del senso di protezione dello stesso. Si aggiunga quella che Bruno Zevi chiama Urbatettura, disciplina che colma lo iato tra Architettura ed Urbanistica, protagoniste di una significativa compenetrazione all’interno di questo studio. L'Educazione Artistica, (il disegno, la fotografia), sarà utile per "registrare" le immagini prodotte dall'approccio emotivo durante la fase di esplorazione del paesaggio. Infine, l'Educazione Fisica, la Medicina, la Psicologia, testano lo stato di benessere collegato alla fruizione umana del paesaggio mediante il viaggio/percorso e l'annotazione letteraria, artistica o fotografica. Il processo d'attenzione verso il Paesaggio, se ben condotto, sfocia nella sensibilizzazione verso lo stesso, preludio alla crescita del senso d'appartenenza e alla partecipazione alla tutela collettivamente condivisa, in funzione della quale, come afferma Wenger, «ogni persona è quindi invitata a "disseminare" la propria competenza, le personali expertise in quanto ciascuno ha in sé una metaforica zona cognitiva in cui manifesta dei talenti eccezionali, ed un'altra in cui avrà bisogno degli altri per il raggiungimento degli obiettivi condivisi». E' indubbio che riconoscere e riconoscersi nel Paesaggio – in un momento storico i cui le territorialità sociali facilmente sfuggono al controllo consapevole –, è un'assunzione di responsabilità per tutti. Il Paesaggio, infatti, è costituito dal sovrapporsi dei diversi modi con cui le comunità locali si sono relazionate nel corso della storia con l'ambiente che le circondava. In base alla definizione di Charles William Morris, Guardare il paesaggio non è mai una mera contemplazione, ma è un processo altamente selettivo nel quale l'attore raccoglie indicazioni sul modo in cui, nel suo rapporto con il mondo, deve agire per soddisfare i suoi bisogni o interessiPer questo motivo, lo studio e la tutela del Paesaggio possono essere considerati la base dell'evoluzione delle culture locali, come sancito dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) adottata dal Consiglio d'Europa nel luglio del 2000 e ratificata dal Governo italiano con la legge n.14 del 9 gennaio 2006. Ricapitolando, quali sono gli strumenti che possono contribuire alla tutela del Paesaggio? L'esperienza sensoriale della fruizione diretta – mediante l'escursione, la passeggiata, l'esplorazione, il cammino –, sempre supportata dal dato intellettuale costituito dal racconto, dall'illustrazione, dalla spiegazione storico-architettonica, che comprenda dati archeologici, geologici, geografici, economici, ingegneristici, verificati. Questo tipo d'esercizio costituisce "l'esperienza" ma non può cristallizzarsi nell'ambito del puro intrattenimento turistico. I prodotti espressivi che ne scaturiscono (come riproduzioni fotografiche digitali eseguite a vari livelli di abilità e competenza), vanno condivisi con la comunità sfruttando le reti informatiche (attraverso blog, forum, ricerche, portali specializzati e web magazines). Sono però indispensabili anche strumenti tradizionali come la mostra cartacea associata a esposizioni multimediali, il disegno e la pittura estemporanei, che permettono di fissare con maggiore consapevolezza analitica le immagini dell'esperienza paesaggistica. Allo strumento visivo si accompagna lo strumento letterario, base di partenza della razionalizzazione del percorso escursionale, appiglio essenziale per l'approfondimento, all'indomani della sensibilizzazione. Considerando l'esistenza di insider (persone che vivono nel paesaggio e lo conoscono dall'interno) ed outsider (persone che vengono a conoscenza del paesaggio solo dall'esterno, come ad esempio il turista in visita), l’elemento di unione tra essi è dato dalla dimensione immateriale del paesaggio, emanata da significati e valori che le persone assegnano allo stesso, differenziati in base alla loro natura e cultura personale. Strumenti di verifica come Interviste, test, forum, conferenze, feedback, stimoleranno il contributo del fruitore, sia esso "interno", sia "esterno". La Storia letteraria e visiva del territorio non può che accendere un focolaio di interesse per il Paesaggio, soprattutto per le trasformazioni future. Poiché, per immaginare il paesaggio che sarà, è importante conoscere i fatti che ci hanno condotto ad esso, oggi. In questa sede di interesse, risulta fondamentale, per chi è coinvolto, esprimere i propri desideri e aspirazioni personali in rapporto al paesaggio, condividendoli. Si consolida così il processo di identificazione col paesaggio, che conduce alla consapevolezza del proprio ruolo nella tutela dello stesso. La fase finale consiste, infatti, nella partecipazione ai processi di conservazione: dal semplice monitoraggio, alla pianificazione territoriale, all’apposizione dei vincoli legali di tutela. Lo scopo è di favorire interventi nati per il bene comune e non per la speculazione ad personam. Interventi che portino ad una evoluzione sostenibile della comunità, in armonia con la Storia ma senza paure sugli sviluppi futuri. Così il restauro del Paesaggio cede il passo alla tutela partecipata e alla progettazione dello stesso. Ad essa deve consacrarsi l'attività di ricerca storica in tutte le sue sfaccettature, tenendo conto di tutte le discipline componenti e del rapporto tra queste e gli strumenti di comunicazione della modernità. Rosanna Biscardi 9 aprile 2019 Bibliografia 1-Vito Lorè, Dizionario Biografico degli italiani, Enciclopedia Treccani 2018 2-Rosanna Biscardi, Cibum Concordiae- nutrire l'Armonia, Napoli, Cuzzolin editore, 2017 3-AA.VV. Progetto di riqualificazione e messa in sicurezza del costone di Reullo Centro Storico di Sant'Agata de Goti finanziato con fondi POR Campania FESR 2007/2013 Sant'Agata de Goti, 2017 4-Giuseppe Aragosa, Viaggio nella Storia - da Saticula alle terre dei Gambacorta, Quaderno n.7, Benevento, Associazione Terre dei Gambacorta O.N.L.U.S con il Comune di Limatola, 2015 5-Rosanna Biscardi, L'Arco in fondo alla valle - il mistero architettonico di Sant'Agata de Goti, Napoli, Cervino Edizioni 2015 6-Ruggero Longo, Il pavimento in opus sectile della chiesa di San Menna. Maestranze cassinesi a Sant'Agata de Goti, in AA.VV. La chiesa di San Menna a Sant'Agata de Goti, in Atti del convegno di studi 19 giugno 2010, Sant'Agata de Goti, a cura della Parrocchia della SS. Annunziata, 2014. 7-Salvatore Settis, L'etica dell'architetto e il restauro del paesaggio, Lectio Magistralis, Reggio Calabria, Aula Magna Architettura, 14.01.2014 8-AAVV, L'oggetto del desiderio è...un cratere, Sant’Agata de Goti, a cura del Comune di Sant'Agata de Goti e della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, 2014 9-Angela Palmentieri, Testimonianze romane nel centro di Sant'Agata dei Goti loro reimpieghi, in "Napoli Nobilissima", Ser. 6, vol. 4, anno 2013 10-Anna Pia Giansanti, Da Ercole a San Michele, un culto legato alla transumanza, in "Apocalypsis" 21.01.2012 11-(A cura di) Marisa Squillante, Massimo Squillante, Antonella Violano, Sant'Agata e Goti: tracce dai testi e dalle epigrafi verso un sistema informatico territoriale, Milano, Franco Angeli editore, 2012 12-Gina Fasoli, L'Emilia Romagna, Roma, Teti editore, 2012 13-Nicola Severino Il pavimento musivo figurato del Duomo di Sant'Agata de Goti in Le Luminarie della Fede. Roccasecca, collana Arte Cosmatesca, vol 4, 2011 14-Angela Palmentieri, Civitates Spoliatae, recupero e riuso dell'antico in Campania tra l'età post - classica e il Medioevo (IV-XV secolo), Tesi di dottorato di ricerca in Scienze archeologiche e storico-artistiche Università Federico II di Napoli, anno 2009/2010 15-Gianluca Soricelli, La provincia del Samnium e il terremoto del 346 d.C., in "Interventi Imperiali in Campo economico e sociale da Augusto a Tardoantico", Bari, EdiPuglia, 2009 16-Maria Stelladoro, Agata la martire, Milano, Jaca Book, 2009 17- Sannio Europa S.C.p.A., Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale vol. A2 - parte strutturale, Benevento 2009 18-Giovanna Greco, La definizione degli spazi pubblici a Cuma tra Greci e Sanniti, Atti dell'"International congress of classic archaeology meetings between cultures in the ancient mediterranean", MIBAC Roma, 2008 19- Angela Palmentieri, Conoscenza e riuso dell'antico nel Medioevo. Torcularia d'età romana nel Duomo di Sant'Agata de Goti in "Annali dell'Istituto Italiano degli Studi Storici", vol 23, anno 2008. 20-Fernando La Greca, I terremoti in Campania in età romana e medioevale, sismologia e sismografia storica, in "Annali storici di Principato Citra", V.1,2007 21-Luigi R. Cielo Insediamento e incastellamento nell'area di Sant'Agata de Goti, in "Mélanges de l'Ecole française de Rome.Moyen-Age", tomo 118, n°1 anno 2006. 22-Eliodoro Savino, Campania tardoantica (284-604), Parte 3, Bari, EdiPuglia, 2005 23-Andrea R. Staffa, L'Italia romana delle Regiones. Regio IV Sabina et Samnium, ne "Il mondo dell'Archeologia 2004", Enciclopedia Treccani, 2004 24-Marcella Campanelli, Centralismo Romano e "Policentrismo" periferico: chiese e religiosità nella diocesi di Sant'Alfonso Maria de Liguori, Milano, Franco Angeli editore, 2003 25-Francesca Romana Stasolla, La distribuzione degli spazi e delle funzioni, voce Il mondo dell'archeologia in AAVV Il fenomeno urbano. Periodo tardoantico e medievale, Enciclopedia Treccani, 2002 26-Letizia Pani Ermini, Lo sviluppo urbano voce Il mondo dell'archeologia in AA.VV.Il fenomeno urbano. Periodo tardoantico e medievale, Enciclopedia Treccani, 2002 27-Michele Borgongino Le colture extraurbane in "Homo Faber - Natura, scienza e tecnica nell'antica Pompei", Napoli, Electa, 1999 28-Rino Cammilleri, Il grande libro dei Santi protettori, Roma Piemme, 1998 29-D. Abate, T. De Pippo, E. Massaro, M. Pennetta, Evoluzione morfologica tardo-quaternaria della Valle Caudina (Benevento, Italia) su "Il Quaternario", Italian journal of Quaternary Sciences 11(2) 1998 30-Giulio Pane, Angerio Filangieri, Capua: architettura e arte. Catalogo delle opere, vol. I, Vitulazio, 1990 edizioni Capuanuova 1994 31-Giuseppe Aragosa, Un antico centro del Medio Volturno, Limatola e il suo casale di Biancano, Benevento, Kat ed. 1994 32-Vito Antonio Sirago, Cassiodoro: dalla corte di Ravenna al Vivarium di Squillace, atti del Convegno internazionale di studi, Squillace 25-27 ottobre 1990 33-Francesco Abbate, Isabella di Resta, Sant'Agata dei Goti, collana "Le città nella storia d'Italia" a cura di Cesare de Seta, Bari, Laterza, 1989 34-(a cura di) D. Demarco Statistica del Regno di Napoli nel 1811, tomo IV Roma Accademia Nazionale dei Lincei, 1988 35-Luigi R. Cielo, Monumenti romanici a S. Agata de'Goti, Rari Nantes, Roma, 1980 36-Gregorio Rubino, Vega de Martini, Strutture altomedievali nella chiesa di Sant'Angelo in Munculanis a Sant'Agata dei Goti, in "Napoli Nobilissima" vol. XVIII, fascicolo VI, novembre-dicembre 1979 37-L.R.Cielo, Strutture altomedioevali nella chiesa di S. Angelo in Munculanis a S. Agata dei Goti, NN, n.s., 18, 1979 38-L.R. Cielo, Decorazione a incavi geometrizzanti nell’area longobarda meridionale, NN, n. s., 17, 1978 39-Antonio Ivan Pini, La viticoltura italiana nel Medioevo in " Studi sull'alto Medioevo, Spoleto, 1974 40-I. 40-Ildebrando Imberciadori, Vita e vigna nell'Alto Medioevo, in "Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo", Spoleto, 1966 41-Mario Napoli, voce Saticula in Enciclopedia dell'Arte antica, 1966 42-Paolo Bertolini, voce Arechi I in Dizionario Biografico degli Italiani Enciclopedia Treccani, vol. 4 1962 43-Zosimo, Storia nuova, in Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1959 44-Giacomo Devoto, Sanniti, Enciclopedia Treccani, 1956 45-Mario Attilio Levi, Paola Zancan, voce Guerre sociali in Enciclopedia Treccani, 1936 46-Giacomo Devoto, voce Pago in Enciclopedia Italiana Treccani, 1935 47-Emilio Albertario, voce Gastaldo in Enciclopedia italiana Treccani, 1932 48-AA.VV. Colonizzazione, in Enciclopedia italiana, Enciclopedia Treccani 1931 49-Raimondo Bacchisio Motzo e Angelo Segre, Voce Diocleziano Gaio Aurelio Valerio, in Enciclopedia italiana Treccani 1931 50-Francesco Viparelli, Memorie storiche della città di S. Agata dei Goti, per l'epoca dal principio dell'Era volgare sino al 1840, Napoli, 1841 51-Nicolò Tommaseo Nuovo dizionario de' sinonimi della lingua italiana Milano, 1838 52-Acta Primae Visitationis Civitatis et Dioecesis habitae ab Ill.mo...Philippo Albino, Sant’ Agata dei Goti, Archivio Vescovile, Atti Sante Visite, XIV, cc. 7v-58v. 53-Procopio di Cesarea, Storia delle guerre di Giustiniano, Libro III, 551-553 d.C. 54-Procopio di Cesarea, De Bello Gothico, IV, 537-551 d.C. 55-Codice Teodosiano, VII, 20.3, 438-439 d.C. 56-Tito Livio Ab Urbe Condita Libro VII, I a.C. - II d.C. Pubblicazioni sul web -Giuseppe Dalfino, Ritratto Longobardo, Giugno 2017 www.academia.edu -Antonio Borrelli, Sant'Agata vergine e martire, http://www.santiebeati.it -Atti del martirio di Sant'Agata http://www.cattedralecatania.it/atti.aspx - scheda di Sant'Agata de Goti www.archemail.it -Domenico Caiazza, Due esempi di collezionismo ottocentesco nell'alta terra di lavoro: la collezione Rainone di Sant'Agata dei Goti e la collezione Pacelli di San Salvatore telesino, http://www.bancacapasso.it -Gaetano Zingales, Tra Krastos e Demenna, www.academia.edu -Ester Lorusso e Alfredo Magnatta, Glossario ragionato delle opere di fortificazione www.mondimedievali.net -Antonio Borrelli, San Marco www.santiebeati.it Mimma de Maio Alle radici di Solofra - Influssi bizantini e realtà longobarda www.solofrastorica.it1997 AA.VV. Santuari, villaggi, centri fortificati e prima urbanizzazione tra Sanniti e Romani, www.reserchgate.net gennaio 2016 -Lorenzo Gagliardi, Fondazione di colonie romane ed espropriazioni di terre a danno degli indigeni, Mélanges de l'Ecole francais de Rome, "Antiquité, www.mefra.revues.org 2016 -Davide Galluzzi, Gaio Mario Un Homo Novus che segnò i destini della Repubblica, www.instoria.it n.90 2015 -Alberto de Luca, Le legioni di Roma: storia dell'esercito romano in "Lettere e beni culturali" su "Il sileno ONLUS" www.ilsileno.it 13.09.2012 -Torna a Sant'Agata la lapide di Madelgrima 14/11/2012 su www.ilquaderno.it -(a cura di) Angelo Pepe, I terremoti che hanno interessato il Sannio Matese con intensità pari o superiore a 5.0 (database di riferimento: http://emidius.mi.ingv.it/DBMI04) tabella sinottica in pm2010.altervista.org -Paola Arcani Menichini Situazione delle chiese occupate dai Longobardi in "Chiese e castelli dell'Alto Medioevo in Bassa val di Cecina e in Val di Fine (secoli V-XI) ", Livorno 1993 http://ricordare.xoom.it/index.html -Rosanna Biscardi, Progetti di sostegno-progetti sostenibili. Storia dell'edilizia di consolidamento a Sant'Agata de Goti “Castrum” romano tra la Regio Samnium e la Regio Latium-Campania dal 42 a.C. in atti del seminario "Progettare l'incontro" a cura di Federarchitetti Sant’Agata de Goti, 2017 su www.academia.edu -Vocabolario degli Accademici della Crusca -Dizionario italiano "La Repubblica" INDICE PREMESSA PAG. 4 LA CITTA' CAUDINA DI LINGUA OSCA PAG. 56 LA COLONIA DI DIRITTO LATINO PAG.92 Il CASTRUM AUGUSTEO PAG 120 IL KASTRON BISìZANTINO LONGOBARDO PAG 132 LA RICERCA DEL PAESAGGIO PAG 180 BIBLIOGRAFIA PAG 190 PAGE 12