Aneurin
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Anteprima del libro
Aneurin - Silvia Grifoni
(1871-1922)
PER INIZIARE…
Mi è stato più volte ripetuto, da una persona di mia conoscenza, che l’Incipit di un romanzo è di vitale importanza per la riuscita dello stesso. Ed io ho così deciso di iniziare questo mio chiedendo subito scusa a tutti coloro che avranno il coraggio di leggerlo.
E non è che voglia cominciare così per pararmi le spalle, anche se a dire il vero non sarebbe una cattiva idea, ma perché questa è principalmente un’opera introspettiva, riflessiva, poetica, romantica e ricca di riferimenti personali e privati.
Per cui prego tutti di scusarmi per tutte quelle parti che vi sembreranno noiose, ripetitive, ridondanti e vergognosamente intime. Non me ne vogliate! L’ho scritta di getto e con il cuore in mano.
In questo libro vi saranno oggetti e situazioni che si ripresenteranno fino allo sfinimento e vi prego quindi di tenere a mente e ricordare fin da ora:
Il gradino scricchiolante di una scala di legno
Occhi di bambino con tutto il mondo dentro
Un libro sul linguaggio dei fiori
Barchette costruite con gusci di ghianda
Un vecchio atlante con le cartine ingiallite
Viaggi fantastici
Un barattolo di marmellata dal colore e sapore indefinito
Libri, poesie, fantasia e più di tutto, mi raccomando...
… due scalini da sempre mancanti
Perché è con tutti questi ingredienti, più un’infarinatura di cara e vecchia Inghilterra, che è iniziata, si è condotta e sta procedendo tutta quella meravigliosa avventura che è la mia vita, che ovviamente a breve inizierò a narrarvi con dovizia di particolari.
Siete inoltre pregati di familiarizzare con il concetto di andare in altalena
perché vi troverete spesso a salire fra aulici e poetici concetti e subito dopo a scendere a precipizio in situazioni di imbarazzante quotidianità.
Aggiungo ancora che dedico questa mia lunghissima riflessione a tutti voi, ma in modo particolare a tutti quei giovani che sono alla ricerca di un posto nel mondo perché, quello che vado a raccontare dal prossimo capitolo, non è che il resoconto di come io abbia fatto a trovare il mio.
Anzi per l’esattezza di come sia riuscito a trovare tutto un altro mondo.
Il mio mondo.
Quello fatto a modo mio.
Buona lettura ai coraggiosi!
Aneurin
CAPITOLO I
Sono bello come un angelo
Sono nato nel 1851 in un piccolo distretto rurale del Wiltshire, nella deliziosa valle dell’Avon, dove mio padre gestiva una piccola fattoria come affittuario del Conte di Durringhton.
Proprio nell’anno della mia nascita si teneva la Grande Esposizione di Londra, un evento di importanza mondiale fortemente voluto dal Principe Alberto.
Il Crystal Palace, l’edificio che lo ospitò, era un’enorme struttura in ferro e vetro tanto simile ad una serra gigantesca: infatti era stato progettato dall’architetto e botanico Joseph Paxton, che nel giardino del Duca del Devonshire a Chatsworth, nel Derby, aveva ricreato, in un ambiente simile, le condizioni ideali a far rifiorire la più grande ninfea conosciuta, la Victoria Regia. La bellissima pianta, dalle notevoli dimensioni, era stata scoperta qualche anno prima, durante un viaggio di esplorazione nella Guyana Inglese, da Sir Robert Shomburg, ed era stata chiamata così in onore della Regina.
Nel Crystal Palace trovarono posto nuove invenzioni, scoperte tecnologiche e padiglioni ricchi di fascino esotico. I magici profumi di colonie lontane e gli sconosciuti paesaggi di nuove terre appena esplorate incantarono migliaia di visitatori.
Lord Durringhton tornava da Londra raccontando cose mirabolanti sulla Grande Esposizione, sulle meravigliose innovazioni industriali che vi erano esposte e su gli incredibili macchinari che i visitatori potevano vedere, addirittura in movimento, all’interno di una grande sala. I miei genitori avevano desiderato poter vedere tutto questo, concedersi un viaggio, visitare finalmente le meraviglie della capitale e magari fermarsi anche in qualche studio fotografico a farsi scattare un’immagine in ricordo di un periodo tanto felice della loro vita. Ma niente di questo fu possibile perché mia madre si ammalò di febbre tifoidea e morì giovanissima quando io avevo soltanto otto mesi di età. Morì, per assurdo, di quella stessa febbre che dieci anni dopo, avrebbe portato via anche il Principe Alberto.
Di lei non avevo immagini nella mia mente, né ritratti incorniciati alla parete, né appunto fotografie scattate per ricordo da portarmi dietro, e tutto quello che ho sempre saputo a suo riguardo lo devo soltanto a mio padre, che instancabilmente cercava di ravvivare il suo ricordo, come si cerca di tenere viva la fiammella di una piccola candela. Era stata sicuramente la sua candela accesa e la sua luce più bella, tanto che i suoi occhi si illuminavano ogni qual volta si parlava di lei, della sua Isobel.
E fu così per tutta la sua vita. Come se quella candelina così velocemente spenta fosse riuscita comunque a illuminargli l’anima per sempre. Mi raccontava che era stata la ragazza più bella del paese e che io le somigliavo tantissimo; non si stancava mai di ripetermi quanto mi avesse desiderato, abbracciato e cullato. Mi diceva che nei suoi occhi vi era davvero una fiammella accesa e che era diventata ancora più luminosa dopo il mio arrivo. Perché io ero un bel bambino, ero nato bello e così rimasi a lungo. E in tanti mi dicevano che ero bello come un angelo.
Era stata mia madre, che era nata in Galles, a volermi chiamare Aneurin, come quel grande bardo celtico, originario di quei luoghi, che per primo aveva parlato di Re Artù. E così, nella mia mente di bambino solo, la mia Isobel divenne una sorta di Fata Morgana buona dal volto sfocato, una creatura misteriosa, un ibrido fra un angelo e un folletto celtico, in grado di vegliare il mio sonno nelle notti buie e proteggermi nelle ore di luce, con la sola forza del suo amore, del quale così presto e ingiustamente ero stato privato.
Tanto forte divenne in me questa convinzione, che da allora iniziai a rivolgermi a lei nei momenti del bisogno con esclamazioni tipo Fata Morgana, proteggimi tu
, e a dire il vero mi ritrovavo spesso a pregare lei con più fervore di quanto non riuscissi a pregare Nostro Signore, veramente convinto che in quanto Fata e soprattutto in quanto madre, potesse avere poteri soprannaturali in grado di influire sull’esito delle mie giornate.
Tuttavia, per essere rimasto orfano di madre in così tenera età, ero un bambino sorprendentemente sereno e avevo trascorso un’infanzia lieta e tranquilla; io e quel grand’uomo di mio padre avevamo costruito un nostro angolo beato facendoci compagnia in mille modi diversi, con una complicità fatta di affetto, rispetto e piacere di stare insieme. Tanto che non avrei cambiato un solo giorno della mia infanzia con niente al mondo.
Mio padre Joe era un gigante buono, il mio punto di riferimento, ogni certezza delle mie giornate. Ed io avrei voluto stare sempre con lui, ma l’esser rimasto vedovo con un figlio quasi neonato da accudire non era una cosa semplice per un uomo solo che doveva gestire e rendere produttiva una fattoria; così, quando ero molto piccolo mi lasciava tutte le mattine da Rose, la moglie di un suo bracciante, per poter andare a lavorare nei campi.
Io pativo da morire mentre lo vedevo allontanarsi sul suo carro traballante e trascorrevo la giornata nell’attesa del suo ritorno.
Rose, quando torna mio padre?
Ora torna angiolino, ora torna.
Rose era una buonissima donna che profumava di torta e che aveva sempre da fare un sacco di cose. Non poteva perdersi tanto dietro a me e a volte, per farmi passare il tempo, mi portava a dare da mangiare alle galline o a raccogliere le mele nel frutteto; ma il maggior tempo della mia giornata lo spendevo in attesa sulla porta, sperando di sentire di nuovo il rumore del carro che si avvicinava. Anche perché Rose aveva un figlio poco più grande di me, Owen, che era geloso fradicio di sua madre e che ogni tanto mi tirava dei pizzicotti tremendi, di quelli proprio cattivi con il giro, facendomi piangere lacrime disperate.
Non piangere angiolino che ora tuo padre torna!
mi diceva Rose ignara di tutto.
E io allora mi sedevo sullo scalino di pietra davanti alla porta pregando dentro di me.
Ti prego torna, torna ora, torna ora, torna ora…
.
E finalmente a sera Joe tornava e in quel momento mi sentivo così felice da dimenticare anche tutti i pizzicotti e i pianti della giornata.
Appena fui più grandicello iniziò a portarmi sempre con sé. Lo seguivo ovunque per campi e prati, mentre controllava i canaletti d’irrigazione e le pietre dei muretti di confine, l’avanzamento delle colture e lo stato delle siepi. Nella fattoria si coltivava frumento e si allevavano pecore ma vi era anche da badare alla stalla e al granaio, al fienile e alla scuderia dei cavalli, al pollaio e ai ripostigli degli attrezzi.
Mio padre aveva diversi braccianti che lo aiutavano e che spesso abitavano con noi per lunghi periodi. La nostra era una bella casa con muri di mattoni rosati ricoperti all’esterno da verdissima edera, soffitti con travi a vista, mobili di noce massiccio e caminetti anneriti.
Una donna del villaggio veniva a prendersene cura ma io non volevo rimanere con lei, non perché mi avesse mai fatto qualcosa di male, ma semplicemente perché volevo stare con il mio Joe. E lui mi accontentava. Stavo seduto sul carro tenendogli le redini e osservando ogni suo movimento; se doveva lavorare la terra gli passavo gli attrezzi e se doveva discutere di lavoro con qualcuno me ne stavo ad aspettare fermo accanto a lui, con la mia minuscola mano spersa nella sua. Spesso mi faceva tanti complimenti per quei piccoli compiti che già riuscivo a svolgere.
Tre su tutti: sfamare le galline, ricondurre le oche nel recinto e chiudere la porta dell’ovile, alla sera, dopo che le pecore erano rientrate.
Poi mi faceva vedere come si lavorava la terra e mi spiegava perché fosse utile ruotare le colture. Io ero felice, mi sentivo importante e sognavo di diventare esattamente come lui.
La domenica mi portava a pescare. Proprio dietro casa nostra si trovava un limpido ruscello fra sponde rigogliose e noi vi passavamo tutto il pomeriggio, lui in silenzio con la canna in mano ed io accanto che non stavo mai un attimo zitto. Perché avevo questo difetto purtroppo, parlavo senza freno e quasi sempre dicevo quello che non era proprio il caso di dire oppure sbagliavo completamente il momento in cui aprire bocca. A dire il vero lo mettevo spesso in imbarazzo per questo mio vizio, perché quando avevo qualcosa per la testa non ci pensavo due volte a farne tutti partecipi. Ed ero anche capace di stare a parlare per ore e ore di tutte fantasie legate ai giochi che facevo.
Sapete padre che oggi ho visto una gallina di un colore che non avevo mai visto?
Aneurin, fai troppa confusione e fai scappare tutti i pesci... ma di che colore era questa gallina?
Di un colore incredibile!! Un colore… che non avevo mai visto!!
Allora si metteva a ridere ed io tutto infervorato continuavo a raccontargli le cose più improbabili su mucche giganti, oche in fuga, pulcini spennacchiati, cavalli che starnutivano, pecore ballerine e quant’altro la mia mente fantasiosa riuscisse a concepire. Mio padre aveva davvero molta pazienza con me.
Un giorno, probabilmente sfinito da tutto quel mio parlare mi chiamò accanto a sé.
Guarda Aneurin che ti insegno a fare le barchette... cerca dei gusci di ghianda. Almeno dopo te ne stai zitto per un po’ e forse riesco a prendere qualche pesce
.
E così mi insegnò a fare le barche con i gusci di ghianda, i legnetti e le foglie rigirate.
Mi piacevano tantissimo le barchette di gusci, me le portavo a casa alla sera e passavo poi tanto tempo a giocarci sul mio gradino di legno. Perché di tutta la mia casa, che non era poi così piccola, il posto dove adoravo giocare era l’ultimo gradino della scala di legno, che amavo alla follia perché scricchiolava in una strana maniera, producendo un rumore dal fascino impensabile.
Passavo i pomeriggi lì seduto, immaginandomi le storie più incredibili: a volte lo scricchiolio diventava il verso tremendo di un drago sputa fuoco, altre volte le onde di un mare tempestoso, altre ancora una carica di cavalieri della tavola rotonda. Ci trascorrevo giornate intere e con le barchette ancora di più, perché a quei punti le avventure scricchiolanti assumevano forme ancora più incredibili: naufragi, isole misteriose e pirati all’arrembaggio.
In tutti i casi io ero il bardo Aneurin che raccontava le gesta di qualche eroe temerario. Fin da piccolino avevo saputo dell’esistenza del bardo Aneurin e anche cosa significasse essere un bardo. Mia madre infatti aveva amato leggere, tanto che nella sua breve vita si era fatta una piccola collezione di libri; fra questi, vi era anche un volume sui bardi nel quale aveva appunto trovato il mio nome. Una volta mio padre me lo aveva letto spiegandomi quanto quel libro fosse piaciuto alla sua Isobel.
Mi piacevano tantissimo i libri di mia madre. Esercitavano su di me un fascino particolare solo per il fatto di esserle appartenuti.
Ogni tanto li tiravo giù dallo scaffale e li disponevo tutti allineati sul mio scalino scricchiolante e spesso facevo delle lunghe conversazioni con loro. Finché non fui in grado di leggere stavo ad ore a guardarne le figure, dove vi fossero, immaginandomi altre bellissime storie. E la storia del bardo Aneurin era quella su cui fantasticavo di più. Presso gli antichi popoli celtici, il bardo era un antico poeta e un cantore di imprese epiche ed eroiche, recitava poemi nelle corti e per la via accompagnando le sue canzoni con vari strumenti, fra i quali una piccola lira a corda che portava sempre con sé. Grazie ai bardi tante notizie storiche, saghe familiari, esiti di famose battaglie, elenchi di nomi e leggende, erano giunti fino a noi. I miti celtici erano tornati di moda nel periodo romantico e la figura del bardo era stata idealizzata grazie a romanzieri quali Walter Scott. Quando iniziai i miei studi seri seppi che erano stati definiti Bardi alcuni dei miei poeti preferiti fra i quali William Shakespeare, per tutti Il Bardo
, William Wordsworth e Alexander Pope. Ma queste saranno conoscenze acquisite in seguito: per me bambino il bardo era soltanto un poeta che narrava vicende di eroi, magiche vicende tutte da inventare e appunto raccontare. Passavo così il tempo dei miei giochi: immaginando, una caratteristica che non mi ha più abbandonato.
Con mio padre andavo anche alle fiere del bestiame a al mercato dove lui si intratteneva a discutere del raccolto e delle pecore e dove si assisteva alle mostre dei cavalli. A volte mi portava a vedere il circo itinerante, se passava di lì, o alla locanda dove lui beveva un bicchiere di birra o di rum.
Una volta provò ad entrare sotto un telone a strisce colorate: vi si tenevano i combattimenti fra galli e intorno alla piccola arena una moltitudine di uomini si sbracciava infervorata mentre i due poveri animali venivano aizzati l’uno contro l’altro. Appena la lotta si fece più accanita e uno dei due galli iniziò a perdere sangue da uno dei bargigli io cominciai a piangere disperato, tanto che mio padre fu costretto a portarmi via di corsa. Pensavo a tutte le galline che sfamavo giornalmente e al bel gallo che mi dava la sveglia ogni mattina, per cui l’idea di quel combattimento cruento mi aveva sconcertato. E dire che era tutto il giorno che non parlavamo d’altro, con mio padre che fantasticava sulle possibili scommesse che avrebbe potuto vincere! Ma ero rimasto impressionato a tal punto che anche quando fui più grande, pover’uomo, non ebbe cuore di provare a rientrarci.
Sinceramente per essere cresciuto in una fattoria, dove spesso gli animali erano macellati o abbattuti, odiavo vederli soffrire e anche quando veniva tirato il collo a qualche pollo trovavo sempre il modo di girare alla larga. Ero abituato a vedermeli intorno, mi piacevano, diventavano compagni ideali di tutti i miei giochi di fantasia e questo mi faceva provare una grande tristezza all’idea che potesse esser fatto loro del male. Non mi piaceva neppure la filastrocca di Cock Robin che era invece un classico per bambini. Mio padre me la canticchiava spesso e nonostante ne amassi il suono dei versi, volevo sempre cambiarne il finale. Che questo povero pettirosso, colpito per sbaglio dal passero a causa del tremendo cuculo, venisse sepolto in pompa magna da tutti gli altri animali non mi andava proprio giù e ogni volta riscrivevo mentalmente la storia regalandole un lieto fine sempre diverso e più bello. Il pettirosso era in assoluto il mio uccello preferito e quando riuscivo a intravederne uno sopra un ad un ramo spoglio o sulla neve fresca del primo mattino, toccavo il cielo con un dito dalla felicità.
Vedete padre… eccolo, vedete che alla fine non è morto ma è tornato a volare?
Il mio Joe allora si metteva a ridere ed io con lui, veramente convinto che alla fine bastasse semplicemente immaginare perché anche le cose più incredibili potessero accadere.
La vigilia di Natale ci recavamo nella bellissima residenza di Lord Durringhton che durante le festività natalizie amava ricevere i fittavoli con le loro famiglie nel grande salone con il soffitto a cassettoni, dove un abete gigantesco riempiva tutto un angolo e dove ai bambini venivano regalati dolci natalizi. Il Conte faceva parte di quella antica aristocrazia terriera amante della cultura e delle opere di beneficenza e sempre attenta ai progressi della tecnica e della scienza. Era un’aristocrazia che ci teneva anche a mostrarsi democratica e a investire nella vita di chi partecipava attivamente a mandare avanti la tenuta. Tutte le istituzioni del distretto rurale erano finanziate da Sua Signoria e la famiglia di mio padre, già da diverse generazioni, lavorava la terra della stessa fattoria con ottimi risultati.
Di queste giornate natalizie ricordo tre cose particolari: che ero uno dei pochi bambini senza la mamma, che l’albero di Natale tutti gli anni mi sembrava più alto e maestoso e che provavo una grande soggezione davanti a Lady Durringhton, che mi sembrava la donna più bella che avessi mai visto. Non ho mai capito se fosse veramente la donna bellissima che sembrava a me, ma il fatto che mi accarezzasse i capelli sorridendomi con dolcezza me la faceva apparire come un’altra delle mie creature da favola. Era sicuramente molto intenerita dal fatto che fossi orfano di madre, così mi dava qualche dolcetto e mi diceva sempre la solita frase Mio caro Aneurin, sei proprio un angiolino con tutto il mondo dentro gli occhi.
A quel punto io le sorridevo senza capire bene cosa avesse inteso dirmi, come spesso mi succedeva con i ragionamenti dei grandi. Soltanto molto tempo dopo ho compreso, guardando poi da adulto gli occhi di altri bambini, quello che Lady Durringhton aveva saputo vedere nei miei. Perché in fondo, nonostante la grave perdita che avevo subìto, immaginavo il mondo come un posto bellissimo, abitato da tanta bella gente che poteva regalarmi solo gradite sorprese, dove tutti si volevano bene e passavano la vita a cercare di fare il meglio per gli altri e a sconfiggere le ingiustizie. Un mondo dove tutto aveva un senso oltre l’apparenza e nella mia piccola testolina mi ritrovavo a pensare che ogni cosa era stata creata soprattutto per rendere felici noi uomini. Il sole per scaldarci, l’acqua per dissetarci, il cibo per rifocillarci e via dicendo, fino a partorire idee estreme come quella che i ponti erano stati costruiti affinché i pescatori non si bagnassero i piedi. Questa visione del mondo così positiva e ottimista, che dava una luce particolare ai miei occhi, dà anche la misura della bellissima infanzia che mio padre riuscì a regalarmi. Seppur orfano di madre non mi sono mai sentito solo. Ed era soltanto grazie al suo amore che avevo maturato tutte le mie sicurezze. Non mi sentivo un bambino diverso dagli altri.
Mia madre mi mancava, ma più che altro l’idea di lei, di quello che sarebbe potuto essere e che invece non era stato. Mio padre ne parlava spesso e questo contribuiva a tenerla viva, anche se ora capisco come questo parlarne fosse più utile a lui che a me. Non voleva lasciar spegnere del tutto la sua candelina e ogni tanto ne ravvivava la fiammella.
Penso di aver avuto il mio primo vero grande trauma soltanto con l’entrata a scuola dove veramente iniziai a raccomandarmi a Fata Morgana con tutta la mia anima, nei momenti più disparati e in tutte le lingue possibili.
La scuola di una piccola realtà rurale quale la nostra consisteva, nella grande maggioranza dei casi, in una grande stanza piena di bambini di età diverse e un maestro mal pagato e frustrato che li trattava nel peggiore dei modi. E nel mio caso il maestro era l’agghiacciante signor Collins che, mentre ti scrutava, aveva già segnato il tuo destino. Partiva dalla verità assoluta che qualcosa di male avevi fatto o che qualcosa di male stavi sicuramente per fare, per cui venivi alternativamente o interrogato o picchiato. Ed io, del tutto terrorizzato alternavo, come di dovere, risposte esaurienti alle interrogazioni a esclamazioni disperate come appunto Oh Fata Morgana, aiutami tu.
Fu in quei momenti, però, che cominciai a rendermi conto che la mia Fata Morgana era un po’ distratta, magari tutta persa dietro a qualche altra faccenda, perché ho sempre ritenuto che il signor Collins mi picchiasse con grande gusto, dal quel bruttissimo ceffo qual era. Mi squadrava in cagnesco e mi apostrofava Aneurin credi forse di prendermi in giro con codesta bella faccia? Credi che basti un bel faccino angelico per andare avanti nel mondo?
E io, che non avevo la benché minima idea del motivo per cui nel mondo fosse meglio essere un brutto figuro quanto lo era lui, ammutolivo senza osare nessun tipo di risposta.
Sta di fatto che non ricordo di essere tornato a casa un giorno senza averle prese dal signor Collins, e tuttora ho ricordi orrendi delle tremende umiliazioni che riusciva a infliggermi. Vi era una pletora di possibilità infinite per cui mi bacchettava ben bene: parlavo quando non era il momento giusto, dicendo ovviamente ciò che non era il caso di dire, mi giravo nel banco quando dovevo stare fermo, spezzavo il gesso sulla lavagna, facevo rumore con la sedia quando mi alzavo, non pulivo bene il calamaio, insomma per qualsiasi anche minima infrazione sapevi di poter essere richiamato dal signor Collins, che poi non si risparmiava con la sua canna lunga e sottile. A volte avevo anche la bella idea di schierarmi in difesa dei più piccoli, arrivando a prenderne sempre un po’ io per tutti. E devo dire che questo mi rese abbastanza popolare in classe. Comunque, soprattutto all’inizio, vivevo nel terrore.
Nella scuola della mia infanzia non erano comportamenti insoliti, perché si partiva dall’idea che fosse insita in ogni bambino la capacità di concepire il male e di metterlo in atto, e si pensava che stroncare sul nascere ogni velleità del genere fosse utile per la formazione di un futuro gentiluomo e di una società basata su buoni e cristiani principi. Se, per raggiungere questo scopo, si rendevano necessari metodi educativi assai terrorizzanti, nessuno vi badava più di tanto. Anzi si pensava che questi avrebbero formato il carattere del futuro individuo.
Ma l’essere picchiato senza motivo e con tanta soddisfazione, mentre a casa venivo cresciuto invece con tanto affetto e punito solo in casi estremi e sempre con amorevoli propositi educativi, fu una cosa scioccante che non capivo e che mi terrorizzava. E mi ripromisi, fin da allora, con vero spirito riformatore, che se mai avessi potuto cambiare le cose, avrei senz’altro sconfitto una tale ingiustizia, dando così voce a tutti quei bambini che si trovavano in situazioni simili a quella che io pativo quotidianamente.
In realtà da mio padre avevo ricevuto un solo ceffone e a causa del mio gradino scricchiolante, perché in una giornata di pioggia ero stato tutto il giorno a salirlo e scenderlo per sentire quel rumore che mi piaceva tanto.
Aneurin basta adesso. È tutto il giorno, smettila!
Ma padre… sentite, è un fiume in piena…
.
Aneurin, finiscila!
Ecco... arriva una nave grande con un tesoro…
.
Stai fermo, ora basta!
E poi una cascata con la spada di Artù!
Alla fine si era alzato dalla sua sedia e senza dirmi più nulla, mi aveva dato un unico ceffone così forte e secco da lasciarmi ammutolito per diversi giorni. E non era stato tanto il dolore a lasciarmi di sasso, quanto la sorpresa e il dispiacere di averlo così tanto indispettito. Perché, fin da piccolino, avere l’approvazione di mio padre era stata per me la cosa determinante, e la paura di poterlo deludere mi era sempre dispiaciuta oltre ogni dire.
Joe era il mio gigante buono che stava sempre con me e mi costruiva le barchette con i gusci di ghianda. Quello da cui andavo quando avevo paura del buio o dei tuoni e quello che mi permetteva di parlare per ore di tutti i giochi di fantasia che riempivano le mie giornate.
Soltanto quell’unica volta alzò le mani su di me, per il resto cercava sempre di spiegarmi le cose e di farmi capire il senso di un no. Anche quando diventai più grande non mi imponeva mai niente, si parlava, forse a volte si discuteva anche, ma non mi costringeva mai a pensare o a fare qualcosa che non condividevo. Ed è stato un bellissimo modo di crescere perché io lo rispettavo sentendomi rispettato a mia volta, riuscendo ad essere incredibilmente libero di pensare e di formarmi le mie idee. A pensarci bene era un metodo educativo un po’ diverso dagli altri, per niente severo e rigido, ma per me è stato meraviglioso. E quindi le punizioni del signor Collins rimasero soltanto un’ingiustizia da subire e da ricordare con raccapriccio. E tutt’ora vi assicuro che è così.
Quando raccontavo a mio padre dei torti subiti scuoteva la testa sconsolato, ma non voleva sentire ragioni: la scuola era la scuola. A dire il vero era un padre un po’ anomalo per quei tempi perché, nella maggioranza dei casi, i genitori della nostra classe sociale si lamentavano delle lezioni, che toglievano ai padri la possibilità di avvalersi dell’aiuto dei figli nel duro lavoro dei campi. Molti ragazzi venivano tolti da scuola prima del tempo, rimanendo in una situazione di quasi semi-analfabetismo e le condizioni del lavoro minorile furono a lungo un grosso problema sociale.
Aneurin, devi andare a scuola. Tua madre ci avrebbe tenuto tantissimo.
Ed era vero. E, se devo essere sincero, la scuola creò un ulteriore legame fra me e lei, perché finalmente imparai a leggere e questo mi aprì un mondo che da allora in poi ha avuto per me un’importanza particolare. Iniziai subito a sfogliare i libri di mia madre, anche se ancora sorrido a pensare all’esordio.
Aneurin, cosa stai leggendo?
mi chiese un giorno il mio Joe mentre stavamo seduti davanti al caminetto. La sera stavamo sempre insieme davanti al fuoco: lui su una sedia a dondolo che era appartenuta alla sua Isobel e io accanto, su un piccolo sgabello a tre gambe. Era il nostro modo di concludere la giornata.
È un libro della mamma
.
Ma che bravo!! Sono molto contento. E che libro è?
È un manuale sul linguaggio dei fiori
. Lui mi guardò abbastanza interdetto.
Un manuale sul linguaggio dei fiori?
Si padre… vedete ogni fiore ha un significato particolare... poi ci sono disegni, miti, poesie e anche non poesie. È molto bello.
Nella mia testa il connubio di disegno, mito, poesia e prosa, quella che io allora chiamavo non poesia, lo rendeva un libro completo sotto tutti gli aspetti.
Ci credo. Sai... tua madre era una ragazza molto romantica, la più romantica di tutte… ma forse come argomento per te non è proprio adattissimo…
.
Ma guardate padre, qui la mamma ha scritto il suo nome… Isobel… è l’unico libro che ha il nome. È per questo che l’ho scelto!
Mio padre mi sorrise in una strana maniera.
Allora leggilo pure Aneurin, mi sembra che tu l’abbia scelto per un ottimo motivo.
Lo avevo preferito agli altri anche perché nelle prime pagine vi era scritto che Fata Morgana abitava nell’Isola delle Mele, chiamata anche Isola dei Beati. In questo luogo incantato gli alberi davano mele che venivano considerate simbolo di immortalità e che avevano un gusto di miele. Questo riferimento proprio alla mia fata me lo aveva reso da subito particolarmente caro e vedere poi il nome di mia madre quasi del tutto scolorito in un angolo del frontespizio, mi aveva fatto un effetto bellissimo. Lo lessi con tale attenzione da impararlo a memoria. Mi ricordavo a che pagina si trovava quel fiore e quella poesia e per un lungo periodo me lo tenni vicino al letto, quasi come un portafortuna.
Sta di fatto che penso di essere stato l’unico ragazzo prima e l’unico uomo dopo, in grado di saper leggere, con tanta precisione, il significato di un mazzo di fiori, di una siepe in giardino, di una pianta sul davanzale di cucina o di un albero per la via. Anche perché in tutta la mia vita vi è sempre stata una corrispondenza quasi magica fra il loro significato e i fatti che vivevo. Quasi che qualcuno, da qualche parte, ritenesse doveroso farmi leggere il senso di ciò che stavo passando attraverso il colore e il profumo dei fiori, arrivando a darmi indicazioni precise e preziosi consigli su come condurre la mia esistenza.
Convolvolo dei campi… umiltà, valeriana rossa… mitezza, ginepro comune… soccorso.
E tuttora continuo con queste mie digressioni, mi ci soffermo quasi senza accorgermene perché è più forte di ogni mio volere.
Olivella... tutela, ruta selvatica... usanze, violetta... modestia, buglossa... menzogna.
Diciamo che, con il tempo, ho imparato a tenermelo per me. Si può dire che sia diventato un esercizio della mia testa, un gioco e un pia-cere in cui lascio indulgere i miei pensieri: una delle mie rassicuranti derive mentali ossia una di quelle parentesi che permettono alla mia mente di vagare lontana alla ricerca di significati nascosti dietro all’apparenza delle piccole cose.
Il mio fiore preferito è sempre stato il bocciolo di fior di melo, che significa... la preferenza.
Intorno alla mia fattoria vi erano tanti meli e io trovavo che non vi era niente di più bello di quando, a primavera, fiorivano tutti insieme riempiendosi di migliaia di boccioli bianchi.
Quando ci camminavi sotto sentivi l’aria profumare di miele. Ricordo che mi beavo di questo odore pensando ai meli coltivati da Fata Morgana.
E per tutta la vita è stato sempre il mio preferito: bocciolo di fior di melo, la preferenza.
Comunque la mia infanzia rimane nella mia mente come un periodo bello e sereno dove, al di là delle bacchettate del signor Collins, vivevo nella consapevolezza di essere amato e di valere qualcosa. Tanto che, alla fine, tutta la gioia che mi regalava casa mia mi permise di sopportare anche le ingiustizie scolastiche, relegandole sotto la voce: brutti ricordi.
A undici anni finii finalmente la scuola ed iniziai a lavorare alla fattoria insieme al mio Joe.
Ci alzavamo presto alla mattina, facevamo un’abbondante colazione con zuppa d’avena, patate, formaggio, burro, latte e birra e poi stavamo tutto il giorno all’aria aperta, insieme ai quei soliti braccianti che aiutavano mio padre da una vita.
Ogni tanto tornavamo alle fiere del bestiame o nei paesi vicini nei giorni di mercato. Una volta si arrivò fino a Stonehenge, nella piana di Salisbury, ad ammirare quel misterioso cerchio di pietre che sembrava legato ai miti celtici e a Re Artù. Era stato Goffredo di Monmouth, in epoca medievale, ad unire la leggenda arturiana a quelle antiche pietre e a parlare per primo di Mago Merlino e Fata Morgana. Ricordo di aver provato uno strano effetto nell’ammirarle, quasi fossi stato davvero un bardo redivivo tornato a casa dopo tanto.
In un’altra occasione mio padre mi portò alla grande e maestosa Cattedrale di Salisbury dove era conservata una copia della Magna Charta e fu nei vicoli di questa antica città medievale che entrai per la prima volta in una libreria, provando la gioia di acquistare un piccolo libretto a pochi penny. Il mio Joe mi dava un po’ di spiccioli nei giorni di festa e io cercavo sempre di spenderli in qualche nuovo libro, perché la passione per la lettura mi aveva preso, come era stato per mia madre prima di me. Amavo infinitamente entrare nelle librerie, anche se piccole e poco fornite, scartabellare i volumi, annusare l’odore della carta e delle rilegature in pelle, accarezzare gli scaffali polverosi di legno scuro e poi scegliere il libro più piccolo e magari meno costoso. Quello più adatto alle mie tasche.
Alla sera, davanti al caminetto, mio padre fumava la pipa e io gli raccontavo cosa avevo letto, mentre il buon profumo del suo tabacco si mischiava a quello della legna di quercia che bruciava lentamente.
Ricordo che quell’anno, durante il ritrovo natalizio, Lady Durringhton mi sorrise in maniera ancora più dolce mentre la salutavo con riverenza.
Ho saputo da tuo padre che sei diventato un grande lettore!
Grazie…
Ero molto timido e soprattutto con le belle signore.
Si avvicinò anche il Conte per farmi i complimenti, perché era un amante dei libri, e della poesia in maniera particolare, tanto che in quella sua grande magione di campagna si trovava una delle biblioteche più ricche di tutta la contea, spesso meta di eruditi e di accademici. Una biblioteca famosa e importante che prendeva tutta un’ala dell’enorme villa e che contava un impressionante numero di volumi, alcuni dei quali veramente rari e preziosi. Lord Durringhton vi spendeva tanto del suo tempo e dei suoi mezzi ed erano per lui motivo di vanto le preziose pubblicazioni con cui continuava ad arricchirla continuamente. In quella sera di vigilia mi consegnarono un pacchetto diverso e quell’anno in regalo, invece dei soliti dolcetti, ebbi una copia del Robinson Crusoe
di Defoe. Mi ricordo di non aver chiuso occhio per molte notti di seguito, tanto ero eccitato da questo nuovo libro. Lo divorai in pochissimo tempo e continuai a lungo a tenerlo sotto il cuscino, tanto mi dispiaceva distaccarmene. Li avevo ringraziati in maniera così commovente che avevano alla fine sorriso di tutto il mio entusiasmo.
Aneurin... sei sempre bello come un angelo!
aveva concluso Lady Durringhton .
E in quel periodo lo ero per davvero. Ero bellissimo.
Non è che lo ripeta per vanto ma soltanto perché da lì a poco assunse un significato particolare il fatto che io lo fossi stato. E che lo fossi stato a tal punto.
Avevo il viso d’angelo ed ero particolarmente alto perché nella figura somigliavo a quel gigante di mio padre. Per gli altri ero bello per davvero e all’ultima festa di Calendimaggio avevo ballato con Alix, la ragazza più carina del paese. Il giorno dopo avevo avuto il coraggio di rubarle un bacio frettoloso dietro la chiesa, sotto i tiepidi raggi del sole. Era stata una sensazione strana, bella e diversa, la sua bocca aveva ancora il sapore delle mele caramellate della festa del giorno prima e lei mi aveva poi regalato il suo nastro azzurro, quello preferito che usava per legarsi la treccia.
Stavo iniziando a crescere, acquisendo nuove sicurezze e cominciando ad avere una consapevolezza diversa di quello che sarebbe potuto essere il mio posto del mondo.
Ero lanciato verso il mio futuro, correvo incontro alla vita con la certezza che tutto per me sarebbe sempre stato partorito da un mondo buono.
Quello stesso mondo buono che mi aveva permesso di essere felice e ottimista e che aveva reso la mia infanzia piena di piccole ma bellissime cose, di scalini scricchiolanti, pettirossi redivivi e barchette fatte con gusci di ghianda.
Ma come spesso accade qualcosa o qualcuno, chiamatelo Dio, Sorte o Destino, decide all’improvviso che la tua vita dovrà essere invece completamente diversa da quella che tu avresti pensato o desiderato. E che lo dovrà essere da una certa data in poi. E il giorno in cui questo accade non sarà più per te una data fra le tante, ma la data che nella tua mente segnerà il concetto di prima e quello di dopo. Perché avrai vissuto una vita prima e ne vivrai un’altra completamente diversa, subito dopo.
La mia data fu il 20 Gennaio 1864, sei giorni prima del mio tredicesimo compleanno.
In realtà avevo passato gli ultimi mesi accusando una strana forma di stanchezza che sembrava non abbandonarmi mai, ma fu in quella sera che tornai a casa con dolori fortissimi e una strana febbriciattola che cominciò a salirmi in maniera così vertiginosa da farmi lentamente scivolare in una beata incoscienza.
Non ho nessun ricordo dei giorni successivi, perché ritornai lucido soltanto molto dopo, come se fossi stato in una sorta di coma, ma mi rimasero strani e continui dolori addosso, alla schiena e all’articolazione della gamba destra in maniera particolare, tanto che iniziai ad avere difficoltà a muoverla.
Il nostro dottore sembrava molto impaurito, Lord Durringhton inviò il suo, questo ne chiamò un terzo da Salisbury e tutti e tre giunsero alla conclusione che dovevo aver contratto la tubercolosi ossea o qualcosa di molto simile. In quel tempo non erano diagnosi facili.
Per me, allora, un nome come un altro, non sapevo e non comprendevo ancora il significato di tutto ciò. Aspettavo soltanto di guarire per poter tornare alla mia vita, ma un giorno di quella lunghissima convalescenza che sembrava non avere mai termine, mio padre e il dottore mi spiegarono che non sarebbe stato così. E nonostante ancora io non comprendessi appieno il significato del termine malattia invalidante, ben presto questa nuova realtà mi si parò davanti con tutta la sua crudezza. La fortuna volle che a tredici anni fossi già particolarmente alto, perché la mia crescita si arrestò da quel momento, la gamba destra mi rimase completamente offesa, tanto che da allora per camminare fui costretto ad aiutarmi con un bastone e, cosa ancora più tremenda, negli anni successivi la mia schiena iniziò ad incurvarsi lentamente, fino quasi a produrre una piccola gobba. Oltre a questo mi rimase una salute cagionevole e delicata. Non potevo fare sforzi, né prendere freddo, né camminare a lungo, né tanto meno continuare a lavorare insieme a mio padre.
All’inizio mi ostinai a voler credere che tutto questo avrebbe avuto un termine ma presto raggiunsi l’agghiacciante consapevolezza che il fine pena per me non sarebbe mai arrivato e così, in breve tempo, mi ritrovai ad essere un angelo caduto nella polvere.
Io che ero stato il più alto di tutti rimasi alla fine il più basso, io che ero stato bellissimo, avevo adesso una figura zoppicante e curva. Col tempo mi sembrò di essere diventato addirittura grottesco, perché quella mia bella faccia giovane e angelica coesisteva con il corpo di un vecchio, mezzo curvo e zoppo. E tutta la mia vita cambiò drasticamente. Non potevo più seguire mio padre nelle sue occupazioni e neppure i miei amici nelle loro scorribande. All’inizio venivano a trovarmi ma poi, piano piano, la loro vita li assorbì completamente e quando li incontravo sembravano quasi imbarazzati da questo mio nuovo stato. Erano ragazzi semplici che vivevano del lavoro dei campi e la loro vita iniziava e finiva lì. Per assurdo quello che passava più spesso a farmi compagnia era Owen, il figlio di Rose, lo stesso che mi aveva pizzicato a sangue quando ero piccolo.
Alla fine mi sentii escluso. E diverso.
Cominciai a percepire la mia diversità e il senso di inadeguatezza, che di solito accompagna tutti i ragazzi in quella fase delicata che li porta ad essere uomini, non mi avrebbe mai più abbandonato.
Il sentirsi non tu giusto in un posto sbagliato, ma bensì tu sbagliato in ogni luogo: vederti, dal fuori, in un mondo che non diventerà mai più a tua misura, è in assoluto il più tremendo aspetto di ogni malattia che, sia essa fisica o mentale, si trasforma alla fine sempre e soltanto in solitudine. Di questo, infine, chi è malato lo sarà per sempre. Di solitudine.
La tua condizione diviene una realtà solo tua e questo ti fa non soltanto avvertire la tua diversità, ma anche vedere la commiserazione nello sguardo degli altri. Ed è tremendo sentirsi compatito. Cominciai ad isolarmi temendo di essere guardato e osservato. Mi dava fastidio quando vedevo che qualcuno distoglieva lo sguardo al mio passaggio, come per non farmi capire quanto trovasse pietoso il mio stato.
Gli angeli ancora risplendono, anche se è caduto quello più splendente.
Così si era espresso William Shakespeare. Lo avevo letto in un libro di mia madre. Se fossi mai stato l’angelo più splendente non avrei saputo dirlo, ma la mia caduta fu decisamente rovinosa.
Tuttavia riconosco adesso che non ero allora in grado di chiedermi