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Tarafa

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Ṭarafa ibn al-ʿAbd (in arabo طرفة بن العبد بن سفيان بن سعد أبو عمرو البكري الوائلي?, Ṭarafa ibn al-ʿAbd ibn Sufyān ibn Saʿd Abū ʿAmr al-Bakrī al-Wāʾilī; Bahrein, 543 circa – 569) è stato un poeta arabo. Apparteneva al clan dei B. Qays b. Thaʿlaba, della tribù dei Banu Bakr ibn Wāʾil.

Dopo aver trascorso una gioventù scapestrata in Bahrayn, lasciò la sua terra natia dopo che la pace era stata siglata tra le tribù dei Bakr e dei Taghlib e si recò presso suo zio, al-Mutalammis (anch'egli poeta), che si trovava presso la corte del re lakhmide di al-Ḥīra, 'Amr ibn Hind (m. ca 568–69) e qui divenne compagno del fratello del re. Il regno di al-Ḥīra era a quel tempo vassalla dell'Impero sasanide.
Avendo espresso la sua poco decente ammirazione per la sorella del re in alcuni suoi versi, fu incaricato con lo zio di portare una missiva dal Governatore (Marzubān) persiano degli insediamenti rivieraschi sul Golfo Persico (cioè il Bahrein e l'ʿUmān), Dādafrūz Gushnasbān (in persiano دادفروز گشنسبان‎, noto però agli Arabi col nome di al-Mukaʿbar, in arabo المكعبر?), cui prometteva sarebbe seguita una generosa ricompensa.

Lo zio al-Mutalammis, subodorando un prevedibile tranello, aprì la lettera ed ebbe conferma dei suoi sospetti, decidendo di proseguire quindi verso la Siria e la salvezza, mentre il nipote volle onorare il suo impegno, senza leggere il contenuto della sua missiva, andando incontro alla morte appena ventiseienne.

Uno dei suoi poemi fu tanto apprezzato da essere incluso tra le Muʿallaqāt.
In esso egli celebrava la vita, pur presagendo quasi l'imminente morte:

«I miei compagni di baldoria son fulgidi come stelle, e la sera viene a noi una cantatrice, con un manto e una veste tinta di croco.
Dall'ampia scollatura, condiscendente alle carezze dei commensali, dalla tenera pelle ignuda.
Quando le dicemmo «facci sentire qualcosa», si abbandonò a suo agio al canto con languidi occhi, senza sforzo alcuno...
O tu che mi biasimi perché attendo alla pugna, e indulgo ai piaceri, mi puoi tu fare eterno?
E se non puoi allontanare da me la morte, lascia ch'io le vada incontro con quanto io posseggo!
Se non fossero tre cose di cui gode l'uomo, per i tuoi avi, non mi curerei della malattia suprema:
una è il prevenire ogni muliebre rimprovero per una bevuta di vin rosso, che misto all'acqua spumeggia;
l'altra è lo spronare, accorrendo al grido del supplice, un destriero come un lupo della macchia, calante e bere,
e l'accorciare una giornata d'insolita nuvolaglia, in compagnia di una bella, sotto la tenda drizzata...
Ma la morte, sinché non coglie l'uomo, è come una lunga cavezza allentata, i cui capi son però sempre nel pugno
La vita è un tesoro che scema ogni notte, mentre il Tempo non scema; è il nostro destino che si consuma.»

cui sembra fare da eco il brano in cui si legge:

«Lodoletta del campo, libera ti si apre la valle, deponi le tue uova e trilla.
Beccuzza a tuo piacere, il cacciatore se n'è andato, allègrati!
Egli ha tolto la trappola, cosa temi? Certo un giorno sarai per forza còlta, pazienza.»

Il suo Dīwān è stato edito da Wilhelm Ahlwardt nell'opera The Diwans of the Six Ancient Arabic Poets (Londra, 1870). Alcuni suoi poemi sono stati tradotti in lingua latina, con annotazioni di B. Vandenhoff (Berlino, 1895).

  • W. Ahlwardt, The divans of the six ancient arabic poets: Ennābiga, ʿAntara, Tharafa, Zuhair, ʿAlqama and Imruulqais. Chiefly according to the MSS. of Paris, Gotha, and Leyden; and the collection of their fragments with a list of the various readings of the text. Osnabrück, Biblio Verlag, 1972 (ried. dell'originale pubblicato a Londra da Trübner & Co. nel 1870).
  • M. Mohammadi Malayeri, Tarikh va Farhang-e Iran, Vol. I, Tehran, Yazdan Publishers, 1372 Egirash. pp. 242، 267، 291، 292، 374.
  • R. Jacobi, Studien zur Poetik der altarabischen Qaṣide, Wiesbaden, O. Harrassowitz, 1971.

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