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David Lynch non si può spiegare bene

I suoi film onirici non vanno capiti con la logica ma intuiti con le emozioni, ed è per questo che era contemporaneamente d'avanguardia e popolare

di Gabriele Niola

David Lynch alla Fondazione Cartier per l'arte contemporanea a Parigi nel 2007 
(Mauro Guglielminotti/FARABOLAFOTO/ansa)
David Lynch alla Fondazione Cartier per l'arte contemporanea a Parigi nel 2007 (Mauro Guglielminotti/FARABOLAFOTO/ansa)
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Durante un incontro con il pubblico a Roma, nel 2006, fu chiesto a David Lynch di spiegare il senso di uno dei suoi film più amati ma anche più enigmatici: Mulholland Drive. La risposta del regista, morto giovedì a 78 anni, fu in poche parole che non poteva farlo. Disse che i suoi film nascono da “idee”, descritte come una forma di ispirazione che gli viene da un altrove non specificato.

Queste “idee” una volta che lo raggiungono diventano parole di una sceneggiatura. In seguito vengono recitate da attori che ci mettono uno strato di interpretazione, aggiungendo del senso. Poi le parole diventano immagini quando vengono filmate, ci viene aggiunta una musica e infine il montaggio, tutti passaggi che modificano, arricchiscono e gonfiano il significato originario di quelle parole fino a creare il film. Per lui, diceva, era dunque impossibile a quel punto riportare quella cosa lì, così arricchita e complicata, alla forma delle parole. E forse non avrebbe avuto nemmeno senso farlo.

Questa è, in estrema sintesi, la maniera in cui David Lynch considerava la parte più astratta della sua produzione, i film o le parti di film per comprendere i quali non serve la logica ma occorre usare l’intuito. Proprio la sua capacità non solo di creare qualcosa che si capisce anche con l’intuito, ma anche di riuscire a stimolare negli spettatori il desiderio di usare l’intuito al posto della logica, lo hanno reso uno degli artisti di avanguardia più popolari.

– Leggi anche: Chi era David Lynch

In pochi come lui hanno portato l’arte sperimentale a un numero ampio di persone. I suoi film sono spesso complicati ma, a differenza degli altri, hanno una maniera di farsi capire a un livello intimo e suggerire stati d’animo molto profondi, che lo hanno fatto apprezzare a un pubblico vasto. Enigmatici, più che cervellotici. Sempre misteriosamente attraenti e mai freddamente complessi.

Non tutta la sua produzione è così. Ampie parti della serie tv Twin Peaks (la sua creazione più popolare), The Elephant Man (il suo secondo film, commissionatogli da Mel Brooks) e Una storia vera sono esempi di quanto Lynch sapesse essere un creatore di opere classiche e convenzionali. Di quanto sapesse usare bene il cinema per raccontare storie lineari e quindi come la scelta di usare il più delle volte soluzioni non lineari fosse, per l’appunto, una scelta.

All’inizio della sua carriera, dopo The Elephant Man, Lynch era un regista molto cercato per i film commerciali: fu avvicinato da George Lucas per dirigere Il ritorno dello Jedi (che rifiutò perché non ci vedeva nulla di interessante per lui) e gli fu affidato un grande film di fantascienza, Dune, che tuttavia andò molto male. Era per molti versi un tecnico, con idee chiare sulla tecnologia e la fruizione. Per esempio era contro il suono stereofonico e a favore del monofonico. Secondo Lynch la maniera migliore di fruire un film, di certo uno dei suoi, era attraverso una proiezione su uno schermo cinematografico (quindi non sul televisore, per quanto grande), e con un’unica grossa cassa sotto quello schermo, senza impianti multicanale in cui il suono proviene da più direzioni.

David Lynch sul set di Mulholland Drive (ANSA/UNIVERSAL PICTURES/MELISSA MOSELEY)

Il metodo creativo che ha spesso descritto partiva dalla meditazione trascendentale, da lui descritta come uno stato di sogno a occhi aperti. È stato un grande promotore delle tecniche di meditazione, ha creato una fondazione che porta il suo nome dedicata a diffonderla ed era proprio meditando che riceveva “in dono”, sempre per usare le sue parole, le “idee” a partire dalle quali creava i suoi film o i suoi dischi. Le “idee”, nella visione dell’arte di David Lynch, erano tutto: quella cosa a partire dalla quale è possibile creare. E una tira l’altra (motivo per il quale la prima è la più importante). Dimenticarsi una buona idea, diceva spesso Lynch, era «un orrore», una cosa che gli faceva venir voglia addirittura di uccidersi: per questo se le scriveva subito.

Vedeva sé stesso come un esecutore di quelle idee di cui non sapeva spiegare l’origine. Si poteva trattare di immagini, sequenze o anche solo accostamenti che, organizzati in un racconto, producevano un film come Mulholland Drive, cioè una specie di avventura onirica di due donne, forse nel sogno di una delle due, forse su un altro piano dell’esistenza. Oppure poteva portare a quel che si vede in Strade perdute, film inquietante e assurdo, il cui protagonista viene interpretato da un attore diverso nella prima e nella seconda metà, per l’incredulità degli stessi personaggi, e ricordato anche per il terrificante uomo misterioso che perseguita il protagonista senza apparente motivo, manifestando una sorta di dono dell’ubiquità.

È pieno di questi momenti nei film di David Lynch, singole sequenze che hanno uno strano rapporto con la trama o con l’intreccio, non dettato dal principio di causa ed effetto ma dall’associazione di sensazioni. La sua grandissima abilità era di concepire immagini così originali e memorabili, che nonostante l’enigmaticità riuscivano a dire qualcosa a un numero ampio di persone. Nessuno può davvero spiegare il senso dei dischi che girano a vuoto sul grammofono, producendo quel rumore bianco che si trova spesso nelle scene “lynchane”, mentre un personaggio cammina lentamente, spiritato, e nel guardarsi allo specchio vede un’altra persona. Sarebbe complicato dargli un senso univoco, eppure dentro queste scene in molti percepiscono le loro stesse inquietudini.

La natura semi-onirica di queste ispirazioni contribuisce a spiegare il senso di quel che accade nei film di David Lynch. Spesso infatti i personaggi sognano e i sogni che fanno hanno un ruolo importante. Sogna sempre l’agente Dale Cooper di Twin Peaks e, un po’ come David Lynch stesso, è in quello stato tra sogno e realtà che riceve gli indizi cruciali per la sua indagine. Sognano le protagoniste di Mulholland Drive, ma anche quelli di Eraserhead, e pure il protagonista di The Elephant Man sogna la madre travolta da elefanti. Ogni volta il sogno è la rivelazione di qualcosa, perché quel collegamento lì, tra il piano dell’esistenza concreta e quello dell’esistenza trascendentale, è nella concezione del mondo di David Lynch ciò che svela tutto quello che di interessante c’è da sapere.

Invece la ragione per la quale è considerato uno dei registi più importanti in assoluto della storia del cinema statunitense è perché è riuscito a fondare un immaginario dal nulla, con pochissimi debiti nei confronti di altri cineasti. L’estetica di Twin Peaks, fatta di anni ’50 americani, provincia montuosa del nord degli Stati Uniti, agenti dell’FBI specializzati nell’occulto (un binomio che non esisteva prima di Twin Peaks) e di uno spiritualismo unico, che non fa capo a nessuna religione e parla di purezza contro malignità, è la più famosa di queste creazioni.

Ce ne furono però molte altre: per esempio il rumore bianco come indizio di un’altra realtà, o la comparsa estemporanea del mostruoso e dell’inspiegabile in situazioni quotidiane. Ogni film è pieno di queste trovate che stimolano paura, dolcezza, tenerezza o tensione attraverso espedienti inventati in quel momento e non presi dalla storia del cinema. Lynch non ha copiato nessuno, può solo essere copiato: ma in pochi si sono azzardati.

David Lynch durante un evento per la promozione dell’attrice Laura Dern, protagonista del suo film Inland Empire – L’impero della mente, in vista della stagione dei premi cinematografici a Los Angeles, 13 dicembre 2006 (REUTERS/Chris)

Nonostante questo, e nonostante un atteggiamento spesso distaccato o stralunato, David Lynch non era però per nulla distante dalle passioni terrene. Era un regista che come tutti gli altri registi statunitensi desiderava fare film sempre più grandi e desiderava che il suo lavoro venisse riconosciuto. Nanni Moretti ha spesso raccontato che quando nel 2001 vinse la Palma d’oro al festival di Cannes con La stanza del figlio, in concorso c’era anche Lynch con Mulholland Drive, il quale vinse solo il premio alla regia. Nonostante avesse già vinto una Palma d’oro nel 1990 con Cuore selvaggio, Lynch ci teneva così tanto a vincere di nuovo e riteneva così ingiusto il premio a Nanni Moretti che, nel retro del palco dopo la consegna dei premi, si avvicinò a lui e gli mise le mani alla gola come per strozzarlo, un po’ scherzando e un po’ sul serio.