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La luna e i falò
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La luna e i falò
E-book175 pagine2 ore

La luna e i falò

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Info su questo ebook

L'emigrante Anguilla torna dall'America al suo paese nelle Langhe dopo la Liberazione: perso nei suoi tristi ricordi, rivive con l'amico Nuto i tempi passati e si riscopre sradicato, richiamato nostalgicamente in patria dal senso di appartenenza al suo paese d'origine. Scoprirà episodi tragici accaduti in sua assenza, durante gli anni della guerra e della Resistenza: molte delle persone da lui un tempo conosciute non ci sono più. Ma il viaggio di Anguilla non è finito...

La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949 e pubblicato nell'aprile del 1950, pochi mesi prima della morte tragica dello scrittore. Il testo è dedicato all'attrice Constance Dowling.

Con una nota critico-biografica di Elena D'Onghia.

Cesare Pavese (1908-1950) è uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Grendel ne ripropone alcuni dei testi più celebri.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2024
ISBN9791223079041

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    Anteprima del libro

    La luna e i falò - Cesare Pavese

    Cesare Pavese

    Cesare Pavese

    LA LUNA

    E I FALÒ

    Con una nota critico-biografica di Elena D’Onghia

    GRENDEL EDIZIONI

    Introduzione

    Cesare Pavese: una nota critico-biografica

    Cesare Pavese nasce nel 1908 in un piccolo paese in provincia di Cuneo, Santo Stefano Belbo, nella zona delle Langhe. Compie gli studi a Torino, dove, tra gli altri, conosce l’intellettuale antifascista Piero Gobetti e l’editore Giulio Einaudi.

    Sin dagli anni Trenta Pavese traduce i grandi autori americani, soprattutto Walt Whitman, al quale dedica anche la propria tesi di laurea. Il mito americano è adottato sia in chiave letteraria, per il realismo della narrazione, il linguaggio semplice e asciutto, sia in chiave politica: l’America rappresenta per lui la libertà. Nel 1932 si colloca l’inizio dell’attività poetica e narrativa dello scrittore, ma nel 1935 Pavese viene arrestato per antifascismo e confinato a Brancaleone Calabro, non perché avesse preso parte attiva alla lotta, ma per il ritrovamento di alcune lettere destinate a partigiani, fatte recapitare al suo domicilio dalla donna di cui si era innamorato. Tornerà libero nel 1936: grazie a una sorta di «condono» per festeggiare la conquista dell’Etiopia, molti prigionieri furono rilasciati, tra cui Pavese.

    In quello stesso anno pubblica la raccolta poetica Lavorare stanca . Nel 1941 debutta nella narrativa con Paesi tuoi , scritto due anni prima ; poi compare il romanzo breve La spiaggia ; nel 1947 scrive Il compagno , la sua opera più vicina al Neorealismo, e Dialoghi con Leucò ; nel 1948 pubblica Prima che il gallo canti , costituito da due romanzi brevi: Il carcere e La casa in collina ; poi appare La bella estate , raccolta di tre romanzi; infine, nel 1950, La luna e i falò .

    Nel 1950 incontra l’attrice americana Constance Dowling, di cui si innamora perdutamente; ma pochi mesi dopo, tormentato, si suicida in una stanza d’albergo a Torino. Tra le opere edite postume vi sono la raccolta poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951) e il diario Il mestiere di vivere ( 1952).

    Pavese fu un intellettuale controcorrente: negli anni Trenta, quando in Italia imperversava l’ermetismo, pubblicò una raccolta poetica anti-ermetica come Lavorare stanca che, all’opposto, è una poesia-racconto, caratterizzata da un verso lungo, vicino alla prosa, con l’inserimento di dialoghi e in cui, con un linguaggio asciutto, l’autore parla di periferie, di campagne, ma senza la denuncia neorealistica: Pavese, contrariamente alla lezione neorealista, parla di miti e di irrazionalità.

    Per capire compiutamente Pavese occorre considerare due elementi contrapposti: mito e ragione. Il mito è per lui l’infanzia, le Langhe, la collina, il vitalismo, la violenza, la parte irrazionale; la ragione è l’età adulta, Torino, la parte riflessiva. Pavese cerca di trovare un punto d’accordo fra questi antipodi; ma la conciliazione tra mito e ragione è impossibile. Solo la poesia consente il recupero di quell’età felice da cui l’uomo viene sradicato una volta raggiunta l’età adulta.

    Le opere di Pavese, caratterizzate da un forte autobiografismo, presentano come temi ricorrenti la solitudine, non solo individuale ma dell’intera umanità, e il mito. Infatti è ricorrente la presenza di personaggi tormentati, come lo scrittore, dalla solitudine e dall’incomunicabilità, che cercano con la fuga di scampare al proprio destino. Tutti i suoi personaggi, infatti, compiono un viaggio di ritorno; ma se la terra che li ha visti crescere è ancora lì ad aspettarli, nella monotonia rassicurante della ciclicità della natura, tutto è cambiato: il recupero di quel mondo è ormai impossibile. Il gusto di andar via si trasforma in un sentimento di estraneità, in un’accoglienza impossibile.

    Quando si diffonde la forma della poesia-racconto, Pavese, mai adeguandosi alle correnti letterarie del periodo, torna alla poesia breve e simbolica. Dialoghi con Leucò , titolo che fa riferimento alla donna amata o alla ninfa Leucotea, è composto da ventisette dialoghi. I temi in esso affrontati sono il sesso, la violenza, il destino, gli uomini-dei in lotta tra loro.

    Il mondo contadino conserva ancora i simboli ancestrali del mito. La casa in collina è un romanzo autobiografico: il protagonista è un intellettuale che si rifugia nelle colline piemontesi per sfuggire ai nazisti; si nasconde, mentre gli altri decidono per l’insurrezione armata. Il tema dominante del testo è la vergogna di chi non sa agire.

    La luna e i falò contiene il tema del ritorno. Il protagonista, Anguilla, fuggito in America dove era riuscito a fare fortuna, fa ritorno nelle Langhe e ritrova il suo amico d’infanzia Nuto, il quale gli racconta ciò che è accaduto in sua assenza. Si tratta di un viaggio a ritroso, come anche accade in Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, laddove però il tema del viaggio è funzionale alla crescita del protagonista. A ciò sembra alludere anche il titolo: i falò che i contadini accendevano a scopo propiziatorio si trasformano nel finale in un fuoco non più mitico ma distruttore, il che indica la consapevolezza che nulla possa più essere recuperato.

    In Lavorare stanca (1936) Pavese ritrae se stesso delineando temi e figure che svilupperà successivamente nella produzione narrativa. Il motivo conduttore della raccolta è il desiderio autobiografico di un ritorno al mondo rurale che simboleggia l’innocenza dell’infanzia.

    Il disimpegno politico è uno dei temi presenti nella produzione pavesiana. Pavese non partecipò attivamente alla Resistenza: questo gli provocò molti sensi di colpa, trasposti poi nei romanzi. Si iscrisse al Partito Comunista per antifascismo, ma non perché aderisse pienamente all’ideologia marxista, come accadde ad altri intellettuali come Calvino e Vittorini. Il protagonista de La casa in collina , alter ego di Pavese, non è in grado di aderire alle motivazioni che spingono gli altri alla guerra civile tra fascisti e partigiani: nessuna ideologia può giustificare la violenza sull’uomo. La collina rappresenta un modo di vivere, simbolo della contemplazione e della riflessione di fronte all’incapacità di agire. In alcune osservazioni del protagonista Corrado sembra potersi intravedere il rimpianto di Pavese per non essersi schierato al momento giusto accanto agli amici.

    Forte è anche il contrasto tra città e campagna. La città è il luogo della razionalità, della maturità, della modernità, mentre la campagna è il luogo dell’infanzia e dell’irrazionalità. Inizialmente Paesi tuoi viene erroneamente letto dalla critica come una sorta di esempio di naturalismo, ma non è affatto tale: l’ambiente campestre in cui si consuma l’omicidio di Gisella da parte del fratello che con lei aveva un rapporto incestuoso è rappresentato come un sacrificio di fecondazione della terra. Non è un caso che Pavese diriga insieme a Ernesto De Martino, grande antropologo e studioso di storia delle religioni, la «Collana Viola», dedicata a questi temi, presso l’editore Einaudi di Torino.

    Intorno al 1942 Pavese attua la svolta decisiva verso il mito della Terra: la campagna diventa il simbolo di un’esistenza originaria e primordiale. Pavese manifesta interesse per i miti dei popoli e della storia: in La luna e i falò il ritorno del protagonista al paese si configura come un tentativo di ritrovare le proprie radici. Ma il ritorno al passato è impossibile, giacché la realtà non corrisponde all’immagine conservata nella memoria.

    La ricerca delle proprie radici ha sempre il carattere dell’impellenza e della necessità perché coincide con la ricerca di se stessi e della propria esistenza. Pavese si sente dovunque un espatriato: trovare le proprie radici significa tornare, pur se solo con la memoria, al luogo di origine, al luogo rurale dell’infanzia, semplice, incontaminato e protettivo. La disillusione è inevitabile: il ritorno al passato è impossibile perché la realtà non corrisponde mai all’immagine mitica conservata nel cuore.

    La scelta del disimpegno politico è uno dei temi presenti nell’opera di Pavese: è una scelta sofferta perché imposta dall’indole contraria alla volontà e alle scelte della ragione. Come esemplificato dal protagonista de La casa in collina , l’incapacità di far corrispondere concrete prese di posizione alle motivazioni che dovrebbero portare all’impegno e alla lotta genera in chi non riesce ad agire un senso di frustrazione e un costante rimpianto.

    La campagna collinosa delle Langhe rappresenta per Pavese un modo di vivere: è il luogo della contemplazione e della riflessione, caro a chi si riconosce incapace di agire. Se la città corrisponde alla maturità, alla razionalità e alla modernità, la campagna rimanda all’infanzia e all’irrazionalità. La terra diventa simbolo della vita in sé, di un’esistenza originaria e primordiale, mitica perché, come il mito, fuori dal tempo.

    Una grande novità di Lavorare stanca consiste nell’aver cancellato l’ io del poeta per piegarlo alla terza persona. Questa figura umana viene «riempita» da Pavese col proprio pensiero, piegato anch’esso in terza persona, con tecniche basate sull’esempio dei romanzieri contemporanei come Joyce: discorsi diretti, indiretti, monologhi interiori... «Io», convertito in «egli», diventa un personaggio che non può reggere altra situazione che il racconto: nasce così la poesia-racconto.

    È l’immagine del mito di Ulisse ad aprire e chiudere l’opera di Pavese: mito del nostos , del ritorno a casa. Esso si apre con I mari del sud , poesia che apre Lavorare stanca , storia di un uomo che dopo aver fatto fortuna in America torna nelle Langhe, e si chiude con La luna e i falò , in cui compare lo stesso mito, in un cerchio che però non si chiude: Anguilla non riuscirà a trovare una sua dimensione nella sua infanzia. Il tentativo di Pavese di ritrovare se stesso attraverso il mito fallisce.

    Elena D’Onghia

    LETTURE CONSIGLIATE

    - Armanda Guiducci, Invito alla lettura di Pavese , Milano, Mursia, 1972

    - Roberto Gigliucci (cura), Cesare Pavese , «Grandangolo Letteratura» 33, Milano, RCS, 2018

    - https://www.hyperpavese.com/ è il sito del Progetto Hyperpavese, che intende creare un portale di approfondimento e ricerca sulla figura e sull’opera dello scrittore. È coordinato da Mariarosa Masoero (Università di Torino) per conto del Centro Studi «Guido Gozzano - Cesare Pavese» e del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Torino. Si tratta di un portale completo, con una ricchissima bibliografia ragionata della critica che copre gli anni 1930-2016 e con copioso altro materiale.

    La luna e i falò

    for C.

    Ripeness is all

    I.

    C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so, non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

    Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio, la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella - due stanze e una stalla -, la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando mor ì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.

    Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.

    L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima - e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri -, era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al

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