Chapter Text
Le suole lisce delle sue scarpe da completo non sono l’ideale per camminare su marciapiedi sconnessi e macerie, sul pavimento stradale dove l’asfalto è stato grattato via per raggiungere le tubature sottostanti.
Ma il giorno stesso di Black Zero Bruce aveva affrontato travi d’acciaio cadute, voragini e detriti con una bambina in braccio e un piccolo gruppo di donne e uomini sotto shock dietro di lui, e nessuno aveva indossato scarpe adatte neanche allora.
Non era esattamente nello stesso punto: l’attacco del Generale Zod e degli altri kryptoniani aveva avuto il suo epicentro nel cuore di Downtown. La Financial tower delle W.E. si era trovata sull’ottava. Era scomparsa in una nuvola di polvere davanti agli occhi di Bruce nelle prime ore del pomeriggio, coprendo il sole.
Sei mesi dopo, Bruce si trova sulla quattordicesima, ai limiti della zona colpita, a passeggio tra negozi, bar e tavole calde ora inagibili, la cui principale clientela erano stati gli impiegati di Downtown, e poche case ancora vuote a causa dei lunghi lavori necessari per ripristinare le linee elettriche e gli altri servizi di prima necessità.
Le uniche luci sono le luci di sicurezza dei cantieri e quelle regolari di Sunset Street alle sue spalle, dove la vita notturna di Metropolis continua come al solito: scintillante e futile, forse un po’ più determinata e rumorosa per reazione al silenzio della vicina Downtown.
Bruce si è allontanato senza troppe difficoltà dal locale dove si trova il resto del suo entourage.
Gli Accordi per la Ricostruzione sono firmati, e i rappresentanti dell’amministrazione cittadina hanno preparato un piccolo festeggiamento per gli investitori coinvolti. Bruce percepisce anche il valore di festeggiare la firma proprio a Sunset Street, a pochi passi dal simbolo della potenziale distruzione della razza umana.
Tuttavia si è scoperto del tutto incapace di prestarsi al suo ruolo e fare festa di fronte ai propri fallimenti.
Non ha potuto impedire ai Zod e ai suoi di bloccare tutte le trasmissioni della Terra per mandare il loro messaggio al loro compatriota nascosto tra gli umani — a Superman; non ha potuto impedire loro di stazionare la loro nave su Metropolis e sull’Oceano Indiano, e di iniziare a colpire il pianeta; non ha potuto impedire il crollo della torre Wayne e quello degli edifici attorno.
Non ha potuto fare nessuna di queste cose, semplicemente perché non era stato al corrente della minaccia. Non aveva idea dell’esistenza della nave aliena vecchia di ventimila anni che il governo stava per estrarre da un ghiacciaio e che si era fatto sottrarre da sotto il naso, e non aveva idea dell’esistenza dell’alieno onnipotente che viveva tra loro.
Dov’era stato Bruce, mentre i segni della minaccia si manifestavano, mentre diventavano una pista che lui avrebbe potuto seguire come aveva fatto quella giornalista, Lois Lane? Rinchiuso a Gotham, nascosto, preoccupato solo della propria rabbia e del proprio dolore, concentrato a trovare un modo per rendere Batman spaventoso come lui si sentiva…
Così, un fallimento terribile ne aveva generato un altro, dalle conseguenze quasi inconcepibili.
Una razza aliena risoluta a distruggere l’intera umanità. Uno di loro ancora sulla Terra, con indosso la maschera di un alleato e intenzioni inafferrabili. E quel che era peggio, era che tutto questo non era bastato a spingerlo ad agire. Qualcuno lo aveva dovuto costringere a vedere, legando il proprio messaggio alla paura, per essere certo che Bruce Wayne capisse…
Bruce continua a camminare in mezzo ai ponteggi e ai cumuli di detriti che attendono di essere sgomberati. Le finestre sono tutte buie, quelle pericolanti puntellate da assi di legno. Ripensa a una notte simile di tanti anni prima, mentre accompagnava Vesper a casa dalla stazione radio, con la scusa di aiutarla a muoversi tra le macerie che ingombravano ancora i marciapiedi di Gotham, dopo il terremoto.
Il Cataclisma aveva colpito l’intera città, lasciando tutti suoi abitanti senza luce, né acqua, né riscaldamento, lasciando moltissimi senza una casa.
La situazione di Metropolis non è mai stata tanto grave: a essere colpita è stata solo una minima parte della città, una zona di uffici, per lo più. E Metropolis essendo Metropolis, la sua ricostruzione procede spedita.
Certo, nessun nuovo palazzo di vetro, nessuna nuova meraviglia architettonica, neppure il controverso Heroes Park con la sua odiosa statua, risolverà il problema principale di Metropolis e del mondo intero: Superman è tra loro.
Bruce vede chiaramente la minaccia, ora. Resta il problema di come affrontarla.
Subito dopo il crollo della Torre Wayne ha alzato gli occhi al cielo e lo ha visto, nel suo costume sgargiante anche in mezzo alla polvere. Gli occhi scintillanti di rosso. Ore dopo, quando hanno avuto conferma che tutto era finito, la Terra salva, Bruce aveva rivisto quell’immagine: l’alieno sopra di loro, uscito vittorioso dal suo scontro, che contemplava le spoglie di guerra che ora gli appartenevano.
Durante il Cataclisma Bruce ha affrontato gang di sciacalli, miseria e disperazione, omicidi e taglieggi di ogni genere. Ma era più giovane. Più bravo a chiedere aiuto. “Prestami un po’ della tua forza,” aveva chiesto ad Alfred. “Prestami un po’ della tua speranza,” aveva chiesto a Vesper.
Ma ora, che diritto ha di chiedere qualunque cosa? Forse non ne ha neppure il coraggio: non col modo in cui Alfred osserva il marchio appeso alla sua cintura, non con il modo in cui rispetta il silenzio che Bruce ha imposto sull’argomento, rendendo chiaro che non approva.
Alfred ha sempre rispettato i limiti che Bruce si è imposto. Certamente li considera necessari, per un uomo come Bruce, per Batman. Un filo sottile a proteggere gli altri da se stesso. E ora lui sta tirando e tirando quel filo, ogni volta che il marchio fa la sua comparsa.
E se Alfred non approva quello, come potrebbe affiancare Bruce per il passo successivo? Perché l’alieno, la minaccia che pone, va eliminata. Definitivamente.
Aggira un container alloggiato al centro di un incrocio, dove il passaggio è libero. Dall’altro lato della strada gli appare una figura. Bruce si ferma dov’è, nell’ombra del container, e si prende un istante per studiarla.
Non ha incontrato nessuno, durante la sua escursione, ma la polizia di Metropolis controlla sicuramente la zona. Il giovane uomo che ha davanti però non ha l’aria del poliziotto, o del sorvegliante privato: si stringe le braccia mentre guarda verso l’imbocco della metro di Downtown, poi si sfila gli occhiali per sfregarsi un occhio.
“Gesù,” lo sente mormorare Bruce, con sforzo, come se avesse la gola serrata.
Dev’essere venuto per piangere qualcuno che ha perso. L’idea di restare nell’ombra a guardarlo gli pare grottesca. Ma anche quella di andarsene via e basta: che diritto ha lui di voltarsi di fronte a chi soffre per qualcosa che lui avrebbe potuto evitare, se non fosse stato cieco, ed egoista, affossato nella propria sofferenza come se fosse l’unica a contare?
“Ehi, va tutto bene, figliolo?” chiede, facendo un passo avanti.
Il ragazzo non sobbalza, ma si gira con un piccolo ‘oh’ sorpreso. I suoi occhi sono di un blu allarmante.
***
Venire a Downtown è sempre una tortura e un sollievo allo stesso tempo.
I primissimi tempi, Clark non riusciva a starne lontano. Come Superman ha aiutato a prestare i primi soccorsi, a liberare strade per i vigili del fuoco durante l’emergenza. Si è fatto da parte perché i militari stavano cercando di capire dove vivesse, monitorando i suoi spostamenti da e per Metropolis, e Clark ha dovuto mettere in chiaro che non hanno niente da temere da lui, che si sente americano, che lo lascino in pace. E poi, su consiglio di Lois, si è trasferito a Metropolis, per non rischiare di mettere in mezzo Ma’ e perché così può continuare ad andare a Downtown.
Anche se lo fa soprattutto di notte, è un mezzo miracolo che nessun giornalista si sia accorto che Superman si aggira lì attorno. In parte è merito di Lois: il Planet ha riaperto quattro giorni dopo Black Zero, con quasi tutti i dipendenti ai loro posti, nonostante i nylon alle finestre e i puntelli che sorreggono l’edificio; ma Lois ha rivendicato le notizie su Superman per sé, e non ha tradito il bisogno di Clark di provare a rimediare almeno in parte a quel disastro lontano da flash e telecamere. Non lo hanno tradito neanche i membri delle squadre notturne di emergenza e di sgombero, forse grati del suo aiuto o forse solo decisi a non trovarsi una selva di giornalisti tra i piedi a rendere ancora più difficile il loro lavoro.
Ma mano a mano che Downtown viene sgomberata dai palazzi crollati, l’esigenza di avere turni ventiquattr’ore su ventiquattro si riduce. Né la presenza di Superman è più così necessaria: la sua forza non serve a granché per posare cavi elettrici e fibra ottica, tubi del gas e rete antisismica, e ora il resto del mondo sa dell’esistenza di Superman e invoca il suo aiuto.
Tuttavia Clark non riesce a stare lontano troppo a lungo. Ha lavorato spesso in bar e tavole calde, durante i suoi viaggi, e non ha faticato troppo a trovare un posto da cameriere in un locale dalle parti di Sunset Street, appena oltre le transenne che delimitano la zona distrutta. Il locale è frequentato quasi esclusivamente dagli operai di Downtown e dalle forze dell’ordine locali, oltre a qualche raro dipendente del Planet, quando il loro rifugio d’elezione abbassa la saracinesca (“Diventerà presto anche il tuo, Clark, ne sono sicura,” gli ripete Lois da un paio di settimane). È il posto ideale per non pesare completamente su Lois, per restare in contatto con il mondo e con la nave kryptoniana — forse Clark troverà il coraggio di andarci, una volta sistemato il resto — e perché gli permette di andare a Downtown quando vuole.
E se è un sollievo vedere i cambiamenti, i progressi, il cuore della città che lentamente risorge… ricordare il perché è sempre uno schiaffo. Come cercare di respirare e non riuscirci, come essere colpito da armi in grado di ferirlo, come venir scagliato contro un edificio e sentirlo crollare attorno a sé, sapendo che schiaccerà chiunque non sia riuscito a uscire, chiunque abbia cercato salvezza nelle strade circostanti.
Come quasi ogni notte che passa a Downtown, i piedi di Clark lo portano all’imbocco della metro.
Il locale era affollato e forse Clark si sarebbe potuto fermare a dare una mano anche dopo la fine del suo turno, ma non riusciva più a sopportare le risate e quel generale senso di sollievo. Era contento per i ragazzi, davvero. Ma eccolo che si ritrovava comunque lì, ad ascoltare nella sua mente le urla terrorizzate di quella famiglia e la voce grondante di veleno di Zod. Poi il silenzio, e subito dopo altre urla. Le sue.
“Gesù,” si lascia sfuggire.
Un piccolo suono, per trattenere tutti gli altri chi gli affollano i pensieri.
Forse il rumore che ha in testa copre quelli reali, perché è sicuro di non aver sentito per niente l’uomo a pochi passi da lui che gli chiede: “Ehi, va tutto bene, figliolo?”.
Clark si gira verso di lui, sorpreso, risistemandosi gli occhiali. Il nuovo venuto lo guarda con espressione attenta, il capo leggermente inclinato. È un po’ più alto di Clark e tiene le mani affondate nelle tasche di un cappotto scuro.
“Sì,” risponde lui, automaticamente. “Va tutto bene. Io– come è arrivato qui? La zona è off-limits.”
L’ingresso ai cantieri è ben segnalato e ovviamente vietato ai non addetti ai lavori; un paio di pattuglie fanno due giri di ronda a piedi ogni notte. Per Clark non è un problema evitarle, ovviamente, ma per quest’uomo?
L’uomo lo fissa sollevando un sopracciglio.
“Be’, d’accordo. Non dovrei essere qui nemmeno io,” ammette Clark.
“Mh. E sei sicuro di stare bene?”
Dio, Clark deve avere un’aria incredibilmente patetica, per spingere a preoccuparsi persino un tizio che non l’ha mai visto prima.
“Sì, davvero. Ogni tanto vengo qui per… pensare, credo,” sente il bisogno di spiegare. “Lavoro in un bar qui vicino, appena oltre…” Indica vagamente in direzione della Sunset.
L’uomo annuisce. “Arrivo da quella parte anch’io.”
“È un posto alla mano, non raffinato come quello da cui probabilmente sei uscito tu,” continua Clark, senza sapere bene perché.
L’uomo non abbassa lo sguardo sul proprio cappotto o sulle scarpe eleganti. Sorride. “Già. Ma le noccioline sono sempre terribili in quei posti.”
Clark dà uno sbuffo di risa.
Lo sconosciuto ha due occhi color nocciola belli da morire. Osserva Clark pazientemente e lui riprende a parlare.
“C’era il pienone, stasera. Tutti brindano agli Accordi, sai, vuol dire che ci sono i soldi per continuare lo sgombero e la ricostruzione, e nessuno dei ragazzi perderà il lavoro.” Fa un cenno ai cantieri tutto intorno a loro. “È… è un bene per la città, è proprio quello di cui avevamo bisogno.” Gli si forma un groppo in gola. Distoglie lo sguardo dal viso dell’uomo, ora serio e composto. “È solo che…”
“Gli Accordi non riporteranno indietro quelle persone,” finisce per lui l’uomo.
Clark deglutisce a fatica. “Già.” Si sforza di sorridere. Lo sconosciuto è già preoccupato per lui, non ha bisogno che Clark gli scoppi in lacrime di fronte.
“Hai perso qualcuno?” chiede l’uomo, facendo un passo verso Clark e con voce, oh, così gentile.
‘Sì. No. Tutto il mio popolo, e il mio pianeta. Mio padre. Me stesso,’ vorrebbe rispondere Clark. Ma è una risposta sciocca, ed egoista.
“No,” risponde con voce ferma, per fortuna. “Ero… si può dire appena arrivato. Ho solo un’amica in città e lei sta bene, grazie al cielo.” Gli viene in mente con un po’ di ritardo, la ragione per cui probabilmente quell’uomo lo sta trattando con tanta gentilezza, la ragione per cui cammina a Downtown quella notte. “Tu… hai perso qualcuno, quel giorno?”
L’uomo stringe le labbra, fissando l’asfalto frantumato sotto i loro piedi con aria dura. “Sì. Colleghi. Amici.”
Oh, dio. “Mi dispiace così tanto,” mormora Clark.
Ma l’uomo non può capire che si sta scusando, risponderà qualcosa come ‘non è stata colpa tua’ e Clark spera che il suo senso di colpa lo finisca e basta, lì dove si trova, perché il pensiero che quello sconosciuto premuroso stia consolando proprio Clark, quando lui si è ritrovato in quell’inferno di Black Zero senza avere idea di quello che stesse succedendo, aveva visto morire le persone con cui lavorava ogni giorno… Ma l’uomo non dice ‘non è stata colpa tua.’
“Shhh, va tutto bene, figliolo. Respira.” Quando Clark riesce a prendere un respiro tremulo, l’uomo gli dà un colpetto con la spalla, senza togliere le mani delle tasche del suo bel cappotto. “Vieni, andiamo.”
Clark lo affianca istintivamente e cominciano a camminare in mezzo alla strada. È grato che l’uomo gli abbia trovato qualcosa su cui concentrarsi, anche se si tratta solo di mettere un piede davanti all’altro. Rimangono in silenzio per un po’, scegliendo dove andare in base alle condizioni della pavimentazione. Ma l’uomo non sembra granché preoccupato dal percorso accidentato. Sale agilmente in cima a un cumulo di macerie, allungando poi una mano per aiutare Clark a scendere dall’altra parte.
“Grazie.”
Clark ha usato nomi falsi e limitato ogni contatto umano al minimo, durante i suoi viaggi. Ma in Metropolis spera di costruirsi una vita, di restare, finalmente, come Clark Kent. Il proprietario del locale, Chester, e i clienti abituali lo conoscono, e Clark spera di poter dire lo stesso dei colleghi e amici di Lois al Planet, presto.
“Mi chiamo Clark,” si presenta, dicendosi che è una cosa normale da fare e allo stesso tempo con l’impressione di star facendo qualcosa di monumentale.
L’uomo gli stringe la mano. “Sono Bruce.” Continuano a camminare. “Hai detto che sei appena arrivato in città. Di dove sei?”
Clark scrolla una spalla. “Non si sente?”
“Ah, non voglio essere scortese.”
Lui sospira. “Kansas.”
“Mh.”
“Vuoi dirlo subito?”
“Posso trattenermi.”
“Non serve. Via il dente, via il dolore.”
“Ok. ‘Non siamo più in Kansas, Toto.’”
Clark geme sonoramente. “Mi illudo ogni volta che non sarà terribile.”
Bruce ridacchia. “Aspettarsi risultati diversi come conseguenza delle medesime azioni è segno di–”
“Inguaribile ottimismo?” scherza Clark timidamente, quando Bruce si interrompe.
Bruce pare riscuotersi. “Ovviamente. Sei un ottimista, Clark?”
Clark si sfrega la nuca. “Penso di aver scelto di esserlo, a un certo punto. Ho scelto di avere speranza.” Si sente un po’ arrossire: per Bruce probabilmente non ha il minimo senso. “Non nel senso che ‘tutto si sistemerà, alla fine’. Intendo dire che, se io mi sforzo di fare la cosa giusta, allora posso sperare che lo facciano anche le altre persone. Posso avere fiducia in loro.” Arrischia uno sguardo.
Gli occhi di Bruce lo osservano, intensi. “Ci vuole coraggio.”
“Be’, sì. Ma pensa a Black Zero, a tutte le persone che hanno rischiato o addirittura perso la vita per aiutare chi non poteva mettersi in salvo da solo.” Si schiarisce la gola. “Quello che è successo… è stato ingiusto, e terribile. Ma mi ha dato speranza lo stesso.”
E una missione concreta e precisa, quando il sogno di Jor-El era stato astratto e utopico, un messaggio dalle stelle e non molto di più. Essere un faro si speranza per il genere umano era… troppo. Ma volare in soccorso di chi chiedeva aiuto? Aiutare squadre di emergenza a evacuare un palazzo in fiamme, disincagliare una nave dai ghiacci? Quello Clark può farlo, e forse il risultato alla lunga sarà comunque quello che Jor-El aveva sognato.
Bruce si è fermato e continua a fissarlo.
Clark si sistema nervosamente gli occhiali. “Scusami. Magari non volevi pensare a Black Zero.”
“Se così fosse, non sarei qui.”
“Certo. È la prima volta che vieni qui, da…”
“Sì. Sarei dovuto venire prima.” Bruce scuote la testa.
C’è del rimorso e un sottofondo di rabbia nelle sue parole. Non è difficile capire che Black Zero deve ricordargli anche tutte le altre volte in cui ha sofferto. Forse, come per Clark, è un’orribile esperienza che gli ricorda altri fallimenti, impotenza, affetti perduti.
Poi Bruce risolleva lo sguardo. “Ma sono contento di essere venuto qui stasera. Avevo bisogno di speranza.”
Clark sorride. “Anch’io.”
***
Il ragazzo, Clark, è dolce, e gentile, e ha un po’ nostalgia di casa. Ha viaggiato per qualche tempo per il paese, ma è la prima volta che vive in una grande città.
“Bisogna farci l’abitudine,” dice, e il suo tono racconta di una vita precedente fatta di altri ritmi e altri spazi, di piccole comunità compatte. O forse la visione mentale che ha Bruce del Kansas è un pochino stereotipata.
Clark non è tanto d’accordo a sentirsi definire ‘ragazzo’.
“Non puoi essere tanto più vecchio di me. Ho trentatré anni, sai,”
“Non ha tanto a che fare con la tua età, quanto con la mia. Oltre una certa soglia sono tutti ragazzini.”
“Oltre una certa soglia di supponenza?” chiede Clark con un ghigno e Bruce è costretto a dargli ragione.
Parlano forse per una mezz’ora, girando in tondo per Downtown. Bruce racconta di quel giorno (senza scendere nei dettagli: la stampa ha parlato fin troppo di lui, in relazione a Black Zero); Clark gli racconta piccoli aneddoti sulla ricostruzione che deve aver sentito dai clienti del locale in cui lavora, e notizie di persone qualunque e straordinario coraggio. È evidente che ognuna gli ha spezzato il cuore. È dolce, e gentile, e compassionevole.
Deve avere un ottimo udito, anche, perché a un certo punto solleva la testa, aggrotta la fronte. “C’è qualcuno…”
“Ci stanno per scoprire? Siamo nei guai?” chiede Bruce. Finora è stato facile evitare gli agenti che pattugliano la zona: ha una certa esperienza di ronde notturne. Lui e Clark sono di nuovo vicino alla zona di negozi e tavole calde.
“No, qualcuno sta… litigando?”
“Dove?”
Bruce è all’erta, ora. Ovviamente c’è una ragione, per avere degli agenti di pattuglia a Downtown. Non appena Clark indica in una direzione si avvia di corsa. Cantieri, materiali da costruzione, scarsa illuminazione… case e negozi vuoti. Ha un brutto presentimento che si trasforma in certezza non appena è abbastanza vicino da sentire anche lui le voci.
“Sciacalli,” ringhia.
Clark è subito dietro di lui.
“È il mio negozio! Vattene subito dal mio negozio, razza di stronzo!”
È una voce femminile, furiosa e terrorizzata allo stesso tempo.
“Stai zitta!”
“No! Sto ricominciando a ricostruire, non ti permetto di venire qui a rubare–”
Bruce gira l’angolo e l’uomo con il giubbotto e il cappellino nero che si trova davanti esita a calare il tubo di ferro che ha in mano sulla testa della donna di fronte a lui. Sono accanto all’ingresso posteriore di una caffetteria, o forse di una pasticceria.
“Stia indietro,” dice Bruce alla donna, che in realtà ha già fatto un salto indietro quando lo ha visto correre verso di loro.
L’uomo si riprende dalla sorpresa e solleva di nuovo la sua arma improvvisata, e d’un tratto Clark è tra loro, di fronte all’uomo, e pare il colpo destinato a Bruce con la parte alta del braccio.
La donna strilla e Bruce inspira tra i denti serrati: quello potrebbe facilmente significare un braccio rotto. Ma Clark non emette un suono, afferra il tubo e lo strappa dalle mani dell’uomo, mentre quello bestemmia.
“È questo quello che sei venuto a fare qui? Dove tutte quelle persone sono morte, tu sei venuto a rubare a chi ha perso quasi tutto?” chiede Clark. Ha l’aria amareggiata e incredula.
“Vaffanculo, amico! Che ne sai, tu?”
Clark ha il tubo in mano, adesso; Bruce, anche se il più grosso tra i due, è disarmato, perciò il secondo uomo — il palo, pensa Bruce, che era probabilmente al secondo piano dell’edificio di fronte per controllare che la strada fosse libera — si muove verso la minaccia più grande, avvicinandosi alle spalle di Clark con un coltello.
Bruce scatta, colpisce il secondo uomo al gomito con un calcio, facendogli cadere il coltello, e lo afferra per il polso, quando quello si volta di scatto, il braccio teso e il pugno serrato. Bruce gli strattona il braccio verso il basso e gli appoggia l’avambraccio contro il collo, il gomito verso l’orecchio. Ruota su se stesso e fa forza con l’avambraccio: manda l’uomo a schiantarsi contro il muro più vicino, mettendolo fuori combattimento.
“Oh, signore,” esclama la proprietaria del negozio.
“Bruce!”
“Va tutto bene,” risponde a Clark. “Il tuo braccio.”
Clark lo fissa senza capire, per un istante. Ha una mano stretta sul bavero della giacca del primo uomo, addossato al muro. Abbassa lo sguardo su di sé, rallentato. “No, a posto. Il mio giubbotto è imbottito. Credo– che avrò un livido, niente di più.”
Bruce sospira di sollievo, prima di accorgersi che Clark lo scruta ancora, sorpreso. Ma prima che possa dire qualunque cosa per sminuire quello che ha appena fatto, il piccolo incrocio si riempie di gente.
“Tutti fermi dove siete! E qualcuno mi spieghi cosa diavolo sta succedendo!” strilla uno dei nuovi arrivati in uniforme blu. Il fascio della sua torcia si posa a turno sui presenti.
“C’è un uomo a terra,” comunica il suo collega alla ricetrasmittente.
Poi la situazione si fa caotica. L’uomo che Clark tiene bloccato al muro grida: “Questi stronzi ci hanno aggrediti!” e immediatamente la donna fa per scagliarsi contro di lui: “Come osi dire una cosa simile! Agenti, questi due stavano rubando nel mio negozio–”
Bruce la afferra per un braccio per trattenerla.
Uno degli agenti solleva le mani. “Ok, fate tutti un po’ di– ehi, ma tu sei Clark, giusto? Di Chester?”
Clark ha l’aria costernata. È evidente che preferirebbe trovarsi da qualsiasi altra parte, anche se non ha esitato un istante a lanciarsi ad aiutare, quando hanno sentito gridare. D’altronde, anche Bruce vorrebbe essere da tutt’altra parte, non appena l’agente pretende di sapere i nomi di tutti e di vedere i loro documenti. Lascia rispondere la donna per prima — “Mi chiamo Maureen Nellie, sono la proprietaria di questo esercizio, e…” — ma quel piccolo stallo non gli serve a niente, perché altre due uniformi, un sergente e un agente semplice, arrivano sulla scena.
“Avery, Coulson, cosa avete per le mani?”
“Questo è svenuto e dev’essere trasportato in ospedale, ma respira e comincia a riaversi.”
“Direi che abbiamo un tentativo di saccheggio o una rissa, non è ancora–”
“Cazzo, ma quello non è Bruce Wayne?” esclama all’improvviso uno degli agenti.
Bruce si trasforma in un cervo illuminato dalle loro torce. “Uh…”
“Bruce Wayne?”
“Mi prendi in giro…”
“Signor Wayne, ha idea del diavolo a quattro che stanno facendo le sue guardie del corpo?” lo sgrida il sergente. “Abbiamo dovuto permettere loro di oltrepassare le transenne per cercarla!”
E in quel momento, ovviamente, la sua squadra di sicurezza raggiunge il gruppo.
“Signor Wayne!”
“Eccola! Come le è venuto in mente di allontanarsi?”
Mark e Hanna indossano due identiche espressioni di tradimento misto a sollievo. Bruce non aveva avuto intenzione di allontanarsi tanto a lungo da far notare la sua assenza. Ma poi aveva incontrato Clark.
Non ha il tempo per fare molto di più che assumere un’aria idiota e vagamente contrita. “Ops?”
Dà un’occhiata a Clark. Si sono scambiati solo i nomi propri: Bruce non ha l’abitudine di farsi riconoscere come lo scapolo d’oro di Gotham, quando la cosa non gli procura un vantaggio tattico valutato a priori. Quella sera, per una mezz’ora, non ci sono state maschere o secondi fini. Con Clark si è solo… goduto la compagnia. Ora Clark lo fissa a bocca aperta, all’apparenza dimentico dell’uomo nella sua presa.
“Volevo solo prendere una boccata d’aria. Credo di essermi perso,” riprende Bruce, alle incessanti richieste di spiegazione della sua sicurezza. Sasha vorrà la sua testa.
C’è un minuto di cagnara assoluta, in cui tutti parlano allo stesso tempo, finché il sergente — Bayles, dice la sua targhetta — non sbraita: “Basta! Questo ridicolo circo finisce qui! Chiariremo cosa è successo in Centrale. Tu, amico, leva le mani di dosso a quell’uomo.”
“Ecco, sì, levami le mani di dosso!”
“Quello è uno dei camerieri di Chester, capo, è un bravo ragazzo.”
“Bene, allora il signor bravo ragazzo non avrà problemi a raccontarci quello che è successo.”
“Certo, signore,” risponde Clark, docile.
“Posso raccontarvelo anch’io, cos’è successo!” interviene la donna, Maureen Nellie, oltraggiata a nome di Clark.
“D’accordo, signora. Signor Wayne? Lei crede di avere qualcosa di importante da aggiungere, alla ricostruzione dei fatti? Perché penso,” il sergente solleva una mano per placare Mark e Hanna, già compatti di fronte a Bruce, “che preferirei rendere il rapporto di stanotte meno complicato possibile, nell’interesse di tutti.”
Probabilmente non crede che Bruce abbia fatto molto di più che passare di lì per caso. D’altronde, lui tiene a braccetto Maureen, nel suo capotto elegante. È Clark che teneva un uomo bloccato con una mano sola. Anche il complice semi-svenuto è ai suoi piedi. Non c’è modo che coinvolgere Bruce Wayne non scateni un circo mediatico, soprattutto all’indomani della firma degli Accordi. Questo non renderebbe certo il lavoro degli agenti di pattuglia più semplice. Reprimere lo sciacallaggio è da encomio. Incappare in un tentativo di saccheggio mentre impiegavano forze e soldi dei contribuenti per cercare una celebrità sperduta risulterebbe molto meno lusinghiero.
“Rendere la vita complicata a qualcuno è l’ultima cosa che desidero,” risponde Bruce. Se Alfred potesse sentirlo, non sopravvivrebbe alla sua occhiataccia.
Mark e Hanna lo affiancano e quasi lo trascinano via.
Bruce riesce a malapena a scambiare un ultimo sguardo con Clark. Sospira e il ragazzo gli fa un mezzo sorriso, stringendosi un poco nelle spalle. Poi Bruce è costretto a girarsi e a guardare dove mette i piedi, mentre tornano vero Sunset Street.