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Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi
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Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi
E-book1.919 pagine33 ore

Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi

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Info su questo ebook

Introduzioni di Italo Alighiero Chiusano e Giulio Raio
Edizioni integrali

• America
• Il processo
• Il castello
• Racconti pubblicati dall’autore
• Racconti pubblicati frammentariamente
• Racconti postumi
• Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via
• Gli otto quaderni in ottavo
• Frammenti da quaderni e fogli sparsi
• Paralipomeni

Questo libro raccoglie l’opera narrativa di uno tra i maggiori scrittori del Novecento, colui che più di ogni altro ha dato voce alle inquietudini dell’uomo moderno. America (iniziato nel 1910 e pubblicato nel 1927), Il processo (scritto tra il 1914 e il 1915, pubblicato nel 1924), e Il castello (scritto nel 1922 e pubblicato nel 1926) sono ormai tra i più celebri romanzi della letteratura moderna, in cui ritorna, pur sotto differenti trame, il tema dell’angoscia per una persecuzione assurda e incomprensibile. Lo sguardo appassionato e acuto e l’intelligenza profonda del giovane Franz svelano e rendono altissima letteratura le contraddizioni, i drammi, la violenza e la stupidità nascosti sotto le apparenze del reale. Un posto di rilievo nell’opera di Kafka spetta anche ai racconti, molti dei quali, come La metamorfosi, Nella colonia penale, Il messaggio imperiale, sono veri capolavori. Completano il volume le raccolte di aforismi, pensieri, appunti, alcune pubblicate nella forma voluta dall’autore (come le Considerazioni), altre curate dopo la sua morte dall’amico Max Brod.


Franz Kafka

il più celebre interprete della complessità del vissuto umano e delle angosce che turbano la nostra epoca, nacque a Praga nel 1883. Figlio di un agiato negoziante, gretto e autoritario, con cui visse sempre in conflitto, trascorse un’esistenza apparentemente monotona e priva di grandi avvenimenti. Poco dopo la laurea s’impiegò in un ente pubblico, dove rimase fino a due anni prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1924 a causa della tubercolosi. Scrisse tre romanzi, America, Il processo e Il Castello, un gran numero di bellissimi racconti, tutti pubblicati dalla Newton Compton nella collana e nel volume unico Tutti romanzi, i racconti, pensieri e aforismi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854141827
Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi
Autore

Franz Kafka

Franz Kafka fue un destacado escritor de origen judío nacido el 3 de julio de 1883 en Praga. La relación compleja con su padre y la influencia de su familia se reflejarían en gran medida en su obra. La mayoría de sus obras fueron publicadas póstumamente por su amigo y editor, Max Brod, quien ignoró las últimas voluntades de Kafka de destruir sus escritos. A lo largo de su vida, Kafka luchó con una profunda ansiedad y una intensa introspección que a menudo se reflejaba en sus obras. Sus escritos exploraban temas como la alienación, el aislamiento, la burocracia y el absurdo de la vida moderna. A menudo, sus personajes se enfrentaban a situaciones angustiantes e incomprensibles, y se debatían con la impotencia y la falta de sentido en un mundo aparentemente irracional. A pesar de la aparente oscuridad de su obra, Kafka es considerado uno de los autores más influyentes del siglo XX y su estilo literario ha dejado una profunda huella en la literatura moderna. Sus obras siguen siendo objeto de estudio y admiración en todo el mundo, y su nombre se ha convertido en sinónimo de temas profundos y complejos que exploran la condición humana.

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    Anteprima del libro

    Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi - Franz Kafka

    384

    Prima edizione ebook: maggio 2012

    © 1991, 2010 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4182-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Franz Kafka

    Tutti i romanzi, i racconti,

    pensieri e aforismi

    America - Il processo - Il castello - Racconti pubblicati dall’autore

    Racconti pubblicati frammentariamente - Racconti postumi

    Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

    Gli otto quaderni in ottavo - Frammenti da quaderni e fogli sparsi

    Paralipomeni

    Introduzioni di Italo Alighiero Chiusano e Giulio Raio

    Newton Compton editori

    Nota biobibliografica

    1883. Franz Kafka nasce a Praga, nella Città Vecchia, il 13 luglio, figlio primogenito di Hermann Kafka (1852-1931), commerciante in chincaglierie e mercerie, e di Julie Löwy (1856-1934) che proveniva da una famiglia di agiati commercianti. Nel 1885 nasce il primo dei fratelli di Kafka, Georg, che muore a quindici mesi; nel 1887 nasce il terzogenito, Heinrich, che muore a sei mesi. Nascono poi tre sorelle: nel 1889 Gabriele (Elli), nel 1890 Valerie (Valli) e nel 1892 Ottilie (Ottla). Le sorelle di Kafka moriranno nei campi di sterminio na-zisti: Gabriele e Valerie saranno deportate nel 1941 nel ghetto di Lodz, Ottilie sarà internata nel ghetto di Terezin nel 1942 e poi deportata ad Auschwitz. 1889-1902. Kafka frequenta la scuola elementare del Fleischmarkt in lingua tedesca; dal 1893 al 1901 il Ginnasio-Liceo statale della Città Vecchia, dove l'insegnamento si svolge in lingua tedesca. Nel 1901 si iscrive all'Università tedesca di Praga, prima a chimica, poi a legge; nel 1902 si iscrive nel semestre estivo a germanistica, per poi riprendere nel semestre invernale il corso di studi giuridici. Nello stesso anno conosce Max Brod (1884-1968). 1906. Kafka si laurea in legge. Dopo un anno di pratica legale presso il Tribunale di Praga, nell'ottobre del 1907 è assunto dalle Assicurazioni Generali di Praga. A partire dal 1908 è funzionario della Arbeiter-Unfall-Versicherungs- Anstalt (Istituto di Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro) del Regno di Boemia a Praga, presso il quale lavorerà fino al 1922, anno in cui gli viene concesso il pensionamento. 1908 Kafka pubblica sul primo numero della rivista «Hyperion», presso l'editore von Weber, le prose di Betrachtung (Contemplazione) che saranno edite in volume nel 1912 presso l'editore Rowohlt di Lipsia. 1909 Partecipa alle riunioni del Klub mladych (Circolo dei giovani) di tendenza socialista e antimilitarista. 1912. Kafka conosce Felice Bauer, berlinese, con cui si fidanzerà nel 1914. Nel 1912 legge in pubblico a Praga Das Urteil (La Condanna) , che verrà pubblicato nel 1913 sulla rivista «Arkadia» e poi nel 1916 a Lipsia presso l'editore Wolff. Nel 1913 pubblica Der Heizer (il fuochista), che costituirà il primo capitolo del romanzo Amerika, pubblicato postumo nel 1927. 1914. Comincia a scrivere Der Prozess (Il processo), pubblicato postumo a Berlino nel 1925. 1915. Pubblica Die Verwandlung (La metamorfosi) nella rivista «Die weissen Blätter»; nello stesso anno viene pubblicata in volume dall'editore Wolff. L'anno successivo legge in pubblico il racconto In der Strafkolonie (Nella colonia penale) pubblicato nel 1919 sempre dall'editore Wolff. 1917-1919. Nell'agosto, prime gravi manifestazioni della tubercolosi. Nel dicembre rompe definitivamente la sua relazione con Felice Bauer. Nel 1919 si fidanza con Julie Wohryzek. Nello stesso anno l'editore Wolff pubblica la raccolta Ein Landartz (Un medico di campagna). 1920-1922. Kafka inizia il carteggio con Milena Jesenskà, scrittrice boema. Rottura del fidanzamento con Julie Wohryzek. Tra il dicembre del 1920 e l'agosto del 1921 soggiorna nel sanatorio di Matliary in Slovacchia. Tra il gennaio e il settembre del 1922 scrive Das Schloss (Il Castello), pubblicato postumo a Monaco nel 1926. 1923-1924. A Müntz sul Baltico conosce l'ebrea polacca Dora Diamant, con la quale vivrà a Berlino fino al marzo del 1924, quando torna a Praga, dove scrive Josefine, die Sängerin (Joseftne, la cantante) che verrà pubblicato nell'aprile nella «Prager Presse». Nell'aprile del 1924, assistito da Dora Diamant e da Robert Klopstock, giovane medico conosciuto a Matliary, è ricoverato nel sanatorio Wiener Wald, poi nella Clinica universitaria di Vienna e infine nel sanatorio Hoffman a Kierling nei pressi di Vienna. Kafka muore il 3 giugno del 1924. Viene sepolto nel cimitero ebraico di Straschnitz. Il 19 giugno al teatro Kleine Bühne di Praga si tiene una commemorazione funebre. Nella estate di quell'anno presso la casa editrice «Die Schmiede» viene pubblicata la raccolta Ein Hungerkünstler (Un digiunatore).

    OPERE

    Prime edizioni, 1912-1919

    Betrachtung, Leipzig 1912; Der Heizer, Leipzig 1913; Die Verwandlung, Leipzig s.d. (1915); Das Urteil. Eine Geschichte, Leipzig 1916; In der Straßolonie, Leipzig 1919; Ein Landarzt. Kleine Erzählungen, München u. Leipzig s.d. (1919).

    Opere postume

    Ein Hungerkünstler. Vier Geschichten, Berlin 1924; Der Prozess, Roman, Berlin 1925; Das Schloss, Roman, München 1926; Amerika, Roman, München 1927; Beim Bau der chinesischen Mauer. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlass, Berlin 1931; Vordem Gesetz, Berlin 1934.

    Edizioni complessive

    Gesammelte Schriften, a cura di M. Brod e H. Politzer, I-IV, Berlin 1935; v, Prag 1936; vi, Prag 1937; Gesammelte Schriften, I-X, a cura di M. Brod, New York 1946-54; Gesammelte Werke, I-IX, a cura di M. Brod, Frankfurt a.M. 1950-58; Briefe an Feiice und andere Korrespondenz aus der Verlobungszeit, a cura di Heller e J. Born, New York-Frankfurt a.M. 1967; Briefe an Ottla und die Famlie, a cura di H. Binder e K. Wagenbach, Frankfurt a.M. 1974; Schriften, Tagebücher, Briefe. Kritische Ausgabe, a cura di J. Born, G. Neumann, M. Pasley, J. Schille- meit, Frankfurt a.M. 1982; Briefe an Milena. Erweiterte Neuausgabe, a cura di J. Born e M. Müller, Frankfurt a.M. 1983.

    Principali edizioni in italiano di singole opere (le date si riferiscono alle prime edizioni):

    Il processo, tr. it. di A. Spaini, Torino, Frassinella 1933; a cura di G. Zampa, Milano, Adelphi, 1973; di P. Levi, Torino, Einaudi, 1983; a cura di Giulio Raio, Roma, Newton Compton, 2006.

    La metamorfosi, tr. it. di R. Paoli, Firenze, Vallecchi, 1934; di E. Castellani, Milano, Garzanti, 1978; di A. Rho, Milano, Rizzoli, 1980; a cura di A. Castellari, Milano, Mondadori, 1987; di A. Lavagetto, Milano, Feltrinelli, 1991; di G. Schiavoni, Roma, Laterza, 1995; di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1997; Firenze, Giunti, 2004; di L. Coppé e G. Raio, intr. di F. Desideri, Roma, Newton Compton, 2006.

    America, tr. it. di A. Spaini, Torino, Frassinelli, 1945; di G. Agabio, Milano, Garzanti, 1989; di E. Franchetti, Milano, RÌZZOIÌ-BUR, 1990; di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 1996; di M. Ulivieri, Roma, Newton Compton, 2007.

    Il Castello, tr. it. di A. Rho, Milano, Mondadori, 1948; di C. Morena, intr. di F. Masini, Milano, Garzanti, 1991; di P. Capriolo, Torino, Einaudi, 2002; tr. it. di E. Franchetti, a cura di F. Schiavoni, Milano, BUR, 2005; di G. Porzi, intr. di I.A. Chiusano, Roma, Newton Compton, 2006.

    Racconti, tr. it. di A. Rho, Torino, Frassinelli, 1935; di G. Zampa, Milano, Feltrinelli, 1957; di H. Fürst, Milano, Longanesi & C., 1965.

    Lettere a Milena, a cura di W. Haas, Milano, Mondadori, 1954; a cura di F. Masini, Milano, Mondadori, 1988.

    Lettera al padre, tr. it. di A. Rho, Milano, Mondadori, 1959; Lettera al padre e Preparativi di nozze in campagna, tr. it. di A. Rho e G. Tarizzo, Milano, Il Saggiatore, 1959; di C. Groff, postfazione di G. Bataille, Milano, Feltrinelli, 1987; Lettera al padre; Gli otto quaderni in ottavo; Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, tr. it. di A. Rho e I.A. Chiusano, Milano, Mondadori, 1988; di F. Ricci e L. Coppé, intr. di I.A. Chiusano, Roma, Newton Compton, 2006.

    Descrizione di una battaglia e altri racconti, tr. it. di R. Paoli e E. Pocar, Milano, Mondadori, 1960.

    Confessioni e immagini, pref. di E. Zolla, tr. it. di I.A. Chiusano, A. Rho e G. Tarizzo, Milano, Mondadori, 1960.

    Lettere a Felice 1912-1917, tr. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1962.

    Lettere a Ottla e alla famiglia, tr. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1976.

    Schizzi, parabole, aforismi, Milano, Mursia, 1983.

    Lettere, a cura di F. Masini, Milano, Mondadori, 1988.

    Sogni, Palermo, Sellerio di Giorgianni, 1990.

    Ultime lettere ai genitori, con un saggio di P. Citati, Milano, Rizzoli, 1990.

    Edizioni complessive in italiano

    Tutte le opere di Franz Kafka, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1964 ss. (dal 1972 nei Meridiani in 4 voli.: Romanzi, Racconti, Lettere a Felice, Confessioni e Diari); I racconti, a cura di G. Schiavoni, RÌZZOIÌ-BUR, Milano 1985; Tutti i racconti, intr. di G. Raio, tr. it. L. Coppé, G. Raio, Roma, Newton Compton, 2006; Tutti i romanzi e i racconti, intr. di I.A. Chiusano e G. Raio, Roma, Newton Compton, 2006.

    BIOGRAFIE

    M. BROD, Franz Kafka. Eine Biographie. Erinnerungen und Dokumente, Prag 1937; Frankfurt a.M. 1954 tr. it. di E. Pocar, Milano 1956; K. WAGENBACH, Franz Kafka. Eine Biographie seiner Jugend, 1883-1912, Bern 1958; tr. it. di E. Pocar, Milano 1968; K. WAGENBACH, Franz Kafka. Bilder aus seinem Leben, Berlin 1983; tr. it. di R. Colorni, Milano 1983.

    BIBLIOGRAFIE

    La bibliografia kafkiana ha raggiunto ormai una mole enorme. Ci è parso quindi opportuno limitarci alle opere e alle edizioni principali, rinviando il lettore, per un approfondimento, ai repertori bibliografici, dei più importanti dei quali diamo indicazione.

    Per una conoscenza degli orientamenti critici vedi:

    R. HEMMERLE, Franz Kafka. Eine Bibliographie, München 1958.

    H. JÄRV, Die Kafka-Literatur. Eine Bibliographie, Malmö-Lund 1961.

    Franz Kafka-Bibliography: 1960-1970, «Research Studies», Washington, 40/2 (1972), pp. 140-62, e 40/3 (1972), pp. 222-38.

    P. U. BEICKEN, Franz Kafka. (Eine kritische Einführung in die Forschung), Frankfurt a. M. 1974.

    A. FLORES, A Kafka Bibliography, 1908-1976, New York 1976.

    M.L. CAPUTO MAYR e J.M. HERZ, Kafkas Werke, Eine Bibliographie der Primärliteratur, 1908-1980, München 1982.

    M. ROBERT, Seul comme Franz Kafka, Paris 1979 (Solo come Franz Kafka, Roma, Editori Riuniti, 1982).

    M. MÜLLER, Franz Kafka, Pordenone 1990.

    M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, Roma-Bari 1993.

    Walter Benjamin lettore di Kafka (a cura di G. SCARAMUZZA), Milano 1994.

    K.E. GROZINGER, Kafka and kabbalah, New York 1994.

    Z. MAIOROWITZ, Kafka: per cominciare, Milano 1994.

    A. FUSCO, I racconti di Kafka: un'analisi psicologica, Milano 1995.

    E. BOA, Kafka: gender, class and race in the letters andfictions, Oxford 1996.

    G. DELEUZE, Kafka: per una letteratura minore, Macerata 1996.

    G. BAIONI, Kafka, romanzo e parabola, Milano 1997.

    M.V. BORGHESI, Nel cielo stellato del bene: tradizione e scrittura all'epoca di Kafka, Bergamo 1997.

    C. THIEBAUT, Kafka: processo alla parola, Torino 1997.

    B. ALLEMAN, Zeit und Geschichte im Werk Kafkas, Gottingen 1998. M. BUBER NEUMANN, Milena, Vamica di Kafka, Milano 1999.

    M. CANAUZ, Kafka e le donne, Firenze 2000.

    R. CANTONI, Franz Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, Milano 2000.

    P. CITATI, Kafka, Milano 2000 (1987).

    C. SCHARF, Franz Kafka: poetischer Text und heilige Schrift, Göttingen 2000.

    R. MALAGOLI, Interpretando Kafka: scrittura, memoria e redenzione, Pisa 2001.

    D. STIMILLI, Fisionomia di Kafka, Torino 2001.

    R. CALASSO, K., Milano 2002.

    J. URZIDIL, Di qui passa Kafka, Milano 2002.

    M. NEKULA, Franz Kafkas Sprachen: ...in einem Stockwerk des innern, Tubingen 2003.

    S. VON GLINSKI, Imaginationsprozesse: Verfahren phantastischen Erzählens in Franz Kafkas Frühwerk, Berlin 2004.

    F. RELLA, Proust e Kafka, Milano 2005.

    AMERICA

    America. titolo originale:Amerika.

    Traduzione di Mirella Ulivieri

    Pinocchio nelle «lontane Americhe»

    Non esiste un romanzo di Franz Kafka intitolato Amerika («America»), Il presente libro, che porta quel titolo e che Kafka compose tra il 1911 e il 1914, veniva da lui chiamato Der Verschollene («Il disperso»). Ne fece conoscere il primo capitolo, Der Heizer («Il fochista»), nella collana «Der jüngste Tag» ('Il giorno del giudizio') dell'editore Kurt Wolff nel maggio del 1913, Benché, dopo la stesura delle ultime parti — già frammentarie, che possiamo leggere in quest'edizione — Kafka dovesse vivere fino al 3 giugno 1924, egli non tornò più sul manoscritto, che lasciò incompiuto.

    Il periodo della composizione vede un Franz Kafka giovane ma già maturo, tra i ventotto e i trentun anni, Del resto quello che l'amico MaxBrod, pubblicandolo postumo nel 1927, intitolò Amerika, non nasce isolato, in un'epoca dedicata soltanto alla sua stesura, Al contrario, è proprio in quegli anni che si profilano alcune delle vette narrative del genio kafkiano. Nel 1910 inizia quello zibaldone di spunti anche narrativi, oltre che di rivelazioni personali e di illuminazioni prof etico-filosofiche, che sono / Tagebücher («Diari»), Nel 1912, anno densissimo, nascono Das Urteil («La condanna») e Die Verwandlung («La metamorfosi»): due racconti — specie il secondo — sommamente rappresentativi di Kafka artista, uomo, pensatore, rivoluzionario della sensibilità e delle forme, Nello stesso 1912 Kafka cominciava a farsi conoscere oltre la ristretta cerchia degli amici praghesi pubblicando il suo primo volume: le prose intitolate Betrachtung («Contemplazione»), edite da Ernst Rowohlt.

    Come si è detto, il 1913 reca la pubblicazione del primo capitolo del presente libro, Il fochista. Ma anche, nella rivista Arkadia, del racconto La condanna La metamorfosi vedrà invece la luce, in Die weissen Blätter, nel 1915), Il 1914 vedrà la stesura del romanzo Der Prozess («Ilprocesso»: che si leggerà postumo nel 1925, sempre a cura di MaxBrod) e del racconto In der Straf-kolonie («Nella colonia penale»: edito da Wolff nel 1919), Non occorre essere grandi conoscitori di Kafka per capire che quello che d'ora in poi anche noi chiameremo America veniva emergendo in simbiosi con alcune delle opere più rivelatrici di Kafka,. quando ormai tutti i suoi plessi tematici, le sue inimitabili atmosfere, i suoi cripto-messaggi mediante immagini erano usciti dalla fase embrionale e assurti a una pienezza e felicità artistica che le creazioni degli anni successivi avrebbero in qualche caso eguagliato ma non certo superato o messo in ombra. Insomma, America è un frutto della stagione aurea della creatività kafkiana.

    Ma siccome, a paragonarlo agli altri due romanzi (Il processo e Il castello), America si rivela in qualche modo diverso — alcuni sostengono, molto radicalmente diverso — sono sorti alcuni malintesi da parte della critica che tale diversità ha voluto spiegare. Decisiva la notizia di Max Brod, editore postumo e amico intrinseco di Kafka, secondo il quale lo stesso autore, nei suoi colloqui, avrebbe fatto rilevare che questo romanzo era «più ricco di gioiosa speranza e più'luminoso' di qualunque altra cosa avesse mai scritto». Donde una tesi del tutto infondata: che America fosse l'ultimo dei romanzi scritti da Kafka, cioè una sorta di Falstaff verdiano, sereno e conciliante, dopo tanta tragedia e tante cupezze del passato. Bastano le date di composizione per ridurre al nulla quest'ipotesi.

    L'altro errore è di ravvisare in America non solo il primo dei romanzi kafkiani (cosa senz'altro vera), ma un frutto primaticcio e preludiale: diciamo il giardino dell'Eden, dell'innocenza infantile, da cui si verrà presto scacciati. Anche questa tesi viene a cadere se si considera quali racconti e quale romanzo (Il processo) Kafka scrivesse mentre era ancora sul telaio l'arazzo incompiuto di America. Forse, per vederci più chiaro, sarà il caso di prendere in esame l'opera e trarre poi le conclusioni a ragion veduta.

    Il protagonista è un ragazzo praghese di sedici anni, ex studente ginnasiale. Già questo lo renderebbe molto diverso dai protagonisti dei due altri romanzi kafkiani, entrambi maturi e sistemati in una professione borghese di buon livello: impiegato di banca quello del Processo, agrimensore quello del Castello. Eppure, in qualche modo, sono tre autoritratti — stilizzati quanto si vuole — dello stesso autore, e ne fa fede il loro nome, che inizia sempre con la k, come Kafka: Josef K. (Il processo), K. (Il castello), Karl Rossmann (America). Per di più è trasparente, nel caso di America, la sottolineata origine praghese di Rossmann. Il quale, nel primo capitolo, sta giungendo su un transatlantico a New York. Non certo in viaggio di piacere, ma in un viaggio di punizione e di esilio che fa pensare, da un lato, all'antico tema ebraico dell'esodo (che verrà esplicitamente accennato quando una delle città in cui Karl sarà costretto a «servire» si chiamerà Ramses, come una di quelle in cui gli Ebrei ebbero a patire la schiavitù d'Egitto: si veda Esodo, I, 11-14), dall'altro al fenomeno molto statunitense delle navi che trasportavano dall'Africa gli schiavi neri (e l'autore vi accennerà larvatamente quando alla fine del libro Rossmann, facendosi ingaggiare da una grande impresa teatrale, tacerà il proprio nome dicendo invece di chiamarsi Negro).

    Che cosa ha commesso Karl Rossmann per essere bandito dai genitori e dalla patria in così tenera età? Si è lasciato sedurre da una domestica, che è rimasta incinta. (Traparentesi, un caso simile era successo a un cugino di Kafka, mentre un altro venne mandato — o andò di testa sua — in America. In modo più normale approdarono nel nuovo mondo altri due cugini: figli di zio Heinrich, mentre i primi due erano figli di zio Philipp.) Quando sentiremo raccontare, dallo zio del romanzo, Jakob, questa squallida avventura di vampirismo ancillare, tre cose ci colpiranno: l'indelicatezza di spiattellare certe miserie, presente il giovane «colpevole», di fronte a un pubblico di persone anche autorevoli; la sproporzione tra la colpa (se colpa fu, anziché — come verrebbe da pensare — un'aggressione e violenza subita contro voglia dall'ingenuo Karl); e il sesso sentito e rappresentato come degradazione, sopraffazione, egoismo allo stato puro, quasi peccato originale: un marchio d'infamia che, per parlar solo di questo romanzo (ma in Kafka è una nota frequente) ritroveremo in due personaggi come Klara Pollunder e Brunelda.

    Giunto a New York, Karl resta impressionato dal traffico caotico e in qualche modo surreale delle navi e dei battelli in movimento nel porto; e dalla Statua della Libertà, che invece d'una fiaccola impugna alta una spada (giustizia inesorabile o aggressività?). Molto kafkiano, fin dall'inizio, lo smarrirsi del ragazzo tra i corridoi della nave, autentico labirinto generatore di confusione e di angoscia; e di tipo chapliniano (Chaplin ci verrà in mente spesso, leggendo queste pagine dove la vita americana ha le accelerazioni disperanti di una comica da film muto) la perdita dell'ombrello e della valigia, affidati a uno sconosciuto al momento dello sbarco. Segue l'incontro col fochista, in una cabina claustrofobica che ricorda luoghi consimili del Processo o della Tana. Nella simpatia filiale, devota, tenera, pietosa, perfino un tantinello ambigua di Karl per quell'omaccione ingenuo e maltrattato si sono lette varie motivazioni: una preferenza di tipo marxista per le classi subalterne, infinitamente più schiette e amabili di quelle dominanti; una Charitas di tipo chassidico o addirittura evangelico per quei puri bambini che sono gli umili e gli oppressi; lo struggente desiderio di una figura paterna che non assomigli a quel padre punitivo e inesorabile che Karl ha lasciato in Europa e di cui conserverà solo (finché gli verrà rubata) una fotografia che lo ritrae insieme con la madre. Accettabile che sia l'una o l'altra interpretazione (o, come credo, tutte e tre), balza agli occhi, in questo rapporto, l'amore combattivo per la giustizia che Karl nutre in sé e di cui dà prova, riuscendoci subito simpatico. Avendo infatti appreso che il fochista è soggetto alle persecuzioni del capomacchinista Schubal, Karl difende il suo nuovo amico al cospetto delle autorità della nave, radunate nella cabina del capitano.

    È lì che Karl s'imbatte in suo zio, venuto a rilevarlo. È una persona facoltosa e vivace, anche se non privo di durezze, che fa gran festa al nipote e se lo porta nella sua ricchissima casa di plutocrate e di supermanager, facendogli conoscere la vita americana al massimo delle sue possibilità avveniristiche. Dopo lo straziante addio al fochista, assistiamo all'inserimento di Karl nell'America già babelica e fantascientifica di quegli «anni Dieci». Una visione dall'alto delle strade di New York ingorgate dal traffico sa più di un film come Metropolis (1927) di Fritz Lang che di realistico documentario d'epoca, così come la sofisticatissima scrivania di zio Jakob, descritta con la minuzia di un iperrealista, sa più di «oggetto spaziale» che di mobilia sia pure d'avanguardia.

    Per un poco Karl ristagna, beato, in una vita da miliardario, tra visite ai posti di lavoro dove zio Jakob costruisce il suo impero, sonatine su un bellissimo pianoforte, lezioni d'inglese (che l'intelligente Karl impara subito assai bene), addestramento all'equitazione, uno sport che gli dà modo di conoscere il giovane dandy mister Mack.

    Ma conosce anche due amici intimi e coetanei dello zio: il bonario Pollunder e l'alquanto sarcastico e sinistro Green. È da Pollunder che parte un'iniziativa fatale: invitare Karl nella sua villa per presentarlo a sua figlia Klara. Lo zio non gradisce la proposta, ritiene che Karl debba dedicarsi tutto alle sue lezioni e non lasciarsi distrarre. Ma alle insistenze di Pollunder e visto che Karl non si oppone, cede controvoglia. Pollunder e Karl partono subito, attraversando una caotica ma affascinante New York il cui traffico è complicato da uno sciopero dei metalmeccanici.

    Nella villa di Pollunder, quella sera, tornano potenziati alcuni temi già emersi fin dal primo capitolo. Quello del sesso come crudeltà e degradazione, quando Klara si dimostra una ninfomane sadica, che arriva a maltrattare fisicamente Rossmann e che dorme già, in casa del padre, col proprio fidanzato, il cavallerizzo Mack; quello del labirinto, quando Karl vaga per scale e corridoi e cappelle segrete di quella villa da romanzo gotico trasportato nell'età dei motori; e quella della cacciata dall'Eden, quando il diabolico Green, fattosi trovare già presente in villa, comunica a Karl che lo zio lo ha bandito per sempre dalla sua presenza, avendo considerato un'offesa la sua sordità al proprio desiderio di non accettare l'invito di Pollunder. Karl incassa con lo stile d'un cavaliere di re Artù, dimostrando una maturità commovente: e inizia la sua odissea nel mondo dell'esilio e dell'asservimento. Così, persa la bonaria figura paterna del fochista e quella prestigiosa e affettuosa dello zio, egli è un orfano il cui vero padre è un lontano e minaccioso ricordo al di là dell'oceano.

    In un albergacelo fuori New York, questo Pinocchio senza Geppetto trova subito, pronte, le controfigure del Gatto e della Volpe, cioè due vagabondi acchiappacitrulli: l'astuto francese Delamarche e il servile, facchinesco irlandese Robinson. I due se lo trascinano dietro verso chissà quali destini da romanzo picaresco spagnolo o da On the road (1957) della futura «beat generation» impersonata da Kerouac. La vista di New York, alle loro spalle, da lontano, o quella della strada statale percorsa da un traffico quasi comico nella sua irruenza fluviale (par già di vedere certe sequenze del Trafic di Tati, che è del 1971) sono l'ultimo addio a un mostro di megalopoli futurista che pare estendere le sue pulsazioni, attraverso la rete viaria e autostradale, a tutto un Paese che vive nella più congestionata assurdità. (Anche qui par di trovarsi di fronte allo stupore dei due sovietici Il'f e Petrov, che nel Paese di Dio, nel 1936, vedono l'America come inferno capitalista, memori come sono della loro Russia rivoluzionaria ma tuttora profondamente contadina; eppure non riescono a nascondere il loro ammirato sbalordimento dinanzi a quella molochiana strapotenza vitale.) Andato a prendere un po' di cibo in un colossale albergo di lusso nei dintorni della già citata Ramses (d'obbligo un'altra reminiscenza: Grand Hotel, un fortunatissimo film del 1932), al ritorno Karl scopre che i due vagabondi gli hanno manomesso la valigia. Aiutato da un angelo sotto forma d'inserviente d'albergo, Karl lascia i due malviventi (che gli hanno fatto sparire l'unica foto dei suoi genitori, cosa che rende simbolicamente totale la suo orfanezza) e accetta l'offerta di una generosa, materna capocuoco, la viennese Grete Mitzelbach, facendosi assumere come liftboy in quel mastodonte di albergo che si chiama Hotel Occidental. Là si fa subito un'altra amica (sororale e sottomessa quanto Grete è protettiva e matura), cioè la segretaria della capocuoco, la piccola Therese Berchtold, una pomerana. Con queste soccorrevoli creature Kafka bilancia le altre donne di segno negativo, oscuro, animalesco, che — come si è detto — in molte opere di Kafka e anche in questa fanno le loro conturbanti apparizioni. Durissima è la fatica di un inserviente all'ascensore, in quell'albergo. Ma Karl è un soldatino coraggioso, nella sua divisa piena di bottoni, e regge stupendamente, pur godendo pochissimo sonno nel dormitorio comune dove la luce accesa di continuo e le zuffe o partite a carte e a dadi dei giovani colleghi non danno quasi un attimo di pace. Viene in mente, per quel fresco protagonista immerso come groom nell'ambiente di un albergo di lusso tutto ricchi uomini di affari e bellissime donne ingioiellate, un'altra opera della letteratura tedesca che forse subì l'influsso di questo romanzo: il Felix Krull di Thomas Mann, grande ammiratore dell'«umorista religioso» Kafka.

    Le prospettive sono buone: domani l'umile Karl Rossmann, aiutato dall'influente Grete, potrebbe far carriera. Ma il diavolo — come nel Paradiso terrestre — ci mette la coda, e tutto va all'aria. Una malaugurata visita di Robinson, ubriaco fradicio, che costringe Karl a scaricarlo nella camerata dei liftboys lasciando incustodito l'ascensore in un momento particolarmente delicato, gli fa ancora una volta «infrangere la Legge». Interrogato dal capocameriere furioso, accusato con particolare astio dall'ottuso e crudele portiere capo, Karl viene licenziato in tronco, nonostante che Grete (di cui il capocameriere è innamorato) interceda per lui. Un altro Eden che gli si chiude alle spalle. Il ragazzo — anche ora di un grandissimo controllo e di un lucido coraggio che ne fanno un piccolo Lohengrin o Parzival sperduto in mezzo ai lestrigoni, ai demoni, ai cretini, ai bruti — porta via in tassì, senza detestarlo, quell'ubriacone di Robinson, responsabile della sua nuova disgrazia.

    La tappa successiva è la città di Ramses, dove Delamarche abita con Robinson ai piani alti dì una casa che sta tra il grattacielo e l'alveare. Karl tenta la fuga, inseguito da un poliziotto che sembra uscito da una vecchia comica. Ma Delamarche lo riacciuffa e se lo riporta a casa. Padrona e dea di quello squallido appartamento in cui regnano sporcizia e disordine è Bruneida, un'obesa cantante lirica che ha piantato il sempre devotissimo marito industriale e la propria villa per mettersi con Delamarche, il quale la venera in ginocchio. E la più ributtante delle creature femminili di Kafka, qualcosa tra Venere preistorica tutta poppe e deretano, Messalina in edizione luna-park, diva isterica da palcoscenico di terz'ordine, battona da trivio o da porto con arie di gran signora (la scena del suo bagno è un piccolo capolavoro). Fin fi i servizi più umili li aveva prestati Robinson. Ma ora, picchiato a sangue all'Hotel Occidental, a Robinson non par vero di atteggiarsi a invalido per passar la mano a Karl.

    Intanto i due devono stare sul terrazzo per ore come una coppia di cani o di gatti indesiderati. Di lì assistono a una scena di comizio rionale che dà, dell'America «democratica» di allora, un quadro di grottesca ma anche simpatica cialtronaggine. E di notte, mentre i due amanti in casa dormono, Karl dialoga sottovoce con uno studente-lavoratore che, sul terrazzo vicino, studia per far carriera e nelle pause gli prospetta quanto sia duro affermarsi negli Stati Uniti. Karl lo ha già capito, sa che tanta efficienza avveniristica viene pagata con uno sfruttamento e una fatica da ricordare quelli dei costruttori delle piramidi. Ma non è mai stato lagnoso opieno di sé. Umile senza essere mai strisciante, è disposto a sgobbare senza risparmio, dedicando tutte le proprie energie all'impresa o al padrone che un giorno lo assumeranno, quando — egli spera — sarà riuscito ad affrancarsi da Delamarche e soci. Ma ci vorrà del tempo. Un suo tentativo di fuga è finito in un atroce pestaggio da parte del francese.

    Seguono i due frammenti che pubblichiamo. Nel primo si vede come Karl, accompagnato da Robinson, procura la colazione ai «padroni», e lo fa con tanta grazia e abilità che Brunelda si dice molto contenta di lui; nel secondo restano soli lui e la donna. Una Brunelda incredibilmente intimidita e come rimpicciolita viene da lui spinta in una sedia a rotelle (ma che diavolo le è capitato?) per le strade della città, fra curiosi che cercano di sapere di chi si tratti, fino a un misero vicoletto dove li accoglie — gentile con lei, scorbutico con lui — il gerente di una certa «impresa numero 25» che si distingue per untume e squallore.

    Fin qui non solo il racconto fila liscio e compatto che è una gioia seguirlo, ma vola anche molto alto nel cielo dell'originalità poetica, della scrittura, dell'invenzione. Anche quando si sfiora il patetico e il lacrimoso, se ne resta sempre fuori grazie a un umorismo grottesco che non ci permette di adagiarci mai nel sentimentale e per l'esattezza scandita e crudele con cui viene descritta ogni situazione, ogni gesto, ogni reazione interna ed esteriore. Si veda a questo proposito la scena della piccola Therese e di sua madre, due poverelle scacciate da tutti e costrette a peregrinare in una notte di neve sino alla morte della prima.

    Kafka, in questi primi sette capitoli, più i due frammenti, è di un'alacrità poetica frizzante. Non solo il lettore, ma si sente che lo stesso autore prova una fervida gioia a vedere e a far vedere, a sentire e a far sentire quel mondo che, magari, gli ricorda le avventurose peripezie dei romanzi di Dickens (e infatti a proposito di America egli parla di «romanzo dickensiano») o che trae tanti spunti da un libro come L'America ieri e oggi (1912) di Arthur Holitscher, ma che tuttavia egli reinventa e trasfigura e fa lievitare informe che possono ricordare certe caratteristiche del discorso surrealista o espressionista, ma che soprattutto si possono definire in un modo solo: kafkiane.

    Non occorre la testimonianza di Max Brod, secondo il quale Kafka «lavorava a quest'opera con piacere sempre rinnovato». Lo sentiamo noi stessi e, a ogni capoverso, a ogni riga.

    Ma, a parer mio, il capitolo finale (naturalmente della parte giunta fino a noi), cioè «Il teatro naturale di Oklahoma», tradisce una certa stanchezza. Karl, riemergendo da non si sa quali avventure in cui si è sbarazzato del losco terzetto Delamarche- Brunelda-Robinson, si lascia attirare da un manifesto che promette l'ingaggio a chiunque si presenti, nell'ippodromo di Clayton, perfar parte del gran teatro di Oklahoma. Una reviviscenza di genio kafkiano si ha all'inizio, con lo spettacolo di quegli anglofoni da fiera che, ritti su alti piedistalli, fanno da richiamo agli indecisi stonando mica male nelle loro lunghe trombe. Ma ciò che segue (l'esame, l'assunzione, il banchetto, la partenza in treno verso le future rappresentazioni nel cuore degli States) sembra frutto di appannamento, quasi Kafka avesse perso amore alla materia. Lo stesso fatto che riemerga l'ex liftboy Giacomo, il più sbiadito tra i personaggi dell'Hotel Occidental, non sembra promettere molto.

    Eppure sulla continuazione e la fine del romanzo ciascuno di noi inevitabilmente s'interroga e fa le sue ipotesi. A sentir Brod, attraverso il teatro di Oklahoma il giovane Rossmann «avrebbe ritrovato, come per magia paradisiaca, una professione, la libertà, un sostegno, e persino la patria e i genitori». Niente male, come prospettiva. Ma era davvero questo il traguardo che Kafka vedeva all'orizzonte di quello che chiamava il suo «romanzo americano»? Una nota dei Diari (del30settembre 1915, quando cioè quello che possediamo di questo romanzo era già tutto composto), suona: «Rossmann e K. (= il protagonista del Processo, l'innocente e il colpevole, alla fine entrambi uccisi, senza alcuna differenza, per punirli: l'innocente con mano più leggera, più spinto da parte che ammazzato». La differenza dalla soluzione riferita da Brod è vistosa, direi quasi antitetica.

    Del resto è credibile che quel gran baraccone ciarlatanesco del teatro di Oklahoma possa fornire epifanie e parusie così celestiali? Mi viene in mente, ancora una volta, Pinocchio, col quale scopro che America ha strane cuginanze. Quest'impresa teatrale, così in sintonia con l'americanismo di certi spettacoli-monstre come quelli organizzati da Barnum o da Buffalo Bill, non assomiglia all'arruolamento indiscriminato e adulatorio con cui nel romanzo di Collodi i ragazzi vengono avviati al Paese dei Balocchi, col bel vantaggio che alla fine quei poveretti ne ricaveranno? Ma se anche, nonostante premesse così inquietanti, Rossmann dovesse in ultimo trovare tutto quel ben di Dio di cui parla Brod, non sarebbe un lieto fine deludente, proprio come quello di Pinocchio, spogliato della sua simpatica e tormentata burattinitàper trasformarsi in un banale «ragazzinoper bene»? A una conclusione così kitsch (non in se stessa, ma in relazione al libro che dovrebbe sigillare) si può giungere soltanto qualora si insista a vedere in America il più sereno e ottimista dei romanzi kafkiani; o addirittura, senza alcun comparativo, un libro risolutamente sereno e ottimista. Ho già accennato a quanto può suggerire un tale errore di valutazione. Ma è pur sempre un equivoco. Certo, nel Processo e nel Castello l'atmosfera è più cupa, grigia, asfissiante. Il primo, poi, ha un finale univocamente tragico, che recide ogni speranza a chi vagheggiasse una soluzione di giustizia o almeno di clemenza verso il povero protagonista. Quanto al Castello, non sappiamo come Kafka lo avrebbe concluso. Ma stavolta Max Brod non può prometterci più che una morte dignitosa con qualche parziale, anzi minima soddisfazione per l'agrimensore K.

    E tuttavia, a ben guardare, la storia di Karl Rossmann (e il clima — cosa importantissima, anzi decisiva — in cui tale storia è immersa) non la cede di molto, sul piano dell'angoscia, agli altri due romanzi. Non è una novità sostenere che il tormentone e l'assurdità di certe comiche (appunto di Chaplin, ma anche di Buster Keaton, per citare solo due cospicui esempi) nonostante l'ilarità che provocano, ci lasciano dentro un prurito di insoddisfazione, di vergogna, di sommessa disperazione che a volte scambieremmo volentieri col senso di pulizia e di benessere etico scaturente da una bella catarsi tragica, anche se lastricata di cadaveri.

    Karl Rossmann è candido, è simpatico, è cavalleresco, è innocente? Ragione di più per soffrire e per sentirsi offesi nel nostro senso di giustizia quando lo vediamo così ripetutamente punito e deluso, sbeffeggiato e sfruttato, schiavizzato e percosso da un popolo di uomini e di donne (per lo più adulti, quindi nelle vesti di padri e di madri snaturati) che pare studiarle tutte per rendergli impossibile una vita già diffìcile in partenza. Scacciato dal Paradiso della famiglia, per di più per un fallo che in realtà era stato una violenza da lui patita, illuso e poi respinto nel buio e nella miseria dallo zio per una colpa ancora più cervellotica e inesistente, licenziato dai padriorchi dell'Hotel Occidental per una mancanza che nasce da un suo atto di carità, trattato peggio di un cane da Delamarche e dai suoi complici, terrorizzato dallo studente con prospettive di lavoro semplicemente infernali; c'è da credere che quegli «omini di burro» che lo allettano cerimoniosamente a seguirlo nel Paese dei Balocchi, voglio dire nel gran teatro naturale di Oklahoma, non gli riserveranno l'ennesima e forse ultima buggeratura? O che in un'America vista come un'impressionante Babele collettivistica e meccanica, dove tutto sembra funzionare come per magia, ma a patto di perdere la propria personalità e di annullarsi, come la più anonima e ben oleata delle rotelle, nell'immenso macchinario dell'efficientismo e del profitto, possa dargli i tesori spirituali (libertà, sostegno, genitori) di cui parla Brod e che sono troppo legati a una «cultura dell'anima» per poter attecchire in un simile terreno? D'accordo, il teatro di Oklahoma può essere una metafora, anzi lo è di certo. Ma un artista come Kafka le sa scegliere, le sue metafore. Come non si può cavar sangue da una rapa, così è incongruo e stridente che una baraonda di baracconi dove il sensazionalismo e il business sembrano gli unici valori perseguiti e perseguibili sia la metafora pertinente d'una conquista di valori che si tingono di assoluto e di eterno. Una forma di martirio (e anche il non dar più notizia di sé, il risultare «disperso», può essere un martirio, forse il più sottilmente doloroso): ecco ciò che forse aspettava Karl Rossmann, questo «puro folle», questo «puer aeternus», questo sublime e insieme dimesso innocente che Kafka ci ha fatto conoscere.

    Forse l'autore, che s'identificava coi suoi personaggi e aveva una sensibilità morbosa, non se l'è più sentita di «torturare» una creatura così amabile e indifesa, alla quale avrà spesso sussurrato, tornando bambino come tutti, credo, i lettori di America: «Attento, Karl! Non cascarci: è una trappola! Scappa! Reagisci! Difenditi!». Nei due romanzi successivi o già iniziati questa situazione non si sarebbe ripetuta più. Josef K, l'agrimensore, lo stesso Gregor Samsa della Metamorfosi non sono né adolescenti né così puri. Anzi, chissà che cos'hanno da rimproverarsi, di poco nobile, nella loro vita precedente. Quelli, Kafka li avrebbe «torturati» con minori rimorsi. E così a Karl Rossmann fece il dono di lasciarlo sul treno che lo portava nel cuore dell'America., avendo ancora in sé qualche speranza. Ma il lettore attento noterà che il tono convince poco o non convince affatto. E, magari, ringrazierà il cielo che il romanzo si sia interrotto a quel punto.

    ITALO ALIGHIERO CHIUSANO

    Il fuochista

    Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva avuto un figlio da lui, entrò nel porto di New York sulla nave che aveva rallentato, vide la statua della Libertà tanto a lungo contemplata, come se attorno ad essa la luce del sole si fosse improvvisamente fatta più intensa. Il braccio con la spada svettava alto come se si fosse alzato allora, e attorno alla sua figura aleggiava libera l'aria.

    «Com'è alta!», si disse, e giacché non pensava minimamente a muoversi fu spinto via via contro il parapetto dalla folla sempre più folta di facchini che gli passavano accanto.

    Un giovanotto con cui aveva fatto una superficiale conoscenza durante il viaggio gli disse passando: «Non ha ancora voglia di scendere?». «Io sono pronto», disse Karl e lo guardò ridendo, e un po' per spavalderia, e un po' perché era un ragazzo robusto si mise la valigia in spalla. Ma guardando il suo conoscente che già si allontanava con gli altri facendo lievemente oscillare il bastoncino, si accorse costernato di aver dimenticato giù nella nave il suo ombrello. Pregò in tutta fretta il conoscente, che non parve molto entusiasta, di aspettare per cortesia qualche istante accanto alla sua valigia, diede un'ultima occhiata al luogo per raccapezzarsi al ritorno e si allontanò di corsa. Di sotto trovò con disappunto che un passaggio il quale gli avrebbe di molto accorciato il percorso, era stato chiuso, il che verosimilmente aveva a che vedere con lo sbarco dei passeggeri, e dovette faticosamente cercare delle scale che scendessero fino in basso attraverso corridoi che piegavano in continuazione, una cabina vuota con una scrivania deserta, sinché non si fu davvero perso del tutto, dato che aveva fatto quel percorso una volta o due soltanto, e sempre in numerosa compagnia. Nel suo sgomento, e poiché non incontrava nessuno e sopra di sé udiva soltanto il continuo scalpiccio di migliaia di piedi, e di lontano percepiva l'ultimo ansito delle macchine già spente, senza riflettere si mise a bussare a una porticina davanti alla quale si era fermato nel suo girovagare.

    «È aperto», gridarono da dentro, e con vero sollievo Karl aprì la porta. «Perché bussa così come un pazzo?» chiese un uomo gigantesco dandogli appena un'occhiata. Da una specie di lucernario una luce opaca, già consumata nella parte alta della nave, scendeva nella misera cabina nella quale erano stipati, come in un magazzino, un letto, un armadio, una poltrona e l'uomo. «Mi sono perso», disse Karl, «durante il viaggio non me n'ero accorto, ma è una nave terribilmente grande.»

    «Sì, in questo ha ragione», disse l'uomo con un certo orgoglio, continuando a trafficare attorno alla serratura di una valigetta che premeva con ambedue le mani, cercando di udire lo scatto della serratura. «Ma venga dentro!», proseguì l'uomo, «non vorrà mica restare là fuori!»

    «Non disturbo?», chiese Karl. «E perché dovrebbe disturbare?»

    «Lei è tedesco?», cercò ancora di assicurarsi Karl, che aveva udito dei molti pericoli che minacciavano i nuovi arrivati in America, specie da parte degli irlandesi. «Tedesco, tedesco», disse l'uomo. Karl però esitava ancora. Allora l'uomo afferrò all'improvviso la maniglia e chiudendo di colpo la porta spinse Karl dentro la cabina. «Non sopporto che mi si guardi dal corridoio», disse l'uomo che si era rimesso a trafficare attorno alla valigia, «Tutti quelli che passano guardano dentro, non ci resisto!»

    «Ma il corridoio è vuoto», disse Karl pressato scomodamente contro il letto. «Già, adesso», disse l'uomo. «Ma è ben di adesso che stiamo parlando», pensò Karl, «è difficile discorrere con quest'uomo.»

    «Si metta sul letto, così avrà più spazio», disse l'uomo. Karl vi si arrampicò sopra alla meglio, ridendo di cuore nel vano tentativo che aveva fatto di montarci sopra d'un balzo. Ma non appena fu sul letto, esclamò: «Santo cielo, mi sono completamente dimenticato della valigia!». «Dov'è?»

    «Sopra coperta, ci fa la guardia un mio conoscente. Già, ma come si chiama?» E dalla tasca segreta che sua madre gli aveva cucito nella fodera della giacca per il viaggio estrasse un biglietto da visita. «Butterbaum, Franz Butterbaum». «Ha un gran bisogno di quella valigia?»

    «Naturalmente.»

    «E allora perché l'ha affidata a un estraneo?»

    «Avevo dimenticato l'ombrello di sotto e son corso a prendermelo, ma non volevo trascinarmi dietro la valigia. Poi però mi sono anche perso.»

    «Lei è solo? Senza compagnia?»

    «Sì, solo.»

    «Forse dovrei affidarmi a quest'uomo», passò per la testa a Karl, «dove trovo ora come ora un amico migliore?»

    «E adesso ha perso anche la valigia. Per non parlare dell'ombrello.» E l'uomo si sedette in poltrona, come se adesso la faccenda di Karl suscitasse in lui un certo interesse. «Credo però che la valigia non sia ancora perduta.»

    «La fede rende beati», disse l'uomo e si grattò energicamente tra i capelli scuri, corti e folti, «su una nave, con i porti cambiano anche le usanze. Ad Amburgo forse il suo Butterbaum avrebbe fatto la guardia alla valigia, qui molto probabilmente ormai non c'è più traccia né dell'uno né dell'altra.»

    «Ma allora debbo subito andar su a controllare», disse Karl cercando di scendere dalla cuccetta. «Rimanga», disse l'uomo, e con una manata sul petto lo fece ricadere indietro, in modo addirittura brutale. «Ma perché?» chiese Karl irritato. «Perché non ha alcun senso», disse l'uomo, «tra un minuto esco anch'io, così andremo insieme. O la valigia è stata rubata, e allora non c'è niente da fare, oppure quello l'ha lasciata lì, e allora la troveremo più facilmente quando la nave sarà vuota. E così pure il suo ombrello.»

    «Lei è pratico della nave?» chiese Karl con una certa diffidenza, parendogli che l'idea, del resto convincente, che sulla nave vuota le cose si sarebbero potute trovare più facilmente contenesse una trappola. «Sono fuochista», disse l'uomo. «Lei è fuochista!», esclamò Karl tutto contento, come se questo superasse ogni sua aspettativa e, appoggiato sul gomito, osservò l'uomo più attentamente. «Proprio di fronte alla cabina dove dormivo con lo slovacco c'era una finestrella da dove si vedeva la sala macchine.»

    «Sì, io lavoravo là», disse il fuochista. «Io mi sono sempre un po' interessato di tecnica», disse Karl che seguiva un suo corso di pensieri, «e sarei sicuramente diventato ingegnere se non fossi dovuto partire per l'America.»

    «Perché è dovuto partire?»

    «Lasciamo perdere», disse Karl, e con un gesto della mano liquidò tutta la storia. Intanto guardava il fuochista sorridendo, come a chiedergli indulgenza per quel che non confessava. «Ci sarà bene un motivo», disse il fuochista, e non si capiva se con queste parole volesse sollecitare o rifiutare la spiegazione di questo motivo. «Adesso potrei diventare fuochista anch'io», disse Karl, «ai miei genitori ormai non importa più niente di quel che diventerò.»

    «Il mio posto si libera», disse il fuochista, e nella piena coscienza di ciò si ficcò le mani nelle tasche dei calzoni e allungò sul letto le gambe infilate in pantaloni spiegazzati, color grigio ferro, di una stoffa che sembrava cuoio. Karl dovette farsi più vicino alla parete. «Lei lascia la nave?»

    «Sissignore, oggi ci mettiamo in marcia.»

    «Ma perché? Non le piace?»

    «Mah, sono le circostanze, che una cosa piaccia o no a volte ha poca importanza. Del resto lei ha ragione, non mi piace. Lei probabilmente non pensa sul serio di diventare fuochista, ma è proprio in questo caso che è più facile diventarlo. Io glielo sconsiglio decisamente. Se voleva fare l'università in Europa, perché non qui? Le università americane sono infinitamente migliori di quelle europee.»

    «Può darsi», disse Karl, «però praticamente non ho soldi per studiare. È vero che ho letto di uno che di giorno lavorava in un negozio e di notte studiava, e alla fine diventò dottore e credo sindaco, ma per far questo occorre una grande costanza, no? Temo che a me manchi. Inoltre come scolaro non ero particolarmente bravo, l'addio alla scuola non mi è stato davvero difficile. E qui forse le scuole sono anche più severe. Non conosco quasi per niente l'inglese. E poi, in genere qui si è un po' prevenuti contro gli stranieri, credo.»

    «Lo ha già saputo anche lei? Beh, allora tutto è a posto. Allora lei è la persona che fa per me. Vede, ci troviamo su una nave tedesca, della linea Amburgo-America, perché allora qui non siamo tutti tedeschi? Perché il capo macchinista è un rumeno? Si chiama Schubal. È una cosa da non credersi. E questo farabutto maltratta noi tedeschi, su una nave tedesca! Non creda» — gli mancò il fiato, e agitò la mano come per prender tempo — «che io mi lamenti tanto per lamentarmi. So che lei non ha influenza e che non è che un povero ragazzo. Ma è troppo dura!» E batté più volte il pugno sul tavolo senza staccar gli occhi dalla mano. «Ho prestato servizio su tante navi» — e snocciolò d'un fiato una ventina di nomi come se fossero una parola sola, Karl era completamente stordito — «e mi son fatto onore, ho avuto degli elogi, ero un lavoratore bene accetto ai miei capitani, sono rimasto persino vari anni sullo stesso veliero mercantile» — si alzò, come se quello fosse stato il punto culminante della sua vita — «e qui, su questa carretta, dove tutto fila liscio come l'olio, dove non occorre essere dei geni, qui sono un buono a nulla, qui sono sempre d'intralcio a Schubal, sono un fannullone, merito di essere buttato fuori e ricevo il salario per misericordia. Lei questa cosa la capisce? Io no.»

    «Questo lei non deve tollerarlo», disse Karl indignato. Aveva quasi perso il senso di trovarsi sul suolo incerto di una nave, sulla costa di un continente sconosciuto, tanto si sentiva a suo agio lì sul letto del fuochista. «È già stato dal capitano? Ha già difeso le sue ragioni davanti a lui?»

    «Ah, se ne vada, meglio che vada via. Io non la voglio qui. Lei non ascolta quel che dico e viene a darmi dei consigli. Come faccio ad andare dal capitano!» E stancamente il fuochista si rimise a sedere e si nascose il viso tra le mani.

    «Miglior consiglio non posso dargli», si disse Karl. E trovò che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la sua valigia, invece di star lì a dare consigli che venivano soltanto considerati sciocchi. Quando suo padre gli aveva affidato per sempre quella valigia, aveva chiesto scherzosamente: «Per quanto tempo la terrai?» e adesso forse quella cara valigia era davvero perduta. L'unica consolazione era che il padre non avrebbe potuto conoscere la sua situazione attuale anche se avesse fatto delle ricerche. La compagnia di navigazione avrebbe potuto dire soltanto che lui era arrivato a New York. Ma a Karl dispiaceva di non aver quasi adoperato le cose che erano nella valigia, sebbene per esempio da un bel pezzo avesse avuto bisogno di cambiarsi la camicia. Aveva fatto male a risparmiare; proprio adesso che, all'inizio della sua carriera, avrebbe avuto necessità di presentarsi vestito pulitamente, si sarebbe dovuto far vedere con una camicia sporca. Per il resto la perdita della valigia non era un danno così grave, perché il vestito che aveva addosso era persino meglio di quello rimasto nella valigia, che in realtà era un vestito rimediato, che la madre aveva dovuto rammendare subito prima della partenza. Adesso ricordò anche che nella valigia c'era anche un pezzo di salame di Verona, che la madre aveva aggiunto come dono speciale, ma di cui lui aveva potuto mangiare solo una piccolissima parte perché durante il viaggio non aveva avuto per niente appetito, e gli era stata più che sufficiente la zuppa che distribuivano sull'interponte. Invece adesso avrebbe voluto avere sotto mano quel salame, per farne omaggio al fuochista. Infatti le persone di quel genere si conquistano facilmente mettendo loro in mano qualche piccolezza, Karl lo aveva imparato da suo padre, che distribuendo sigari si ingraziava tutti gli impiegati di rango inferiore con cui aveva a che fare per la sua professione. Adesso, da regalare Karl aveva solo il suo denaro, e quello, dal momento che forse aveva già perso la valigia, per ora non lo voleva toccare. Di nuovo i suoi pensieri tornarono alla valigia, e adesso non capiva proprio perché durante il viaggio aveva sorvegliato la valigia con tanta attenzione che quella guardia gli era quasi costata il sonno, mentre ora se l'era fatta portar via così facilmente. Si ricordò delle cinque notti in cui aveva sospettato di continuo un piccolo slovacco, che dormiva due posti più in là alla sua sinistra, di aver delle mire sulla sua valigia. Questo slovacco aspettava soltanto che Karl, vinto dalla debolezza, finisse per assopirsi un istante, per tirarsi vicina la valigia con un lungo bastone col quale durante il giorno giocava o si esercitava. Di giorno questo slovacco aveva un'aria innocente, ma non appena calava la notte ogni tanto si alzava dal suo giaciglio e guardava tristemente la valigia di Karl. Karl se ne accorgeva benissimo perché c'era sempre qualcuno che, con l'irrequietezza dell'emigrante, accendeva un lumino, nonostante il regolamento della nave lo proibisse, e cercava di decifrare gli incomprensibili prospetti delle agenzie di emigrazione. Se quella luce era lì vicino Karl poteva assopirsi un poco, ma se era lontana oppure c'era buio era costretto a tener gli occhi aperti. Quella fatica lo aveva davvero stremato, e invece forse era stata completamente inutile. Quel Butterbaum, ah, se una volta o l'altra gli fosse capitato di incontrarlo! In quell'istante, nel silenzio totale che aveva regnato sino allora, risuonarono in lontananza piccoli brevi colpi, come di piedi infantili, il rumore aumentava via via che si avvicinavano, e poi divenne una tranquilla marcia di uomini. Evidentemente camminavano in fila, com'era naturale in quello stretto corridoio, e si udiva come un tintinnare di armi. Karl, che stava per abbandonarsi sul letto a un sonno libero da ogni pensiero per la valigia e lo slovacco, sobbalzò e scrollò il fuochista per richiamare la sua attenzione, perché la testa della processione sembrava giunta all'altezza della porta della cabina. «È l'orchestra della nave», disse il fuochista, «hanno suonato di sopra e ora vanno a far le valigie. Adesso è tutto finito e noi possiamo andare. Venga!» Prese per mano Karl, all'ultimo momento staccò dalla parete sopra il letto un quadruccio con l'immagine della Madonna, lo infilò nella tasca interna della giacca, afferrò la valigia e uscì frettolosamente con Karl dalla cabina.

    «Adesso vado nell'ufficio e dico la mia a quei signori. Non ci sono più passeggeri, non c'è più da aver riguardi.» Il fuochista ripeteva queste parole in tutti i toni, e mentre camminava tentò di schiacciare colpendolo lateralmente col piede un topo che gli traversava la strada, ma riuscì soltanto a far sì che si infilasse più rapidamente nel buco che aveva fatto in tempo a raggiungere. Era lento di movimenti, perché aveva sì le gambe lunghe, ma troppo pesanti.

    Traversarono un reparto della cucina dove alcune ragazze che indossavano dei grembiuli sudici — li macchiavano apposta — lavavano delle stoviglie in grandi mastelli. Il fuochista chiamò una certa Line, le mise un braccio attorno ai fianchi e se la trascinò dietro per un pezzetto, mentre lei si stringeva civettuola al suo braccio. «È ora di paga, vuoi venire?», le chiese. «Perché dovrei fare questa fatica? portami piuttosto il denaro qua», rispose lei, sgusciandogli di sotto al braccio e correndo via. «Dove hai pescato quel bel ragazzo?», gridò ancora, ma non attese la risposta. Si udirono le risate di tutte le ragazze, che avevano interrotto il lavoro.

    Ma loro proseguirono, e giunsero a una porta sormontata da un piccolo frontone sorretto da cariatidi dorate. Per un arredamento di nave sembrava davvero un lusso eccessivo. Karl si accorse di non essere mai stato in quella parte della nave, che probabilmente durante la traversata era riservata ai passeggeri di prima e seconda classe, mentre adesso, in vista della pulizia generale, le porte di separazione erano state tolte. In effetti avevano già incontrato degli uomini che portavano una scopa sulla spalla e che avevano salutato il fuochista. Karl era stupito di quel gran movimento, sul suo interponte ne aveva visto ben poco. Lungo i corridoi correvano anche fili di linee elettriche, e si udiva continuamente suonare una piccola campana.

    Il fuochista bussò rispettosamente alla porta, e quando fu gridato «Avanti!», con un gesto della mano invitò Karl a entrare senza timore. Questi entrò, ma rimase accanto alla porta. Davanti alle tre finestre della stanza vide le onde del mare, e a contemplare il loro allegro movimento il cuore gli batteva, come se per cinque lunghi giorni non avesse visto mare in continuazione. Grandi bastimenti si incrociavano e cedevano al moto delle onde soltanto per quel che consentiva la loro pesantezza. Se si socchiudevano gli occhi, pareva che quelle navi oscillassero solo a causa del loro enorme peso. Sugli alberi avevano bandiere sottili ma lunghe che, pur se il movimento della nave le faceva tendere, ancora palpitavano irrequiete. Risuonarono dei colpi di salve, probabilmente da qualche nave da guerra, i cannoni di una di queste che passava non troppo distante, lucenti nel loro manto d'acciaio, erano come carezzati dall'andatura sicura, piana e tuttavia non orizzontale del bastimento. I piccoli battelli e le barche, almeno dalla porta li si poteva osservare solo di lontano, infilarsi numerosi nei varchi che si aprivano tra le grandi navi. Ma dietro tutto questo stava New York e guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli. Sì, in quella stanza si capiva bene dove si era.

    A un tavolo rotondo sedevano tre signori, un ufficiale di bordo nella sua uniforme blu e due funzionari della capitaneria di porto, che indossavano nere uniformi americane. Sul tavolo erano posate alte pile di documenti, che l'ufficiale scorreva per primo con la penna in mano per poi passarli agli altri due, che ora li leggevano, ora ne prendevano degli appunti, ora li riponevano nelle loro cartelle, quando uno di loro, che faceva quasi ininterrottamente un lieve rumore coi denti, non dettava al suo collega qualcosa in un verbale.

    Davanti alla finestra sedeva a una scrivania, con le spalle rivolte alla porta, un signore piuttosto piccolo, che armeggiava con grossi libroni allineati davanti a lui all'altezza del capo su un massiccio scaffale. Lì vicino c'era una cassaforte aperta e vuota, almeno a una prima occhiata.

    La seconda finestra era vuota e offriva la vista migliore. Invece accanto alla terza c'erano due signori che parlavano a bassa voce. Uno stava appoggiato vicino alla finestra, indossava anche lui l'uniforme di bordo e giocherellava con l'elsa della spada. Il suo interlocutore era rivolto verso la finestra e ogni tanto muovendosi lasciava intravvedere una parte delle decorazioni che ornavano il petto dell'altro. Era in abiti civili e aveva un sottile bastoncino di bambù che, poiché il signore teneva le mani poggiate sui fianchi, sporgeva anch'esso come una spada.

    Karl non ebbe molto tempo per guardar tutto, perché subito si avvicinò loro un servitore che, guardando il fuochista come se questi lì non avesse niente a che fare, gli chiese cosa voleva. Il fuochista rispose con voce sommessa, così com'era stata pronunciata la domanda, di voler parlare col signor cassiere capo. Il servitore da parte sua respinse questa preghiera con un gesto della mano, tuttavia andò in punta di piedi, evitando con un largo giro il tavolo rotondo, dal signore dei libroni. Questo signore — lo si vide chiaramente — alle parole del servitore si raggelò addirittura, ma alla fine si volse verso colui che voleva parlargli e agitò le mani, con aria di severo rifiuto, all'indirizzo del fuochista e per sicurezza anche del servitore. Allora il servitore tornò dal fuochista e disse, con tono sommesso come se gli stesse facendo una confidenza: «Se ne vada subito da questa stanza!».

    A questa risposta il fuochista guardò Karl, come se questi fosse il suo cuore al quale poter confidare in silenzio la propria pena. D'impulso Karl si staccò da lui, traversò la stanza di corsa tanto che urtò leggermente la sedia dell'ufficiale, il servitore gli corse dietro, curvo, con le braccia pronte a ghermire, come se desse la caccia a un insetto pericoloso, ma Karl arrivò per primo al tavolo del cassiere capo e vi si aggrappò, nel caso che il servitore cercasse di trascinarlo via.

    Naturalmente la stanza subito si animò. L'ufficiale al tavolo era balzato in piedi, i signori della capitaneria osservavano calmi ma attenti, i due signori accanto alla finestra si erano messi fianco a fianco e il servitore, ritenendo di esser fuori di luogo là dove i nobili signori manifestavano il proprio interesse, si fece indietro. Sulla porta il fuochista aspettava, teso, il momento in cui ci sarebbe stato bisogno del suo aiuto. Finalmente il cassiere capo fece un ampio giro a destra con la sua poltrona.

    Dalla tasca segreta che non si preoccupava di esporre agli sguardi di quella gente Karl pescò fuori il passaporto, che depose aperto sulla scrivania in luogo di ogni altra presentazione. Il cassiere capo parve trovare irrilevante quel passaporto, perché lo fece schizzar via con due dita, e Karl lo ripose in tasca, come se quella formalità fosse stata soddisfacentemente espletata.

    «Mi permetto di dire», cominciò poi, «che secondo la mia opinione al signor fuochista è stato fatto un torto. C'è qui un certo Schubal che ce l'ha con lui. Egli ha già prestato servizio con piena soddisfazione su molte navi che può nominarvi tutte, è diligente, ha voglia di lavorare, e davvero non si capisce perché proprio su questa nave, su cui il servizio non è eccessivamente pesante come per esempio sui velieri mercantili, egli dovrebbe fare una cattiva riuscita. Quindi deve trattarsi soltanto di calunnie, che gli impediscono di farsi strada e lo privano di quel riconoscimento che altrimenti non gli mancherebbe di certo. Io ho parlato solo in generale di questa faccenda, le sue rimostranze particolari le esporrà lui direttamente.» Con questo discorso Karl si era rivolto a tutti i signori, perché in effetti stavano ascoltando tutti e sembrava molto più probabile che tra tutti loro insieme si trovasse un uomo giusto, anziché doverlo proprio trovare nel cassiere capo. Inoltre Karl astutamente aveva taciuto di conoscere il fuochista da così poco tempo. Del resto avrebbe parlato molto meglio se non lo avesse confuso il viso rosso del signore col bastoncino di bambù, che, da dove si trovava, vedeva adesso per la prima volta.

    «È tutto vero, parola per parola», disse il fuochista prima ancora che qualcuno gli avesse rivolto una domanda, anzi prima ancora che lo avessero guardato. Questa sua precipitazione sarebbe stata un grosso errore se il signore con le decorazioni il quale, come Karl comprese d'un tratto, doveva essere il capitano, non fosse evidentemente giunto tra sé e sé alla conclusione di ascoltare il fuochista. Infatti tese la mano e gli gridò: «Venga qua!», con voce dura, come per sottolineare quest'ordine a colpi di martello. Adesso tutto dipendeva da come si sarebbe comportato il fuochista, perché quanto alla giustizia della sua causa Karl non aveva dubbi.

    Fortunatamente in questa occasione si vide che il fuochista sapeva il fatto suo. Con calma esemplare estrasse con gesto sicuro dalla valigetta un rotolo di documenti e un taccuino, con i quali si diresse come cosa ovvia verso il capitano, ignorando totalmente il cassiere capo, e sciorinò le sue prove sul davanzale della finestra. Al cassiere capo non rimase altra scelta se non scomodarsi lui stesso per andar là. «Quest'uomo è un notorio attaccabrighe», spiegò, «sta più negli uffici cassa che in sala macchine. Ha ridotto alla disperazione Schubal, che è una persona così calma. Ascolti una buona volta!», disse poi rivolto al fuochista, «lei davvero esagera con la sua invadenza. Quante volte è già stato buttato fuori dall'ufficio pagamenti, come si meritava, per le sue pretese totalmente, assolutamente ingiustificate! Quante

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