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Tutte le storie tristi sono false
Tutte le storie tristi sono false
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E-book357 pagine6 ore

Tutte le storie tristi sono false

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Info su questo ebook

Un capolavoro moderno.” – The New York Times Book Review

Fluente, frizzante e originale.” – The Wall Street Journal

Un’epopea moderna.” – Kirkus

Questo libro è un tesoro raro.” – Publishers Weekly

Una storia che vola.” – The Bulletin

In una scuola media dell’Oklahoma, un ragazzino di nome Khosrou, in piedi di fronte alla classe, sta cercando di raccontare una storia. La sua storia. Ma nessuno crede a una parola di quello che dice. Per i compagni lui è soltanto un tipo bizzarro che racconta un sacco di assurdità. Lo prendono in giro per il colore dei suoi capelli, i vestiti di seconda mano e il cestino del pranzo dall’odore strano... Eppure le storie di Khosrou (che ora tutti chiamano Daniel), attraversano gli anni, a volte addirittura i secoli, e sono bellissime ma anche terribili. Raccontano di Isfahan, la città dai ponti coperti, della sua vecchia casa con una voliera di vetro tra le stanze, della notte in cui è dovuto fuggire dall’Iran con sua madre mentre la polizia li inseguiva, fino ad arrivare in Italia. Ma raccontano anche lo splendore di un tappeto di rubini e perle nell’antica Persia, la bellezza del fiume Aras e dei campi di zafferano che sembrano sanguinare nella luce del tramonto.
Come Shahrazād in un’aula scolastica ostile, Khosrou tesse una storia per salvare la propria memoria, per rivendicare la verità. Ed è una storia vera.
La storia di Daniel.

Tutte le storie tristi sono false è un libro straordinariamente poetico e commovente, che parla del potere delle storie, delle parole che costruiscono mondi, dei racconti capaci di legare le anime e di portarle a condividere la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita2 set 2021
ISBN9788830530539
Tutte le storie tristi sono false

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    Anteprima del libro

    Tutte le storie tristi sono false - Daniel Nayeri

    Tutti i persiani sono bugiardi e mentire è peccato.

    È ciò che pensano i ragazzini nella classe della signora Miller, però io sono l’unico persiano che abbiano mai conosciuto, quindi non so da dove gli venga quest’idea.

    Mia mamma dice che è vero, ma solo perché tutti hanno commesso dei peccati e hanno bisogno che Dio li salvi. Mio papà dice di no. I persiani non sono bugiardi. Sono poeti, il che è anche peggio.

    I poeti non sanno nemmeno che stanno mentendo. Cercano solo di ricordare i loro sogni. Cercano di ricordare seimila anni di storia e le versioni di tutte le storie mai raccontate finora.

    Forse in una versione della storia io non sono il piccolo profugo in fondo alla classe della signora Miller. Sono un principe sotto mentite spoglie.

    Se riveli la mia identità, dirò quello che si dice nelle Mille e una notte. Lasciami andare e ti racconterò una storia che ha dell’incredibile. È così che cominciano tutte.

    Con una promessa. Se mi ascolterai, ti racconterò una storia. Possiamo conoscere gli altri e dagli altri farci conoscere, così poi non saremo più nemici.

    Non me lo sto inventando. È una regola che seguono persino i geni.

    Nelle Mille e una notte, Shahrazād – colei che ricorda i sogni di tutto il mondo – raccontava ogni notte delle storie al sultano, affinché lui le risparmiasse la vita.

    Ma qui ci sono solo io, che conto i miei ricordi.

    E tu, lettore, chiunque tu sia. Tu sei il sultano.

    Non sono un leccapiedi, comunque. Il sultano era malvagio e massacrò migliaia di vite nel sangue prima di arrivare a Shahrazād.

    È una responsabilità essere sultano.

    Hai tutta la mia vita nelle tue mani.

    E ti avverto solo che, se voglio essere onesto, mi tocca iniziare la storia con il mio Baba Haji, anche se il sangue potrebbe turbarti.

    Ma non preoccupatevi, caro lettore e cara signora Miller.

    Di tutte le storie fantastiche che potrei raccontarvi, nessuna supera in meraviglia e stile quella che sto per dirti ora.

    Contare i ricordi.

    Baba Haji uccide il toro.

    Il mio primissimo ricordo è il sangue che sgorga dalla gola di un toro terrorizzato, e mio nonno con le mani rosse protese verso la mia faccia. Avrò avuto tre anni.

    Forse ho dei ricordi che risalgono anche a prima, non lo so.

    Se è così, potrebbero essere lampi di piastrelle decorate, o qualcosa del genere.

    Posso inventarmelo, se vuoi.

    Ma in realtà era il sangue. E il toro che muggiva disperatamente. E quel gorgoglio.

    La gente chiede: «Davvero? Ma davvero era sangue?».

    Lo chiede perché non mi crede.

    Non ci crede perché sono un povero piccolo profugo che puzza di sottaceti e aglio e ha i pidocchi, e probabilmente m’invento delle storie per darmi delle arie.

    Non so che ricordi abbiano gli adulti americani, ma non possono essere belli come i miei.

    Perciò ridono e non mi toccano. Ma strabuzzano gli occhi. «Okay» dicono.

    «È così» dico io. «È uno dei due ricordi che ho del mio Baba Haji.» Lo giuro, non mi confondo su questo. Il mio cuore lo tiene stretto a sé come in un pugno.

    Come afferrare il più forte possibile un cuscinetto a sfere. Le dita ti si conficcano nel palmo e tu non sai più nemmeno se sia ancora lì. Le nocche sono bianche, hai paura che sia sgusciato fuori e che non te ne sia nemmeno accorto. Non stringi nulla, finché le unghie ti penetrano nel palmo della mano e cominci a sanguinare.

    Il ricordo è breve, a stento qualche fotogramma. Il suo volto è una sola immagine, fissa.

    Tutto ha inizio in una grande automobile d’oro. Non è oro vero, è solo dipinta di quel colore. Era così grande che i sedili erano due divani su ruote.

    L’automobile viaggia su una strada sterrata attraverso un deserto dell’Iran centrale. Per la precisione, sulla strada diretta ad Ardestan.

    A te non dirà niente, probabilmente, sempre che t’impegni a pronunciarlo. Avrei potuto dire: «Sulla strada diretta a salta-questa-parola-scemo-stan» e sarebbe stata la stessa cosa. Era un deserto in un paese lontano.

    Vuoi una mappa?

    Eccotela.

    Mappa con scritto here e una freccia che indica un punto nero

    Quando pronuncio queste parole, la gente pensa che potrebbe benissimo essere Marte. O la Terra di Mezzo. Potrei dire che viaggiavamo su una carrozza trainata dai cammelli e mi crederebbero.

    Però era una Chevrolet, e a quei tempi noi eravamo normali.

    Io portavo un paio di scarpe da ginnastica col velcro e avevo un papà.

    Lui aveva un paio di folti baffi rossi e faceva delle espressioni buffe per divertirci. Si gonfiava le guance e aggrottava le sopracciglia come uno scoiattolo incredibilmente serio.

    Guidava. Mia madre era seduta al suo fianco e ci allungava fette di torta al pistacchio e al cardamomo. La strada andava su e giù come un oceano.

    Su entrambi i lati c’era tanta sabbia che avrebbe potuto inghiottire metà dell’auto prima che riuscissimo a scendere. In certi posti il vento ce la soffiava addosso e non vedevamo più la strada.

    Mio padre guidava così veloce che era come essere in una barca che saliva su un’onda e poi si schiantava dall’altra parte. Mia sorella e io strillavamo quando i nostri sederi si sollevavano dal sedile. Mia madre diceva: «Akh, Masoud, rallenta o ammazzerai i tuoi figli».

    Però era una strada che mio papà conosceva a memoria, perché era nato ad Ardestan e stava tornando a casa. Guidava sognando lo stufato e lo yogurt di sua mamma. Suo papà era il mio Baba Haji.

    Questo viaggio l’abbiamo fatto ogni fine settimana per un po’ di tempo, perciò questa parte non è il mio primo ricordo. Ti sto solo raccontando come si svolgeva ogni volta.

    La traversata in macchina sarà avvenuta anche prima che io vedessi Baba Haji macellare il toro, ma non ne sono sicuro. La torta poteva anche essere di rose e miele. Mia mamma potrebbe aver detto: «Akh, Masoud, stavolta basta». Forse sua mamma aveva cucinato kebab e yogurt.

    Ma queste differenze non fanno differenza.

    L’immagine successiva è lui che parcheggia all’esterno delle mura di pietra del cortile di mio nonno. Vedo me stesso, perché questa parte non è un mio ricordo. Me l’ha descritta mia mamma. Quindi immaginala dall’alto della sua testa, che si abbassa a guardarmi. Ho tre anni.

    Indossavo dei pantaloni di velluto a coste. Avevo con me la mia pecorella di peluche, Mr. Sheep Sheep, in una mano e un bastone nell’altra. Volevo fare il pastore. Avevo due guance paffutelle e la gente mi faceva continuamente dei ganascini, così ero sempre imbronciato. Ero uno scoiattolo serio.

    «Akh, che carino. Il bambino più carino che si sia mai visto» diceva mia mamma.

    Adesso vado a scuola in Oklahoma e non c’è più nessuno che lo pensa.

    Mi dicono che era il tramonto quando arrivammo nel villaggio di Ardestan. Il sole splendeva rosso dietro una montagna polverosa. La casa era circondata da un muro alto tre metri. Aveva seicento anni ed era costruita in pietra.

    Il giardino era all’interno del muro. Era rivestito con tessere di mosaico. Gli alberi erano mandorli, peschi e fichi. Al centro c’era una fontana intarsiata che ti rinfrescava con il suo sussurro. Il pozzo era in un angolo.

    Ma quella prima volta non vedemmo niente di tutto ciò. Lo so perché è un luogo della mia mente. Se adesso volessi, potrei tornarci. Quando gli insegnanti ci hanno portato alla sod house in Oklahoma, quella casa tradizionale ricoperta di zolle erbose, e ci hanno detto che aveva novantotto anni, io ho chiesto perché l’avessero trasformata in museo.

    L’insegnante mi ha guardato come se fossi ritardato.

    «Perché conserviamo e apprezziamo gli oggetti storici» ha risposto.

    «Ma non ci abita nessuno?»

    «No.»

    «Allora ogni novantotto anni le persone abbandonano le loro case e le trasformano in musei?»

    A questo punto lei ha guardato da un’altra parte, perché forse altrimenti avrebbe dovuto rispondermi: «Ma cosa sei, ritardato?».

    «Su, bambini, prendete un compagno per mano e andate avanti.»

    La prima volta che andammo ad Ardestan, quella volta che ti sto raccontando, scendemmo dall’auto fuori dalle mura e udimmo il rumore di alcuni uomini che gridavano e di zoccoli che scalpitavano sulla pietra.

    Mio papà disse: «Resta qui» e corse fino all’ingresso, per vedere se era uno di quei demoni che si nascondono dietro le siepi.

    Noi non restammo lì, ovviamente. Non era il genere di padre a cui si dava retta.

    Ricordo di essermi avvicinato al cancello. Gli uomini urlavano sempre più forte. Imprecazioni. «Yalla! Yalla!»

    Girai l’angolo.

    Nel cortile, vicino al pozzo, c’era un toro.

    Quattro uomini adulti del villaggio lottavano per immobilizzarlo.

    Una bestia enorme. Il suo occhio era nero e più grande di qualsiasi biglia della mia collezione. Era un vortice di panico.

    Sudato.

    Tremante.

    Folle di paura.

    Sulla pietra c’era un coltello che uno degli uomini aveva fatto cadere.

    Il toro mi vide.

    Il suo occhio mi guardò.

    Lo ricordo, perché fu l’unica volta che qualcuno mi abbia supplicato per qualcosa. Il toro emise un suono che posso descrivere solo così: come quando apri la bocca e cerchi di buttar tutto il cibo fuori dallo stomaco.

    Uno degli uomini scivolò giù dalla groppa umida e cadde.

    Mio papà corse verso di lui per aiutarlo.

    Ma prima che li raggiungesse, mio nonno uscì di casa. Indossava un paio di sandali e aveva i pantaloni di mussola arrotolati fino alle ginocchia. Seppi che era il mio Baba Haji, anche se credo che fosse la prima volta che lo vedevo.

    Uscì da sotto il portico e si diresse verso quella baraonda. Scrollò la testa davanti al pasticcio che avevano combinato e risucchiò l’aria tra i denti con disgusto.

    Con un unico movimento si chinò, raccolse il coltello e spinse via l’uomo che si dibatteva davanti alle corna del toro. Lo sentii dire qualcosa tipo: «Dai qui, lascia fare a me».

    Poi, con una mano, afferrò il toro per le corna e lo strattonò da un lato. Non vidi più l’occhio del toro, ma solo il suo collo esposto. Con l’altra mano mio nonno conficcò il coltello nel toro, sotto l’orecchio, poi lo abbassò e gli fece fare il giro fino all’altro orecchio.

    Tutto il collo si squarciò.

    Il sangue sgorgò sul piede nudo di mio nonno.

    Le zampe del toro cedettero.

    Io udii un gorgoglio.

    Gli uomini indietreggiarono, sollevati e imbarazzati.

    L’animale crollò a terra.

    Doveva essere mia mamma quella che aveva gridato.

    Mi si offuscò la vista. Lei mi aveva coperto gli occhi e io la sentii dire: «Akh, Masoud!» come se mio papà avesse potuto farci qualcosa.

    Sotto la sua mano c’era il colore rosso.

    Subito dopo ricordo che siamo ancora fuori dalle mura, vicino alla macchina. La mamma è molto arrabbiata, il papà ride perché chissenefrega, la vita in campagna è così, no? Pensa che la reazione di lei sia esagerata.

    Lei non vuole tornare indietro finché non hanno pulito il sangue.

    Lui spiega che gli uomini erano in ritardo. Avrebbero dovuto macellare il toro ore prima. Io, l’unico nipote di mio nonno, ero arrivato. Che cos’altro si aspettava?

    A questo punto mi rendo conto che la festa era per me.

    Il toro di certo sapeva che io ero la persona giusta da supplicare.

    Avrei potuto salvarlo.

    A tre anni il mio cervello non sa nemmeno che cosa significhi.

    Quando racconto tutta la vicenda, questa parte non la rivelo a nessuno. Allora ero solo un bimbetto. In ogni caso, penserebbero che voglio la loro pietà. In America diffidano della gente infelice. Invece io non voglio pietà. Mi chiedo solo se anche loro abbiano mai provato questa sensazione, quando ti accorgi che è colpa tua se qualcosa di bello muore. E sai che non te lo meriti.

    Quando aprii gli occhi, il mio Baba Haji mi stava guardando. È l’unico ricordo che ho del suo viso. Era grinzoso, la barba bianca e rossiccia. Aveva uno zuccotto lavorato a maglia e gli occhi perennemente socchiusi per via del lavoro sotto il sole.

    Allungò le mani verso le mie guance.

    Mi sorrise.

    Le sue mani erano ancora rosse di sangue.

    Dietro di lui l’animale stava sanguinando sulla pietra. Il sangue formava una pozza e scorreva verso il canale di scolo. Un fiume rosso.

    Anche l’Oklahoma ha un fiume rosso, il Red River.

    Non è rosso.

    In alcuni punti non è nemmeno un fiume.

    Questo fu il primo ricordo di mio nonno. Il mio secondo ricordo non è vero. È uno di quelli che la testa s’inventa perché ne hai bisogno.

    Una volta, mentre ero al telefono con mio papà – io ero in Oklahoma, lui era in Iran dove era rimasto –, lui mi disse: «Il tuo Baba Haji ha una tua fotografia su una mensola. Ogni giorno piange e la bacia».

    Io lo immagino mentre lo fa.

    Non so che aspetto abbia la mensola di casa sua, così con la mente ne costruisco una di pietra grezza. Non so che mia fotografia avesse, quindi immagino sia quella della scuola elementare Will Rogers di Edmond, in Oklahoma.

    Stringe la cornice nella mano tremante.

    Piange per me. «Akh!»

    Mio papà mi dice che l’unico desiderio di Baba Haji è vedermi prima di morire.

    Dico: «D’accordo».

    È compito mio esaudirlo. Se muore prima di vedermi, lui sarà il toro. Sarà colpa mia. M’invento tutto questo ricordo di Baba Haji, me lo raffiguro accanto alla sua mensola, così da poterlo trattenere ogni giorno.

    È tutto ciò di sicuro che so di lui.

    Non voglio più parlarne.

    Di mia nonna Maman Massey – la moglie di Baba Haji – ho tre ricordi.

    Il primo è lei che mi dà da mangiare datteri dolci tuffati nello yogurt denso che ha preparato.

    Il secondo è lei seduta su una sedia di legno mentre al buio tesse un tappeto persiano su un telaio gigantesco sepolto in profondità nella cantina della loro casa.

    Il terzo è la sua voce al telefono dall’altro capo del mondo, quando capii che non l’avrei più rivista.

    Qui, in Oklahoma, agli altri bambini piace prendersela con me perché sanno che poi non lo dico a nessuno.

    Il nostro autobus è il 209. Gli insegnanti lo chiamano l’autobus dei guai perché i ragazzini sono così indisciplinati che una volta il sostituto dell’autista si è fermato a metà tragitto, ci ha urlato che eravamo dei teppisti e se n’è andato. Tutti sono rimasti seduti, poi si sono messi a gridare e si sono lanciati addosso ancora più graffette, mentre Brandon Goff mi ha immobilizzato e infilato delle palline di carta insalivate in un orecchio. Ma l’autobus 209 è noto anche come l’autobus dei bambini poveri, perché passa per le zone dei condomini di Brentwood e di Forest Oaks, che sono i quartieri brutti, con case senza cantine per quando vengono i tornado.

    Siamo rimasti fermi mezz’ora finché non è venuto il vicepreside che ci ha portati a destinazione. Ci ha fatto una ramanzina, ma io non ho sentito perché Brandon Goff non mi lasciava togliere le palline di carta.

    Dovrei presentarmi.

    Nome: Khosrou Nayeri.

    Età: 12 anni.

    Colore dei capelli: non so, neri.

    Film preferito:

    Sai una cosa? Non voglio presentarmi. Mi conoscerai grazie alla mia voce. Nella tua mente siamo seduti insieme. Mi darai i tuoi occhi. Potrei mostrarti una collina con delle macchie d’erba. O un sandwich con il burro d’arachidi. Potrei aiutarti a sentire i campanelli attorno al collo di una pecora. Dlin dlin dlin.

    Mi ospiti dentro di te. Sono il tuo invitato e probabilmente pensi a me come pensi a te stesso: un essere umano. Siamo molto vicini. Forse senti il mio cuore che batte, spaventato. Ne ho uno, proprio come te. Sono sempre spaventato.

    Se vedessi Khosrou Nayeri su un registro di classe, non ti sembrerebbe nemmeno un nome.

    Maschio o femmina.

    Elvish o Klingon.

    Non riusciresti nemmeno a pronunciarlo. Ha quel kh che è un suono schioccante, come se cercassi di buttar fuori del catarro. È solo dello sputo in bocca. Il suono prodotto da un facocero. E la r dopo la s, che devi far rotolare sulla lingua, come un gatto che fa le fusa.

    Ma io non sono una bestia.

    Sarò un buon invitato e ripagherò la tua ospitalità con dei racconti di avventure. Puoi chiamarmi Daniel, se vuoi. L’altro nome? Lascia perdere.

    Khosrou. Non ti piacerebbe.

    In realtà era il nome di un re.

    Khosrou I nacque ad Ardestan – il villaggio del mio Baba Haji – millecinquecento anni fa. Sconfisse i Romani ad Antiochia e, quando implorarono la pace, lui gliela concesse. Narra la leggenda che un inverno, stanco delle piogge fredde, ordinò ai suoi artisti di creare una nuova stagione.

    Lo scià degli scià voleva la primavera.

    E così i grandi artigiani dell’epoca crearono un tappeto gigante, lungo cinquanta metri, intessuto d’oro, seta e gemme. Il terreno era fatto d’oro, i fiumi di cristalli. I petali dei fiori erano rubini, zaffiri e ametiste. Le foglie erano smeraldi. Il tappeto primaverile di Khosrou sfidava il tempo del mondo.

    E si stendeva ai suoi piedi.

    Circa mille anni prima che l’Europa scoprisse il dentifricio, Khosrou camminava su un tappeto magico che splendeva più luminoso di un prato nel mese di maggio.

    Questo dice la leggenda.

    Khosrou. Non è un nome adatto alla tua bocca.

    Però l’eroe è sempre da meno della sua leggenda.

    Khosrou è solo un ragazzino dodicenne col sedere grosso.

    Potete chiamarlo Daniel.

    Se ci pensi, il re poteva anche stare sul suo tappeto tempestato di gioielli – caleidoscopico fulgore della grandezza umana –, ma se avesse messo la testa fuori dalla finestra, avrebbe continuato a piovere.

    Potresti pensare: Ma che razza di dodicenne parla così?

    E io direi: «Un dodicenne che parla tre lingue».

    Per tutta la vita le persone mi hanno detto che parlo in modo bizzarro. In Iran il mio farsi era un farsi bambinesco (perché, in sostanza, ero un bambino), così m’inventavo una lingua tutta mia.

    Mia mamma diceva che era brillante, perciò mia sorella e i miei cugini tentarono di dimostrare che fingevo. Mi chiedevano le parole che usavo per un sacco di cose come scala e pollo e se le segnavano per iscritto. Poi, due giorni dopo, me le chiedevano ancora e, indovina un po’?, io ripetevo le stesse parole, perché la mia nuova lingua non era uno stupido balbettio infantile.

    Forse anche perché non è così difficile ricordare cinquanta parole che qualcuno ti ha chiesto due giorni prima.

    Le uniche parole che ricordo ancora di quella lingua sono finigonzon (bella ragazza) e finigonz (bel ragazzo).

    Non è più una delle mie lingue.

    In Italia parlavo un italiano abborracciato perché vivevamo in un campo profughi con i Rom e i curdi. La gente non ci voleva, quindi se dicevi: «Buonasera», loro rispondevano: «Good evening», perché non volevano che restassimo. Non volevano nemmeno che imparassimo l’italiano.

    In Oklahoma parlavo come un bambino che ha imparato l’inglese da un libro. Quando pronunciavo la parola toilette dicendo tualèt, tutti pensavano che fossi ritardato o qualcosa del genere. Quando usavo parole antiquate come salotto invece di soggiorno, pensavano che mi dessi delle arie di superiorità.

    Sono passati tre anni e adesso il mio inglese è da dieci e lode.

    È facile parlare come loro, quelli dell’Oklahoma. Basta sciogliere un po’ la mascella e lasciare che i denti non si tocchino mai. Perlopiù è una parlata lenta e comoda, come se ti immaginassi padrone di una casa con una veranda in cui startene spaparanzato.

    Oppure, se guardi i neri alla televisione, anche parlare come loro non è difficile. Se sei con loro, basta far ciondolare la testa e buttarsi: «Wut up», che c’è, senza punti di domanda. (In America i nazisti della grammatica non piacciono a nessuno. Nemmeno ai neonazisti che vivono a Owasso, Oklahoma.)

    Poi sii fico.

    E non parlare troppo, così loro se ne stanno rilassati.

    Se capita, puoi raccontargli una barzelletta sul tempo o su sua mamma. Io me ne scrivevo un sacco sul quaderno quando le sentivo durante l’intervallo, così potevo sempre ripescarle per fare amicizia.

    In Oklahoma una regola è che se un adulto ti parla, tu gli parli come uno di loro. Se una finigonzon ti parla, tu stai rilassato.

    Così adesso parlo bene. E ho memorizzato una caterva di parole.

    Però se vuoi la versione infantile della storia, eccola qui:

    Ehi, ciao a tutti! Sono solo un ragazzino tonto a cui piace il gelato. Sono nato in Iran – faccina felice! In una famiglia così benestante che nei libri di storia il nonno di mio nonno veniva chiamato re. C’erano assassini e intrighi e ruote panoramiche nel deserto, e una casa piena di cigni, un fiume color zaffiro e un baule pieno di dobloni d’oro… ma ci arriveremo presto.

    Poi mia mamma è stata beccata mentre aiutava la chiesa clandestina e le è caduta una fatwa sulla testa, cioè il governo la voleva morta – faccina che dice «Oh, no»!

    Siamo dovuti scappare di nascosto dal paese, ma mio papà è rimasto indietro – faccina delusa, magari non-troppo-sorpresa.

    Siamo stati ospiti per tre ore del principe di Abu Dhabi, poi siamo rimasti senza casa. È stato allora che mi sono spaccato la testa e me l’hanno ricucita. Poi siamo andati in un campo profughi in Italia, dove sono diventato un gran ladro, finché non abbiamo ottenuto asilo in Oklahoma, dove cerchiamo di comportarci in maniera normale – faccina aggrottata come se tu non ci credessi.

    Penso di aver saltato la parte in cui mia nonna (la mamma di mia mamma, stavolta) cercò di uccidere suo marito, non ci riuscì e fu mandata in esilio. E quasi tutto il sangue. E la polizia segreta. E la tortura.

    Faccina che sospira.

    Senti.

    La versione breve di questa storia non serve a niente. Mettiamoci d’accordo sul fatto che avremo una conversazione complicata. Se mi presti la tua attenzione – so che è preziosa –, prometto che non la sprecherò con il racconto strappalacrime delle disgrazie di un immigrato.

    Non voglio la tua pietà.

    Se solo sapremo cogliere la sfida della comunicazione, qui nel salotto della tua mente, forse riusciremo anche a superare il tempo, lo spazio e ogni banalità quotidiana per vedere nel profondo dei nostri cuori, e allora concorderai forse che io sono come te.

    Sono brutto e parlo in modo strambo. Sono povero. I miei vestiti sono consunti e il mio cibo ha un cattivo odore. Mi metto le dita nel naso. Non conosco le barzellette e le storie che piacciono a te, o le regole dei giochi. Non so che cosa vogliano gli altri da me.

    Però, come te, sono stato creato da un Dio meticoloso che amava quello che vedeva.

    Come te, voglio un amico.

    Mio papà chiama una volta al mese, la domenica pomeriggio.

    «Pronto?»

    «Sì, pronto?»

    «Pronto, Khosrou?»

    «Sì, Baba, sono io.»

    «Pronto?»

    «Sì, che cosa c’è?»

    «Tu, figlio d’un cane, perché non mi rispondi?»

    «Ti ho risposto.»

    «Non rivolgerti a tuo padre in quel modo.»

    Parla attraverso la poesia dei grandi autori persiani. Hafez, Rumi, Ferdowsi. A Isfahan sono le due di notte. Me lo immagino seduto nella casa buia dove un tempo vivevamo tutti insieme. Le colombe dormono nella voliera.

    Mia sorella mi dice che probabilmente è ubriaco o sotto l’effetto di qualche droga. Io credo che sia in trance per via di un qualche verso millenario. Io sono in piedi nella cucina di casa nostra a Edmond, Oklahoma, e guardo il cocker spaniel che dorme al sole accanto alla porta sul retro.

    Nel mio orecchio la voce profonda del mio Baba mormora delle strofe. «"Uncheh shiranrah konad rubbeh mesaj, ezdevaj ast ezdevaj ast ezdevaj." Capisci?» dice.

    È in antico farsi, e riesco solo a intuire qualcosa.

    «No» dico.

    «Stai già dimenticando. Stai dimenticando la tua famiglia. E la tua storia. Questi sono i poeti che dovresti leggere a scuola.»

    «Dimmi che cosa significa.»

    «È una battuta intelligente. Il tuo Baba Haji l’ha ricavata da una frase di uso comune. Quella che dice: La cosa che trasforma un leone in una piccola volpe è il bisogno. Lo capisci?»

    «No.»

    «Akh. Allora, i leoni sono delle creature forti, dei campioni, giusto?»

    «Sì.»

    «E la volpe è codarda, giusto?»

    «Davvero?»

    «Sì, nella letteratura persiana la volpe è codarda.»

    «In America è un animale subdolo.»

    «La letteratura persiana è dieci volte più antica dell’America!»

    «Okay, okay. La volpe è codarda, ho capito.»

    «Quindi l’indovinello chiede: che cosa trasforma il campione in un codardo?»

    «Il bisogno?»

    «Sì. La debolezza di avere bisogno di qualcosa. Ora il leone deve supplicare e non può più essere re, se ha bisogno di qualcosa.»

    «D’accordo, ma perché sarebbe una battuta?»

    «Perché il tuo Baba Haji ha cambiato la parola bisogno con matrimonio. Ora dice: Che cosa trasforma un grande leone in una volpe bisognosa? Il matrimonio

    Mi fermo.

    «Perché ehtiaj fa rima con ezdevaj, quindi la sostituzione è ingegnosa.»

    «D’accordo.»

    Se mai c’era qualcosa d’ingegnoso in quella battuta, bisognava strizzarlo fuori come l’acqua da uno strofinaccio per i piatti.

    «Io ero un leone» dice mio padre.

    Muore dalla voglia che io capisca. Vuole che io conosca i poeti persiani come conosco i rapper americani. Vorrei tanto stabilire questo legame con lui, ma non ce la faccio.

    «Ero un leone» dice, «poi mi sono sposato e ora sono seduto davanti al telefono e imploro di parlare con i miei figli. Capisci?»

    La sua voce si sgretola.

    Immagino il filo del telefono partire dalla mia mano entrare nel muro e nel terreno sotto il cortile salire lungo il palo telefonico attraversare le praterie pianeggianti fino al Golfo del Messico immergersi nelle acque sotto l’Atlantico superare Gibilterra attraversare il Mediterraneo passare sotto la Turchia entrare in Iran scavalcare i Monti Zagros e arrivare a Isfahan, nella nostra strada, nella nostra casa, fino all’orecchio del mio Baba sulla sedia dove è seduto a piangere. Lo sento versare lacrime nel ricevitore.

    Quando ha finito dice: «Vai bene a scuola?».

    «Tutti dieci.»

    «Bene. Bene, sei il mio campione dei campioni.»

    «Grazie» dico.

    «Okay, fa’ il bravo.»

    «Okay.»

    «Manda delle fotografie.»

    «Okay.»

    E ci salutiamo.

    Dicono che la famiglia di mio padre ricevette le sue terre dal re dell’India come ringraziamento per avere salvato la vita della

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