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L Ottocento - Filosofia (64): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 65
L Ottocento - Filosofia (64): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 65
L Ottocento - Filosofia (64): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 65
E-book783 pagine8 ore

L Ottocento - Filosofia (64): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 65

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Info su questo ebook

In questo secolo di trionfo della tecnologia, che ha popolato la Terra di macchine a vapore, edifici di metallo e di cristallo, l’ha illuminata coi prodigi del gas e dell’elettricità e ne ha solcato mari e cieli con navi corazzate e aerostati, in questo secolo in cui le scienze naturali si sono emancipate dal discorso filosofico di cui erano oggetto, la filosofia cerca autonomi spazi d’azione e nasce la figura curiosa, ignota ai secoli precedenti, del “filosofo professionista”, professore universitario della propria disciplina. È così che la filosofia per alcune correnti si trasforma in riflessione sul metodo scientifico o sui fondamenti delle matematiche, ma in altri casi si pone come sapere autonomo e superiore, unica chiave per la comprensione del reale, capace di irreggimentare, limitare e talora deprimere le conoscenze settoriali. Sulla base della proposta fondamentale che Kant lascia in eredità al nuovo secolo, la filosofia si pone ora il problema di come il Soggetto crei il mondo: si tratta di capire non come sia il mondo, ma quali siano le operazioni fondamentali attraverso le quali il Soggetto lo costituisce. Benché la filosofia del XIX secolo inizi sotto il segno ineliminabile di Kant, cerca però di andare oltre: il mondo diventa il grande teatro della Storia umana che sviluppa e migliora le nostre disposizioni a conoscere e produce imperi, rivoluzioni, trasformazioni dei rapporti etici e sociali, e le stesse rappresentazioni che l’umanità via via dà del mondo. In questo ebook si dispiegano le principali correnti filosofiche che forgiano il pensiero dell’Ottocento, dai grandi filosofi dell’idealismo, ai celebratori della ragion positiva, dal neotomismo al marxismo, fino all’elaborazione del concetto di arte come modello di vita, che avrà ampie implicazioni anche nel mondo artistico e letterario.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2014
ISBN9788897514947
L Ottocento - Filosofia (64): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 65

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    Anteprima del libro

    L Ottocento - Filosofia (64) - Umberto Eco

    copertina

    L'Ottocento - Filosofia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    L’Ottocento

    Filosofia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla filosofia dell’Ottocento

    Umberto Eco

    Una filosofia del XIX secolo?

    Secondo gli schemi più diffusi la filosofia dell’Ottocento (ma c’è una filosofia del XIX secolo?) sembra rappresentare una delle smagliature più curiose tra le tendenze di un’epoca (in politica, scienza, tecnologia, economia) e il pensiero dei filosofi. Più che in ogni altra epoca precedente, l’uomo sembra sottomettere la natura trasformando questo secolo in un trionfo della tecnologia, popolando la Terra di macchine a vapore, edifici di metallo e di cristallo, illuminandola coi prodigi del gas e dell’elettricità, solcando il mare con navi corazzate e il cielo con aerostati, scoprendo nuove leggi del mondo fisico, stabilizzando le tassonomie del mondo animale, colonizzando tutti i continenti, debellando infermità millenarie con i prodigi della chimica, signoreggiando dunque il mondo della materia e arricchendo la natura di infiniti nuovi oggetti creati dalla tecnologia.

    Invece le grandi costruzioni filosofiche paiono celebrare lo Spirito, il Sentimento, l’Arte, la Storia, elaborando un’idea di sapere che non ha nulla a che fare con la conoscenza quale la praticano gli uomini di scienza.

    Il filosofo professionista

    Se le cose stessero davvero così, il fenomeno sarebbe sociologicamente spiegabile. È infatti in questo secolo che nasce una figura curiosa, ignota ai secoli precedenti, e cioè quella del filosofo professionista, professore universitario della propria disciplina. Aristotele, il filosofo per definizione, si occupava del sapere in generale, dal moto degli animali alla natura dei cieli. Nei secoli medievali c’erano stati i professori d’università, ed erano teologi, maestri di logica o di retorica, ma nessuno di essi faceva soltanto filosofia. Nel Rinascimento si filosofava riscoprendo testi antichi, proponendo nuovi strumenti concettuali per indagare il mondo naturale, discutendo di medicina, di astronomia, persino di scienze fisiche e di meccanica: Bacon, Galileo, Cartesio, Pascal o Locke non avevano molto in comune con un professore di filosofia ottocentesco.

    Nel Settecento essere philosophe era una scelta intellettuale e morale, non una professione. Nel XIX secolo sembra invece che quelle scienze naturali che un tempo erano oggetto di discorso filosofico si siano definitivamente emancipate e la filosofia cerchi uno spazio autonomo. La filosofia potrebbe, e per alcune correnti lo fa, trasformarsi in riflessione sul metodo scientifico o sui fondamenti delle matematiche; ma in altri casi si pone come sapere autonomo e superiore, unica chiave per la comprensione del reale, capace di irreggimentare, limitare e talora deprimere le conoscenze settoriali.

    Kant lascia al nuovo secolo una proposta fondamentale: se abbiamo esperienza del mondo è perché nel Soggetto esistono strutture del conoscere che del mondo non sono lo specchio passivo bensì l’attività legislatrice. La filosofia si pone ora il problema di come questo Soggetto crei il mondo: si tratta di capire non come sia il mondo ma quali siano le operazioni fondamentali attraverso le quali il Soggetto lo costituisce, e questo può dircelo solo la riflessione filosofica. Il resto, come si dirà ancora al tramonto del secolo e all’alba del successivo, la capacità di scoprire il siero antirabbico, di far muovere una macchina, di illuminare elettricamente una città, dipende da pseudoconcetti che con la filosofia, nel suo senso più alto, non hanno nulla a che fare. Se un tempo la filosofia era ancella della teologia, ora ogni forma di sapere, umano e divino, dovrebbe diventare ancella della filosofia e demandarle il compito non solo di spiegare come si conosce quello che ci appare, bensì come tutto quello che ci appare sia effetto dell’attività legislativa del Soggetto.

    .

    Lo Spirito del Tempo

    C’è da stupirsi se, presa da tale delirio di onnipotenza, la filosofia dei professori paia separarsi dalle altre forme di conoscenza che il secolo pratica in modo più o meno empirico, e nel cercare di porsi al di sopra di esse ne rimanga stratosfericamente separata? Eppure non si può capire il pensiero del XIX secolo nelle sue svariate sfaccettature se non si vede come uno Spirito del Tempo (idea molto cara ai filosofi idealisti) avvolga e unifichi in qualche modo questi universi di sapere apparentemente separati.

    Georg Wilhelm Friedrich Hegel

    La poesia drammatica

    Estetica, Parte III

    Il materiale propriamente sensibile della poesia drammatica, come abbiamo visto, non è solo la voce umana e la parola pronunziata, bensì tutto l’uomo che non solo esterna sentimenti, rappresentazioni e pensieri, ma, coinvolto in una azione concreta, opera secondo la sua esistenza totale sulle rappresentazioni, i propositi, l’agire e il comportamento di altri ed esperimenta analoghe reazioni oppure di fronte ad esse riafferma se stesso.

    Di contro a questa determinazione, che è fondata sull’essenza della poesia drammatica stessa, rientra oggigiorno nelle nostre opinioni correnti, particolarmente fra noi Tedeschi, il considerare l’organizzazione di un dramma al fine dell’esecuzione come un’aggiunta inessenziale, sebbene propriamente tutti gli autori drammatici, anche se considerano l’esecuzione con indifferenza o con disprezzo, coltivano il desiderio e la speranza di portare sulle scene la loro opera. Così la maggior parte dei nostri drammi moderni non riescono mai a vedere il palcoscenico, appunto per il semplicissimo motivo che non sono drammatici.

    (...) secondo il mio parere, non dovrebbe essere stampato nessun dramma, ma senz’altro, come presso gli antichi, ogni dramma dovrebbe essere incluso manoscritto nel repertorio teatrale ed avere solo una circolazione limitatissima. Noi allora non vedremmo, per lo meno, apparire tanti drammi che hanno, sì, una lingua colta, bei sentimenti, eccellenti riflessioni, profondi pensieri, ma che sono difettosi proprio in ciò che rende il dramma tale cioè nell’azione con la sua mossa vitalità.

    G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Torino, Einaudi, 1963

    Il secolo XIX è un periodo di conquiste e di progresso che, a differenza di altri secoli, è conscio e orgoglioso di essere tale, e avverte il sentimento che all’azione umana non si possono porre più confini. Casomai enfatizza la nozione di Progresso, ne fa una religione, un dogma – e solo nelle meditazioni di alcuni spiriti solitari si rende conto che questo progresso presenta delle falle, dei sussulti, dei rovesciamenti.

    Crede nell’Uomo conquistatore che trasforma la natura. A un certo punto crede che questo processo di trasformazione sia ineluttabile, che non dipenda neppure dalla volontà individuale ma da una cieca e vittoriosa disposizione delle specie a garantire la vittoria del più forte. È il secolo in cui l’uomo si scopre vittorioso non malgrado discenda dalla scimmia, ma proprio perché ne costituisce il superamento. Pensa che nuovi fantasmi si aggirino per l’Europa e nuove categorie sociali, sottratte a una servitù millenaria, possano porre sui piedi quello che prima marciava sulla testa, trasformando i rapporti di produzione e l’assetto sociale.

    Spirito, Cultura e Utopia

    Ora andiamo a rileggere, contro queste speculazioni che sono state dette materialistiche, le varie filosofie dello Spirito, dell’Idea, del Soggetto che pare porsi come creatore della stessa realtà naturale. Nessuno dei filosofi detti idealisti (tranne alcune manifestazioni di idealismo magico) ha mai pensato che noi, in quanto individui, creiamo il mondo o che il mondo sia pura apparenza. Essi sapevano e dicevano che ci sono le cose e le leggi di natura: e quindi cerchiamo di tradurre espressioni che ci suonano come incomprensibili, come a esempio Spirito, in termini più comprensibili parlando di Cultura. Tutta la filosofia idealistica è una celebrazione della Cultura, come patrimonio collettivo che va al di là delle decisioni e dei capricci del soggetto individuale, e che crea, insieme alle rappresentazioni del mondo, il modo incui lo trasformiamo. Non c’è Natura che non sia già foggiata dalla Cultura. Questa entità sovraindividuale può assumere nomi diversi, ma si manifesta come energia sociale, propria della specie, che si sviluppa e, definendo il mondo in modo sempre nuovo, crea la Storia.

    La filosofia del XIX secolo inizia sotto il segno ineliminabile di Kant, ma cerca di andare oltre: il mondo è qualcosa di conosciuto non attraverso un soggetto individuale che compartecipa con tutti gli altri soggetti la stessa struttura conoscitiva, ma è il grande teatro della Storia umana che sviluppa, migliora (certamente, e sempre) le nostre disposizioni a conoscere e produce imperi, rivoluzioni, trasformazioni dei rapporti etici e sociali, e le stesse rappresentazioni che l’umanità via via dà del mondo.

    Vediamo allora che sotto questo segno possono stare sia i grandi filosofi dell’idealismo, sia i celebratori della ragion positiva. Semplicemente alcuni dei primi pensano che il mondo in cui la cultura umana si sviluppa attraverso la storia sia dominato da leggi immanenti di una Ragione sovraindividuale che in una lotta continua si manifesta nel corso degli eventi umani, in un processo che non ha mai fine ma che in qualche modo non conosce regressioni perché tutto quello che è reale (che avviene ed è avvenuto) è razionale. E di qui una esplorazione della storia remota, un ritorno all’infanzia mitica dell’umanità (che promuove una conoscenza critica del nostro passato) per capire il presente e pianificare il futuro.

    Questa Ragione immanente nella Storia può assumere nel corso del secolo varie figure, lo Stato, il Popolo, la Nazione, e in questo senso molta della filosofia del secolo, che sembra separarsi dalla scienza, non è separata dalla politica e dai grandi problemi dell’etica individuale e collettiva, del diritto, dell’organizzazione sociale. Per questo si manifesta talora sotto la forma dell’Utopia. Dal Rinascimento in avanti si erano profilate delle utopie, ma erano rappresentazioni di una perfezione irraggiungibile, di un modello puramente mentale; nell’Ottocento invece l’Utopia si fa progetto sociale, il pensiero che proietta un mondo migliore vuole trasformare la storia presente. L’utopista che prefigura una società di eguali (capaci di superare la barbarie dello stato di natura) è mosso dalla stessa energia progressista che anima lo scienziato a prefigurare una società di uomini capaci di sostenere le offese della natura tenendola sotto controllo.

    Arte come modello della vita

    C’è un altro aspetto di molte filosofie del secolo apparentemente separato da quello di cui stiamo parlando e che tuttavia intrattiene con esso molti e complessi rapporti. È l’idea che sia lo sviluppo della natura sia quello dello spirito procedano attraverso assestamenti organici. Per questo il filosofo deve creare un sistema, per rendere ragione del modo in cui la storia umana, al di là della volontà dei singoli, si realizza sempre in Organismi o Forme che hanno la vitalità e la legalità di ogni cosa vivente. E allora si capisce perché questo sia anche il secolo dell’estetica: non che negli altri secoli non si fosse discusso dell’arte, elaborando precettistiche e spiegazioni del perché qualcosa ci appaia come bello, armonioso o sublime; ma in questo secolo l’arte non rimane relegata tra le varie attività umane, talora ne diviene modello, talora una delle forme più eminenti. Si ritiene – e si afferma per la prima volta in modo quasi provocatorio – che l’arte ci rivela, nel suo farsi e nel suo evolversi, il modo in cui la cultura produce e inventa forme nuove, capaci di sostenersi per virtù di perfezione interna; l’arte diventa il modello della vita perché come la vita si annuncia, cresce, si sviluppa, si trasforma, e vince sul disordine di un informe naturale a cui essa – con la Cultura – provvede finalmente un senso.

    Friedrich Nietzsche

    Musica e mito tragico appartengono all’attitudine dionisiaca di un popolo

    La nascita della tragedia

    Musica e mito tragico sono in uguale maniera espressioni dell’attitudine dionisiaca di un popolo e inseparabili l’una dall’altro. Entrambi provengono da un dominio artistico che è al di là dell’apollineo; entrambi trasfigurano una regione, nei cui accordi di gioia si smorza incantevolmente tanto la dissonanza quanto l’immagine terribile del mondo; entrambi giuocano con il pungolo del disgusto, fidando nelle loro oltremodo potenti arti magiche; entrambi giustificano con questo giuoco perfino l’esistenza del peggiore dei mondi. Qui il dionisiaco, confrontato con l’apollineo, appare come la potenza artistica eterna e originaria, che suscita in genere all’esistenza tutto il mondo dell’apparenza: in mezzo a questo diventa necessaria una nuova luce di trasfigurazione, per mantenere in vita il mondo animato dell’individuazione. Se noi potessimo immaginare un farsi uomo della dissonanza - e che cos’altro è l’uomo? - questa dissonanza avrebbe bisogno, per poter vivere, di una magnifica illusione, che coprisse con un velo di bellezza il suo stesso essere. È questo il vero fine artistico di Apollo: nel suo nome riassumiamo tutte quelle innumerevoli illusioni della bella apparenza, che in ogni momento rendono l’esistenza degna in generale di essere vissuta e spingono a vivere l’attimo successivo.

    Tuttavia di quel fondamento di ogni esistenza, del sostrato dionisiaco del mondo, può passare nella coscienza dell’individuo solo esattamente quello che può essere poi di nuovo superato dalla forza di trasfigurazione apollinea, sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca, secondo la legge dell’eterna giustizia. Dove le forze dionisiache si levano così impetuosamente come noi possiamo sperimentare, là deve essere già disceso sino a noi, avvolto in una nube, Apollo; le sue più rigogliose espressioni di bellezza saranno certo contemplate da una prossima generazione.

    Ma che quest’espressione sia necessaria, è cosa che ognuno avvertirebbe, per intuizione, nel modo più sicuro, se si sentisse una volta riportato, sia pure in sogno, a un’esistenza della Grecia più antica: camminando sotto alti colonnati ionici, guardando davanti a sé verso un orizzonte delimitato da pure e nobili linee, vedendo accanto a sé la sua immagine trasfigurata che si riflette nel luminoso marmo, intorno a sé uomini dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, dalle voci armonicamente risonanti, dai gesti che parlano ritmicamente - non dovrebbe costui esclamare, in questo continuo afflusso di bellezza, con la mano levata verso Apollo: Beato popolo degli Elleni! Come dev’essere grande fra voi Dioniso, se il dio di Delo ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!? - Ma un vecchio Ateniese, guardando col sublime occhio di Eschilo chi avesse tali sentimenti, potrebbe però replicare: Ma aggiungi anche questo, tu, bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità!.

    F. Nietzsche, La nascita della tragedia, introd. di G. Colli, trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1993

    Nata nell’ambito dei fervori del romanticismo, molta della filosofia del XIX secolo sembra celebrare la libertà del sentimento e della volontà individuale, ed è forse la forma sistematica e onnicomprensiva che la filosofia spesso assume a far pensare a pulsioni titaniche. In effetti anche le più radicali filosofie della soggettività, memori della lezione kantiana, intendono la libertà come una capacità di comprendere, rispettare e introiettare come principio morale e sociale le esigenze della libertà altrui. È solo nella narrativa di quel secolo che vengono messi in scena personaggi che interpretano la pulsione romantica come assoluta affermazione della propria individuale energia, contro ogni regola e ogni legge: ma il romanzo ce li mostra appunto come titani sconfitti; l’arte spesso non ama i vincenti e ce li raffigura spesso con colori sordidi e foschi, ma ne riconosce la realtà e in qualche modo, a malincuore, celebra la Necessità di una ragione storica e sociale che distrugge l’eroe solitario e anarchico.

    Verso il tramonto della civiltà occidentale

    Ma questo quadro – che dipinge le filosofie dominanti del secolo – non lascia vedere le linee di resistenza, di delusione, di dubbio. Questa religione del Progresso e della perfezione inarrestabili della Storia conosce cedimenti e rinnegamenti, a mano a mano che il secolo comincia a perdere fiducia nelle proprie utopie. Pensare lo Spirito come Cultura induce a domandarsi se non esistano culture diverse, più arcaiche ma non per questo meno organiche, e in questo secolo nasce attraverso studi etnografici quella che sarà l’antropologia culturale del nostro secolo. La filosofia riflette sui miti del passato, cerca una logica della storia, ma non solo della storia delle idee ma di quella dei comportamenti, dei costumi, delle superstizioni. La scienza positiva vuole diventare anche scienza della Società, e delle differenze tra i gruppi sociali, ovvero Sociologia.

    Auguste Comte

    Progresso sociale e rapporto con il pensiero antico

    Corso di filosofia positiva, Lezione XLVII

    Ogni idea di progresso sociale era necessariamente interdetta ai filosofi dell’antichità, per mancanza di osservazioni politiche abbastanza complete ed estese. Nessuno di essi, anche tra i più eminenti e saggi, si è potuto sottrarre alla tendenza, allora tanto universale quanto spontanea, a considerare direttamente lo stato sociale contemporaneo come assolutamente inferiore a quello dei tempi precedenti.

    Questa inevitabile disposizione era tanto più naturale e legittima in quanto l’epoca di questi lavori filosofici coincideva essenzialmente, come spiegherò in seguito, con quella della necessaria decadenza del regime greco o romano. Ora, questa decadenza che, considerando l’insieme del passato sociale, costituisce certamente un vero progresso, in quanto preparazione indispensabile al regime più progredito dei tempi posteriori, non poteva essere in alcun modo giudicata in questa maniera dagli antichi, che non potevano immaginare una simile successione. Ho già indicato, nella precedente lezione, il primo schema generale del concetto, o piuttosto del sentimento, di progresso dell’umanità, come all’inizio necessariamente dovuto al cristianesimo il quale, proclamando direttamente la superiorità fondamentale della legge di Gesù su quella di Mosè, aveva naturalmente formulato quest’idea, fino a quel momento sconosciuta, d’uno stato più perfetto che sostituisce definitivamente uno stato meno perfetto, preliminarmente indispensabile fino ad una determinata epoca. Sebbene il cattolicesimo così non abbia fatto, senza dubbio, che servire da organo generale allo sviluppo naturale della ragione umana, questo prezioso compito costituirà egualmente sempre, agli occhi imparziali dei veri filosofi, uno dei più bei titoli per la nostra imperitura riconoscenza. Ma, indipendentemente dai gravi inconvenienti del misticismo e della vaga oscurità, che sono inerenti ad ogni impiego qualsiasi del metodo teologico, tale schema sarebbe certamente insufficiente a costituire una qualche valutazione scientifica del progresso sociale. Infatti questo progresso così si trova necessariamente chiuso dalla formula stessa che lo proclama, poiché esso è assolutamente limitato, nella maniera più assoluta, al solo avvento del cristianesimo, al di là del quale l’umanità non potrebbe fare un passo. Ora, poiché l’efficacia sociale di ogni qualsiasi filosofia teologica è oggi e per sempre essenzialmente esaurita, è evidente che questo concetto presenta ormai, in realtà, un carattere eminentemente reazionario, come ho già dimostrato, a conferma di una incontestabile esperienza, che non cessa d’essere compiuta sotto i nostri occhi. Da un punto di vista puramente scientifico, si comprende facilmente che la condizione di continuità costituisce un elemento indispensabile della nozione definitiva del progresso dell’umanità, nozione che rimarrebbe necessariamente impotente a dirigere l’insieme razionale delle speculazioni sociali, se rappresentasse il progresso come limitato, per sua natura, ad uno stato determinato, da lungo tempo raggiunto.

    Per questi diversi motivi, si può, da questo momento, capire a prima vista, che la vera idea di progresso, sia parziale, sia totale, appartiene in modo esclusivo e necessariamente, alla filosofia positiva, che nessun’altra, a questo riguardo, potrebbe supplire. Solo questa filosofia potrà rivelare la vera natura del progresso sociale, cioè caratterizzare il termine finale, mai completamente realizzabile, verso il quale essa tende a dirigere l’umanità, e a far conoscere nel contempo il cammino generale di questo sviluppo graduale.

    Auguste Comte, Corso di filosofia positiva, Torino, UTET, 1967

    E d’altro canto scattano le reazioni, il ritorno (appena accennato, ma che sarà ripreso nel nostro secolo) al problema dell’esistenza individuale, del male di vivere, l’ottimismo della storia in progresso diventa il dubbio sulla storia stessa, sulla sua malattia, sul fatto che siamo oppressi dal passato, che l’immenso edificio sistematico che molte filosofie hanno costruito sia illusione, che ci sia un divorzio tra ciò che è vero e ciò che la Cultura o lo Spirito hanno costruito come mondo. È lo stesso concetto di Verità che entra in crisi nel passaggio tra i due secoli. Alla fine si insinua il sospetto che i nostri comportamenti non siano guidati dalla Ragione ma dagli impulsi dell’inconscio. All’alba del nuovo secolo qualcuno parlerà del tramonto di quella civiltà occidentale che il XIX secolo aveva riconosciuto e celebrato come l’unica e reale società del Progresso.

    Soggetto e oggetto del conoscere: l’idealismo

    La filosofia tedesca dopo Kant

    Federico Ferraguto

    Il dibattito sul criticismo di Kant sviluppatosi nell’ultimo decennio del XVIII secolo si incentra, dal punto di vista teoretico, sul tentativo di fondare i presupposti del criticismo mediante la ricerca di un principio unico della filosofia e, dal punto di vista pratico, sulla definizione del rapporto tra libertà, legge morale e volontà. La sintesi di questi due aspetti pone le basi per una sempre più stringente indagine sul rapporto tra filosofia e vita.

    La fondazione della filosofia kantiana: dalla rappresentazione al rappresentare

    Karl Leonhard Reinhold

    Concetto e fondamento della filosofia

    La forma essenziale della filosofia non deve contenere nient’e che non sia riconducibile a ciò che è necessario ed universale nell’animo umano; soltanto così essa può essere conosciuta come forma essenziale. A tal fine c’è bisogno di un concetto che riunisca solo ciò che è necessario ed universale nello spirito umano, escludendo tutto quella che non lo è dal suo perimetro, nel quale deve appunto essere esaurito, quanto alle sue note caratteristiche, ciò che è necessario ed universale. Solo quando lo spirito umano abbia conseguito un tale concetto di se stesso, può esaminare il prodotto preso per filosofia, può cioè rendere conto a se medesimo se nella produzione di esso abbia seguito solo le sue leggi necessarie ed universali oppure anche gli umori contingenti, dipendenti da circostanze casuali, Prima che la filosofia possa diventare reale, possa reggere alla prova in quanto filosofia, lo spirito umano deve conoscere e aver sviluppate integralmente quelle leggi che, seguite, rendono possibile la filosofia.

    K. L. Reinhold, Concetto e fondamento della filosofia, a cura di F. Fabbianelli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2002

    Nel corso dell’ultimo decennio del XVIII secolo la filosofia di Kant non viene intesa come una delle tante filosofie possibili, ma come un punto di non ritorno della riflessione filosofica. Kant permette di spostare lo sguardo della filosofia dai contenuti del conoscere – variabili, mutevoli e contingenti – alle sue forme, costanti e universali. Grazie alla filosofia critica la ragione umana può ancorarsi a qualcosa di saldo e definitivo e svolgere con successo la sua opera chiarificatrice in tutti i campi della vita dell’uomo. Questa è l’idea complessiva del criticismo presentata nel 1786 da Karl Leonhard Reinhold, che avvia la pubblicazione delle Lettere sulla filosofia kantiana. In queste lettere, composte con l’intenzione di offrire un’esposizione divulgativa dei risultati della filosofia kantiana, Reinhold coglie la specificità del pensiero di Kant oltre il suo significato epistemologico. La definizione delle condizioni di possibilità del sapere, infatti, permette di pensare la riflessione filosofica come scomposizione delle strutture portanti dell’essere umano e dà la possibilità di mettere in luce un nucleo condiviso tanto dall’analisi filosofica quanto dalla coscienza comune. Secondo Reinhold, senza la comprensione di un criterio universale che guidi il sapere non è possibile giungere a principi universali del diritto e della morale, né chiarire i fondamenti della nostra speranza in una vita futura.

    Su questo sfondo si colloca la riflessione teorica di Reinhold. La sua esposizione e fondazione rigorosa della filosofia kantiana si concentra principalmente nel Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1789), nei due volumi dei Contributi per rettificare le incomprensioni dei filosofi avvenute finora (1790-1794) e nello scritto Sul fondamento del sapere filosofico (1791). La rifondazione della filosofia critica passa innanzitutto per una più approfondita comprensione della struttura della rappresentazione, elemento comune alle facoltà dello spirito umano definite nella critica della ragione (sensibilità, intelletto, ragione).

    La facoltà di rappresentare non è perciò la proprietà di un soggetto dato ed effettivamente esistente, ma la possibilità di una connessione tra una forza formativa (spontaneità o forma) e un elemento materiale (materia o oggetto della rappresentazione) tramite la quale viene sintetizzato il dato conoscitivo. Le diverse modalità di sintesi tra forma e materia danno anche diverse forme rappresentative (intuizione, concetto, idea) e, di conseguenza, l’insieme dei modi mediante i quali il soggetto rappresentante interagisce con ciò che lo circonda (desiderio, conoscenza, agire morale). Il centro della critica della ragione non è dunque il soggetto, ma la struttura generale e presoggettiva della relazione che definisce e delimita il suo rapporto con il mondo. A questa relazione Reinhold dà il nome di Bewusstsein, coscienza.

    È evidente che su questa via è possibile ricondurre l’analisi kantiana delle facoltà dello spirito umano ad un fondamento unico. Ma è altrettanto evidente che la riformulazione dei presupposti del criticismo implica una modificazione dei suoi risultati. L’asse della critica della ragione si sposta dalla ricerca sulle condizioni di possibilità della conoscenza a quella sulla possibilità della coscienza come origine di tale rapporto. La filosofia critica diviene filosofia elementare, (Elementarphilosophie), descrizione a priori degli elementi universali della coscienza, e differisce dalla metafisica quale scienza delle note a priori degli oggetti diversi dalle rappresentazioni. Fondamento della filosofia non è più una cosa in sé ma un Satz: una proposizione capace di racchiudere le caratteristiche universali e necessarie dello spirito umano e in grado di esprimere tutto ciò che avviene nella coscienza.

    Questo ultimo aspetto del pensiero di Reinhold è probabilmente quello più fecondo per gli sviluppi del dibattito filosofico successivo. Un’imponente riflessione sulle condizioni di possibilità della filosofia e sulla sua differenza dal punto di vista comune è uno dei tratti peculiari della Dottrina della scienza di Johann Gottlieb Fichte. Ma già nelle sue Meditazioni sulla filosofia elementare (1793) il giovane Fichte inizia a ripensare la filosofia reinholdiana sostituendo alla rappresentazione un principio la cui caratteristica è l’immediata capacità di venire in chiaro sulla sua propria natura. Il principio fichtiano è, in altri termini, un’attività consapevole di se stessa e, in particolare, un’attività che può essere immediatamente identificata con le prestazioni intellettuali e pratiche della coscienza concreta.

    In maniera indipendente, ma in una direzione non meno radicale si orienta il lavoro di Jakob Sigismund Beck. L’ultimo dei volumi dell’Estratto esplicativo dagli scritti critici di Kant (1793-1796) si intitola L’unico punto di vista possibile da cui la filosofia critica deve essere giudicata (1796) e ha l’obiettivo di cogliere la validità della filosofia di Kant, non relativamente a nozioni singole, ma rispetto al punto di vista da assumere per comprenderla. In linea con Reinhold, Beck dichiara di voler rimuovere le difficoltà che impediscono di penetrare nello spirito della critica kantiana, e tuttavia gli contesta la possibilità di fondare il criticismo sulla rappresentazione. A causa del suo implicito riferimento a un oggetto, infatti, il concetto di rappresentazione o alimenta la confusione tra dimensione a priori e a posteriori della conoscenza, o porta a un idealismo psicologico di tipo berkeleyano.

    Lo scetticismo di Maimon e Schulze

    Gottlob Ernst Schulze

    Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal signor professor Reinhold di Jena con una difesa dello Scetticismo contro le pretese della Critica della ragione

    Ci sono stati da sempre nel mondo filosofico due partiti. L’uno crede di essere l’unico in possesso della verità, e ritiene di averla determinata ed esposta in una maniera non solo insuperabilmente giusta, bensì anche valida addirittura per tutti i tempi futuri. Proprio per questo ritiene di poter avanzare le più legittime pretese all’autocrazia in campo filosofico e considera di conseguenza ogni tentativo di spezzare questa autocrazia frutto di una deficienza di ragione. Si può acconciatamente chiamarlo partito che decide, giacché il suo carattere capitale consiste nel fatto che decide circa ciò che solo ed unico e per sempre deve essere e deve essere considerato filosofia. All’altro partito appartengono quei filosofi che non vollero mai riconoscere l’autocrazia di alcun superiore visibile nel mondo filosofico, bensì sottomettersi in questioni di filosofia unicamente e solamente alle decisioni della ragione, che è sì invisibile, ma che opera in tutti gli uomini avvezzi alla riflessione. È caratteristica di questo partito la fede nella incessante perfettibilità della ragione filosofica intesa come uno dei più nobili e incontestabili privilegi dello spirito umano. Per distinguere questo partito dall’altro si può chiamarlo il partito protestante: i suoi aderenti infatti prestano da una parte contro la infallibilità e l’insuperabile giustezza di uno dei sistemi dogmatici che sono esistiti fino ad oggi in filosofia, dall’altra contro il fatto che la ragione filosofica debba una volta o l’altra cessare di essere perfettibile.

    G. E. Schulze, Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal signor professor Reinhold di Jena con una difesa dello Scetticismo contro le pretese della Critica della ragione, a cura di A. Pupi, Laterza, Roma-Bari, 1971

    A partire dal 1791 Reinhold si trova a dover fronteggiare le critiche di chi, pur riscontrando nella filosofia elementare e nella filosofia critica di Kant una certa coerenza argomentativa, le considera incapaci di rendere conto del passaggio dalla giustificazione razionale delle determinazioni della coscienza alla comprensione del suo concreto rapporto con il mondo.

    Kant sarebbe riuscito a stabilire le condizioni di possibilità della scienza e dell’esperienza, ma non avrebbe chiarito a quali condizioni è possibile la filosofia critica come definizione delle condizioni della scienza e dell’esperienza.

    Un primo esponente di questa tendenza scettica nei confronti dell’impresa kantiana è Salomon Maimon (1753-1800). All’interpretazione del criticismo di Kant, Maimon dedica il Saggio sulla filosofia trascendentale (1790), mentre il Dizionario filosofico (1791) e le Divagazioni nell’ambito della filosofia (1793) sono documenti di un serrato confronto con la filosofia elementare di Reinhold. Maimon rileva come Kant non abbia dato una risposta sufficiente alla domanda come è possibile applicare i concetti all’esperienza se non derivano da quest’ultima?. Né Kant, né Reinhold possono rispondervi in maniera adeguata a causa della loro rigida distinzione tra intelletto e sensibilità, che riflette la separazione tra anima e corpo tipica delle filosofie di Descartes, Leibniz e Spinoza. Il criticismo e la filosofia elementare piombano perciò in quello stesso razionalismo dogmatico che pretendevano di eliminare. L’analisi delle forme a priori dell’intelletto è in grado di assicurare una conoscenza universale e necessaria, valida però solo relativamente a oggetti costruiti dall’intelletto stesso, cioè a oggetti matematici. La conoscenza sensibile, per Maimon completamente irrazionale, attesta solo una possibile connessione di eventi, mero risultato della constatazione di una certa regolarità empirica rilevata in merito a esperienze particolari e non condizionata, come vorrebbe Kant, da concetti dati a priori.

    Altrettanto radicale sembra la critica di Gottlob Ernst Schulze. Il suo Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal signor professor Reinhold (1792) rappresenta una delle tappe fondamentali della prima ricezione di Kant. Dopo aver constatato l’ingenuo soggettivismo della critica kantiana, gran parte dell’Enesidemo mira a confutare la filosofia elementare reinholdiana, vista come una riesposizione sistematica del soggettivismo kantiano. La Elementarphilosophie pare insufficiente, poiché Reinhold non riesce a rendere conto delle diverse operazioni intellettuali che portano alla formulazione del suo principio. L’intera filosofia elementare poggia, infine, su un’equazione arbitraria tra esperienza e rappresentazione. Esistono però anche esperienze non riconducibili a rappresentazione.

    Tanto Maimon quanto Schulze non intendono sopprimere le pretese di comprensione razionale e sistematica della realtà. Lo scetticismo di questi autori è piuttosto conseguenza di una concezione della ragione come progresso infinito e come progressiva approssimazione a una verità che l’essere umano, per via della sua finitezza, non può mai cogliere pienamente. La filosofia ha così il compito di tenere in vita questo processo, mantenendosi nei limiti della verosimiglianza e comprendendo se stessa non come sistema definito una volta per tutte, ma come esercizio di pensiero che, rinnova costantemente se stesso.

    Le prospettive pratiche del dibattito postkantiano: legge, volontà, libertà

    La reazione a queste critiche si definisce sia sul piano di un’ulteriore discussione sui presupposti del criticismo, che ha luogo nella Dottrina della scienza di Fichte e nella meditazione sulla filosofia pratica di Kant. Qui l’oggetto è il rapporto tra la legge morale, pura e non legata a moventi sensibili, e la volontà, il cui agire è definito dal concorso di impulsi sensibili e impulsi disinteressati. In questo contesto, e in opere come il secondo volume delle Lettere sulla filosofia kantiana (1792) di Reinhold e il Saggio di una critica di ogni rivelazione (1793) di Fichte, il legame tra legge e volontà viene ricondotto al problema della libertà. Per Reinhold la libertà è il risultato di una consapevolezza immediata. Per Fichte, invece, la sua esistenza è dimostrabile attraverso un’indagine sulla struttura del volere umano. Fichte sostiene che si è liberi quando si agisce in conformità a un’idea (l’idea dell’assolutamente giusto) che nasce dalla riflessione sulla capacità umana di volere, vista non solo come determinazione a perseguire un certo interesse personale, ma anche come possibilità di astenersi dall’indicazione derivante da quest’ultimo.

    Il criticismo in una nuova dimensione

    Primo esempio di questa nuova dimensione del criticismo è la rivendicazione del diritto al sovvertimento di un ordine statale costituito, in funzione del diritto di un individuo, o di una comunità, a modificare la propria volontà, cosa che Fichte sostiene nella Rivendicazione della libertà di pensiero (1792) e nel Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese (1793). Nasce così la combinazione esplosiva tra discussione sulla filosofia di Kant e riflessione sulla Rivoluzione francese, decisiva per il successivo sviluppo della cultura europea.

    Rimandi

    Johann Gottlieb Fichte

    Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

    Storia, passato e classicismo

    Naturphilosophie

    Georg Wilhelm Friedrich Hegel

    La Scuola hegeliana

    Ludwig Feuerbach

    Søren Kierkegaard

    Arthur Schopenhauer

    Johann Gottlieb Fichte

    Gaetano Rametta

    L’idea fondamentale di Fichte è costituita dalla concezione della filosofia come dottrina della scienza. Alla teoria dell’Io come primo principio assolutamente incondizionato, caratteristica della fase di Jena, Fichte sostituisce a Berlino l’idea di Assoluto come vita spirituale in continuo divenire. La libertà del soggetto perde lo statuto di fondamento e diventa il luogo per la manifestazione creativa del divino nel mondo.

    Il periodo giovanile (1762-1794)

    Fichte nasce da famiglia di umili origini. Notato per la sua intelligenza da un notabile locale, viene avviato agli studi, prima nel ginnasio di Pforta (lo stesso nel quale studierà Nietzsche), quindi all’università. Costretto a interrompere gli studi per le sue ristrettezze economiche, cerca di procurarsi da vivere come precettore. Dal punto di vista filosofico, il giovane è alle prese con la questione del determinismo, che sembra dimostrato in modo inconfutabile dalla ragione (in questi anni escono le Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi), ma non può soddisfare le esigenze del cuore (che anela alla libertà).

    L’esordio letterario di Fichte è costituito da un’opera di filosofia della religione, intitolata Saggio di critica di ogni rivelazione. Sua ambizione è ottenere l’approvazione e la stima di Kant, dopo che lo studio delle tre Critiche ha completamente rivoluzionato il suo modo di pensare, aprendogli quello che egli stesso definisce un nuovo mondo. Il libro è pubblicato nel 1792, e già nell’anno successivo ha una seconda edizione. L’opera esce anonima, e in un primo tempo viene attribuita proprio a Kant. Quando quest’ultimo smentisce pubblicamente tale attribuzione, il successo del libro è ormai conclamato. Fichte si trova immediatamente proiettato al centro della scena filosofica tedesca, e non è estraneo a questa vicenda se nel 1794 viene chiamato a insegnare filosofia presso la prestigiosa università di Jena.

    La tesi di fondo è che la rivelazione risponde a un bisogno, sentito da uomini che già possiedono la legge morale, nei quali però la forza della ragione non è sufficiente a piegare la resistenza degli impulsi sensibili. La rivelazione, dando all’immaginazione il sostegno della rappresentazione di Dio come autore della legge, fornisce a quest’ultima la forza necessaria a combattere la sensibilità sul suo stesso terreno. La rivelazione, dunque, rimedia a una temporanea debolezza della ragione, ma può contribuire, mediante la formazione della sensibilità, al progresso verso condizioni morali sempre più elevate.

    L’importanza degli interessi pratici e politici è confermata dai due testi successivi, intitolati Rivendicazione della libertà di pensiero (1793), e Contributo per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, uscito in due fascicoli separati tra l’estate del 1793 e il febbraio 1794. Qui Fichte presenta la sua prima teoria dei rapporti tra diritto, politica e morale, e difende la legittimità della rivoluzione a partire da quella più generale di modificare una costituzione politica. A partire da una concezione dello stato di natura come condizione in cui l’uomo agisce da soggetto razionale sottoposto esclusivamente alla legge morale, Fichte considera il diritto naturale come una sfera inscritta nella precedente, riguardante il piano dei diritti imprescrittibili dell’uomo a fare ciò che gli compete come essere morale. La sfera dei contratti è ancora più ristretta, e riguarda l’ambito del lecito, che a differenza di ciò che è assolutamente obbligatorio (la legge morale in senso kantiano), sottostà alle decisioni del libero arbitrio. Il contratto sociale, che fonda gli ordinamenti politici, è soltanto uno tra i contratti possibili, dunque sottostà anch’esso alle decisioni del libero arbitrio. Poiché quest’ultimo può cambiare, anche il consenso all’obbedienza nei confronti di una determinata costituzione politica è soggetto a mutamento. I cittadini hanno dunque il diritto di modificare la propria costituzione politica, ogniqualvolta quest’ultima sembri ostacolare il perfezionamento della cultura. La conclusione di Fichte è che la rivoluzione è legittima, poiché lo Stato può pretendere soltanto un’obbedienza condizionata. Se viene meno il consenso da parte dei singoli, questi possono recedere dal contratto, e lo Stato non lo può impedire senza violare il diritto naturale di ciascuno all’esercizio della propria libera volontà.

    Johann Gottlieb Fichte

    Il principio primo del sapere

    Dottrina della scienza, Parte I

    Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere. Dovendo essere principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare.

    Esso deve esprimere quell’atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma sta piuttosto alla base di ogni coscienza, e solo la rende possibile. Nell’esposizione di quest’atto non è tanto da temere che, per avventura, non si pensi a quello cui si deve pensare - a questo la natura del nostro spirito ha già provveduto - quanto che si pensi a quello cui non si deve pensare. Questo rende necessaria una riflessione su ciò che forse potrebbe essere ritenuto, sin dal principio, per quello cui bisogna pensare ed un’astrazione da tutto ciò, che non vi appartiene realmente.

    Neanche per mezzo di questa riflessione astraente può divenir fatto di coscienza ciò che in sé non è tale; ma essa fa conoscere che si deve pensare necessariamente quell’atto come fondamento di ogni coscienza.

    Le leggi secondo le quali si deve pensare assolutamente quell’atto come fondamento del sapere umano o - ciò che è lo stesso - le regole secondo le quali quella riflessione è posta, non sono ancora dimostrate valide, ma esse sono tacitamente presupposte come note e indubitabili. Solo più giù esse sono dedotte dal principio che si può stabilire come giusto solo a condizione della loro giustezza. Questo è un circolo, ma un circolo inevitabile. (...) E poiché esso è inevitabile e liberamente concesso, anche nell’esposizione del supremo principio ci si può dunque richiamare a tutte le leggi della logica generale.

    Sulla vita in cui inizia la riflessione, noi dobbiamo partire da una proposizione tale che ognuno ce la conceda senza contraddirci. Di tali proposizioni ce ne potrebbero bene essere anche parecchie. La riflessione è libera e non importa da qual punto essa parta. Noi scegliamo quello, partendo dal quale si arriva più presto al nostro scopo.

    Appena è accordata questa proposizione, deve essere in pari tempo accordato come atto ciò che noi vogliamo porre a base dell’intiera dottrina della scienza; e deve risultare dalla riflessione che esso è accordato come tale, insieme con quella proposizione. Poniamo dunque un fatto qualsiasi della coscienza empirica e da esso separiamo, l’una dopo l’altra, tutte le determinazioni empiriche, fino a che rimanga solo ciò che non si può assolutamente escludere e dal quale non si può separare più nulla.

    1. Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A = A, poiché questo è il significato della copula logica); ed invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabile.

    Ma se qualcuno dovesse richiederne una dimostrazione, certo non si acconsentirebbe per nulla a dargliela, ma si affermerebbe che quella proposizione è certa assolutamente cioè senza alcuna ragione ulteriore: facendo questo, senza alcun dubbio con l’assenso di tutti, ci si attribuisce la facoltà di porre qualcosa assolutamente. (...)

    Consideriamo adesso ancora una volta la proposizione: Io sono Io.

    a) L’Io è posto assolutamente. Si ammetta che l’Io che nella proposizione precedente sta al posto del soggetto formale significhi ciò che è posto assolutamente; che quello, che sta al posto del predicato, significhi invece ciò che è; allora, col giudizio assolutamente valido che entrambi sono affatto la medesima cosa, si asserisce o si pone assolutamente: che l’Io è, perché ha posto se stesso.

    b) L’Io nel primo significato e l’Io nel secondo debbono essere assolutamente eguali fra loro. Pertanto si può anche invertire la proposizione precedente e dire: l’Io pone se stesso semplicemente perché è. Esso si pone per mezzo del suo mero essere ed è per mezzo del suo mero esser posto.

    Questo spiega dunque pienamente in qual senso noi adoperiamo qui la parola Io e ci guida ad una spiegazione precisa dell’Io come soggetto assoluto. Ciò, l’essere (l’essenza) del quale consiste puramente in questo, che esso pone se stesso come essente, è l’Io come soggetto assoluto. Così come esso si pone, è; e così come è, si pone; l’Io perciò è assolutamente e necessariamente per l’Io. Ciò che non esiste per se stesso, non è Io.

    J.G. Fichte, Dottrina della scienza, trad. it. di A. Tilgher, riveduta e corretta da F. Costa, Roma-Bari, Laterza, 1987

    Johann Gottlieb Fichte

    Opposizione tra Io e Non-io

    Dottrina della scienza, Parte II

    La proposizione: L’Io si pone come determinato dal Non-io, è stata or ora dedotta dal terzo principio; se questo vale, deve valere anch’essa. Ma quel principio deve avere un valore con la stessa certezza con la quale l’unità della coscienza non può essere annullata e l’Io non può cessare di essere Io (§ 3). Questa proposizione deve perciò valere essa stessa con la medesima certezza con la quale l’unità della coscienza non può essere annullata.

    Noi dobbiamo in primo luogo analizzare questa proposizione, cioè vedere se e quali opposti siano compresi in essa.

    L’Io si pone come determinato dal Non-io. Quindi l’Io deve non già determinare, ma essere determinato; è il Non-io, invece, che deve determinare, porre limiti alla realtà dell’Io. Perciò nella proposizione che abbiamo enunciata è compresa innanzi tutto la seguente:

    Il Non-io determina (attivamente) l’Io (che per questo riguardo è passivo). L’Io si pone come determinato, mediamente una attività assoluta. Ogni attività deve procedere dall’Io, almeno per quanto noi possiamo giudicarne sinora. L’Io ha posto se stesso, ha posto il Non-io, ha posto entrambi nella quantità. Ma l’Io si pone come determinato; questo manifestamente vuol dire lo stesso che: l’Io si determina. Perciò nella proposizione enunciata è compresa anche la seguente:

    L’Io determina se stesso (con attività assoluta).

    Noi ora facciamo ancora completa astrazione da questo: se accada che ognuna di queste due proposizioni contraddica se stessa, contenga una contraddizione interna e perciò annulli se stessa. È però subito evidente che tutte e due si contraddicono reciprocamente l’una l’altra; che l’Io non può essere attivo, se deve essere passivo e viceversa. (...)

    Se due proposizioni che son comprese in una sola e medesima proposizione si contraddicono fra loro, esse si annullano e la proposizione nella quale esse sono comprese

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