La verità di Cain
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Eppure, in mezzo a questo grande mare, a bordo di questa scialuppa sgangherata, siamo ancora e sempre in cerca del sentiero, della pista che ci possa portare verso il nostro albeggiare. Questa ricerca spasmodica di una strada è la nostra pionieristica, il nostro tao. E’ il destino che era scritto nei nostri geni quando siamo fuggiti dall’Africa, quando ancora c’erano i continenti, quando l’uomo era signore e padrone di null’altro che della propria esistenza. Quella via, quella pista era lì anche per migliaia di altre specie animali, ma l’abbiamo intrapresa soltanto noi.
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Anteprima del libro
La verità di Cain - Luca Bonisoli
Luca Bonisoli
LA VERITA’ DI CAIN
2013
Introduzione del narratore
Occorre capire in quali tempi abbiamo vissuto, occorre sapere da dove veniamo, chi siamo stati. Senza questa conoscenza, l’uomo è destinato a ripetere i propri errori. Era questo che mi sentivo dire spesso. Ma su questo, sulla necessità della conoscenza della nostra storia come salvacondotto per il futuro, comunque, nutro qualche dubbio. Forse gli errori noi li commettiamo ripetutamente, li rifacciamo ostinatamente, nonostante la storia, perché non possiamo farne a meno. Forse siamo costruiti così, fatti apposta per commettere errori. Forse l’errore è parte integrante del nostro corredo genetico; o per lo meno di ciò che ne resta dopo tutti questi millenni in cui la natura e la storia lo hanno manipolato, modificandolo. Ci attrae, l’errore. O forse l’errore è parte integrante del mio patrimonio genetico, non di tutti. Io, questo, non lo posso sapere. Dopo aver compreso tutto dell’uomo e del mondo, siamo stati capaci di fare quello che ci sembrava impossibile. Siamo esseri realmente grotteschi, ma tenaci. La nostra fragilità è la nostra forza, la crudeltà il nostro destino, la pietà e l’amore l’unica campana che suona nel mare in burrasca e ci segnala la via per la scialuppa.
Eppure, in mezzo a questo grande mare, a bordo di questa scialuppa sgangherata, siamo ancora e sempre in cerca del sentiero, della pista che ci possa portare verso il nostro albeggiare. Questa ricerca spasmodica di una strada è la nostra pionieristica, il nostro tao. E’ il destino che era scritto nei nostri geni quando siamo fuggiti dall’Africa, quando ancora c’erano i continenti, quando l’uomo era signore e padrone di null’altro che della propria esistenza. Quella via, quella pista era lì anche per migliaia di altre specie animali, ma l’abbiamo intrapresa soltanto noi.
Settantamila anni fa, il sapiens prende la strada che dall’Africa conduce verso il resto del mondo, uscendone dalla Porta dei Lamenti, Bab-el-Mandeb. Nella penisola arabica vengono trovati reperti fossili che testimoniano questa dipartita di un piccolo numero di pionieri, verso l’ignoto. Questo gruppo di sapiens è il diretto progenitore di tutti quanti noi; quindici, venti individui che, si trasferiscono sulle molli sabbie di uno stretto, dall’Africa alla penisola Arabica, quando, durante una glaciazione, le acque dei mari erano più basse. E da lì si diffusero al resto del mondo. Un milione e settecentomila anni prima gli esemplari di Homo erano già migrati dalla culla africana verso il resto del mondo, e successivamente, grazie al fenomeno della pompa sahariana, altri gruppi Homo, uscirono dall’Africa e si dispersero per il mondo. Questa caratteristica pionieristica è innata in tutti gli esseri viventi. Muschi, dinosauri, funghi, rettili, mammiferi e uomini non sono differenti, sotto questo punto di vista. E’ la vita
che impone tale declinazione. Ondate successive, quindi, spinsero l’uomo, in tutte le sue evoluzioni, verso le frontiere. E’ l’impeto pionieristico, e, per quanto riguarda i sapiens sapiens verrà poi codificato nella scrittura; parte da lontano, ed è immerso, intinto nella conquista.
Quattromila anni prima della nostra prima estinzione, a tanto risalgono le parole della Genesi nella Bibbia, inizia una sistematica selezione naturale tra membri della specie più adatti e sospinti verso la ricerca, verso l’ignoto. Quello che è sicuro è che i fenomeni di invasione e di saccheggio sistematico erano assai comuni nelle civiltà antiche, protostoriche e storiche. Ma il saccheggio, sebbene abbia delle affinità di metodo
con le pratiche pionieristiche, in realtà è assai differente, nei modi, nelle applicazioni e nelle conseguenze. Il saccheggio sistematico era strumento di sostentamento e di approvvigionamento di popolazioni guerriere e barbare. Vichinghi e Ungari, ad esempio, furono interpreti molto efficaci di questa pratica. I Vichinghi, di origine scandinava, depredavano coste ed entroterra, razziando e facendo bottino di tutto ciò che poteva avere valore. La colonizzazione, però, è ben altra faccenda. L’impeto pionieristico comporta un cambio radicale, una nascita e l’accettazione oscena della trasfigurazione. Come un’onda del mare che monta, carica, s’impenna ed esplode sulla battigia spingendo molto lontano la sua schiuma, e poi sembra rientrare; ma in realtà affonda nelle profondità della terra, e lì giace, non più mare, non più acqua.
Eric il Rosso scappò dalla attuale terra norvegese, poiché accusato di omicidio. Si rifugiò in Islanda e mise su famiglia. Era la fine del primo millennio dopo Cristo. Dopo parecchi anni in terra islandese, però, commise un altro omicidio, e venne messo al bando per tre anni dall’isola. Partì allora verso ovest, e, seguendo i racconti di alcuni pescatori che favoleggiavano di una terra verde e florida più a ovest, giunse in quella che era nota come Groenlandia. Il figlio, Leif Eirìksson, anni dopo, proseguì nella ricerca di nuove terre più a ovest ancora, e sicuramente giunse sulle coste di Terranova, quattrocento anni prima di Colombo. Un fratello di Leif morì, probabilmente ucciso da alcuni nativi americani, mentre risaliva il fiume San Lorenzo. Ma quell’onda risaccò lì, e si chiuse sul mare senza conseguenze.
Crisalidi che si formano disperatamente in angoli bui, su rami alti e su foglie storte, sempre possibili prede di ragni affamati, di uccelli voraci, di formiche metodicamente folli. Poche sono le farfalle che riusciranno a prendere il volo, e di queste, molte saranno vittime di rondini, pipistrelli, mantidi, rospi e altre bestie nate solo con questo obiettivo: uccidere i metamorfi. Ma, se ancora oggi abbiamo i lepidotteri, è perché qualcuna è sfuggita a questi predatori, ed è riuscita a proliferare. Ogni tanto un metamorfo sfugge al destino, e cambia il suo mondo, e diffonde il suo patrimonio al resto dell’uomo. Un lepidottero, una farfalla, è leggera, delicata, fragile, piccola, un vivente apparentemente risibile. Come mai allora questo metamorfo è sopravvissuto per così tanti milioni di anni ad una spietata selezione naturale?
Leif Eirìksson fu fagocitato dalla storia, come una farfalla viene divorata dalla lingua vermiforme di un camaleonte; mentre Colombo tornò trasfigurato, e fu lui a deporre uova nella storia.
Uovo, larva, pupa, adulto; è questa la sequenza. Veniamo concepiti e cresciamo nel ventre materno; poi nasciamo e viviamo come larve, nutrendoci passivamente, crescendo sempre più. E poi diventiamo crisalidi, fissiamo, cristallizziamo ciò che siamo, e ci isoliamo dal mondo, creiamo una corazza dura e impenetrabile, al cui interno viviamo. Ma a differenza di un lepidottero, non abbiamo l’urgenza metamorfica di spaccare l’involucro ed uscire. Noi possiamo restare chiusi lì dentro come ninfe pseudo formate. L’urgenza metamorfica non è obbligatoria, non è scritta nel nostro patrimonio genetico. Possiamo fuoriuscire dalla crisalide che ci siamo imposti solo con un atto di volontà, solo se siamo in grado di ascoltare il richiamo lontanissimo dei nostri geni sepolti da strati di civiltà patinata e di benzene. E, una volta fuori, è Jihad!
Questo che ti vado a raccontare è la storia dell’uomo quando fu crisalide, quando la nostra specie passò da uno stato larvale, ad una morte apparente, si rinchiuse in un bozzolo artificiale e poi tornò a spiccare il volo trasfigurato, cambiato, come una farfalla fa nelle ormai nostre lunghissime primavere. Ti racconterò questa storia, per come l’ho conosciuta io, per racconti diretti e per miti. Te la espongo qui, tutta assieme.
Tu conosci Cain, conosci la leggenda e il mito dell’uomo che ci salvò. Qui tu trovi il racconto di ciò che fu, per come so raccontartelo io. Ed è la storia dell’uomo che fu Cain, del nostro progenitore che si riappropriò della storia. E’ la storia di quell’unico metamorfo che sfuggì ai predatori, e riuscì poi a tornare a casa e a depositare le sue uova. E’ la storia di com’è riuscito l’uomo a diventare crisalide e a sopravvivere. E, come ben sai, quest’uomo non era altro che un uomo, come una larva non è altro che una larva. Ma accadde qualcosa dentro la crisalide, che sconvolse la pianificazione di chi ci teneva in vita, del nostro destino. Cain fu il nostro progenitore più antico, fu colui che ci portò a visitare la crisalide spaccata e ci permise di imparare a conoscerci. Fu il nostro Prometeo, anche se, come sai, era un semplice lavoratore dei campi, e non un Dio! Lavorava in superficie, e a quel tempo era duro.
1
L’incrostazione sul vetro zaffiro della mietitrice rendeva opaca la visuale sui campi neri. L’orizzonte appena celeste, tracciava una linea netta tra l’indaco, subito al di sopra, e l’ocra e il nero dei campi coltivati. La mietitrice, arrugginita, erosa, scalfita da lunghi anni di lavoro in un ambiente ostile, era un’enorme macchina, dalle immense ruote di manovra. La falcia, due serie di denti a sega acuminati in rapido movimento tra loro, generava quel sibilo assordante. Da terra, lo spettacolo era impressionante. Le messi ondeggiavano e fremevano, mentre l’enorme macchina falciava senza pietà. Le grida di dolore e di rabbia venivano coperte dal sibilo delle falci. L’ineluttabilità prendeva il posto che gli spettava, relegando ogni possibile grido di protesta verso l’irrilevanza, attuale e futura. La cassa posteriore della mietitrice accoglieva e comprimeva quintali e quintali di raccolto; mentre le ruote metalliche, ovalizzate e impastate irreparabilmente, arrancavano, contribuendo a devastare, a fare a brandelli le parti ancora frementi di vita che restavano attaccate al suolo. All’interno della cabina di pilotaggio, un piccolo prisma zaffiro, propaggine laterale della mietitrice, Cain ansimava. Mancava l’ultimo giro di falcia – un centinaio di metri ancora. Papà, ultimo giro di falcia, poi vai al dock diciotto, disse Kore. Si, rispose Cain, senza aggiungere nient’altro. La mietitrice rollava e il cupo rombare dei motori si mescolava alle imprecazioni, al sudore, al puzzo di un corpo rinchiuso in uno scafandro ermetico, e al nervosismo per un’imminente fine.
(Coro): Il sole, il cielo blu indaco di quei tempi possiamo soltanto immaginarli. Oggi non è più cosi.
Ti aspetto sotto, gracchiò di nuovo Kore nel casco di Cain. Il caldo era insopportabile.
Cain manovrò il bestione, e lo indirizzò verso l’ultima striscia nera da mietere. Abbassò la falce, diede il consenso ai denti. Il sibilo assordante delle messi si sommava all’ineluttabilità della loro morte, e al rumore delle lame che strappavano e laceravano. Cain rimbalzava e rollava, seduto sulla sua poltrona di comando. Le leve venivano manovrate con delicatezza dalle mani guantate, mentre la testa rimbalzava dentro al casco dello scafandro, e gli occhi seguivano fissi e stanchi la striscia nera che andava esaurendosi. La strada di raccordo, ocra bruciato, che congiungeva i campi al nucleo esterno del Box, era ora visibile. Cain arrivò alla fine della striscia e fermò la mietitrice; poi alzò la falce. Scosse la testa dentro lo scafandro per far cadere la goccia di sudore che si era fermata sul sopracciglio.
Guardò l’orizzonte, e il profilo cilindrico altissimo dei cannoni, che come canne d’organo immense puntavano dritte allo zenit, ora violetto. Le costruzioni bianche, squadrate, e con piccole aperture, erano ammassate poco lontano. I docks per le messi, con le loro facciate strapiombanti e massicce, imponevano la loro presenza su tutto il Box esterno. Il resto delle costruzioni, asfittiche, segnate dal tempo, isolate e degradate, comunque brulicavano di vita al proprio interno, tanto quanto non ve ne poteva essere all’esterno. Un confine tra vita e morte, segnato su un pianeta, la Terra, da una mano disperata. Cain, ogni volta che il turno di superficie si stava per concludere, si soffermava sulla mietitrice a guardare il tramonto, ascoltando il rimbalzo del proprio respiro nello scafandro, sentendo il ritmico ansimare degli attuatori pneumatici della mietitrice, e rilassando le mani nei guanti a tenuta stagna. Era sempre così, qualche mese su, a rendere vitale un nuovo raccolto, e a mieterlo, correndo tutti i rischi possibili; e poi un tuffo giù, al Box sottoterra, per guarire, per riposare, e per stare finalmente con le szujka. Scosse di nuovo la testa, assieme ad un mezzo sorriso che increspò la pelle abbronzata. Poi prese fiato, e pilotò la mietitrice svoltando sulla destra e sulla strada di raccordo. Kore, ho finito, chiudo tutto e arrivo al dock, disse Cain riuscendo a trattenere appena lo sbadiglio della stanchezza. Kore l’aveva visto dall’alto della vetrata della torre di controllo, accanto alle pareti strapiombanti e candide dei docks. Vedeva la mietitrice di suo padre arrivare, lenta e goffa, carica di messi, pesantissima, traballante. Nella sala del controllo docks, l’ampia vetrata color zaffiro, apriva la vista verso campi anneriti e già falciati. Dalla parte a est del Box esterno, si vedevano uscire di già le tre vomeratrici, che avrebbero dovuto lavorare tutta la notte, arando e rivoltando la terra ricca dei peduncoli bianchi e fotosensibili, per metterli alla luce e così concimare il terreno, rendendolo pronto per un nuovo ciclo di semina delle uova, il mese successivo. Una mietitrice ritornava, l’ultima, quella di suo padre, mentre tre vomeratrici veloci uscivano. Seduta sulla sua poltrona, Kore chiuse gli occhi e diede il via a tutti i consensi di chiusura lavoro. Dentro di sé, la percezione dei comandi lanciati alle madri, e la raffica di luci verdi riempì la sua mente facendola sorridere. Poi voltò la schiena alle vetrate, e si diresse verso le scale. Era l’ultima ad uscire dal Controllo, come sempre, del resto. Tutte le sue amiche erano già tornate al Box 12, giù. I loro padri erano solitamente più veloci di Cain, ma meno attenti alla qualità della falcia, meno scrupolosi. A Kore, che del padre non aveva ereditato quasi nulla, non dispiaceva questo aspetto di Cain. Lei stessa aveva un carattere forte, irrispettoso e a volte quasi violento. Era altera, alta, bella e dai tratti forti. Scura di capelli, scura d’incarnato, con occhi vivaci e sicuri, camminava eretta sempre. Il Medi non trovava mai nulla da correggere in lei, e Kore stessa non li temeva.
Scese con calma le scale, e raggiunse il ponte sottostante, mentre sorridendo già si pregustava il ritorno al Box 12, e mentre la mietitrice di suo padre stava terminando l’aggancio ai presso aspiratori, all’interno dei docks. Era stanca di sentirsi addosso l’appiccicoso del sottotuta, e del peso dello scafandro, le era leggero lo scendere le scale della torre di controllo. Si mise il casco e raggiunse Cain, che stava scendendo dalla mietitrice.
(Coro): Padre figlia, a quei tempi, avevano rapporti e relazioni così diverse rispetto ai millenni prima, e ai nostri millenni. Allora, un padre e una figlia erano campioni di una specie che tentava disperatamente di sopravvivere a se stessa e allo stesso tempo erano esemplari di una nuova specie in divenire. Padre e figlia erano perfettamente rinchiusi in una crisalide artificiale, racchiusa in una crisalide più grande, e poi in un’altra ancora e ancora. Loro non lo potevano sapere, ma quel che è certo, visto tutto ciò che ne è seguito poi, è che sentivano quell’irrequietezza complice che hanno due persone che camminano al buio.
Si guardarono fissi negli occhi, attraverso il vetro del casco, sospirarono, e già dieci minuti dopo, camminavano assieme, sempre in silenzio, verso la stazione di partenza.
Si diressero al tubo, con calma, regolando i passi e il respiro. La giornata era alla fine, il sole stava cominciando la sua discesa terminale, e già s'infuocava l'orizzonte. Uscendo dai docks, da una piccola porta di servizio, dentro gli scafandri, per evitare di respirare quell’atmosfera secca e ricca di monossido di carbonio, Kore e Cain si tenevano l’uno dietro all’altra.
Di fronte a loro la via principale, tra le costruzioni bianche, conduceva presso l’unico varco aperto. I tubi di discesa, con i loro stomi unti e bagnati, sporgevano dal terreno, dentro la costruzione, ed erano ben visibili anche dall’esterno. La camera di compensazione li attendeva, le madri lavoravano coi flash di Cain e Kore, mentre i due cominciavano a rilassare i muscoli, a rallentare le pulsazioni, e a chiudere gli occhi. Poi, appena dentro la camera di compensazione, e successivamente nella grande sala degli stomi pulsanti, in grandi ambienti vetrati, abbandonandosi al piacere del rilassamento, permisero ai filtri dello scafandro di mitigare l’aria interna con quella di compensazione, lasciando che il profumo di casa permeasse il casco. Pochi passi, e poi dentro il tubo - l'odore pungente di anice colpì i loro sensi, una scossa e vennero presi, e portati verso casa: il viaggio intermedio, il più bello, il più rilassante. Cain ne approfittò per far lavorare un po' il suo flash, non fa nulla, pensava, mi scuoterà Kore, all’arrivo. Decise così, dormì e cominciò a pulirsi i pensieri.
Kore invece si dedicò a se stessa, e si concentrò sulla sua violenta irrequietezza. Un respiro un po' più forte del consentito, una pressione al petto, il tubo che si fa sentire e che riporta alla realtà. La malinconia che cominciava a percepire non riusciva ad essere mitigata dalla consapevolezza dell'irrealtà. Ma stava qui il godimento, e se lo lasciò scorrere dentro tutto, fino in fondo, come lacrime che vengono fatte sgorgare in abbondanza dagli occhi chiusi, senza possibilità di essere asciugati.
(Coro): Al pari di ogni nostro mondo, in ogni momento passato e futuro, anche quello era un tempo di grande sofferenza.
Una scossa, e Kore fece capire al padre di essere arrivati. Cain si svegliò, e smise di lavarsi i pensieri quasi immediatamente. Erano al Box 12, a terra, sputati dallo stoma, e particolarmente luridi; Cain sentiva il corpo malato, ma i pensieri puliti; aveva lo scafandro lercio ed era totalmente fuori equilibrio. Si era però abituato alla cosa. All'inizio, alle prime risalite e discese, restava per un po' in quella condizione di sdoppiamento, fino all'arrivo dell'emicrania. Ora invece andava molto meglio. Sapeva quando, sapeva come. Kore aveva 13 anni, ormai, ed era da 13 anni che Cain riusciva