Utente:PapaYoung89/Sandbox2
Sebbene risulti per il momento impossibile ricostruire la rete di rapporti intessuta da Lauro prima del suo arrivo a 29 GONZAGA 1552, lettera CCXCVII Al dotto messer Pietro Lauro modenese, a Vinegia. 20 Venezia, a partire dal 1542 le fonti aprono ad un percorso meno accidentato. Sebbene assemblati e racconci per il mercato, e non rispondenti al criterio della trasparenza, il già citato primo volume di lettere, assieme al secondo, edito da Comin da Trino, forniscono tra le righe non poche notizie circa la sfera pubblica e privata del nostro protagonista. Esse ci informano sul quindicennio ’45 ?’60, anni nodali, in cui si esplica sia il dinamismo professionale del poligrafo, che quello personale dell’uomo. Messer Pietro Lauro Modonese (com’egli si firma nei suoi volgarizzamenti) dovette essere persona di temperamento orgoglioso che – forte dell’aver attraversato molte difficoltà, avendo saputo in ogni occasione mantenere la retta via – non risparmiava i suoi giudizi, né tollerava d’essere bruscamente giudicato. Con ogni certezza egli lavorò sodo, sotto continuo scacco dell’impazienza editoriale da una parte, e della benevolenza delle numerose famiglie per le quali svolse l’attività di precettore, dall’altra. Con gli anni, acquisì anche un certo piglio di autorevolezza, assieme ad una buona dose di ottimismo ed ironia. Così scrive al «Magnifico Messer Andrea Cornero, del clarissimo M. Polo» 30 (per il momento solo un nome): Io vorrei mettere in penna quanti chieribicci mi passano per capo, ma specialmente alcuni miei 31 pareri molto dissimili dal comune uso. Leggiamo che molti autori, dividendo le età del mondo, hanno fatto la prima d’oro, la seconda 30 LAURO, lettere, II, c. 85r/v, Età presente non è ferrea, ma d’oro. 31 Correggo sicuro refuso di stampa «miie». 21 d’argento, la terza di bronzo, e la quarta di ferro, volendo dire che in quest’ultima età ferrea, altro non si può aspettare che violentia. Ma io sono di contrario parere, et tengo per certo che questa sia l’aurea età poi che se vogliamo far comparatione de l’oro a gli ingegni, non mai sono stati più svegli ingegni in tutte le arti, come ora si trovano. L’entusiasmo nutrito da Lauro per il suo tempo, espresso anche altrove 32 , seppur indubbiamente sensibile alla bellezza e all’arte, tradisce già dopo poche righe la sua sostanziale concretezza: Nondimeno se vogliamo ragionare de l’oro materiale, non chiameremo noi età aurea, quella, nella quale l’oro è tanto in prezzo, et ogni impresa importante si fa con l’oro? Ferrea fu quell’età quando i principi [...] volevano che ogni lor fatto passasse per le spade, come se non fussero huomini coloro, che senza ferro conducevano a fine le loro imprese. [...] Ma ora che ogni impresa si giuoca di oro, chi negherà che questa non sia l’età aurea? [...] Ora le gran guerre si vincono usando l’oro, e per mezzo di quello ancora si fanno le paci, et finalmente si perviene ad ogni nostro desio con l’oro. Indeterminatamente giocata tra realismo ed ironia, questa lucida fotografia del secolo, scritta in una certa confidenza, si chiude alquanto goffamente, destando nel lettore un sorriso ed alcune domande: Ma io (se non temesse d’esser tassato) direi di essere stato il primo, c’habbia avvertito come questa sia 32 Cfr. Appendice II, I dieci libri de l’architettura di Leon Battista de gli Alberti [...], Venezia, Valgrisi, 1546. Per il contenuto della dedica a Bonifacio Bevilacqua, cfr. infra. 22 l’aurea età, nel modo sopradetto. Ben vorei avisare V.S. a bocca d’alcune ragioni, delle quali forse si offenderebbono coloro, che tanto s’affaticano ad ammassare oro, perché si mantenga tale aurea età, ma se non potremo trovarsi insieme, discorrete quai siano i pensieri de tesaurizzanti, e vedrete che non esco di riga. Se vi vedrò fermo nella vostra opinione, tenerò per certo, che V.M. ancora sia tra li giusti, mantenitori di quest’aurea età, la quale tanto giova a che la mantengono giustamente. A cosa precisamente si riferisca Lauro non è purtroppo ricostruibile in questa sede; tuttavia si può ipotizzare che il destinatario fosse in qualche modo una figura imprenditoriale, probabilmente legato a valori che tradizionalmente assegnano alla ricchezza, e quindi all’avidità, una forte marca negativa. Ciò non toglie che la scarsità di denaro fosse comunque percepita come malagevole; ne sono esempio due missive, Quante siano le miserie della povertà e Contra chi biasima le ricchezze, che compaiono in entrambi i volumi, ma con destinatari diversi 33 . In entrambe egli 33 LAURO, lettere, I,: rispettivamente p. 14, a Christofano Rember, p. 49, a messer Tommaso Leonardi; LAURO, lettere, II, c. 133v, a Carlo Linter, c. 135v, a messer Giovanni Herbert. Entrambi i volumi di lettere recano molti destinatari, anche ricorrenti, dal cognome teutonico. È il caso della famiglia Sudermann (o Suderman), di Sigismondo Ehem, della famiglia “Puz” [Putz]. Presso queste famiglie egli svolse, come sembra potersi dedurre dalle missive, l’attività di precettore, come dimostrano gli argomenti, tutti relativi all’educazione (ad esempio: Buona creanza de figliuoli ottima via per mantenere la Repubblica, a «Messer Hermano Sudermano», Governo dei figliuoli è arte non conosciuta, a «Messer Giusto Puz», =obiltà della creatura humana, a «Messer Henrico Sudermano»). Tale osservazione contribuisce a delineare una personalità, se non 23 dichiara, con variazioni, di non stimare «un frullo quei savi, che non procurano ancora di havere onde possino esercitare la loro sapientia», dal momento che le ricchezze sono le «fantesche della filosofia» e «si debbono tenere come si tengono gli altri stromenti», che «se bastano per lo nostro bisogno», non dobbiamo affannarci ad «aumentarli avaramente». Dichiara altresì di essere pronto ad ogni fatica, beninteso (siamo entrati negli anni cinquanta) senza cadere nel peccato, pur di fuggire la povertà. Come diffusamente si evince dalle lettere, egli ne fu infatti perseguitato tutta la vita 34 , fatto confermato anche dalla massiccia presenza di ringraziamenti per gli avuti benefici che, più o meno formalmente, rivolge a vari personaggi, per lo più dai cognomi d’oltralpe. Su questo tema egli introduce anche una lettera?paradosso, Ringratiare per l’havuto beneficio è una sciocchezza 35 , in cui, come in altre 36 , pratica smaccatamente eterodossa, senza dubbio a contatto con ambienti più inclini a ricevere ed appoggiare la Riforma. 34 LAURO, lettere, I, p. 45, Honesta scusa di non prestare denari, ad Annibale da Parma; p. 124, Risposta di non poter prestare denari, a Stefano Grauto (Groto?); p. 58, Si dimandano in prestito denari, a Marc’Antonio de Francesco, p. 207 Ringratiamento piacevole di beneficio ricevuto, a Messer Maffeo Lucatello, in cui così si lamenta: «[...] l’invida fortuna mi faccia sempre arrossire in ricevere beneficii, i quali sono astretto di accettare, senza sperar di mai potermi da tanto debito sollevare. Et perciò havendo tanti debiti, a i quali non potrò per tempo alcuno satisfare, ho più volte pensato di fallire, per non pagar ad alcuno, ma poi che niuno mi stringe a pagare, e io sono di altri beneficii bisognoso, camino pur’in pubblico». 35 LAURO, lettere, II, c. 113v, a Daniel da Molino. 36 Ivi. Ad esempio c. 19r, Dappocaggine o negligenza è meglio che la diligenza; c. 13v, Meglio è beneficiare huomini ingrati; c. 93v, 24 l’imitazione (non sempre felice) dei landiani Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, opera apparsa a Venezia nel 1544 e baciata da un’incredibile fortuna. Collega sì, ma di bel altra statura, Ortensio Lando ne aveva affidato la prima stampa a torchi lionesi 37 , mentre Lauro lavorava contemporaneamente, e per tre editori diversi, all’erasmiano Il disprezzo del mondo, al De la origine e de gl' inuentori de le leggi di Polidoro Virgilio e alla Chronica di Giouanni Carione 38 . L’anno prima, da considerarsi a ridosso del suo trasferimento, aveva collaborato nientemeno che con Giolito, esordiendo col tradurre due titoli dal greco 39 . A quest’altezza è ormai chiaro che l’inserimento di Lauro è più che avviato: Comin da Trino, Giolito, Tramezzino, Cesano stampano (e ristampano) i volgarizzamenti di Lauro, ognuno dedicato, com’era d’uso, a personaggi eminenti, ai quali erano indirizzate ampie presentazioni della propria opera, alfine di riceverne in cambio un qualche beneficio. Attraverso l’officina Lauro ebbe l’opportunità di inserirsi all’interno di un tessuto sociale estremamente ramificato, entrando probabilmente in contatto con quasi tutti i suoi colleghi e coetanei a noi noti. Lo stesso Ortensio Lando figura come destinatario di una lettera paradossale (poi ricompresa nel secondo volume, con altro destinatario), Misero è il miglior stato, che il felice; c. 125r, Quanto giovi non saper leggere né scrivere. 37 LANDO, O., Paradossi cioè, sententie fuori del comun parere nouellamente venute in luce, opra non men dotta, che piaceuole, et in due parti separata., A Lione : per Gioanni Pullon da Trino, 1543. 38 Cfr. Appendice II. 39 Cfr. Appendice II. 25 dal titolo L’huomo debbe laudare se stesso 40 , in cui si asserisce la necessità che «l’huomo di prudente giudicio laudi la propria virtù, acciocché essa non rimanga senza il suo premio, che secondo quei filosofi è la gloria». Egli è nominato anche in un’altra lettera, della quale possediamo con pochi dubbi la risposta, indirizzata alla signora Lucrezia Gonzaga da Gazuolo, autrice di un già citato libro di lettere, verosimilmente rimaneggiato dallo stesso Lando, suo amico e cliente. Fu lui a fare da tramite, esortando Lauro a scrivere alla signora un’epistola consolatoria, di certo nell’occorrenza della morte del marito, Giampaolo Manfrone, avvenuta in carcere nel 1552, dove scontò la pena per aver congiurato contro Ercole II D’Este. La lettera, dal titolo Come dobbiamo rallegrarci de la morte de nostri più cari 41 , mira a sollevare, attraverso argomentazioni all’epoca comuni, dal dolore della morte, esortando ad accettarla e a concepirla come la sopravvivenza dell’anima sgombra dagli affanni, come il manifestarsi della volontà divina. In chiusura Lauro, auspicando d’aver giovato all’umore della signora, si propone molto umilmente come possibile cliente 42 . Sia la consolatoria, che la proposta 40 LAURO, lettere, I, p. 179; LAURO, lettere, II, c. 130v, al «molto honorato Messer Andrea Babali». 41 Ivi, p. 153. 42 Ivi, pp. 155?156:«Aspetto adunque di udir che vostra signoria habbia mostrato quanto vaglia appresso di quella, la verità aggionta con l’utile e la gloria vostra, per rallegrarmi di questa mia consideratione, la quale forse troppo arditamente ho scritto a vossignoria, ma io udendo da Messer Hortensio Lando tutto dì V.Sig. ria che quella haverebbe grato il mio buon volere di consolarla a mio modo. mi vi son posto a farlo, per non perdere tale 26 non dovettero affatto dispiacere alla signora, che rispose calorosamente, complimentandosi a tal punto con l’autore, da far sospettare in un rovesciamento. Dopo aver affermato di essere stata persuasa dalle argomentazioni di Lauro, più che da una «mattematical demostrazione», ella dice: [...] e dove prima credevomi che molti della vostra patria, unica madre degli eccellenti ingegni, vi fussero nella dottrina e nella eleganza dello scrivere superiori, ora mi avego che tanto innanzi lor siete che vi hanno perduto di vista e non ardiscono di pareggiarvi, né di concorrer più con essovoi, anzi confessano liberamente che voi siete l’orgoglio della città di Modona, e beata istimano quella gioventù che sotto la disciplina vostra cerca di intendere l’artifizio dei poeti, la natura degli oratori, la fede degli istorici, l’acutezza dei loici e la diligenza dei fisici. 43 La fama di Lauro, infatti, non dovette essere delle migliori. Come già aveva osservato il Castelvetro, le sue basi culturali non erano solide al punto da permettergli di approntare traduzioni dalle lingue classiche belle e corrette. A conferma di quest’idea troviamo molti accenni alle accuse di imperizia ed ignoranza mosse al nostro protagonista, per lo più inferibili dalla mole di perorazioni della propria causa, disseminate per i due libri di lettere. Così risponde, ad esempio, alle soverchie lodi del collega traduttore dalle lingue classiche Francesco Strozzi, che proprio in quegli anni collaborava con Giolito, gomito a gomito con Lauro: occasione di farmele servitore, e porle a piedi questa mia fantasia per un principio de la mia servitù». 43 GONZAGA 1552, lettera CCXCVII. 27 Io non vi perdonerò quest’ingiuria, finché non fate co gli amici che mi reputino quale io sono, e non quale voi mi havete dipinto. Et mi reco a gran danno, che voi co’l tanto laudarmi habbiate causato che i miei nimici si siano aveduti quanto io sono luntano da quella virtù, che mi attribuite. Et quando non vogliate rifarmi tanto dispendio, saprò io ancora scoprire i vostri mancamenti con laudarvi (se potrò) fuor di modo 44 . Sebbene anche l’analisi della traduzione qui in esame, che più avanti esamineremo nel dettaglio, proceda ad assegnare a Lauro una competenza di basso profilo, dando perciò ragione alla sferza dei pedanti, è altrettanto vero che la sua opera va giudicata solo dopo averla collocata nel suo contesto originario, che s’avvicina non poco al libero mercato. Da professionista della penna, egli lavorò più che poté per vedersi da più parti affidati dei testi, da poter tradurre anche contemporaneamente, assicurandosi in media due curatele l’anno, nel periodo compreso tra il 1539 e il 1546, data dopo la quale Lauro s’assentò da Venezia, per tornarvi nel 1550, quando riprese mutato spiritu a pubblicare. L’opera a lui richiesta dagli editori?stampatori, a loro volta soggetti all’orizzonte d’attesa, era del resto quella di tradurre i testi in modo da avvicinarli il più possibile ai gusti del pubblico, non certo quella di produrre a propria volta un’opera letteraria a tutti gli effetti. Per anni, dopo l’invenzione e la diffusione della stampa, le traduzioni non recarono sui colofoni alcun nome accanto all’autore, confinando i loro artefici in un anonimato, e consegnando i loro titoli ai processi di attribuzione. Per discutere della bellezza e della dignità del volgarizzamento i tempi non 44 LAURO, lettere, I, p. 51. 28 erano ancora maturi: affinché si rifletta sui processi traduttivi e sulle loro metodologie, ridando lustro ad un’attività che pur sempre coincideva con l’origine della letteratura latina, bisognerà oltrepassare la metà del secolo. Pubblicati lo stesso anno, i rispettivi volumi della Gonzaga e del Lauro s’inseriscono nella tradizione estremamente fortunata del libro di lettere volgari, inaugurata da Pietro Aretino nel 1538, anno in cui toccò l’apogeo della propria gloria letteraria. Presentare ai lettori uno specchio della vita contemporanea, che alla bisogna potesse rappresentare anche un exemplum di stile epistolare, «fu l’invenzione sua più autentica, la scoperta stilistica e culturale più completa ch'egli seppe trarre dall'esperienza di sé e del suo tempo» 45 . A fare da modello, nemmeno a dirlo, l’epistola familiare ciceroniana (e senecana, petrarchesca, paolina) che, aprendo un varco contraddittorio e ambiguo tra il privato e il pubblico, rende la pratica di comunicazione attraverso la scrittura un’opera letteraria 46 . Ad imitarlo furono in molti, non ultimo lo stesso Bembo, e non mancò chi si servì del “nuovo” genere per contrapporsi al suo ideatore 47 . 45 INNAMORATI, G., Pietro Aretino, in DBI, vol. 4, 1962, ad vocem. 46 Per un’analisi dettagliata del genere e della fortuna del libro di lettere volgari cfr. QUONDAM 1981. 47 Le Pistole vulgari di Niccolò Franco, edite nel 1538 da Antonio Gardane, che anticipano i più corrosivi Sonetti (contra l’Aretino) con la Priapea, apparsi nel 1541, presso Giovanni Antonio Guidone. CAIRNS 1985 offre poi notizia di un’aspra lettera di Anton Francesco Doni, a partire dalla quale fu stampata un’opera intitolata 29 Senza dubbio cimentarsi in esso, per un autore poco affermato, significava da una parte la speranza d’acquisire fama ed autorevolezza, dall’altra esporre il proprio lavoro alle critiche attente (e spesso impietose) dei colleghi e dei lettori. Così Lauro scrive all’amico e collega Sebastiano Fausto da Longiano, che lo invitava a raccogliere e pubblicare anch’egli le proprie lettere: Se vogliamo Messer Fausto carissimo haver l’occhio a la qualità de’ i tempi, che corrono, piglieremo più tosto per partito di leggere le altrui compositioni, che porre le nostre al vario giudicio de giudici spontanei, cioè non eletti a giudicare. [...] non mi risolvo ancora di volerle stampare, finché non trovo chi mi dica questo luoco è poco chiaro, questo mal continuato, e simili riprensioni, le quai si come pungono l’animo, così lo fanno aveduto a guardarsi per l’avenire di non esser punto con ragione 48 . Lauro dovette avere contemporaneamente e un discreto timore, e un manifesto astio nei confronti del giudicare, da lui forse percepito come un atto superbo, non concesso all’uomo per esercitarlo sull’uomo. La profonda convinzione della deficienza umana, della colpa dell’errare ad essa connaturata emerge in molti luoghi dei due volumi di lettere che, essendo nati «per dipingere i vicii con i propii colori e laudare la virtù» 49 , dimostrano Vita dello infame Aretino, pubblicata a cura di Costantino Arlìa, nel 1901. 48 LAURO, lettere, I, p. 227, Risposta di non voler stampare queste lettere.. 49 Ivi, Epistola ai lettori, p. Anche nella dedica «all’illustre et generoso Signore, il Signor Giovan Giacobo Fuchari», che apre LAURO, lettere, II, alla c. 1, non numerata, si legge:« Et a questo mi 30 chiaramente come le preoccupazioni dell’autore fossero orientate all’orizzonte morale, signore delle pratiche comunicative del secondo Cinquecento. La lettera faceta, molto popolare agli esordi, non fu altrettanto praticata in questi anni conciliari, che preferirono rivolgersi progressivamente all’edificazione del lettore, offrendogli l’esemplarità di un’esperienza sì intellettuale, ma anche – e sempre più – spirituale. Indubbiamente entrambi i volumi del Lauro si mostrano in linea con i dettami dell’epoca: consolatorie, morali, filosofiche, encomiastiche, di ringraziamento, d’ammonimento, pedagogiche, le sue lettere non contengono facezia alcuna, né scherzi, oscenità o buffonerie. Esse delineano il ritratto di un uomo estremamente retto, sollecito ad osservare e pretendere umiltà e schiettezza, rispettoso dell’autorità e della tradizione, devoto a Dio. In particolare si osserva come egli mostri ad ogni occasione la sua poca stima per le affezioni mondane e il suo disprezzo per l’uomo che non sa o non vuole liberarsi da esse. Detestata sopra tutte è l’arroganza che, sebbene «a tutti negata, è ne l’huomo letterato un vicio capitale» 50
- l’uomo non può pretendere
la perfezione, perché non può e non potrà mai raggiungerla; essa è di Dio, ed a lui solo spetta giudicare le opere, ma soprattutto gli animi, di esso. In questo senso nel primo libro egli fornisce più di un insegnamento, mostrandosi al contempo coerente nell’osservare ciò che altrove aveva predicato. Così nella sono posto, accioché l’huomo vedendo dipinte le sue virtù e vicij, per quelle si reputi di essere a Dio grato, e da questi si guardi, per non perdere un tal favor Divino». 50 Ivi, p. 86, Quanto vaglia l’humanità. 31 lettera Pochi conoscono il propio errore, egli mostra una grande umiltà, nell’accettare senza rancore la riprensione di un amico, forse un appartenente alla famiglia lucchese, ma naturalizzata veneziana, dei Paruta, in merito ad un errore in un suo sonetto: Io non harrei creduto che voi, il quale mostrate di non saper partire un capo d’aglio, tanta semplicità fingete, havesti veduto quel neo nel mio sonetto, il quale confesso ingenuamente, che non havea veduto. [...] Non mi debbo dolere di quello, che aviene à tutti, nel cercare di essere assento da le comuni miserie, de le quali non sappiamo assegnar la ragione, e perciò scusiamo la colpa, poi che tutti siamo colpevoli 51 . La giustificazione plenaria, che conclude la lettera, mostra come Lauro diffidi sostanzialmente delle capacità dell’uomo, anche altrove ridimensionato a semplice mortale in balia per metà della fortuna e per metà della volontà divina. Tale animosità nel sottolineare l’imperfezione della condizione umana è più accesa nel primo volume, forse anche perché in quegli anni l’autore era, o si sentiva, più esposto alle valutazioni esterne. Nella lettera indirizzata a Michele Tramezzino, che stampò sette suoi titoli 52 , egli si sottrae dal farsi arbitro delle opere altrui, affermando l’impossibilità di decidere in merito al valore di un’opera, «havendo contra quasi tutti i letterati di quest’età, i quai sono di tanti pareri, che a fatica si trovano due che concorrano in una opinione» 53 . Perciò prega lo 51 Ivi, p. 79. 52 Cfr. Appendice II. L’ultimo nel 1552, anno delle lettere. 53 LAURO, lettere, I, pp. 232?233, La difficultà del far giudicio de le altrui opere, attento la varietà de i pareri. 32 stampatore di non caricarlo di tale responsabilità, affinché egli non si «trovi sottoposto al giudicio di tanti, che senza udir le parti, giudicano». L’ambiente professionale del Lauro era del resto molto competitivo: sono infatti molte le testimonianze – offerteci oltre che dalle lettere, dalle rime – degli antagonismi tra colleghi che, impiegati in un settore a forte rischio di saturazione, non esitavano a farsi pubblicità, spesso traendo frutto da quella negativa fatta ad altri 54 . Di qui la cautela nel pubblicare opere che fossero frutto integrale del proprio ingegno: due soli libri di lettere e un romanzo cavalleresco, proseguimento della già nota saga di Palmerin D’Oliva. Senza entrare nel merito della vexata attribuzione a Lauro di un altro romanzo cavalleresco, il Leandro il Bello, apparentemente apparso in italiano, prima che in spagnolo 55 , sempre sul versante della prosa, abbiamo 54 Cfr. NUOVO? COPPENS 2005, pp. 95?96 , in cui si citano i casi del Ruscelli, che nella premessa al Decameron valgrisino del 1552 attacca Lodovico Dolce, al fine di proporsi come suo sostituto al servizio di Giolito, così come lo stesso Dolce aveva fatto nei confronti del Brucioli, che aveva anche’egli precedentemente curato un’edizione del Decameron per Giolito. Lo screditarla, fruttò al Dolce l’assunzione da parte di Giolito, col quale da quel momento intrattenne una lunga e costante collaborazione. 55 Cfr. BOGNOLO 2008, in cui s’analizza l’opinione di Henry Thomas, studioso che all’inizio del ‘900 attribuì a Lauro non solo la traduzione, ma anche la stesura dell’opera. Egli decise sulla base dell’assenza di testimoni spagnoli anteriori al 1560, anno in cui Michele Tramezzino la pubblicò, curata da Lauro. Data l’apparente assenza di testimoni di tale edizione nelle biblioteche italiane, è in questa sede impossibile determinare se Lauro ne fosse il curatore, il traduttore o l’autore. Tuttavia la dedica non firmata dell’edizione toledana di Ferrer del 1563, indirizzata a Don Juan Claros de 33 notizia, dalla lettera «a Messer Pietro de Rossiti» 56 , di un suo «libro di battaglia», da lui giudicato indegno della pubblicazione, a cui invece lo spronava l’amico. Egli si cimentò anche nella poesia, scrivendo alcuni sonetti, dei quali ci rimangono nient’altro che due endecasillabi, inseriti nella lettera a Giovanni Domenico Tarsia: Vivo morendo, e di morir non satio procuro di morir di morte in morte 57 a cui s’aggiunge qualche accenno indiretto. Da essi emerge che egli fu non poco combattuto tra ambizione e modestia, in special modo quando, scrivendo «a Messer Honorato Orgenson» dichiara di essersi pentito dell’aver anche solo pensato di dare «principio a quei canti seguenti a l’Ariosto», «impresa da pochissimi, il ragguagliarlo, e di niuno il vincerlo». «State contento de i Guzmán, conte di Niebla, fa indubbiamente sospettare che il Leandro sia piuttosto opera di Pedro de Lujan, scrittore moralista spagnolo, allievo di Erasmo, nipote ed erede dello stampatore Domenico De Robertis, che potrebbe averla redatta, completa di paratesti, entro il 1556. Sebbene non rimangano testimonianze di un’eventuale princeps sivigliese in quello stesso anno, o in quelli immediatamente successivi, ad ulteriore conferma di questa tesi contribuirebbe la citazione da parte dell’autore di altre sue tre opere, una delle quali, i Coloquios matrimoniales, dedicata allo stesso conte. 56 Ivi, p. 217. 57 LAURO, lettere, I, p. 198, Quanto poco è da prezzare questa vita. Il Tarsia, da Lauro chiamato «Giovan Dominico Capo d’Istria», fu traduttore, oratore ed erudito; nel 1545 tradusse un’opera di Juan Luis Vives, Il modo del sovvenire a poveri, presso l’editore Ruffinelli. 34 miei sonetti», esorta il Lauro, «i quai voglio che teniate in prova, fin tanto ch’io faccia giudicio de le mie istesse opere», concludendo coll’invitare il destinatario stesso a non suggerire siffatte imprese in futuro. Oltre ai due versi e alle notizie riguardanti i sonetti, abbiamo una testimonianza delle sue qualità di poeta anche nei Colloqui famigliari, dov’egli si mette alla prova in due occasioni, traducendo i pochi versi in greco ed in latino, presenti nel Convitum poeticum e nell’Epithalamium Petri Aegidii, che tratteremo in seguito più da vicino. Sebbene in presenza di un libro di lettere sia impossibile filtrare la verità dall’understatement retorico, senza dubbio Lauro fu uomo concreto e realista: non sono pochi i casi in cui si scusa con i destinatari per non essere stato all’altezza delle loro aspettative nel portare a termine degli incarichi da loro commissionati. Ciò ci informa su più fronti: innanzitutto egli dovette essere di volta in volta al servizio di svariati personaggi più o meno in vista nella Venezia del periodo, svolgendo presumibilmente diverse funzioni, tra le quali quelle di precettore, di segretario, o più semplicemente di faccendiere 58
- in secondo luogo egli dovette svolgere più
lavori contemporaneamente, se le fonti attestano che, proprio in quegli anni, egli insegnasse latino nelle scuole di Venezia, probabilmente ad un grado avanzato, rispetto 58 Ivi, p. 54, Escusatione di non haver condotto a fine una impresa, a Messer Riccardo Montino; p. 136, Scusasi la poca prudentia in un tristo successo, a «Messer Romulo»; pp. 79?80, Responsiva di più materie, senza destinatario, in cui egli scrive: «[...] Et per saggio della mia diligentia, ho comperato le robbe, per meno di quanto eravate contento, e di tal bontà, che mi riputerete mercante pratico[...]». 35 alle nozioni latine di base. È poi nota l’esistenza di un manoscritto copiato da Lauro, i Comentari delle cose turchesche, conservato a Venezia, presso il Museo Civico Correr 59 , che testimonia come egli forse svolgesse occasionalmente anche il mestiere di copista, come fecero altri suoi colleghi, tra i quali Anton Francesco Doni. Nonostante la scarsa fama di cui egli sembra aver goduto presso i contemporanei, soprattutto se colleghi, la carriera veneziana di Lauro s’aprì con i migliori auspici. Nel 1542 ebbe inizio infatti la collaborazione con l’astro nascente della stampa veneziana Gabriele Giolito che, figlio d’arte, era subentrato quattro anni prima al padre Giovanni, inaugurando una nuova e felicissima stagione della sua attività al segno della Fenice. Prendendo esempio dai più smaliziati Tramezzino e Marcolini, egli s’impose sul mercato editoriale italiano ed internazionale, grazie alla sua accorta strategia di pubblicazione, concentrata sulla letteratura in volgare. Egli aprì filiali a Ferrara, Padova, Bologna, riuscendo a varcare il confine padano (Napoli), anche grazie al suo ingresso nella Società della Corona, della quale erano membri altri stampatori, come Torresani, che ne fu il leader, Giunta, Scoto. Sicuramente l’officina giolitina, sulla quale è disponibile una cospicua bibliografia 60 , si differenziò per l’efficiente organizzazione del lavoro, del resto 59 Commentarij delle cose turchesche, copiati per mano di «P. Lauro», ed indirizzati a Gerolamo Marcello. 60 Cfr. ad esempio NUOVO? COPPENS 2005, QUONDAM 1989, S. BONGI, Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia, Roma, presso i principali librai, 1890? . 36 necessaria ad una così ampia produzione. In particolar modo, la linea editoriale perseguita rendeva indispensabile il massiccio impiego di letterati, che provvedessero all’assemblamento, alla correzione ed al volgarizzamento, tanto dei testi classici, quanto di quelli europei. Le molte incertezze degli autori riguardo alle forme da usare, che caratterizzarono il ventennio di stabilizzazione dell’italiano scritto intercorso tra gli anni ’40 e ’60, richiedevano poi la revisione anche dei testi in volgare contemporanei, affinché raggiungessero un’uniformità linguistica, che potesse varcare i confini regionali e raggiungere il più vasto pubblico possibile. Non a caso i professionisti della penna, i poligrafi, conobbero proprio in questo periodo la fase di più intensa attività e popolarità, elevandosi spesso al ruolo di autori, per lo più di opere d’intrattenimento, a loro modo effimere, eppur ancora oggi eloquenti. Sebbene il programma editoriale delle officine fosse sottoposto alla definitiva approvazione dei titolari, è tuttavia noto che essi lasciavano ampio spazio alle proposte ed ai consigli dei loro collaboratori, anche per quanto riguarda la scelta dei titoli. È probabilmente questo il caso delle due traduzioni dal greco – gli Oneirotika di Artemidoro Daldiano e i Geoponica, un tempo attribuiti a Costantino VII Porfirogenito ed oggi a Cassiano Basso – con cui Lauro esordì presso Giolito nel 1542, le quali – come ci informa la voce relativa all’autore del Dizionario Biografico degli Italiani – sembrerebbero a tutti gli effetti frutto della sua personale iniziativa. Sempre per Giolito pubblicò l’anno successivo il volgarizzamento del De la origine e de gl' inuentori de le 37 leggi [..] dell’umanista Polidoro Virgili (che sarà messo all’Indice nel 1557), cominciando a collaborare parallelamente con Tramezzino, per il quale curerà complessivamente la traduzione di sei titoli, quattro latini, uno greco e uno spagnolo, nel biennio 1543?44. A questo proposito è opportuno ricordare con Anna Bognolo, che al momento de la eclosión de la imprenta buena parte de Italia era española. En nuestra península la frecuentación mutua de italianos y españoles era habitual: los lectores potenciales en castellano eran innumerables en la Nápoles aragonesa, en la Roma de los Borja y en los ducados de Ferrara, Mantua y Milán. Respecto a mi lista veneciana, pues, existe una prehistoria y una historia paralela, en varias ciudades y centros cortesanos privilegiados 61 . A Venezia il libro spagnolo aveva trovato in Arrivabene, in Nicolini da Sabbio e in De Gregoriis (ed associati) i suoi primi editori, affiancati dal libraio Giovan Battista Pederzano. Intuendo il potenziale commerciale della letteratura cortigiana d’intrattenimento, egli fu tra i primi a commissionarne volgarizzamenti da indirizzare al grande pubblico, affidandosi soprattutto a Francisco Delicado, poligrafo dinamico ed accorto, traduttore di Juan De Valdés e piuttosto critico nei confronti della Roma papale. Ciò contribuì certamente all’ottima accoglienza a lui riservata a Venezia dai circuiti sociali gravitanti attorno alle stamperie e spesso collegati alle accademie, in cui serpeggiava una certa sensibilità evangelica, che negli anni ‘40 s’intreccia all’interesse per 61 BOGNOLO 2010, p.4. 38 il libro spagnolo 62 . Avvenne così che le edizioni dei classici del canone alto, in un primo momento approntate per gli spagnoli in Italia, o per il ristretto pubblico della corte, conobbero una maggiore diffusione per proficua iniziativa di stampatori quali Tramezzino e Valgrisi. Ad essi s’accodarono in seguito molti altri, tra i quali Marcolini, Sessa e, non ultimo, Giolito, che dalla metà degli anni ’50 s’avvalse della preziosa collaborazione del giovane Alfonso Ulloa, ovvero de « el más conocido mediador entre lo español y lo italiano» 63 . A collaborare all’epoca aurea delle traduzioni dei libri di cavalleria troviamo anche Pietro Lauro, che oltre alle traduzione approntata per Tramezzino de Il cavalier della Croce, eseguirà i volgarizzamenti de Il Cavalier del Sole e del Valeriano d’Ungheria, editi rispettivamente nel 1557 e nel 1558?59 da Sessa e Bosello. I suoi contatti con lo spagnolo furono tuttavia maggiormente legati alla letteratura religiosa e devozionale, come dimostrano le 62 Ivi, p. 8: «[...] muchos de los editores interesados en el libro español (como Andrea Arrivabene, Vincenzo Valgrisi, Niccoló Zoppino, Comin da Trino, Bartolomeo Zanetti) participaban de las inquietudes espirituales de le época y de simpatías reformadas. 63 Ivi, p. 9, in cui si legge inoltre: « El papel de Ulloa, parecido y paralelo al de los otros polígrafos, como Dolce con Giolito o Aretino con Marcolini, revela pues la participación activa a una estrategia promocional que, a partir del momento clave de los años 1552?53, el joven español interpretó como una misión cultural». Ulloa, prima di diventare uno dei principali collaboratori di Giolito, aveva svolto le funzioni di segretario per l’ambasciatore Juan De Mendoza fino al 1552, anno in cui fu rimosso dall’incarico, perché sospettato di collaborare con i francesi. Finì i suoi giorni in carcere a Venezia nel 1570, dove era stato rinchiuso per aver pubblicato senza licenza un testo in ebraico. 39 numerose edizioni delle sue traduzioni di Antonio De Guevara, Tomas Valencia e Louis De Granada 64 , titoli perfettamente in linea con i dettami tridentini, che impressero una decisa virata alla rotta editoriale delle molteplici stamperie sorte in tutta Italia. Lauro lavorò infine al Libro delle quattro infermità cortigiane 65 di Luis Lobera De Avila, medico di Carlo V, traducendo dallo spagnolo complessivamente undici titoli (tra cui l’Institutio foeminae christianae di Lodovico Vives, dal latino), sui trentatre dell’intera produzione. Sebbene non si sia potuto, in questa sede, procedere all’esame delle qualità del Lauro traduttore dallo spagnolo, attività che pure costituisce una considerevole parte della sua opera, si può tuttavia affermare che per un volgarizzatore delle lingue classiche applicarvisi non dovesse rappresentare un’impresa difficile. Agli occhi degli intellettuali a Lauro contemporanei la lingua spagnola, con la sua tendenza a conservare, doveva anzi in qualche modo sembrare una porta d’accesso alle lingue classiche – come dimostra il caso dell’Aretino che, affatto profano d’entrambe, si cimentò in esso, ricavandone tale impressione –, o quantomeno un idioma agevolmente comprensibile (e quindi traducibile) per chi invece aveva una buona conoscenza della lingua latina. Le dediche delle opere ed i destinatarî delle lettere dimostrano come Lauro avesse negli anni veneziani dei 64 Maggiormente concentrate tra la fine degli anni ’50 e ’60. Cfr. Appendice II. 65 Edito nel 1558 da Melchiorre Sessa, che va a sommarsi ad altri due volgarizzamenti di testi di medicina, ovvero il Tesauro di Konrad Gesner, edito nel 1556, da Melchiorre Sessa, e le Opere utilissime in medicina, di Polibio medico. Cfr. Appendice II. 40 contatti con personalità anche insigni, ascrivibili all’ambiente spagnolo veneziano, come il segretario regio Garcia Hernandez 66 , o Diego Hurtado de Mendoza, 67 ed Eleonora di Toledo, duchessa di Firenze, alla quale dedicò il sopracitato testo di Vives, reso in volgare italiano Dell'ufficio del marito verso la moglie, dell'istitutione della femina christiana, uergine, maritata, o uedoua, & dello ammaestrare i fanciulli nelle arti liberali, pubblicato da Valgrisi nel 1546. Tali rapporti dovettero essere, oltre che proficui, anche piuttosto distesi e ben vissuti, se egli poco prima della morte, verosimilmente avvenuta nel 1568, si cimenterà ancora nel genere cavalleresco, questa volta nelle vesti di autore, pubblicando presso Giglio le Historia delle gloriose imprese di Polendo figliuolo di Palmerino d'Oliua, originale proseguimento d’un opera assai celebre. Ritornando agli esordi della carriera, avvenuti nei primi anni quaranta presso due stamperie di prestigio, è importante anticipare che i ventisei anni d’attività di Lauro sono interrotti da una totale carenza di fonti riguardanti gli anni dal ‘47 al ’50, durante i quali si suppone egli si sia allontanato da Venezia. Nel quinquennio che precedette la sua assenza, oltre alla collaborazione con Giolito e Tramezzino, s’affiancò nello stesso anno quella nell’officina «al segno d’Erasmo» di Vincenzo Valgrisi 68 , che nel triennio seguente catalizzerà 66 LAURO, lettere, II, c. 132r, Che sarebbe utile tenere le imagini de nostri progenitori, che siano stati per virtù chiari. 67 Poeta e diplomatico spagnolo, considerato, con alcuni dubbi, l’ autore del Lazarillo de Tormes, a cui indirizzò la dedica del sopracitato volgarizzamento di Artemidoro Daldiano. 68 Cfr. Appendice II. 41 la produzione lauriana, affidandogli sei volgarizzamenti. Come si evince dalla lettera a lui dedicata, contenuta nel secondo volume, edito solo nel ’60, poligrafo ed editore dovettero essere in una discreta confidenza, se egli gli indirizza quello che potrebbe essere il rimaneggiamento della precedente lettera al figliolo intemperante. Amor paterno, questo il suo titolo, rappresenta quasi uno sfogo (ad orecchie comprensive) sull’ingratitudine dei figli verso i padri, che non trovano compenso, se non di rado, alle molte fatiche e affanni da essi con infinito amore sopportati. Del resto la preoccupazione pedagogica pervade entrambi i volumi, e sono molte le lettere che hanno come argomento il «governo de figliuoli», le punizioni che si deve aver il coraggio di infliggere loro, affinché crescano rispettosi e disciplinati 69 . 69 Ivi, p. 150, I padri s’ingannano de i figliuoli, a Girolamo Fiore; p. 152, Come si debbono sopportare i figliuoli men buoni, poi che sono tali per colpa nostra, «a madonna Serena Lancillotta»; p. 161, Che modo si debbe tenere al governo de i figliuoli, a Giovan Francesco Portano. LAURO, lettere, II, c. 77v, Governo de figliuoli, «a Messer Giacopo d’Alessandria, in cui si legge: «Averei voluto vedere alcun uomo in prova nel saper governare figliuoli, quando sono gionti a quell’età, della quale sono i polliedri qando per andar sciolti rompono il capestro, cioé nell’entrare nelle gioventù quando la pazzia ignorante e soperba vorebbe levarsi da ogni soggettione, e andarsene alla libera. [...] l’età presente a tanto scostata della bona vita de gli antichi, che se dimostri di amare teneramente il figliolo, tu sei spaciato, egli si farà desiare e procurarà di darti affanno [...]. Ma crederò bene che se l’uomo si spogliasse de gli affetti paterni agevolmente castigherebbe i suoi si come vediamo, che i padroni ottimamente ammestrano i servi, perché senza riguardo alcuno usano la violenza, la qual sola è potente mezo di ridure l’uomo sotto la disciplina [...]»; c. 115r, Governare i figliuoli è arte non conosciuta, a «Giusto Puz». Una pedagogia non proprio permissiva, sebbene in 42 Altro sostanzioso gruppo di lettere fa capo all’interessante argomento del matrimonio, all’epoca molto dibattuto, sia in ambiente ortodosso che riformato. Con tutta probabilità, oltre all’esperienza personale di marito, di padre e di insegnante, al consolidarsi dell’interesse di Lauro nei confronti dell’educazione e degli uffici familiari deve aver contribuito la sopracitata traduzione di Vives, con la quale il numero di traduzioni erasmiane sale a tre, sommandosi al De contemptu mundi, pubblicato nel ’43 da Comin da Trino, e ai Colloquia, editi nel 1545, sempre da Valgrisi. Malgrado non sia in egual misura testimoniato, il breve contributo di Lauro alla produzione editoriale dell’officina valgrisina rappresentò indubbiamente una tappa fondamentale nel percorso del nostro protagonista, sebbene resti da chiarire il perché si interrompa ex abrupto proprio in quello stesso periodo, quando, assentandosi da Venezia, fa perdere le sue tracce fino al 1550, anno in cui riappare tra le pubblicazioni di Costantini col rimaneggiamento di un testo prima edito dallo stesso Valgrisi 70 . A far luce su questi quattro anni d’assenza solo poche righe, nelle quali non si fa nessun accenno al luogo, né al motivo che lo spinse ad allontanarsi. Emigrato, emissario o esule, così Lauro scrisse teneramente alla moglie, da chissà quale luogo: linea con i tempi, quella proposta da Lauro, che si rivela essere un moderno Orbilius, sostenitore dell’efficacia delle pratiche coercitive. Un certo conservatorismo di fondo è rintracciabile anche in altri passi, come ad esempio nell’unica lettera alla figlia Angela, dal titolo Si mostrano le forze de l’honestà, nella quale la esorta al pudore e all’integrità. 70 Cfr. Appendice II. 43 La molta prudentia tua con l’amor che mi porti, vagliono tanto, che la lunga assentia, la quale, altramente mi sarebbe greve, non mi da altra noia, che un desiar di trovarmi a rallegrare il cuor tuo, il quale per la mia lunga assentia è afflitto, ma portando così le cose mie, ch’io stia alquanto assente, vengo a vederti con questa lettera, per ragionar teco famigliarmente, non di altro già, che de i communi figliuoli e governo di casa 71 riservandosi di parlare degli altri fatti di persona.