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// 373 // ASSISTENZIALISMO E POLITICHE DI CONTROLLO SOCIALE IN ITALIA LIBERALE E FASCISTA Giovanna Procacci, Luigi Tomassini, Nicola Labanca, Giancarlo Falco, Fabrizio Bienintesi, Alessandro Polsi, Paul Corner, Leonardo Paggi Introduzione Questo quaderno rappresenta alcuni dei risultati del progetto nazionale di ricerca MURST intitolato ‘Strutture sociali, politiche di controllo e welfare in Italia e in Europa 1880-1980’. Il progetto, iniziato nel 1997 e concluso nel 2000, ha visto la collaborazione di gruppi locali di ricerca dalle Università di Firenze, Modena, Pisa, Siena e Trieste. Ciò che segue dev’essere considerato, in gran parte, ancora come work in progress. Va specif icato che, per la vasta gamma di argomenti compresi nei lavori dei vari gruppi e per il fatto che non tutti i partecipanti hanno consegnato una relazione, i saggi qui presentati non hanno pretesa né di omogeneità fra di loro né di copertura totale dell’arco di tempo previsto nel progetto originale. Sarà inoltre evidente a chi le gge che i diversi filoni fanno riferimento a campi alquanto disparati, e che le metodologie di lavoro e l’approccio agli argomenti sono spesso molto diversi. Ciononostante, ci è sembrato utile raccogliere insieme i vari contributi in quanto i temi di fondo riguardano tutti alcuni aspetti centrali del rapporto fra stato e popolazione nell’ultimo secolo. Non è possibile consegnare questo quaderno alla stampa senza ricordare la figura di Simonetta Ortaggi, del gruppo di Trieste, che è morta improvvisamente nel 1999. Il suo contributo alla formulazione di questo progetto è stato fondamentale ed è causa di profonda tristezza che non sia presente per vederne la conclusione. Paul Corner Coordinatore nazionale Siena, luglio 2001 Giovanna Procacci Welfare-Warfare. Controllo sociale, assistenza e sicurezza 18801919. 1. D UE TIPOLOGIE A CONFRONTO. Nelle pagine che seguono cercherò di inquadrare la configurazione del sistema sociale italiano a partire dalla fine del secolo diciannovesimo fino al primo dopoguerra 1915-1918, rivolgendo particolare attenzione ai mutamenti indotti dal conflitto.1 L'analisi si svolgerà individuando le caratteristiche del modello italiano all'interno delle due tipologie classiche: il modello «assicurativo» tedesco, basato su una legisla zione rivolta a coprire i rischi di limitate categorie di lavoratori - quelle delle maggiori industrie - ed espressione di un intervento «dall'alto», determinato da preoccupazioni di prevenzione e controllo sociale; e il modello «assistenziale» britannico e dei paesi nordici, connesso allo sviluppo democratico e parlamentare, e caratterizzato da una legislazione tesa a rispondere ai bisogni dei settori necessitanti della popolazione - non esclusivamente lavoratrice - nonché a tutelare i lavoratori e le loro organizzazioni.2 Mentre le iniziali forme assicurative coincisero con il primo presentarsi della questione operaia nei paesi di tardiva industrializzazione e a struttura autoritaria - e risentir ono perciò necessariamente dei rapporti di potere esistenti - la tipologia assistenziale si sviluppò soprattutto nel nuovo secolo, con la fase di rigoglio che caratterizzò l'economia europea, con l'emergere del proletariato, l'estensione del suffragio, l'urbanizzazione e l'incremento dei servizi pubblici affidati alle amministrazioni locali.3 Pertanto negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale la maggior parte dei paesi europei industrializzati o in via di industrializzazione svilupparono una densa rete assicurativa e\o assistenziale: ciò produsse nu- 1 Questo lavoro costituisce solo un p rimo approccio alla ricerca sul tema in oggetto, e non è quindi da considerarsi in nessuna delle sue parti definitivo. Nei primi paragrafi (paragrafi 1-4) l'analisi è stata concentrata quasi esclusivamente sulle iniziative pubbliche in materia assicurativa e assistenziale. Nei paragrafi riguardanti il periodo bellico (paragrafi 5-7), è stata posta maggiore attenzione ai nuovi meccanismi, introdotti in tutti i paesi, di controllo sociale e di intervento statale nelle relazioni industriali. 2 Il primo modello dette vita a un sistema esclusivamente «occupazionale», e in larga misura obbligatorio, basato sulla duplice o triplice contribuzione (lavoratori, datori lavoro, eventuale sostegno finanziario dello stato); il secondo, a un sistema svincolato da ll'occupazione, e solo tardivamente reso obbligatorio. 3 Mentre, nel caso tedesco, i diritti sociali vennero riconosciuti a scapito dei diritti politici, in quello britannico l'evoluzione avvenne per reciproca influenza: in Inghilterra il riformismo sociale fu graduale, connesso al progressivo inserimento di ceti e classi all'interno del sistema di rappresentanza. 6 Giovanna Procacci merose commistioni tra i due modelli, ma solo con la guerra si verificò, a nostro parere, una reale compenetrazione tra le due tipologie. 4 La guerra infatti, oltre a dare vita a nuovi strumenti di regolamentazione del mercato del lavoro e di organizzazione della produzione, stimolò l'emanazione - seppur spesso solo sul piano formale e non su quello operativo - di numerose riforme nel campo dell'assistenza e della previdenza, e spinse a generalizzare la legislazione assicurativa. Il primo conflitto mondiale impose pertanto ai paesi che seguivano la tipologia tedesca di estendere massic ciamente i propri interventi fuori dall'ambito tradizionale del welfare occupazionale, per a prirsi ai bisogni della popolazione; e condusse quelli che avevano seguito l'indirizzo brita nnico a provvedere a sostegni di categoria, applicando misure assicurative e previdenziali agli occupati industriali, il cui peso sociale era enormemente aumentato durante il conflitto. Si può pertanto sostenere che, riguardo alle due tipologie di intervento riformatore dello stato - quella tedesca e quella anglosassone, la prima rivolta ad alcune categorie di occupati, la seconda rivolta ai bisognosi - la guerra produsse un intreccio dei due modelli, con una prevalenza - negli anni del conflitto - del modello anglosassone (provvedimenti per tutta la popolazione), e nell'ultima fase della guerra e nell'immediato dopoguerra di quello tedesco (provvedimenti per singole categorie): quest'ultimo modello resterà poi preminente fino al secondo dopoguerra. 5 Non va anche dimenticato che la legislazione sociale mantenne un legame inscindibile con forme preventive e repressive di controllo sociale: sia sotto forma di normativa tesa ad impedire l'evoluzione in senso conflittuale e politico della spinta proveniente dal basso e a rendere controllabile il conflitto, sia in veste di specifica legislazione a carattere repressivo, volta a colpire, con interventi mirati, le forme di dissenso non eliminate atttraverso gli interventi preventivi.6 L'uso dei vari strumenti di controllo sociale, paralleli e complementari a quelli assistenziali e di riforma, è ben individuabile negli anni dalla guerra 1914-18, quan4 Pur non rappresentando sistemi opposti e separati - come vedremo, l'Inghilterra assunse già prima del con flitto dall'esempio tedesco le riforme assicurative, e in Germania si sviluppò la tendenza a garantire la tutela degli anziani anche se non avevano versato tutti i contributi - i due modelli restarono comunque in larga misura distinti. Sebbene le differenze non debbano essere sopravvalutate, e nonostan te tutte le commistioni, come scrive Ritter, «il principio assistenziale, che in alcuni paesi fu esteso anche alla tutela della salute, e il principio assicurativo rappresentano comunque due strade alternative per delimitare la tradizionale assistenza ai poveri, e le relative conseguenze discriminatorie, sostituendola almeno in parte». G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale , Bari 1999, pp. 9192; cfr. anche G. Gozzi, Modelli politici e questione sociale in Italia e Germa nia fra Otto e Novecento, Bologna 1988, pp. 158-60. 5 Si possono quindi individuare - grosso modo - le seguenti fasi: 1 - ultimi decenni 800 - primo decennio del '900: modello tedesco: misure assicurative (precedente: paternalismo sociale; principio: occupazione); modello britannico: misure di tutela e assistenziali (precedente : «poor law»; principio: bisogni). 2 - 1910 circa - 1945: prevalenza del principio assicurativo occupazionale, con alcuni programmi integrativi (sussidi di disoccupazione, pensione sociale, reddito minimo ecc.). 3 - dopo il 1945 : carattere universalistico di assicurazione e previdenza, estese a tutta la popolazione, in base al criterio della cittadinanza. 6 Anche nei paesi di avanzata democrazia alcuni provvedimenti furono attuati come antidoto all'avanzata della socialdemocrazia e alle rivolte dei disoccupati: in Inghilterra l'emanazione della legislazione sociale - e in particolare quella assicurativa - avvenne sotto la pressione del movimento operaio, sia in ragione della sua acquisita maggiore forza politica (il n eonato partito laburista), sia nel tentativo di allentare le tensioni sociali, che lo stesso sviluppo industriale, e gli effetti della crisi ciclica del 1906-07, avevano indotto. Welfare-Warfare 7 do, per inibire il conflitto sociale e politico, tutti i paesi in guerra ricorsero a politiche sia conciliative che coercitive. Esamineremo l'evoluzione della legislazione sociale dalla fine del secolo alla guerra, prima in Germania e in Gran Bretagna, e poi in Italia. Vedremo in seguito il tipo di sviluppo indotto dal conflitto, con particolare riferimento alle nuove forme di intervento statale nelle relazioni industriali. Termineremo con la descrizione delle principali riforme assistenziali e assicurative attuate nell'immediato dopoguerra 1918-1919. 2. DALLA FINE SECOLO ALLA GUERRA MONDIALE. GERMANIA E GRAN BRETAGNA. Il segno distintivo della prima legislazione sociale - quella assicurativa bismarkiana - fu, come è noto, un legame stretto con una gestione del potere di tipo autoritario. Non a caso le norme per la sicurezza furono presentate contemporaneamente alle leggi politiche più repressive d'Europa - fatto che connota in modo inequivocabile l'obiettivo preventivo di quelle riforme. Come recitava la motivazione della bozza di legge sulle assicurazioni antinfortunistiche, il fine era quello di rendere la classe operaia «più strettamente legata allo stato attraverso riconoscibili vantaggi diretti». Le riforme miravano infatti ad integrare i settori di punta della classe operaia - i destinatari erano specificatamente gli operai coinvolti nelle agitazioni sociali - e a ritardarne la politicizzazione. Non vi era nessun intento di corrispondere, attraverso la nuova normativa, alle necessità delle classi più bisognose braccianti, lavoratori a domicilio - o di que lle che avevano risentito più direttamente dei processi di industrializzazione rapida e di altrettanto vertiginosa urbanizzazione. Si trattava dunque di una politica sociale dall'alto - erede più della tradizionale polit ica paternalistica del vecchio regime che nuovo sistema di gestione delle relazioni industriali. 7 Tra gli elementi che favorirono l'approvazione della legislazione sociale, e in partic olare di quella infortunistica, fu anche la rispondenza dell'iniziativa agli interessi della grande industria: attraverso la nuova legislazione, lo stato liberava infatti gli imprenditori dal dovere di indennizzo dell'operaio in caso di infortunio e di invalidità. La legislazione sociale della Germania fine secolo si inquadrava pertanto all'interno della politica attuata dal nuovo stato unitario, in appoggio ai gruppi industriali di punta, di cui intendeva favorire economicamente e socialmente l'espansione.8 La legge infortunistica era ristretta a poche categorie di industrie, quelle in ascesa e particolarmente pericolose, e prevedeva un alto contributo da parte dei lavoratori. Si riferiva pertanto alle categorie «privilegiate», delle quali voleva captare il consenso. I programmi erano diversi a seconda del settore occupazionale (erano previsti contributi e benefici differenziati a seconda dei vari gruppi), con il risultato di produrre una settorializzazione corporativa dei lavoratori. Ma prova del carattere esclusivamente strumentale dell'iniziativa fu 7 A. Wolfe, I confini della legittimazione, Bari 1981, pp. 91-92. Come ci ricorda Ritter, all'emanazione delle norme fu però determinante anche l'esistenza in Germania di un'alta burocrazia ancorata alla borghesia colta, e una preesistente prassi amministrativa assistenziale da parte degli stati tedeschi, basata su una fitta rete di associazioni di autotutela, intermedie tra stato e privati (Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., pp. 79-80 e 75-82; G. A. Ritter, Cambiamento sociale e intervento dello Stato: loro effetti sull'autonomia e la funzionalità del parlamento, in Rappresentanze, legittimità, minoranze. L'esperienza storica tedesca in un contesto comparativo, «Quaderni della fondazione Basso», n.5, p. 26). 8 8 Giovanna Procacci soprattutto il fatto che nessuna legge di tutela del lavoro accompagnò le misure assicurative: il ritardo in questo settore, come in quello dei diritti di coalizione del lavoro, fu elemento caratterizzante del processo di riforme sociali tedesco fino alla guerra e a Weimar. 9 Tuttavia, pur con questi limiti, e a prescindere dai motivi che avevano spinto a emanare le leggi, la Germania fu l'antisegnana nel formulare una normativa per l'assicurazione sociale obbligatoria, centralizzata (non affidata cioè più alla gestione discrezionale delle istituzioni locali), e quindi con prestazioni standardizzate, basata sul finanziamento triangolare (lavoratori, datori di lavoro, stato). Dal 1883 al 1889 furono varate le assicurazioni contro le malattie (1883, cassa costituita per 2/3 dagli operai e per 1/3 dai datori), contro gli infortuni (1884, cassa a carico dei datori) per l'invalidità e la vecchiaia (1889, trattenute sui salari, quote di datori lavoro e stato): quest'ultima, concessa a larghi settori di lavoratori dell'industria che avessero raggiunto i 70 anni, fu assolutamente innovativa, seguita dagli altri paesi europei solo dopo il primo decennio del nuovo secolo (anche se le pensioni erano talmente ridotte che non riuscivano ad assicurare i minimi esistenziali). Anche l'Austria a sua volta approvò tra il 1887 e il 1888 l'assicurazione infortuni e malattie, varando nel contempo - a differe nza della Germania - anche una legislazione di tutela (durata massima della giornata di lavoro 11 ore). 10 Nel decennio che precedette la prima guerra mondiale si andò sviluppando il sistema di welfare dell'Inghilterra. Come abbiamo già ricordato, questo sistema - alla cui base era il principio della legittimità di gestione del potere attraverso i canali della democrazia e del consenso ele ttorale - fece propri i criteri dell'obbligatorietà assicurativa più tardi rispetto al modello tedesco, quando questi vennero inseriti nei programmi del movimento operaio, grazie quindi non ad una concessione dall'alto, bensì in rapporto all'evoluzione della società. La Gran Bretagna fu l'antesignana nel campo della tutela (fin dagli anni Trenta dell'800 erano stati istituiti gli ispettori di fabbrica per il controllo delle disposizioni, un corpo di funzionari era stato adibito alla gestione del problema della povertà e della sanità dei bisognosi, era stata emanata una legislazione riguardo al lavoro minorile e femminile nelle fabbriche e nelle miniere, era stato ridotto l'orario maschile, ecc.).11 Tuttavia, in onore al principio del «laissez faire», era stato lasciato il massimo spazio alla rete associativa privata (ancora nel primo decennio del Novecento era maggiore il numero dei bisognosi assistiti dagli organismi privati che in base alla «poor law»). Solo con il nuovo secolo la Gran Bretagna recupererà terreno: verrà approvata infatti la assicurazione per gli infortuni nel 1905-6 (perfezionando una precedente 9 Leggi di tutela furono emanate solo dopo la caduta di Bismarck, e solo con la repubblica di Weimar fu stabilito l'orario massimo di lavoro. 10 Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., pp. 61, 82-83, 92. 11 La prima fase della legislazione sociale, avente per oggetto il lavoro, viene collocata tra il 1802 «legge sulla salute e la morale degli apprendisti poveri» - e il 1867, con il «Factory Acts Extension Act», che estese a tutti i settori della grande industria la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, introdotta nel 1833 nell'industria tessile. Si consideri anche che già nel 1795 i magistrati inglesi del Berkshire, di fronte alla crisi sociale determinata dalle «enclosures”, decisero di applicare una specie di scala mobile dei salari, collegati al prezzo del pane, cfr. E. Bartocci, Alle origini del welfare state, in V. Cotesta (a cura di), Il Welfare italiano. Teorie, mo delli e pratiche dei sistemi di solidarietà sociale, Roma 1995, pp. 20, 37. Welfare-Warfare 9 normativa del 1897 che prevedeva l'assicurazione volontaria), le pensioni per la vecchiaia nel 1908, quella per malattie e disoccupazione nel 1911 («National Insurance Act»). 12 Ma i caratteri dell'intervento sociale inglese furono molto diversi da quelli tedeschi. Il principio fondante delle riforme era infatti quello di rispondere ai bisogni delle classi lavoratrici e dei settori poveri della popolazione: partendo dai concetti della «poor law» - di cui una commissione ebbe il compito di rivedere i caratteri (1905-1909) - le legislazione sociale inglese superò di un balzo le restanti legislazioni europee, ponendosi alla testa del riformismo sociale, a fianco della Danimarca,13 e dando vita a un sistema di previdenza sociale direttamente gestito dallo stato. Cadde l'elemento di valutazione negativa dello stato di necessità che era alla base della «poor law» - che considerava la povertà come una colpa, e pre vedeva la reclusione nelle «work houses» e la perdita del diritto al voto - la condizione di bisogno non fu più considerata un fenomeno marginale, legato a cause morali, bensì una conseguenza diretta delle trasformazioni sociali collegate all'industrializzazione, un fattore inerente alla dinamica economica cui era doveroso porre rimedio, ai fini dello stesso buon funzionamento del sistema. Ne derivava quindi l'obbligo da parte delle strutture pubbliche di intervenire.14 Con l'«Old age pension act» del 1908 venne dunque garantito dallo stato - senza contributi da parte dei beneficiari - un sussidio di 5 scellini settimanali (poco più di un quinto di un salario di un operaio non specializzato) a tutti i cittadini oltre i 70 anni, «rispettabili», e che non avessero altro mezzo di sostentamento. Veniva dato così l'inizio al modello di stato sociale che diverrà in seguito universalistico, basato sul principio di un'assistenza che usufruiva del solo contributo statale, e che non distingueva tra lavoratori e non. 15 Poiché tuttavia la pensione ai vecchi poveri lasciava inassistita quasi tutta l'invalidità, si integrò la legge sulle pensioni con quella sull'assicurazione obbligatoria per malattia e invalidità del 1911. 12 Sostenitore del varo delle riforme fu, come è noto, Lloyd George, allora cancelliere dello scacchiere, futuro primo ministro durante il conflitto mondiale. Nel 1908 furono varate anche le otto ore per i minatori. 13 La Danimarca aveva istituito fin dal 1891 un regime di pensioni di anzianità a carico dello stato. 14 Il rapporto di minoranza della «Royal Commission on the Poor Law», steso da Beatrice Webb, ebbe peso r ilevante nel diffondere tale convinzione; secondo il «Minority Report», non si trattava di assistere determinate categorie di persone, quanto di individuare diffusi bisogni sociali (salute, istruzione, sicure zza, lavoro) e dare ad essi una risposta comples siva. Essere assistiti dallo stato era, secondo la Webb, «a ttributo della cittadinanza». Ma la relazione di minoranza ottenne una tiepida accoglienza, cfr. L. Marrocu, Il salotto della signora Webb, Roma 1992, pp. 123-126. In base alle relazioni presentate alla commissione, nelle quali venivano indicate le cause «oggettive» della povertà (lavoro occasionale, bassi salari, abitazioni insalubri, orari di lavoro che minavano la salute) e veniva data una valutazione della disoccupazione come perdita economica s ecca (non più quindi connessa a una colpa personale), veniva proposta, in luogo di una struttura sostanzialmente repressiva, una struttura preventiva. 15 La relazione di minoranza anticipò molte delle realizzazione del piano Beveridge - è da ricordare che Beveridge era già attivo nel 1908 nel Board of Trade - che troverà attuazione nel secondo dopoguerra. Il piano Beveridge previde un sistema centralizzato e pubblico - comprendente tutti i cittadini - di riforme pensionistiche e assicurative (obbligatorie e aperte a tutti i lavoratori, «National Assurance Act», 1946; «National Assistence Act», 1948, per chi non rientrava nel sistema assicurativo; «National Health Service», 1948). Già nel suo volume del 1909 sulla disoccupazione, Beveridge aveva sostenuto che bisognava avere per oggetto «la disoccupazione più che i disoccupati»: la disoccupazione veniva quindi considerata un problema dell'industria e non dell'a ssistenza. 10 Giovanna Procacci Anche nel settore assicurativo - in larga parte ripreso dall'esempio tedesco, e basato quindi sul principio del «contratto», e non del «bisogno», - era previsto un concorso molto più massiccio dello stato rispetto alla Germania. Inoltre, a differenza della Germania, l'assic urazione contro le malattie e gli infortuni riguardava la quasi totalità dei lavoratori. Il sistema approvato prevedeva l'obbligatorietà,16 e un sistema contributivo triangolare. Un altro primato della Gran Bretagna fu l'istituzione, sempre nell'11, di un'assicurazione contro la disoccupazione, con un'obbligatorietà ristretta in questo caso però ai settori più a rischio (circa un quinto della classe operaia). Furono inoltre istituiti dei centri di collocamento («Labour exchanges»), furono approvate le otto ore per i minatori, pasti gratuiti per gli alunni bisognosi, ispezioni scolastiche, minimi salariali in settori di lavoro particolarmente duro (soprattutto femminile: le «sweatshops»), ecc. Le riforme furono numerose: ma, quel che più conta, esse furono regolarmente applicate. Le riforme inglesi, alla vigilia della guerra, avevano dunque ampiamente superato il modello tedesco anche nel campo assicurativo, settore che avevano inglobato nel progetto complessivo. L'evoluzione della legislazione sociale si era verificata insieme al progredire delle riforme politiche e alla crescita del potere delle classi lavoratrici: nonostante che l'intervento dello stato fosse divenuto alla fine determinante, e che talora le riforme fossero state decise come farmaco contro la conflittualità, il modello inglese si caratterizzava sempre per un processo la cui spinta veniva dal basso, di pari passo con l'estensione della sfera democratica. 3. L'ITALIA DALL'U NITÀ ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE L'esperienza tedesca fu, come è noto, il modello ispiratore della legislazione italiana di fine secolo. Il cammino seguito dall'Italia fu tuttavia più tardivo e limitato rispetto a quello attuato dalla Germania. Nei primi due decenni successivi all'Unità non fu infatti realizzato alcun progresso in campo di legislazione e politica sociale. L'Italia partiva da un piano fortemente arretrato: la struttura assistenziale era quella ereditata dal Piemonte, meno progredita rispetto ad altri stati (come ad esempio la Lombardia). Dopo l'Unità non fu attuato nessun piano di coordinamento dell'assistenza, che rimase pertanto nelle mani degli enti religiosi, alcuni dei quali gestivano in modo scandaloso - come rivelò nel 1876 una commissione d'inchiesta - i compiti loro affidati.17 A fianco degli istituti religiosi, l'assistenza iniziò però ad essere attuata anche dalle società di mutuo soccorso, il cui sviluppo - a partire dagli anni '70 - fu rapidissimo.18 16 Contro questa ipotesi, voluta da Lloyd George, si dichiarò la Webb, cfr. Marrocu, Il salotto della signora Webb, cit., p. 132. 17 Nel 1861 si stimò che esistessero ben 18.000 istituti caritativi registrati, cfr. J. A. Davis, Legge e ord ine. Autorità e conflitti nell'Italia dell'800, Milano 1988, p. 247. 18 Gli iscritti passarono da 111.608 nel 1862 a 781.491 nel 1885; le società ebbero un forte sviluppo nei primi anni '90: da 433 nel 1893 passarono a 6.844 nel 1896 (A. Cabrini, La legislazione sociale (1859-1913), Roma 1914, p. 39; A. Pino Branca, Cinquant'anni di economia sociale in Italia, Bari 1922, p. 79). Nel 1885 1.401 società di mutuo soccorso corrispondevano sussidi ai soci che avevano subito un infortunio sul lavoro; 1.801 corrispondevano pensioni ai soci divenuti permanentemente inabili al lavoro; 1.545 promettevano pensioni di vecchiaia, e 520 pensioni ai familiari superstiti. Le società non riuscivano però a corrispondere le rendite vitalizie (solo i sussidi temporanei); fu quindi all'interno delle stesse s ocietà di mutuo soccorso che si pensò a una Cassa nazionale per le pensioni operaie, cfr. E. Gustapane, Le origini del sistema previdenziale: la Cassa nazionale di previden- Welfare-Warfare 11 Questa esistenza di una fitta rete di associazioni assistenziali private fu una delle cause che portò a ritardare l'intervento statale in ambito sociale. A ciò si aggiunsero la disastrosa situazione delle finanze pubbliche, lo scarso sviluppo dell'oc cupazione in opifici industriali e, soprattutto, l'avversione a progetti di riforma sia della borghesia liberale (legata ai principi del «laissez faire») che dei ceti conservatori, più propensi a risolvere i problemi sociali con misure di polizia (come l'«ammonizione», che costringeva i disoccupati cittadini a tornare in campagna). 19 Mancò nell'opinione pubblica it aliana l'atteggiamento di indignazione filantropica che aveva caratterizzato altri paesi: la classe dirigente si mantenne indifferente verso la questione sociale, puntando piuttosto alla riforma elettorale e a quella tributaria (abolizione del macinato). 20 Un opposizione vivace all'introduzione di qualsiasi forma di legislazione sociale proveniva d'altra parte dal mondo industriale: l'Italia - scriveva nel 1876 il senatore Alessandro Rossi nella «Nuova Antologia», scagliandosi contro quanti proponevano leggi di tutela delle donne e dei fanciulli - non doveva farsi influenzare dagli esempi esteri di legislazione sociale, la quale non riusciva affatto «ad arrestare il socialismo»: Non è con la diffidenza - scriveva Rossi - che si compra la benevolenza dei padroni, meno ancora con l'intervento dello stato. Non è nei Parlamenti ma nel cristianesimo che deve cercarsi la soluzione.21 Né alcun intervento legislativo fu approvato per le campagne, nonostante che l'inchiesta Bertani del 1872 avesse denunciato le spaventose condizioni di salute dei contadini, affetti da pellagra e malaria, e l'inchiesta Jacini nel 1879 avesse descritto lo sfruttamento e i soprusi nell'ambito del lavoro agricolo.22 za e per la vecchiaia degli operai (19 novembre 1898-19 luglio 1919), in Novant'anni di previdenza in Italia: culture, politiche, strutture. Atti del convegno, Roma , 9-10 novembre 1988, Roma 1989, p. 45. Il riconoscimento giuridico delle società avvenne nel 1886. 19 Il ritardo fu determinato anche dall'iniziale opposizione da parte dei cattolici e dei socialisti, timo rosi di dover subire un imbrigliamento costrittivo. L'atteggiamento muterà, per i cattolici, dopo la Rerum Novarum, e, per i socialisti, quando fu presentato il progetto infortunistico, e, soprattutto, con le aperture dimostrate dal governo Giolitti (1892-93). Come scrive Bonelli, «Il modesto peso della cultura riformistica a ll'interno della borghesia e il disinteresse e l'opposizione della maggioranza della classe dirigente liberale sono [...] fattori che devono ritenersi responsabili di questa partenza decisamente stentata della previdenza italiana. Ma giustamente vengono chiamate in causa la modesta consistenza, la scarsa coesione e altri fattori di debolezza della classe operaia, le sue condizioni culturali connesse al diffuso analfabetismo e quelle materiali derivanti da bassi livelli salariali e da un'occupazione precaria, ecc.», cfr. F. Bonelli, L'evoluzione del sistema previdenziale italiano in una visione di lungo periodo, in Novant'anni di previdenza in Italia, cit., p. 137. 20 «Lo scarso sviluppo industriale non suscita le grandiose proteste del sentimento filantropico o dell'igiene a difesa della specie che in altri Stati han potuto persino e dovunque fiancheggiare l'azione della classe proletaria - notava Cabrini - proteste suscitate dagli eccessi dello sfruttamento consumato sul lavoro umano, specie delle donne e dei fanciulli. Pellagra e malaria fanno strage dei lavoratori della terra: ma questi son nulla, nella politica nazionale, mentre i lor padroni son tutto», cfr. Cabrini, cit., p. 13. Si ricorda che con la riforma elettorale del 1882 gli elettori pass arono da 622.000 a due milioni. 21 Ibidem, p. 26-27. Nel 1877 risultavano occupati nell'industria 382.131 uomini, donne e fanciulli, e 40.556 nelle miniere; circa 90.000 fanciulli sotto i 15 anni erano occupati nelle industrie seriche, talora anche di sei o meno anni. 22 Per l'opposizione parlamentare ai vari progetti, e sulle disposizioni approvate, cfr. Cabrini, cit., pp. 24-29, 37-40. 12 Giovanna Procacci Fino all'inizio degli anni '80 la legislazione fu quindi quasi inesistente. Negli anni successivi furono presentati vari progetti di tutela - i progetti Berti sulla Cassa nazionale infortuni, sui probiviri, sulle pensioni di vecchiaia,23 sugli scioperi (che il codice Zanardelli ancora vieta va se non giustificati da «ragionevole causa», e prevedeva anche pene detentive se lo sciopero era condotto «con violenza e minaccia») - destinati tuttavia in maggioranza a naufragare per l'opposizione dei ceti conservatori, forti in Senato. 24 Vennero solo approvate nel 1883 una legge sul riconoscimento giuridico della Cassa nazionale assicurazioni infortuni sul lavoro, nell'86 la legge sul riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso, e sempre nel 1886 la prima legge sul lavoro dei fanciulli (ma non sul lavoro femminile: eppure le donne, impiegate soprattutto in agricoltura e nelle fabbriche tessili, risultavano prevalenti sugli uomini al censimento del 1861, e di poco inferiori in quello del 1881, ciò tuttavia probabilmente solo a causa del diverso metodo di rilevazione, che privilegiava il lavoro continuativo e quindi il lavoro maschile).25 Riguardo alla Cassa, alla quale l'iscrizione era facoltativa, la sua istituzione non ebbe successo: nel 1888 si erano assicurati solo 70.222 operai e il numero tendeva a diminuire, perché i più preferivano l'assicurazione privata; il suo funzionamento iniziò solo alla fine del secolo, quando fu votata l’obbligatorietà di iscrizione per alcune categorie. Anche la norma sul riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso ebbe scarsa rilevanza: il ric onoscimento fu assai raramente richiesto, nel timore che comportasse un controllo governativo, cosicché nel 1894 su 6.854 società solo 1.186 erano state riconosciute. Infine la legge sul lavoro minorile, che aveva dovuto attendere venticinque anni dalla formazione dello stato nazionale per essere approvata (mentre in altri paesi, come la Gran Bretagna, esistevano normative di tutela già nella prima metà del secolo), mancando un effettivo controllo, non venne di norma applicata.26 Nel complesso, come scriveva Pino Branca, il primo periodo postunitario vide scarsi progressi della legislazione sociale nel suo primo nascere: basta del resto ric ordare che delle numerose proposte di legge, una sola sia arrivata in porto: quella cioè dell'istituzione di una cassa di assicurazione degli operai contro gli infortuni del lavoro, e ciò perché tale istituzione rientrava nelle linee generali della legislazione vigente e non implicava nessun nuovo in dirizzo né alcun mutamento all'attività economica dello Stato.27 23 Berti faceva presente che, essendo la media salariale italiana la più bassa, insieme alla Spagna, di qualsiasi altro paese europeo, l'operaio non era in grado di risparmiare. Sulle opposizioni alla legge, Gustapane, cit., pp. 45-49 sgg. 24 All'approvazione del disegno di legge sul diritto di sciopero si opposero anche i socialisti, che ne temevano il carattere ambiguo (1886). Costa votò a favore della legge sul lavoro dei fanciulli. 25 S. Ortaggi Cammarosano, Industrializzazione e condizione femminile tra Otto e Novecento, in S. Musso (a cura di), Tra fabbrica e società, «Annali» della Fondazione G. Feltrinelli, 1997, 33, p. 169. 26 La legge prevedeva il divieto di lavoro dei minori di 9 anni, in miniera dei minori di 10, e del lavoro notturno dei minori di 12. 27 Pino Branca, cit., p. 62. La legge sugli infortuni era in effetti la meno distante dai principi liberali, rientrando nell'ambito della responsabilità per danni. Sul dibattito sull'assicurazione infortuni, crf. G. Gozzi, cit., che reputa la legge del '98 sull'invalidità e la vecchiaia «un'autentica innovazione politica che crea un'amministrazione parallela rispetto a quella dello Stato, attraverso la quale vengono i mposte ai soggetti delle provvidenze assicurative nuovi rapporti politici: non più quelli della solidarietà mutualistica, bensì quelli di partecipazione e rappresentanza all'interno di un ente autonomo costituito dalla Stato [...] ra ppresenta altresì l'avvio di un processo di integrazione del movimento operaio che si compie attraverso l'amministrazione (un'«integrazione amministrativa»), pp. 110 sgg. Welfare-Warfare 13 Dopo questa fase di discussione (e di bocciature), riprese comunque il predominio la tendenza a risolvere la questione sociale attraverso la pura repressione. L'ambiente si è rifatto tutt'altro che propizio alla legislazione del lavoro - notava Cabrini - la confidenza delle classi dominanti nella violenza e nella repressione è divenuta così profonda e illimitata, che per qualche tempo nega anche un sol palmo di terreno allo stesso 'riformismo cesareo' animato dalla teoria dei compensi e dalla speranza di indurre le masse a barattare i loro diritti politici con qualche beneficio materiale.28 Rudinì, avverso a ogni funzione dinamica dello stato, mise infatti a tacere i progetti di riforma avanzati da Crispi (sotto cui era stata approvata la legge sanitaria nel 1888 e quella sulle istituzioni di beneficenza, e soprattutto dopo il 1889 erano stati avanzati numerosi progetti di riforma in vari settori).29 Vennero solo approvate alcune norme sull'incolumità dei minatori (1893), l'applicazione della legge sui collegi dei probiviri in industria (1893), che costituì, secondo alcuni studiosi, una delle poche esperienze innovative italiane, ma che ebbe, come diremo, una limitatissima applicazione nell'in dustria, e non fu approvata per l' agricoltura. 30 Vennero invece bocciati i nuovi progetti sul lavoro delle donne e dei fanciulli, presentati nel '93, nel '97, nel '98 e nel '99. 31 Il ritorno al governo di Crispi sarà, come è noto, contraddistinto dal più rilevante tentativo di restaurazione autoritaria della storia dello stato liberale. Abbandonato ogni progetto riformista, il governo Crispi introdurrà lo stato d'assedio e i tribunali militari in Sicilia, la sospensione delle libertà statutarie e dell'immunità ai deputati dei Fasci, poi le leggi «antianarchiche», che portarono allo scioglimento del P.S.I., l'estensione dei termini di applicazione del domicilio coatto, ecc. Era la vittoria delle correnti conservatrici (che avevano in Sonnino un loro autorevole rappresentante) e del progetto di salvaguardare il regime liberale dai pericoli insiti nei programmi di apertura in senso democratico. Tuttavia negli ambienti del liberalismo conservatore iniziava a prevalere la convinzione, condivisa anche da ambienti cattolici, che fosse opportuno, per difendere le istituzioni liberali dal pericolo di una evoluzione democratica, accompagnare le misure di repressione con azioni di riforma sociale. 32 La strada iniziata quindici anni prima dalla Germania appariva ora opportuna anche in Italia. Alla fine del secolo, in non casuale connessione con le leggi liberticide - la legge sulla previdenza fu votata in contemporanea ai decreti che miravano a rendere permanenti i provvedimenti repressivi presi duranti i tumulti (tra cui il divieto di sciopero e di associazione per i dipendenti dei pubblici servizi, le limitazioni alla libertà di associazione e di stampa, ecc.) - vennero emanate la legge sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul la- 28 Cabrini, cit., pp. 62-63. Sulla politica sociale di Crispi, cfr. R. Romanelli, L'Italia liberale (1861-1900), Bolo gna 1979, pp. 334-35. 30 Secondo Gaeta, l'esperienza si dimostrò originale non tanto per la fonte (analoghi istituti esistevano in molti paesi) quanto perché essa produsse una normativa agile, su cui si plasmò il futuro diritto del lavoro (L. Gaeta - A. Viscomi, L'Italia e lo Stato sociale, in Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., pp. 230, 231). I collegi dei probiviri erano stati istituiti con legge 15 giugno 1863, ma solo nel 1893 furono regolamentati. 31 Sull'andamento dei progetti (approvazioni, bocciature), cfr. Cabrini, cit., pp. 63-64. 32 R. Romanelli, cit., pp. 362-63. Parte del mondo conservatore rimase sempre ostile: Salandra, ad es., denunciò sulla «La Nuova Antologia» i pericoli dello «stato assicuratore», M. Ferrera, Il Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata, Bologna 1984, p. 29. 29 14 Giovanna Procacci voro in industria (legge 17.3.1898), e quella sull'istituzione di una Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia (legge 17.7.1898). Come in Germania, la spinta a approvare le riforme fu dunque fortemente determinata da obie ttivi di pacificazione restauratrice, al fine di provocare la smobilitazione del nascente movimento operaio. Ma la riforma fu legata anche - sempre come in Germania - alle dire tte pressioni delle classi economiche dominanti, e in particolare della grande industria del Nord: la legge assicurativa infortunistica evitava che l'imprenditore potesse essere giudicato, secondo le norme del codice civile, «responsabile» dell'infortunio, e fosse perciò costretto a un indennizzo. 33 Ma se il mondo della grande industria fu favorito, anche il mondo agrario fu consenziente, dal momento che la le gge non prevedeva interventi in agricoltura, osteggiati risolutamente dagli agrari. Si veniva così a configurare un sistema assicurativo parziale, occupazionale e particolaristico, destinato a perdurare anche in periodo giolittiano, fino alle legge infortunistica agricola del 1917. Il modello era quello tedesco. Ma, rispetto alla Germania, la riforma assicura tiva italiana era assai più riduttiva: oltre ad essere ristretta a pochissimi settori industriali pericolosi, ed ad escludere il settore agricolo, la legge non prevedeva, come quella tedesca, il monopolio statale delle assicurazioni, e lasciava libertà ai datori di lavoro di assicurarsi, con modalità di contratto a loro piacimento, presso compagnie private. Cosicché nel 1903 dopo 4 anni dall'entrata in vigore della legge - solo il 7% dei lavoratori erano coperti da assicurazione (contro il 55% nel 1893 della Germania).34 Riguardo alla istituzione della Cassa previdenza invalidità e vecchiaia, il suo valore sociale è stato valutato come inconsistente; non era previsto un contributo dei datori di lavoro, e il sussidio statale era minimo: tutto l'onere ricadeva pertanto sui lavoratori, che già versava no contributi per malattia alle società di mutuo soccorso, e di disoccupazione alle federazioni di mestiere.35 Le modalità di iscrizione resero pressoché inesistente l'adesione operaia; nonostante che potessero iscriversi alla cassa, oltre agli operai, anche gli artigiani e i piccoli proprietari (se non pagavano più di 30 lire annue d'imposta) su quasi 12 milioni di lavoratori (circa 2.700.000 salariati industriali e 9 milioni di lavoratori agricoli) risultavano iscritti nel 1900 (primo anno di funzionamento) solo 11.750. Dopo il primo decennio (1910) gli iscritti erano 337.000; alla vigilia della guerra 562.597. Sebbene fossero stati iscritte obbligatoriamente alla Ca ssa varie categorie di operai (servizi municipalizzati, Manifattura tabacchi, ecc.), l'istituzione doveva registrare un totale insuccesso. 36 33 Questa motivazione è stata considerata da alcuni come quella prevalente: «il presidente del consiglio non ha tanto di mira [...] la realizzazione di una riforma di carattere sociale che plachi la tensione nel paese, bensì come obiettivo primario ambisce a soddisfare gli alleati di governo con una legge che accolga le richieste provenienti dal ceto industriale settentrionale», U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano 1975, p. 72. 34 M. Ferrera, in Lo Stato sociale in Italia: caratteri originali e motivi di una crisi , «Passato e presente», 1994, 32, p. 15. 35 Cherubini, Storia della previdenza sociale (1860-1960), Roma 1977, pp. 106-107. Era inoltre possibile godere della previdenza solo dopo 25 anni di iscrizione e a 60 anni, e le pensioni erano irris o rie, cfr. Levra, cit., pp. 252-53. 36 «Noi potremmo avere 8 milioni di assicurati secondo la legge tedesca, ne abbiamo invece 200.000 denunciava colui che aveva patrocinato nel 1883 la legge, Luigi Luzzatti, parlando nel 1908 al Con gresso i nternazionale delle assicurazioni - Ne abbiamo perduti 50.000, ne restano 20.000 [...]. Che cosa sono questi 200.000? Sono dei funzionari e degli operai di certe officine, assicurati obbligato riamente per mezzo dei loro padroni e delle loro amministrazioni od iscritti dalle loro municipalità; in Welfare-Warfare 15 Le leggi varate avevano dunque un valore sociale ridottissimo; si era inoltre rinunciato a emanare qualsiasi norma riguardo la protezione sanitaria, nonché riguardo la tutela del lavoro non minorile. Questa scarsissima capacità, o volontà , di innovazione legislativa - è stato scritto - differenzia la situazione italiana da quella di altri paesi europei, ai quali pure ci si riferisce spesso per mostrare come taluni situazioni di cittadinanza ridotta o negata non fossero una nostra particolarità, ma condizioni all'epoca comuni. La legislazione protettiva di donne e fanciulli è già presente in Gran Bretagna nella prima parte del secolo XIX; e la più vicina e familiare situazione della Germania, con l'imponente avvio del 'Welfare occupazionale' in epoca bismarckiana, non 37 influenza l'andamento delle cose italiane. Nello stesso tempo le garanzie dei cittadini erano divenute sempre più deboli: Piccoli passi sul terreno formale di alcuni diritti, o la promessa di arrivare a qualche riconoscimento, non sembrano tali da poter cancellare gli effetti di durissime repressioni poliziesche, di provvedimenti eccezionali che in concreto sospendono lo stato di diritto.38 Severo fu il giudizio degli stessi contemporanei, che, analizzando i caratteri generali dell'intervento dello stato in campo sociale, lamentarono la mancanza di unicità di criterio evolutivo, conforme a un piano prestabilito, organico. I governi conservatori che furono per lungo tempo al potere, non ebbero mai un programma di riforme concreto, organico. In Inghilterra, invece, il progresso sociale fu metodicamente e razionalmente voluto: si cominciò da prima ad assicurare alle classi operaie un miglioramento dello standard of life, affinché potessero soddisfare ai più urgenti bisogni della vita [...]. Il legislatore pensò dopo alla protezione del lavoro, intervenendo in ogni campo con la sua autorità. In Italia si cominciò con una legislazione inorganica, illogica, a sbalzi, a proteggere per primo l'infortunio sul lavoro, l'invalidità e la vecchiaia.39 Con il nuovo secolo, con lo sviluppo dell'industria e dell'organizzazione del movimento operaio (dopo 1890 nascono le prime camere del lavoro, sarà poi la volta delle federazioni), e con il passaggio alla gestione politica di Giolitti, la legislazione sociale registrò una svolta. Oltre a essere garantite la libertà di coalizione e di sciopero, vennero emanate le prime leggi di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (1902): la legge perfezionava quella sui fanciulli del 1886, includendo le donne; venivano regolamentati gli orari,40 si prevedeva anche un congedo durante il puerperio e la costituzione di una Cassa maternità (che però venne istituita con legge solo a Roma nel 1910). 41 Venne inoltre rivista la legge sugli infortuni del lavoro, estendendo l'obbligo alle piccole imprese edili e agli operai addetti alle breve il numero dei volontari è quas i infimo e la previdenza volontaria ha fatto fallimento nel nostro paese», cit. in Cabrini, cit., p. 135. 37 S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello stato italiano, Roma 1995, p. 324. 38 Ibidem, p. 326. 39 Pino Branca, c it., pp. 115-16. 40 La tutela del lavoro minorile si arrestava comunque a 15 anni per i maschi e a 21 per le femmine, e l'orario di lavoro poteva essere protratto fino 11 ore per i maschi minori e a 12 per le fanciulle. 41 La Cassa avrebbe dovuto fornire sussidi alle donne in caso di parto e aborto; il contributo annuale obbligatorio era metà a carico del datore di lavoro e metà a carico della lavoratrice, con concorso finanziario dello stato; ma la legge lasciava scoperto il lavoro a domicilio, e quello nelle risaie. Le iscrizioni, effettuate dalle ditte, furono 11.949 nel 1915 e diminuirono durante la guerra (nonostante l'aumento occupazionale!): 11.216 nel 1917, Pino Branca, cit., pp.109-10; Cabrini, cit., pp. 99, 106-07. 16 Giovanna Procacci macchine agricole (1904). 42 Vennero emanate norme sul lavoro notturno (nella panificazione), sul riposo settimanale (1907), sulla sanità (con riguardo alla malaria: 1900, 1902, 1904 ecc.), sull'istruzione elementare obbligatoria fino a 12 anni (1904), sugli emigranti, sulle zolfare, sull'Agro romano, sulle regioni meridionali ecc. Il periodo più fecondo fu quello dei primi anni del secolo; dal 19O8 al 1914 non vennero decise riforme sociali di rilievo: tra le più importanti, più per il significato che per la portata effettiva, la costituzione dell'Ispettorato del lavoro nel 1912, l'istituzione degli Uffici del lavoro nel 1911, per ovviare alla disoccupazione, e soprattutto l'istituzione dell'Istituto nazionale assicurazioni (1911). 43 Come è facile notare, l'insieme della legislazione sociale fu di modesta entità.44 Come scriveva Cabrini, «un aspetto di rachitismo» caratterizzava la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli; riguardo alla politica delle assicurazioni, l'Italia compariva alla coda di tutte le nazioni nell'assicurazione-malattia - dove non abbiamo agito che per la maternità ad integrazione della legge sulle fabbriche - e nell'assicurazione-disoccupazione; insieme alle più arretrate nell'assicurazione invalidità-vecchiaia - soltanto nell'assicurazione infortuni teniamo un posto onorevole; posto che possiamo conservare solo al patto di non l asciarci passare innanzi altre nazioni, nel seguire l'esempio della Germania che protegge tutti i suoi lavoratori, nelle industrie, nel commercio, nell'agricoltura.45 La perdurante ostilità da parte dei gruppi economici dominanti verso l'attuazione di riforme sociali e verso l'interferenza dello stato influenzò infatti anche la politica del periodo giolittiano. La pressione degli interessi privati particolari impedì l'elaborazione di un piano complessivo di riforme e rese l'opera di mediazione e di intervento sociale dello stato limitata e disorganica. I modi in cui in Italia si era articolato fin dall'inizio il rapporto tra stato e industria -amministrazione pubblica di supporto per la creazione di una base produttiva - avevano reso nei fatti l'amministrazione pubblica subalterna agli interessi industriali. Tale condizionamento, unitamente alla pressione mantenuta dagli interessi legati al conservatorismo agrario, e alla stessa relativa debolezza della controparte operaia, portò come conseguenza la rinuncia da parte della classe dirigente politica a fare della previdenza e della tutela del lavoro un terreno di legittimazione politica e di acquisizione del consenso. 46 Come scrive Bonelli, 42 Dal 1902 al 1911 la Cassa emise 33.198 polizze individuali e 326.069 collettive (per complessivi 6.457.782 operai). Si ebbero 664.218 infortuni, di cui 3.671 seguiti da morte; 28.294 da inabilità permanente; 626.557 da inabilità temporanea. Gli assicurati alla Cassa diminuirono notevolmente dal '12 al '13 (da 847.000 a 663.000, ma aumentarono gli infortuni indennizzati; questi restarono in costante aumento negli anni successivi), Pino Branca, cit., p. 110; Cabrini, cit., p. 116. 43 Un progetto di contributi dello stato per la disoccupazione involontaria, presentato nel 1910, fu bocciato al Senato. A Milano l'Umanitaria integrava le previdenze contro la disoccupazione delle associazioni operaie,cfr. Cabrini, cit., pp. 146-47. 44 Per un elenco delle leggi di riforma sociale, Pino Branca, cit., pp. 89-95, 101-02. Cfr. anche G. Melis, Storia dell'amministrazione italiana, 1861-1993, Bologna 1996, pp. 193, 243 (sulle opere regionali). 45 Cabrini, cit., pp. 248-49. 46 E' da tenere anche presente che in Italia, a causa del ritardo nella modernizzazione e nello svilu ppo, il mercato del lavoro mantenne una grande eterogeneità, fatto che rese difficile una previdenza allargata (Ferrera, in Lo Stato sociale in Italia, cit., p. 19). Welfare-Warfare 17 Comportandosi come partner dei gruppi privati, lo stato si è mosso sempre nell'ambito di una contrattazione volta ad affermare, in cambio degli interessi di questi ultimi, una serie di obiet47 tivi che risultano scarsamente determinati da vincoli sociali. La resistenza ai progetti di riforma si palesò fin dall'inizio dell'esperienza giolittiana, quando, sotto il Ministero Zanardelli-Giolitti, fu respinto il progetto Wollemborg di maggiore equità fiscale, che prevedeva l'abolizione di alcune imposte sui consumi: la vicenda costituì un evidente condizionamento negativo dei progetti di riforma, così come era già avvenuto per la Germania, dove il fallimento della riforma tributaria aveva determinato il ristagno delle riforme sociali. Ma fu soprattutto dopo il 1907, con la crisi che caratterizzò sia la vita economico-sociale che quella politica del paese, che il processo riformatore subì un deciso rallentamento. Tra le cause, oltre alla diminuita capacità di mediazione da parte dello stato, e, in correlazione, un'accresciuta opposizione alla politica giolittiana da parte delle forze economiche e delle loro rappresentanze politiche, si deve anche annoverare l'indebolimento, le gato alla crisi, del movimento operaio (e dei turatiani in particolare). D'altra parte, la stessa esistenza di una molteplicità di associazioni private, che sopperivano alle carenze pubbliche e seguit avano ad essere preferite dagli operai, funzionò da stimolo negativo agli interventi pubblici. 48 Restavano esclusi da ogni protezione, e lasciati in balia della libertà contrattuale, la grande maggioranza dei lavoratori, soprattutto agricoli e a domicilio, e i lavoratori del sottosuolo, inseriti solo nell'assicurazione infortunistica. 49 Non erano coperti dalla legislazione, salvo 50 che per il diritto al riposo settimanale, neppure gli impiegati privati. 1898 Assicurazione obbligatoria infortuni industria 1898 Iscrizione facoltativa Cassa previdenza invalidità vecchiaia 1902 Ufficio del lavoro 1902-07-09 Lavoro donne e fanciulli, riposo settimanale 1905 Consiglio previdenza e assicurazioni sociali 1910 Cassa maternità (Roma) 1911 INA 1912 Ispettorato del lavoro Nei confronti delle campagne l'assenza di interventi assistenziali proseguì ad essere accompagnata, come è noto, dalla tradizionale politica di repressione, ogniqualvolta le condi47 F. Bonelli, Stato ed economia nell'industrializzazione italiana dalle origini al «Welfare State», in «Quaderni di industria e sindacato», cit., p. 73; ID., Appunti sul «Welfare State» in Italia, cit., p. 672; ID., L'evoluzione del sistema previdenziale italiano in una visione di lungo periodo , cit., pp. 140-43. 48 Le società di mutuo soccorso seguitarono ad aumentare:nel 1904 figuravano 6.535 società con 926.027 iscritti, di cui 76.608 donne (Cherubini, cit., pp. 180-81). Le associazioni private (mutue, s ocietà mutuo soccorso, associazioni confessionali, ecc.) fornivano un modello di assistenza vissuto non come diritto di cittadinanza ma come concessione discrezionale legata a determinati requisiti. Ciò facilitò la caratterizzazione particolaristica e potenzialmente clientelare dello stato sociale (G. Gozzini, in Lo Stato social e in Italia, cit., p. 23). 49 Un progetto di legge per l'assicurazione infortunistica obbligatoria dei lavoratori agricoli, presentato nel 1907 e poi nel 1910, fu bocciato nel 1912. 50 Sottolinea il peso dei ceti medi nella elaborazione dei progetti assistenziali tra le due guerre M ariuccia Salvati, in Lo Stato sociale in Italia, cit., p. 24. 18 Giovanna Procacci zioni di vita portavano le popolazioni a dimostrare il proprio malcontento. Contemporanea mente venne ancora applicato estensivamente il diritto di inviare a domicilio coatto tutti gli indesiderati; venne negata legittimità agli scioperi che travalicassero la soglia delle trattative economiche per entrare nell'ambito «politico» (come era avvenuto con lo sciopero generale del 1904); e all'interno del bilancio statale aumentò costantemente la quota delle spese per esercito, adibito, come è noto, anche per funzioni di ordine pubblico e di repressione popolare. Seppur non paragonabile a quello attuato dai gove rni precedenti, anche nel primo quindicennio del secolo il livello repressivo formale e materiale del controllo sociale si mantenne alto, e soprattutto rimase sempre alta la possibilità di ricorrere ad esso in caso di emergenza.51 Riguardo alla normativa, oltre ad essere limitata, essa fu generalmente elusa. La legislazione di tutela del lavoro venne infatti raramente applicata, e sorte analoga subir ono le norme riguardanti le vertenze di lavoro, gli indennizzi infortunistici dovuti dagli imprenditori, i contratti. Non furono creati in Italia organi pubblici in grado di svolgere un effettivo controllo sull'adempimento delle norme: il disegno di istituzione di un ispettorato del lavoro, con il compito di vigilare sull'osservanza delle leggi di protezione, fu respinto nel 1906; ripresentato solo dopo tre anni, trovò forte opposizione in Senato, dove rimase insabbiato fino al 1912, quando fu approvato un testo che riduceva fortemente le possibilità dell'ispettorato di svolgere la propria attività. 52 Circa i rapporti di lavoro e la contrattazione, nonostante fossero stati istituiti i collegi arbitrali, non ne fu assicurato il funzionamento («si dimostra l'insufficienza dell'ormai antiquata legislazione probivirale e della conciliazione arbitrale - scrive Pino Branca - che trovano grandi resistenze negli industriali, i quali, astenendosi, rendono inattivi i collegi probivirali»); cosicché su 2.933 richieste nel 1900 si registrò la mancata conciliazione di ben 1.068, ed un aumento dei giudizi favorevoli agli imprendit ori. 53 Infine, una perdurante opposizione, soprattutto da parte del Senato, impedì che venissero approvati i progetti di legge riguardo a un riordinamento della legge sulle pensioni di invalidità e vecchiaia, e che andasse in porto una normativa sulle malattie.54 Se scarsa fu la normativa emanata e rara la sua applicazione, intensa fu invece l'attività di ricerca e di ricognizione statistica attuata nei primi anni del secolo. Essa si svolse, nel campo del lavoro, grazie all'istituzione di nuovi organi, come l'Ufficio del lavoro, che, sorto nel 1902 presso il Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio, e diretto da una figura di grande spicco, Giovanni Montemartini, ebbe il merito di stimolare le indagini statistiche e la legislazione sociale. In esso, per la prima volta, a fianco dei membri nominati dal Ministero, dal Senato e dalla Camera, dalle camere di commercio, dai comizi agrari, figuravano anche esponenti delle società di mutuo soccorso e della Lega delle cooperative. Sempre nel 1902 veniva anche istituito il Consiglio superiore del lavoro, supremo organo consultivo in materia di legislazione sociale, e centro di elaborazione di progetti di legge, nel quale era pure prevista la partecipazione operaia. L'istituto svolse un intenso programma di legislazione, che trovò tuttavia raramente uno sbocco per gli ostacoli frapposti dal governo 51 Cfr. G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura. 1870-1922, Bari 1969. A. Aquarone, L'Italia giolittiana (1896 -1915), I, Le premesse politiche ed eco nomiche, Bologna 1981, p. 216; sulla parzialità delle ispezioni, spesso conniventi, sui modi con i quali gli imprenditori riuscivano a evitare di pagare i contributi assicurativi per gli infortuni (spesso diminuendo proporzionalmente i salari) ecc, Cherubini, cit., pp. 126-27. 53 Pino Branca, cit., pp. 88-89; per il numero di controversie presentate ai collegi probivirali (passati da 236 nel 1911, a 250 nel 1914) dal 1911 al 1917, ivi, p. 105. 54 Cherubini, cit., pp. 149-65. 52 Welfare-Warfare 19 e dai due rami del parlamento. Il peso delle rappresentanze delle classi lavoratrici in questi organi fu comunque assai ridotto, essendo le loro comp etenze rigorosamente circoscritte. 55 Tuttavia, nonostante tutti i suoi limiti e nonostante che l'Italia restasse in coda agli altri pa esi europei, la legislazione sociale iniziata sullo scorcio del XIX secolo, e proseguita durante il decennio prebellico, costituì un primo approccio a una previdenza basata su criteri moderni. Nella fase giolittiana gli interventi non furono decisi solo in vista della stabilizzazione, ma risposero anche ad una nuova visione delle funzioni che lo stato doveva svolgere in ambito sociale. 56 Attraverso alcuni disposti - come la legge del 1903 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi, l'estensione dell'istruzione obbligatoria fino a 12 anni, i sussidi statali a favore della maternità e le assicurazioni volontarie di vecchiaia e invalidità, la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, la creazione degli uffici del lavoro e il primo stanziamento pubblico a favore dei disoccupati - la legislazione non apparve più perseguire scopi esclusivamente difensivi e preventivi. Lo stato non si presentava solo come garante: imboccata la via democratico parlamentare, l'organizzazione pubblica «assume il compito di assicurare ai cittadini una serie di servizi essenziali». 57 Tale processo di modernizzazione proseguirà - sebbene con gli antichi e con nuovi, gravosi, limiti - negli anni di guerra e del primo dopoguerra. 4. QUADRO DELLE RIFORME IN EUROPA ALLA VIGILIA DELLA GUERRA Alla vigilia della prima guerra mondiale (1914), rispetto all'obbligatorietà, il sistema assic urativo e pensionistico si presentava così:58 Infortuni 55 Aquarone, cit., pp. 214-15. Sugli ambiti di intervento del Consiglio superiore del lavoro, cfr. G. Vecchio, Il Consiglio superiore del lavoro come problema storiografico, in G. Vecchio (a cura di), Il Co nsiglio superiore del lavoro (1903-1923), Milano 1988, p. 14; sul Consiglio s.d.l. e i progetti di «rappresentanza degli interessi», cfr. Gozzi, cit., pp. 255-67. Nel 1894 era stato istituito un Consiglio della previdenza (preceduto da una Commissione consultiva sulle istituzioni di previdenza e sul lavoro, creata nel 1869), che nel 1905 prese il nome di Consiglio della previdenza e delle assicurazioni sociali (per venire poi modificato nel 1911), organo tecnico di consultazione, cfr. D. Marucco, Lavoro e previdenza dall' Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869 al 1923, Milano 1984. 56 Nel campo assicurativo l'Italia si era mossa con ritardo rispetto alla Germania e all'Austria, ma aveva anticipato molte democrazie, come la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, l'Olanda. 57 Rodotà, cit., pp. 328; Cherubini, cit., p. 182; Ferrera, Il Welfare State in Italia, cit., pp. 31-32. 58 I dati sono ripresi da Ritter, Storia dello Stato sociale , cit., pp. p. 88-90; Cabrini, cit., pp. 97-244. P. Flora-A. J. Heidenheimer, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, Bologna 1983, pp. 72, 76. In generale, le prime assicurazioni riguardarono gli infortuni, successivamente l'invalidità e la vecchiaia, poi le malattie e infine la disoccupazione. 20 Giovanna Procacci Assicurazione obbligatoria: Italia, Germania, Austria, Ungheria, Belgio, Lussemburgo, Romania, Norvegia, Olanda, Svizzera, Finlandia. Assicurazione facoltativa: Inghilterra, Canada, Francia, Svezia. Anche lavoratori della terra: Germania, Danimarca Assicurazione che assimila malattia professionale a infortunio: Francia, Inghilterra. Assicurazione che esclude malattia professionale da infortunio e la lascia scoperta: Italia. L'assicurazione infortuni fu prevista inizialmente per pochi settori industriali (più pericolosi); durante la guerra si estese alla maggioranza dei lavoratori dell'industria (Belgio, Danimarca, Francia, Svezia, Gran Bretagna, Austria, Finlandia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svizzera) e ai lavoratori agricoli. Invalidità' e vecchiaia Assicurazione facoltativa, con integrazione da parte dello stato, se iscritti a un istituto pubblico (Italia, Spagna), o privato, ma riconosciuto dallo stato (Belgio). Assicurazione obbligatoria, con ripartizione del costo tra imprenditori e lavoratori (Ge rmania, per impiegati), con contributo dello stato (Germania, Francia, Romania, Lussemburgo, Olanda, Svezia: quest'ultima prevedeva l'assicurazione per tutti i cittadini). Previdenza statale, con assistenza pensionistica ai vecchi (Inghilterra, Danimarca) Malattie Assicurazione facoltativa (Italia, Spagna) Assicurazione facoltativa con integrazione da parte dello stato o degli enti locali (Francia, Belgio, Danimarca) Assicurazione obbligatoria verso tutte le malattie (malattie professionali: Svizzera), con contributi di datori di lavoro e imprenditori (Germania, Austria, Ungheria, Russia, Lussemburgo, Romania), con contributi anche dello stato (Gran Bretagna, Norvegia, Serbia) Disoccupazione Previdenza facoltativa, integrata da stato e enti locali (Belgio, Francia, Danimarca) Assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, con contributi datori la voro, lavoratori e stato (Inghilterra: progetto ancora ristretto a grandi industrie edili, siderurgiche e navali, con complessivi tre milioni circa di lavoratori) 5. WARFARE- WELFARE . CONTROLLO SOCIALE , GESTIONE DEI «BISOGNI», E INTERVENTI NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E NEL MERCATO DEL LAVORO. Lo scoppio della prima guerra mondiale determinò una svolta decisiva nella politica di intervento sociale degli stati. Dopo pochi mesi dall'inizio del conflitto, quando questo si trasformò da «guerra lampo» in guerra di resistenza, al principale timore di governi e stati maggiori - l'esaurimento delle riserve di munizioni - si aggiunse quello della tenuta del fronte interno. Welfare-Warfare 21 La guerra produsse pertanto uno straordinario aumento - e mutamento qualitativo - delle funzioni dello stato in ambito economico-sociale, con la progressiva sostituzione dell'intervento pubblico in campi precedentemente riservati ai privati e alle dinamiche di me rcato. Riguardo alla produzione industriale, lo stato assunse per la prima volta l'integrale direzione di interi settori dell'economia - si trattava in alcuni paesi (come l'Italia) di dare un impulso strutturale all'industria bellica - divenendo razionatore delle materie prime, finanziatore, cliente esclusivo. Altrettanto ampi furono gli interventi in ambito sociale, sia per rispondere alle nuove necessità indotte dal conflitto e per prevenire le manifestazioni di malcontento della popolazione nel suo insieme; sia per predisporre i meccanismi del mercato del lavoro, e organizzarli ai fini della massima produttività. Si estese quindi l'intervento pubblico nei confronti dei bisogni, ora non più considerati, come in passato, frutto di colpe personali, ma risultato di contingenze connesse ai turbamenti della dinamica economica (disoccupazione, prezzi, consumi) o politica (guerra, e sue conseguenze sulle famiglie dei richiamati). E si estese il controllo, che fu, per un verso, caratterizzato da forme repressive tradizionali, talora con connotati fortemente autoritari, dal momento che, in nome dei principi patriottici, fu spesso perseguita ogni manifestazione di dissenso (anche di opinione). Per altro verso, invece, il controllo assunse forme del tutto nuove: nell'ambito della dinamica delle relazioni industriali, si procedette infatti all'istituzionalizzazione della contrattazione, della quale lo stato assunse il ruolo di garante, come «terza parte» arbitrale a fianco delle organizzazioni padronali e sindacali, e vennero varati provvedimenti governativi di welfare e di controllo, atti a regolare le condizioni lavorative e le remunerazioni, a disciplinare il mercato del lavoro e lo stesso comportamento operaio. Infine, nella seconda fase del conflitto vennero elaborati progetti di intervento sul piano assicurativo e preventivo, parte dei quali trovarono attuazione nel dopoguerra. Riassumendo, i nuovi compiti cui lo stato dovette far fronte in ambito sociale riguardarono: 1) la tenuta del paese nel suo insieme («resistenza interna»), ovvero i provvedimenti per ottenere consenso e mantenere l'ordine, che si distinsero in 1.1) provvedimenti di soccorso (per sopperire ai bisogni); 1.2) restrizione delle libertà civili; 2) la produzione industriale per necessità belliche, quindi l'intervento pubblico nelle relazioni industriali (politica verso gli occupati); i provvedimenti in questo settore si distinsero a loro volta in 2.1) vigilanza sulle condizioni di lavoro e mediazione dei conflitti (politica salariale, ispezioni, contrattazione, ecc.); 2.2) controllo sociale preventivo e repressivo (disciplina in fabbrica, ecc.). Sebbene comune a tutti i belligeranti, l'intervento dello stato assunse caratteri diversi a seconda delle specifiche situazioni nazionali. Prenderemo prima in esame i provvedimenti attuati nei vari paesi (e in particolare in Inghilterra e in Germania), per passere in seguito ad analizzare la realtà italiana. Particolare attenzione sarà rivolta ai modi di attuazione della mobilitazione industriale e della regolamentazione dei rapporti di lavoro, dal momento che 22 Giovanna Procacci con essa si modificarono radicalmente i meccanismi di intervento dello stato, non solo nel campo economico, ma anche, e soprattutto, in quello sociale.59 (1.1) - Riguardo all'assistenza alla popolazione nel suo insieme, tutti gli stati dovettero sopperire ai bisogni indotti nel paese dal conflitto, riguardanti sia alcune classi di indigenti (fa miliari poveri dei richiamati), sia tutta la cittadinanza: i provvedimenti riguardarono in generale i prezzi massimi di acquisto di alcuni prodotti (che vennero ad un certo momento bloccati e fissati d'imperio per i generi di prima necessità), i consumi (razionamento, e tessere annonarie), il blocco dei fitti e dei contratti agricoli, l'assistenza ai familiari dei militari al fronte, i sussidi ai disoccupati. 60 Alcuni paesi (come l'Inghilterra) applicarono anche alcune forme di redistribuzione del reddito, attraverso la tassazione sui profitti di guerra e la progressività delle imposte. Con il proseguimento della guerra, gli interventi riguardo i consumi si estesero progressivamente: divennero più drastiche le misure per il controllo dei prezzi e dei consumi, fu aumentato il livello dei sussidi alle famiglie indigenti, e furono previste altre forme di assistenza per i combattenti. Più nello specifico, riguardo al problema degli approvvigionamenti e dei consumi, 61 la Gran Bretagna si contraddistinse per una politica particolarmente oculata. Le importazioni di beni di consumo si mantennero al 90% dell'anteguerra, e l'agricoltura riuscì a mantenere i livelli prebellici senza regolamentazione statale fino al 1916; in seguito al cattivo raccolto di quell'anno, il governo abbandonò la tradizionale politica lib erista, attuando un controllo centralizzato dell'alimentazione (importante fu l'opera di pressione svolta in tal senso dai sindacati): vennero bloccati i prezzi e si attuò il razionamento, e, in conseguenza del verificarsi anche in Inghilterra della crisi dei rifornimenti, nel febbraio 1918 vennero introdotte le tessere. 62 La produzione diminuì nel 1917-18, ma la decisione di Lloyd George di attuare una conversione produttiva, a favore di cereali e patate, permise di superare nel 1918 in tali settori del 40% il livello medio prebellico: fu così tenuto alto il potere calorico, e venne assicurato, attraverso il razionamento, il minimo alimentare anche ai ceti più disagiati.63 Grazie al funzionamento del sistema di tesseramento, alla condizione di piena occupazione, agli aumenti salariali (che ridussero la forbice tra qualificati e non), al controllo degli affitti e a una generalizzata assistenza pubblica agli indigenti, le condizioni di vita delle classi più povere migliorarono. 59 Sulla modernità dell'intervento riformatore insiste J. O'Connor, La crisi fiscale dello s tato, Torino 1977, p. 171. Anche secondo Milward, la regolamentazione del lavoro attuata con la prima guerra mo ndiale è da considerare dato periodizzante circa l'inizio dell'età contemporanea, cfr. A. Milward, in S. Pons (a cura di), L'età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del secolo breve, Roma 1998, pp. 34-40. Al tipo di intervento statale di guerra, quantitativamente e qualitativamente diverso da quello precedente, guardarono i programmatori del New Deal, cfr. A. S. Milward, The Economic Effects of the World Wars in Britain, London 1970, pp. 21-24; Hardach, cit., p. 318; Wolfe, cit., p. 200. 60 Furono costituiti uffici appositi per il collocamento sia all'inizio del conflitto - la crisi economica del 1913 e l'iniziale stravolgimento dell'organizzazione produttiva dopo lo scoppio del conflitto avevano prodotto masse di disoccupati in tutti i paesi europei - che al termine della guerra. 61 Sugli approvvigionamenti nei vari paesi belligeranti è stato dedicato un numero di «Guerres mondiales et conflits contemporains», 1996, p.183. 62 Anche in Francia venne attuato, a partire dal 1916, il razionamento e il controllo prezzi. 63 J. Horne, La società britannica e la prima guerra mondiale. Alcune tendenze della storiografia recente, in G. Procacci - L. Tomassini (a cura di), Studi recenti sulla prima guerra mondiale , numero mono grafico di «Ricerche storiche», 1991, 3, pp. 595-97; G. Hardach, La prima guerra mondiale 1914-1918, M ilano 1982, pp. 150-58. Welfare-Warfare 23 Era il proseguimento della tradiz ionale via britannica basata sull'assistenza e l'elevamento del tenore di vita dei più bisognosi, che condusse - anche grazie alla tassazione progressiva e sui profitti di guerra 64 - a un effettivo livellamento sociale, con evidenti riflessi positivi sul contesto politico e la tenuta del paese.65 Al contrario, in Germania la guerra determinò un inasprimento dei contrasti sociali. 66 Anche in Germania furono varati provvedimenti per alleviare i problemi derivanti dall'aumento prezzi (prezzi massimi, razionamento), e fu deciso il diritto legale da parte delle famiglie dei richiamati poveri a ricevere un sussidio. Ma l'assenza di misure adeguate, e l'effettiva difficoltà di approvvigionamento legata al blocco navale attuato dalla Gran Bretagna, produssero una situazione di crisi alimentare, che divenne, come è noto, drammatica nel 1918, e colpì soprattutto le classi più povere. Tuttavia anche in Germania fu attuata una serie di provvidenze riguardanti tutta la popolazione: a favore dei feriti, delle vedove, degli orfani, delle famiglie povere, della disoccupazione, in difesa del lavoro femminile.67 Si verificò quindi un mutamento sostanziale nell'ambito del tradizionale intervento statale, riguardante fino ad allora quasi esclusivamente i soli occupati. 1.2 - A fianco, e complementari, rispetto alle misure di assistenza, la guerra produsse ovunque una restrizione dei diritti civili e un inasprimento delle misure repressive a tutela dell'ordine pubblico. All'inizio del conflitto prevalsero le misure di controllo tradizionali (leggi di polizia, codice militare per alcuni reati), o vennero emanate leggi eccezionali (che, in quanto tali, poterono eludere, come avvenne in Italia, la discussione parlamentare). Il rigore applicativo dei provvedimenti fu in rapporto alla sit uazione interna dei vari paesi - ad es. fu forte in Austria e in Germania, e altrettanto in Italia - e di norma tese ad accrescersi e a divenire più capillare alla fine del 1917, in relazione all'aumento della tensione sociale interna e ai timori, da parte dei governi e delle forze militari, di un'espansione imitativa delle vicende russe. 64 Come misura di equità distributiva, il «Munition of War Act» (1915) introdusse la regola che i proprietari non potessero trarre benefici economici superiori al 20% rispetto al profitto medio dei due anni precedenti la guerra: i profitti eccedenti venivano devoluti all'erario. 65 Cfr. B. Waites, A Class Society at War. England 1914-1918, Leamington 1987, e J. M. Winter, Some Paradoxes of the First World War, in R. Wall - J. M. Winter (a cura di), The Upheaval of War. Family, Work and Welfare in Europe, 1914-1918, Cambridge 1988, pp. 9-42 (tema trattato anche, più estesamente, in J. M. Winter, The Great War and the British People, London 1985). Secondo Waites e Winter, l'aspettativa di vita per i maschi non arruolati migliorò durante la guerra: peggiorano le condizioni abitative e lavorative, ma migliorano, grazie soprattutto a un equo esercizio del tesseramento, le condizioni generali di vita. A parere di Waites, la guerra ebbe un impatto redistributivo sul reddito, grazie agli aumenti salariali (specie dei meno qualificati), al controllo affitti e alla tassazioni sui redditi più elevati. Con la guerra scomparvero gli slums vittoriani. 66 H.- U. Wehler, L'impero guglielmino 1871-1918, Bari 1973, pp. 209-11; J. Kocka, Facing Total War. German Society 1914-1918, Worchester 1984, pp. 11-111. 67 Fu creato un Ente per la cura dell'assistenza pubblica di guerra («Kriegswohlfahrtspflege»), finanziato in parte dallo stato, si costituirono in alcune città all'inizio del conflitto degli Uffici del lavoro per la disoccupazione (precedente della legge sulla disoccupazione del 1919 e della legge per assicurazioni contro la disoccupazione del 1927), cfr. M. H. Geyer, La prima guerra mondiale e la s ocietà tedesca. Le prospettive di ricerca negli ultimi dieci anni , in G. Procacci - L. Tomassini (a cura di), Studi recenti su lla prima guerra mondiale, cit., pp. 634-35, 638; Hardach, cit., pp. 141-47 (sul razionamento). 24 Giovanna Procacci Anche in Inghilterra, nonostante che l'opposizione alla guerra fosse, almeno inizia lmente modesta (e non proveniente dalla base operaia, né dai sindacati, ma piuttosto dall'Indipendent Labour Party), venne varato il «Defence of the Realm Act», che dava poteri repressivi all'esecutivo, consentiva arresti e processi segreti, censura e restrizioni dell'attività politica nelle industrie. 68 La limitazione delle libertà civili e politiche veniva però controllata dal parlamento, il cui potere si mantenne integro (e a garanzia del suo ruolo venne nel 1918 varata la riforma elettorale che ampliava il suffragio a circa quattro milioni di operai, fino ad allora esclusi, e all'elettorato femminile). Assai diverso il caso della Germania, dove il parlamento, pur mantenendo formalmente diritto di veto circa i decreti governativi e di revisione retroattiva, non fece uso di tali prerogative. Ma soprattutto, in base all'applicazione della legge prussiana sullo stato d'assedio, il governo delegò vastissimi poteri ed autorità ai militari, che interferirono in modo sempre più massiccio negli affari interni del paese: in pratica, attraverso tale legge - che fu criticata anche da settori conservatori - la società civile fu interamente militarizzata.69 A partire dall'agosto del 1917 - durante la cosiddetta «dittatura» Ludendorf (agosto 1917-febbraio 1918) - fu attuata una dura repressione, che si accentuò nei primi mesi del 1918. Ciò aggravò la spaccatura politica tra pacifisti e militaristi; dopo che a sinistra si era formata in aprile l'USPD, in settembre la destra dette vita al «partito per la patria», espressione dell'industria pesante e del Comando supremo.70 A differenza dell'Inghilterra (e in sintonia con l'Italia), in Germania le tensioni politiche furono accentuate dalla guerra. 68 B. Cox, Civil Liberties in Britain , Harmondsworth 1975, p. 24. La legge venne messa in opera in tutti i 24 distretti militari in cui l'impero era diviso: ai generali co mandanti vennero forniti poteri dittatoriali, al fine di provvedere alla «sicurezza pubblica» (ovvero qualsiasi fatto connesso alla vita sociale, culturale, politica e economica del distretto). I generali non erano responsabili verso il ministro della guerra , ma solo verso l'imperatore. Poiché non era previsto nessun coordinamento tra i distretti, e questi non coincidevano con le province, si verificò una macroscopica confusione burocratica, con interferenze e intralci tra le varie amministrazioni, e tra autorità civili e militari. Soltanto in Baviera, dove vigeva una legge speciale, i militari erano sottoposti al Ministero della Guerra e seguivano perciò una politica comune . Lo stato d'assedio non riguardava però il regime interno alle fabbriche, che furono regolate, dal 1916, dalla legge «sul servizio ausiliario», in base alla quale i generali comandanti i distretti non avevano potere in ambito industriale, salvo il caso che esso fosse loro espressamente delegato se, in caso di sciopero, fosse stato eventualmente dichiarato lo stato d'assedio. Il capo della Mobilitazione, generale Groener - più pro penso, rispetto ai settori militari dipendenti dal Co mando supremo, a cercare le vie della mediazione attraverso i sindacati - insistette molto sulla diversità tra la legge sul servizio ausiliario e lo stato d'assedio. La posizione di molti dei generali che comandavano i distretti era rigidissima: due generali proposero infatti di punire gli scioperanti con dieci anni di carcere o con la morte, cfr. G. D. Feldman, Army, Industry and Labor in Germany 1914-1918, Providence-Oxford 1992, p. 343 (sulle molte analogie tra la situazione tedesca e quella italiana, mi permetto di rinviare a G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra , Roma 1993, e a G. Procacci, La legislazione repress iva e la sua applicazione , in G. Procacci [a cura di], Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale , Milano 1983). 70 Anche in Francia fu attuata una stretta coercitiva: lo stato d'assedio, introdotto una prima volta nel 1914, e poi sospeso, fu riapplicato nel luglio 1917 in alcuni dipartimenti. Tuttavia il famoso «Ca rnet B», una lista di proscrizione di circa 2.000 persone, non fu mai messo in atto: in luogo di una politica di repressione, si optò infatti per la pacificazione nazionale. Nel «Comité de sécour national» sedettero pe rtanto a fianco ra p presentanti dei sindacalisti rivoluzionari, del partito socialista e dell'Action française, il segretario generale della CGT e l'arcivescovo di Parigi. L'unico effettivo periodo di dittatura fu perciò quello dal 4 agosto (dichiarazione dello stato d'assedio) al 22 dicembre del 69 Welfare-Warfare 25 2.1 - Con lo scoppio della guerra, per permettere l'intensificazione della produzione, gran parte della legislazione di tutela venne sospesa. L'azione statale a favore dei lavoratori si risolse soprattutto nell'opera di pressione verso gli imprenditori affinché concedessero aumenti salariali, resi indispensabili a causa dell'inflazione, ma contemplati anche in vista della pacificazione sociale. L'intervento dello stato in tale settore venne attuato attraverso l' istituzione di organismi arbitrali, di cui parleremo in seguito, all'interno delle quali furono rappresentati, oltre ai pubblici poteri, anche gli operai e gli imprenditori. 71 Furono anche svolte delle ispezioni sulle condizioni del lavoro e dell'igiene nelle fabbriche, e furono promosse speciali commissioni di studio e inchieste sulla «fatica» del lavoro operaio. 72 Un elemento di indiscutibile rilievo fu il ruolo che venne attribuito al sindacato dal potere pubblico: in alcuni paesi, come la Germania, i sindacati acquisirono per la prima volta legittimità, e fu loro riconosciuta una funzione di rappresentanza. 73 La disponibilità alla collaborazione li costrinse a dover accettare la coercizione in fabbrica, la sospensione degli scio1914, cfr. J. J. Becker, La France en guerre, 1914-1918. La grande mutation, Bruxelles 1988, p. 29; ID., Le carnet B , Paris, 1973. 71 In particolare, dal momento che la guerra aveva stravolto le leggi di mercato, vennero controllati i livelli salariali: si dette perciò vita a una sorta di salario sociale, teoricamente calcolato tenendo presente i bisogni degli operai, in rapporto all'aumento del costo della vita (nella pratica i salari reali furono inferiori a tale a umento; talora i salari degli operai metallurgici crebbero alla pari del costo vita, ma non quelli degli altri settori). Vennero introdotti meccanismi di adeguamento sperimentati già in passato in alcuni paesi (in Inghilterra una «sliding scale» era già presente nell'800), e furono introdotti salari minimi, in alcuni paesi anche per il lavoro a domicilio. In generale, le differenze salariali diminuirono. 72 Sia in Gran Bretagna che in Germania vennero svolte indagini sull'affaticamento industriale, e sul suo rapporto con le malattie, gli infortuni e il rendimento. Ciò comportò una revisione dei criteri tayloristici, che prendevano in esame solo la velocità del lavoro e non la fatica; si scoprì invece che era importante il ritmo, che doveva adattarsi a quello fisiologico, cfr. B. Bianchi, Salute e rendimento nell'industria bell ica (195-1918), in M. L. Betri - A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall' Unità al fascismo, Milano 1982, pp. 115, 121 (e 108 sulle condizioni di lavoro). Le condizioni di lavoro furono tenute sotto con trollo in Gran Bretagna da un «Health of Munition Workers Committee» (1915) e da una «Welfare Section» presso la mobilitazione industriale (che nel 1918 contava ben 800 ispettori). Le condizioni degli operai inglesi nel loro insieme peggio rarono, ma furono comunque migliori di quelle degli altri paesi belligeranti; il ventaglio salariale fu più ridotto, grazie anche alla tendenza a firmare contratti collettivi su base nazionale e alla crescita dei salari dei non qualificati. Sia in Gran Bretagna che in Francia e in Germania furono svolte numerose ispezioni sulla salute e sulle condizioni igieniche nelle fabbriche; in Inghilterra alla fine del 1915 tutte le industrie che avevano rapporti con il governo erano state ispezionate; in Germania le ispezioni interessarono il 91% degli addetti e il 59% delle aziende chimiche, e l'82% degli addetti e il 42% delle aziende metalmeccaniche. Gli ispettori dovevano verificare i livelli di tossicità, le cubature degli ambienti e la ventilazione, i congedi ecc. (B. Bianchi, Salute e inte rvento pubblico nella industria di guerra, in G. Procacci [a cura di], Stato e classe operaia, cit.). 73 Grazie a un'interpretazione estensiva del codice penale e a veri e propri soprusi da parte delle a u torità, fino alla guerra in Germania scioperi e attività sindacali erano stati perseguiti quasi con lo stesso rigore delle leggi antisocialiste, e gli industriali non avevano dimostrato alcuna disponibilità a riconoscere i sindacati e a stipulare accordi collettivi. Con la guerra, si attuò un compromesso: il governo non seguì i propositi della destra, che avrebbe voluto l'eliminazione dei sindacati, ne tollerò l'esistenza in cambio della rinuncia a effettuare scioperi politici, e a evitare anche quelli economici. Già nell'agosto del 1914, in s eguito all'adesione dei socialisti alla guerra, erano state abrogate alcune leggi repressive nei confronti del partito. 26 Giovanna Procacci peri e le nuove regole di organizzazione del lavoro; ma li autorizzò anche a svolgere una funzione all'interno dei meccanismi della contrattazione arbitrale, a partecipare a inchieste e a commissioni governative sui sopraprofitti (Inghilterra), a promuovere misure a favore della disoccupazione, riguardo ai rifornimenti alimentari, al reclutamento delle donne, ecc. (Germania). Ma soprattutto, grazie alla presenza dei sindacati, fu evitata, sia in Germania come in Inghilterra, la militarizzazione della classe operaia, e fu limitato il vincolo al posto di lavoro (diverso fu, come diremo, il caso dell'Italia, dove la collaborazione con i sindacati fu limitata, e il vincolo al posto di lavoro fu rigidamente attuato). 74 Il riconoscimento dei sindacati e la loro azione interna alle istituzioni - fu loro delegata in alcuni casi anche la fissazione dei prezzi e le regole di razionamento - avvenne però al prezzo di un distacco da essi di vari settori della classe operaia, di cui furono testimonianza i numerosi scioperi che nell'ultimo anno di guerra si verificarono nei vari paesi belligeranti, legati alle condizioni di lavoro, al costo della vita, contro le disposizioni disciplinari o la repressione politica.75 74 Nel marzo del 1915 in Gran Bretagna fu dichiarata da parte dei sindacati una tregua sociale («Treasury Agreement»): in cambio alla sicurezza che non si sarebbe ricorso né a licenziamenti né ad a bbassamenti salariali, i sindacati si sarebbero resi disponibili a coopera re alla politica di armamenti, ad accettare la «dilution», e a rinunciare allo sciopero nelle industrie strategiche; era inoltre previsto che i conflitti venissero risolti da commissioni paritetiche (o da commissioni nominate dallo stato) con parere vincolante per ambedue le parti. Nel 1916 il governo trasferì ai sindacati ogni competenza in merito alla qualificazione operaia e quindi agli esoneri («Trade Card Scheme»); l'accordo fu poi abolito dal governo (aprile 1917), ma in seguito a scioperi (maggio), il governo rinunciò ad arruolare gli specializzati; i sindacati cedettero solo nella primavera 1918. Anche riguardo al vincolo al posto di lavoro e alla «dilution», che portò in a lcuni casi a un'opposizione aperta, con contrasti e scioperi, la collaborazione dei sindacati impedì che passasse il progetto di Lloyd George sul servizio civile obbligatorio, che avrebbe permesso allo stato di disporre di ogni operaio e destinarlo dove voleva (viene istituito al suo posto un servizio civile volontario: giugno 1915). In generale, rispetto alla Germania, i sindacati si dimostrarono più pragmatici, e ottennero maggiori risultati, anche grazie al minore oltranzismo degli imprenditori. In Germania, i sindacati passarono da una posizione di accettazione passiva della guerra a una collaborazione attiva. La legge sul «servizio ausiliario» fu approvata dopo accordi con i sindacati, che ottennero lo scopo prefissosi del loro riconoscimento ufficiale, e acquisirono il diritto a cooperare e codeterminare le condizioni di lavoro nell'ambito dell'economia di guerra (introduzione di commissioni operaie permanenti nelle fabbriche con più di 50 addetti, e, più tardi, l'ingresso del capo del sindacato metallurgico, Schlicke, nell'Ufficio di guerra, organo del Comando supremo, sotto il quale si trovavano il Dipartimento per le materie prime, il Dipartimento del lavoro, competente per gli esoneri, e l'Ufficio per la fornitura delle armi e munizioni). La guerra pose quindi fine alla rigida contrapposizione tra imprenditori e sindacati, che collaborarono negli uffici di collocamento, e nelle Unioni di lavoro, dove imprenditori e operai, con la eventuale partecipazione dello stato, dovevano concertare le misure di politica sociale (le Unioni si re alizzano però solo nei settori do ve già esistevano prima della guerra contratti collettivi - edilizia, attività grafiche - e non negli altri settori nevralgici). Nei fatti la politica di pacificazione sociale non portò reali vantaggi ai sindacati, a parte salv aguardarne la legalità, cfr. Hardach, cit., pp. 205-08, 214-18; N. Whiteside, Welfare legislation and the Unions during the First World War, in «The Historical Journal», 1980, 23, 4, pp. 857-74; Feldman, cit., pp. 150-235; Kocka, cit., pp. 126-40. 75 Sulle agitazioni operaie durante la guerra, cfr. L. Haimson - G. Sapelli (a cura di), Strikes, Social Conflits and the First World War, «Annali» Fondazione G. Feltrinelli, 1990-91, 27. Cfr., anche, Hardach, cit., pp. 95-96, 212-13, 216, 224-25, 228 sgg., 234; Feldman, cit., pp. 493 sgg. Le agitazioni nelle fabbriche cre bbero vertiginosamente in Germania. Gli scioperi travalicarono talora gli ambiti economici della contrattazione: essi furono spesso motivati dalla mancanza di viveri ed anche da cause politiche (come nel 1917 a Lipsia: pace senza annessioni e indennità, abolizione dello stato d'asse- Welfare-Warfare 27 Nella seconda parte della guerra, e in particolare a partire dalla metà del 1917, l'intensificarsi delle manifestazioni di malcontento, operaio e cittadino (e, in alcuni paesi, come la Russia e l'Italia, anche contadino) spinse i governi belligeranti, timorosi di un possibile «contagio» russo, ad intervenire con maggiore prontezza sia con strumenti repressivi - di cui diremo tra poco - sia con nuove aperture riformistiche: aumentarono gli interventi assistenziali nei confronti della popolazione, e le misure a favore delle condizioni di lavoro operaie. 76 Le riforme rispondevano in modo evidente ad obiettivi di pacificazione sociale e di tutela dell'ordine: erano quindi concessioni «dall'alto»; ma derivavano anche dalla spinta che proveniva dal basso, da parte delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio, che ebbero in tutti i paesi una forte ripresa di iscritti. Fu appunto nel 1917 che presero anche l'avvio i progetti in campo assicurativo e previdenziale, attraverso i quali la maggior parte dei paesi ottenne nel dopoguerra un adeguato sistema di base. Gli interventi consistevano soprattutto in un allargamento delle misure protettive e assicurative (assicurazione infortuni, pensionamento, casse maternità, assic urazione malattie, assicurazione contro la disoccupazione, allargata anche a categorie per le quali non fosse in atto un contratto di lavoro, uffici di collocamento, ecc.). In particolare, in quasi tutti i paesi europei venne applicata l'assicurazione infortunistica obbligatoria (Belgio, Danimarca, Svezia, Olanda, Finlandia, Norvegia, Francia, Gran Bretagna, Austria, Germania, Svizzera, Italia, Serbia, Romania; anche la Russia rivoluzionaria attuò un estesissimo sistema assicurativo). Ma torneremo in seguito su questo tema. 2.2 - Il ruolo che la produzione industriale andò progressivamente acquisendo all'interno dei piani di guerra dei singoli stati spinse i governi a cercare una stretta collaborazione con gli imprenditori e ad attuare ovunque una nuova regolamentazione del lavoro e una nuova strutturazione delle relazioni industriali.77 L'obiettivo era quello di ottenere la massima produzione e produttività: si trattava quindi di riuscire a fornire alle imprese, oltre alle materie prime, anche la indispensabile manodopera (mantenendone non elevato il costo), di elimi- dio, contro la legge sul servizio ausiliario, per la libertà di stampa e di riunione, per il suffragio universale); sugli aspetti più «morali» che economici della protesta operaia in Germania, cfr. B. Moore jr., Le basi sociali dell'obbedienza e della rivolta , Milano 1983, pp. 110-141, 423-44. Anche in Inghilterra scoppiarono varie agitazioni, sia per motivi salariali, sia per cause inerenti le condizioni di lavoro e, soprattutto, l'organizzazione della produzione e la «dilution» (azione promossa dal movimento, spontaneo, degli Shop Stewards); J. N. Horne, Labour at War. France and Britain 19141918 , Oxford 1991; Kocka, cit., pp. 11-67. 76 Cfr. A. Marwick, The Deluge. British Society and the First World War, London 1965, pp 113-119 (creazione del Special Welfare Department, che si doveva occupare specificatamente di donne e fanciulli, all'in terno del Ministry of Munition); sulla politica a favore della componente femminile, cfr. anche S. Pedersen, Gender, Warfare and Citizenship in Britain during the Great War, in «The American Historical Review», 1990, 4. Per la Germania, cfr. U. Daniel, The War from Within. German Working-Class Women in First World War, Oxford -New York 1997, pp. 65-89 (effetti della legge sul servizio ausiliario sul lavoro femminile); Young-Sun Hong, The contradictions of modernisation in the German welfare state: gender and politics of welfare reform in First War Germany, in «Social History», 1992, 1, pp. 254 sgg. (commissioni per il welfare, riguardante i ragazzi e le donne, politicizzazione). 77 Agli specifici organismi statali preposti alla direzione della produzione di guerra furono messi a capo dei civili in Gran Bretagna e Francia (Lloyd George e Thomas) dei militari in Germania e in Italia (Groener e Dallolio). In Germania ebbe comunque grande influenza Rathenau. 28 Giovanna Procacci nare le interruzioni legate alla conflittualità, e di facilitare la massima intensificazione dei ritmi. Assorbita l'iniziale disoccupazione, a causa dei richiami al fronte, si era verificata in tutti i paesi una forte carenza di manodopera, soprattutto qualificata. Lo sta to si assunse il compito di regolare il mercato del lavoro, decidendo gli esoneri - tale funzione fu talora affidata ai sindacati (Inghilterra) - e di procurare nuova manodopera disponibile, facendo ricorso anche a quella femminile, il cui impiego fu in alcuni casi reso obbligatorio. Inoltre, per evitare che, in base alla legge di mercato, la scarsa disponibilità di manodopera qualificata permettesse un aumento non regolato dei salari e la competitività tra le imprese per l'accaparramento di manodopera qualificata, tutti i governi adottarono alcune misure costrittive: in particolare, fu imposto il vincolo al posto di lavoro - l'operaio non poteva licenziarsi senza il permesso del datore di lavoro - che fu assoluto in taluni paesi (Italia, Austria), e soggetto a condizioni, o applicato solo in determinati periodi, in altri (Germania, Inghilterra). In alcuni paesi (Italia, Austria) la disciplina all'interno della fabbrica fu addirittura fatta rispettare da personale militare, e fu militarizzata, e sottoposta quindi al codice penale militare, tutta la manodopera degli stabilimenti mobilitati. La militarizzazione della classe operaia non fu invece effettuata né in Inghilterra, né in Francia, né in Germania (dove venne minacciata, e talora applicata, solo in caso di scioperi, per ritorsione). Nello stesso tempo, in tutti i paesi belligeranti furono approvate disposizioni che permettevano di evitare le interruzioni della produzione, e che favorivano l'intensificazione dei ritmi. Furono così regolamentati orari e tempi di lavoro, furono sospese, come già abbiamo ricordato, alcune leggi di tutela (sul lavoro notturno di donne e fanciulli, sul lavoro festivo, sugli orari, sui turni, ecc.) e, per evitare gli scioperi (che in taluni paesi furono anche vietati dalle leggi eccezionali), vennero costituite delle commissioni arbitrali triangolari, con il compito di esaminare e risolvere le controversie economiche. Si veniva così a configurare una istituzionalizzazione dei conflitti del lavoro, della quale lo stato si faceva garante, fungendo da elemento decisivo dell'equilibrio sociale.78 78 Attraverso il «Munition of War Act» (1915) in Gran Bretagna venne decisa una nuova normativa che riguardava le imprese che, per importanza strategica, venivano poste sotto controllo dello stato: in tali aziende erano abolite tutte le norme che potessero limitare la produttività. Erano quindi proibite le interruzioni di lavoro (sia scioperi che serrate); le controversie venivano deferite al Board of Trade, che eme tteva sentenze con forza obbligatoria (ma nessuna controversa fu decisa coattivamente, il consenso dei sindacati venendo sempre considerato essenziale); fu imposta (con il consenso sindacale, ma per la sola durata della guerra) la «dilution», che colpiva la posizione degli operai qualificati, e furono controllati i salari; fu previsto il vincolo al posto di lavoro (più rigido che in Germania: il salario più alto non costituiva in Inghilterra giusta causa per il passaggio ad altra impresa), che era però controllato dai sindacati; il vincolo fu reso meno rigido nell'autunno 1915 e fu comunque abolito nel 1917. In Germania il vincolo al posto di lavoro non fu applicato: contro tale eventualità si schierarono infatti non solo l'SPD e la stessa destra conservatrice, ma anche il c ancelliere e la maggioranza degli industriali. Vi erano comunque limiti alla libertà di circolazione: ad esempio, nell'industria metallurg ica di Berlino, l'operaio doveva ottenere il permesso del datore; se rifiutato, poteva rivolgersi a una commissione arbitrale - anche in Germania la conflittualità fu regolata attraverso l'istituzionalizzazione dei conflitti - costituita su basi parit etiche, presieduta da funzionari governativi, che di solito decideva che il lavoratore doveva restare, ma con un salario più alto. Riguardo alla militarizzazione della classe operaia, ad essa fu contrario il governo, che temeva la ripresa di una forte opposizione politica (e contraria fu anche una parte degli industriali). Pertanto il progetto di Hindenburg, presentato nel 1916, che istituiva il «Servizio ausiliario per la patria» - che prevedeva un forte aumento del Welfare-Warfare 29 Tale progetto di mediazione tra le parti - che comportava una evidente intromissione dello stato all'interno della dinamica contrattuale - incontrò forti resistenze da parte degli imprenditori (o di una larga parte di essi), il cui potere di pressione sulle decisioni pubbliche aumentò enormemente durante la guerra (spesso concretizzandosi nella diretta acquisizione di cariche ministeriali da parte di esponenti del mondo economico). 79 Raramente i governi riuscirono a imporre agli industriali dei condizionamenti economici e dell'organizzazione del lavoro: se la tassazione dei profitti venne attuata in Inghilterra, la proposta provocò in Germania la caduta del responsabile della mobilitazione industriale, Groener. In Italia un progetto di tassazione dei «superprofitti di guerra», avanzato nel dopoguerra, venne insabbiato dal fascismo.80 potere militare in fabbrica, attraverso la militarizzazione degli operai, la mobilitazione totale di tutte le forze disponibili (comprese donne, minori, invalidi, prigionieri, ecc.), il lavoro domenicale e una serie di misure coercitive - fu discusso in parlamento (anche Ludendorf fu favorevole a una discussione parlamentare), e drasticamente ridimensionato nella stesura definitiva: il lavoro obbligatorio fu previsto solo per i maschi tra i 17 e i 60 anni, fu deciso che il vincolo era condizionato dal salario, e fu bocciata la proposta di militarizzazione. Il Comando supremo cercherà ancora nella primavera del 1918 di far applicare la mobilitazione totale, il vincolo , la militarizzazione, e provvedimenti a carattere disciplinare, ma troverà contrari sia il governo che gli industriali. Rimasero comunque in vigore forti elementi repressivi: i lavoratori ribelli venivano minacciati di essere inviati al fronte, gli scioperi potevano condurre alla militarizzazione delle fabbriche, e ogni attività politica, dato il regime di stato d'assedio, veniva duramente repressa dai comandi locali. In Francia gli operai furono soggetti ad alcune restrizioni, ma non a uno stato giuridico di tipo milit are; i militari non svolsero infatti un ruolo importante nella politica di produzione degli armamenti. Gli imprenditori si dimostrarono tuttavia meno disposti che in Germania alla collaborazione con i sindacati. In Austria la militarizzazione fu applicata rigorosamente fino dall'inizio della guerra, ma si attenuò a partire dal maggio 1917, cfr. G. Rubin, War, Law and Labour. The Munitions Acts. State Regulation and the Unions, 1915-1921, Oxford 1987; Hardach, cit., pp. 81, 87-90, 96-9, 114 sgg., 209-13, 216-19; Feldman, cit., 197 sgg., 235 sgg., 320 sgg., 381, 409-58, 493 sgg.; C. S. Maier, La rifondazione dell'Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale , Bari 1975, pp. 77, 89. 79 Poiché il primo intervento esplicito in economia da parte dello stato avvenne nel momento in cui gli industriali avevano assunto un'importanza vitale all'interno della vita e della sopravvivenza della nazione, in tutti i paesi belligeranti molti posti chiavi furono occupati da industriali, e ovunque si realizzò un connubio imprenditori-stato. In Inghilterra, sebbene lo slogan della nuova politica britannica fosse il «controllo statale dell'industria», per opposizione degli industriali il controllo si ridusse al coordinamento dell'economia privata. Anche in Germania il sistema attuò una limitata economia pianificata, senza intaccare mai le decisioni private circa gli investimenti e gli ammortamenti, e i meccanismi privati di determinazione dei prezzi industriali (Hardach, cit., pp. 105-06; Weheler, cit., p. 207). Una situazione analoga, e anche più accentuata, si verificò in It alia, come vedremo. 80 La caduta di Groener nell'estate del 1917 - dopo che si era espresso per una limitazione statale dei profitti degli imprenditori, e per aumenti salariali - fu quindi una concessione all'industria pesante (Feldman, cit., pp. 373-404). In Italia, il capo della Mobilitazione industriale, generale Dallolio, la cui linea politica si era mossa su direttive analoghe a quelle di Groener - venne rimosso nel 1918 da Nitti (che mirava a accentrare sotto il Tesoro anche la M.I.) (L. Tomassini, Lavoro e guerra. La Mobilitazione industriale italiana 1915-1918, Napoli 1997, p. 170). La causa immediata furono alcune irregolarità di gestione della M.I.; ma è indubbio che gli interventi previsti da Dallolio all'interno dell'organizzazione della produzione nel 1918, l'insistenza per una maggiorazione dei salari, ecc. fossero assai malvisti dagli industriali, e in particolare da quelli legati a concezioni più rigide e meno dispo nibili a compromessi e limitazioni del loro potere, tra i quali spiccavano i Perrone (Ansaldo), molto legati a Nitti. 30 Giovanna Procacci 6. L' INTERVENTO DELLO STATO IN I TALIA , TRA ASSISTENZA, CONTROLLO SOCIALE E REGOLAMENTAZIONE DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI (1915-1918). Il modello italiano di intervento dello stato nel campo del controllo sociale e dell' azione di riforma si ispirò soprattutto a quanto avveniva in Germania, paese con il quale l'Italia ave va mantenuto stretti contatti per tutta la durata della Triplice alleanza, e con il quale condivideva sia alcune caratteristiche nell'ambito economico connesse alla tardività del decollo industriale - e in particolare la politica statale di sostegno e di sovvenzione dell'industria pesante, e la durezza de gli imprenditori nei confronti dell'opposizione sindacale - sia gli atteggiamenti politici della classe dirigente. Il governo Salandra compì infatti una svolta in senso autoritario, che i successivi governi Boselli e Orlando non vollero o non poterono modificare. E in Italia, come in Germania (e ancor più in Austria) il potere civile delegò larga parte delle sue funzioni all'autorità militare. Il caso italiano presenta tuttavia delle caratteristiche tutte proprie, che lo differenziano non solo da quello inglese, ma anche da quello tedesco. Questi caratteri sono in larga parte connessi alla mancanza di un'opinione pubblica favorevole alla guerra, all'impreparazione con cui l'Italia entrò nel conflitto - confidando in un'esperienza breve e vittoriosa - alla conseguente mancanza di un piano coordinato di azione militare e civile - nonostante i dieci mesi che intercorsero tra lo scoppio della guerra e la partecipazione ad essa dell'Italia - e, non ultimo, alla linea di condotta della classe dirigente, non disposta a concedere nessuna modifica, almeno fino a dopo Caporetto, alla propria concezione elitaria e corporativa della gestione del potere: concezione in assoluto contrasto con le necessità che imponeva la guerra di massa.81 1.1 - La convinzione della brevità della prova bellica portò il governo a sottovalutare il problema degli approvvigionamenti alimentari e della loro distribuzione. La ferma convinzione liberista di Salandra lo condusse ad escludere un intervento centralizzato, e ad affidare la gestione del settore agli enti locali (attraverso la costituzione di consorzi granari provinciali e di altri organismi comunali). Solo nell'agosto 1916 il campo fu sottratto all'autorità militare, alla quale era stato affidato, e fu creato un Commissariato per gli approvvigionamenti e i consumi, che provvide a fissare prezzi d'imperio per alcuni prodotti di prima necessità, e ad attuare il razionamento e, successivamente, il tesseramento. Tale opera fu perfezionata e ampliata nel 1918, quando, grazie a nuovi accordi intercorsi con gli alleati, fu allentata di qualche misura la stretta annonaria, che dopo Caporetto aveva raggiunto livelli drammati82 ci. L'azione del Commissariato (nel 1916 sottoposto al neoministero dell'Agricoltura, e divenuto nell'ottobre 1917 Sottosegretariato del Ministero dell'Interno, e infine nel 1918 Ministero) fu tuttavia aspramente criticata, e posta al centro di inchieste dopo la guerra; le accuse furono di disfunzioni, clientelismo, gigantismo burocratico, inefficienza. Ma, come 81 Rinvio al mio G. Procacci, L'Italia nella Grande Guerra , in Sabbatucci - V. Vidotto (a cura di), Storia d'I talia, 4, Guerre e fascismo, Bari 1997. 82 M. C. Dentoni, Annona e consenso in Italia. 1914 -1919 , Milano 1995, passim; L. Tomassini, App rovisionement, protestation et propagande pendant la première guerre mondiale , in «Guerres et conflits contempo rains», cit.; tutta la legislazione e gli organismi costituiti, in A. De Stefani, La legislazione economica della guerra , Bari-New Haven, 1926, pp. 257 sgg.; sulla «La Nuova Antologia» comparvero molti articoli riguardanti il caroviveri e gli strumenti messi in atto per affrontarlo in varie città (Genova, Milano, Roma, «La Nuova Antologia» 1.11.1916; Bergamo, ibidem; commenti generali in vari numeri del 1918). Welfare-Warfare 31 per tutti gli altri settori posti sotto inchiesta, l'ascesa del regime fascista impedì che si giungesse a definitivi chiarimenti.83 Certo è che, a differenza di quanto avvenuto in Inghilterra, il razionamento e il tesseramento non produssero un'azione livellatrice; al contrario, data la possibilità delle classi più abbienti di sfuggire a tali misure (acquistando prodotti di lusso, recandosi nei ristoranti, ecc.), esse determinarono più acute differenze sociali. 84 Sempre riguardo ai provvedimenti rivolti a risolvere i bisogni dei settori più esposti dell'intera popolazione, il governo intervenne con norme circa la sicurezza del posto di lavoro (proroga dei contratti al dopoguerra, e generale tutela dei diritti e dei ra pporti di prestazione d'opera), contro il deprezzamento della lira (blocco dei canoni di affitto in agricoltura,85 83 Le critiche vennero espresse in contemporanea, in parte connesse alla convinzioni liberiste dei commentatori, ma in parte anche motivate dagli errori e dalle perdite prodotte dalla politica annonaria: così il Bachi denunciò le inadeguate cautele negli acquisti, gli intempestivi arrivi, le irregolarità nell'immagazzinamento, le giacenze troppo lunghe delle merci e il conseguente loro deterioramento, nonché le cons eguenze negative sia dei calmieri (spesso non rispettati), che dei divieti di esportazione da provincia a provincia (R. Bachi, L'Italia economica nel 1917, Città di Castello 1918, pp. 266-68, 272; ID., L'Italia economica nel 1918, Città di Castello 1919, pp. 274-80); analogamente U. Ricci, La politica annonaria dell'Italia durante la Grande Guerra, Bari 1939, volume che nella sua prima edizione, del 1919, portava il significativo titolo: Il fallimento della politica annonaria). Anche Einaudi sottolineò le disfunzioni (arbitrarie ordinanze delle prefetture, commercio clandestino, corruzione, enorme varietà di tessere, ecc.), cfr. L. Einaudi, La condotta economica e gli effetti s ociali della guerra , Bari-New Haven 1933, pp. 190-91). Ma le accuse più pesanti provennero dalla Commissione d'inchiesta sulle spese di guerra: finanza allegra dei consorzi, speculazioni e vendite clandestine da parte di privati, mancanza di organizzazione, errata imposizione di prezzi di imperio (e non di mercato come in Germania), ecc., cfr. Relazione della Commissione parlamentare d'Inchiesta per le spese di guerra (6 febbraio 1923), Roma 1923, pp. 22, 26, 362 sgg., 435 sgg., 440 sgg., 446, 454 (con descrizione di tutto l'andamento organizzativo). 84 Rinvio al mio G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Roma 1999, pp. 72-93. In alcune città si costituirono degli enti autonomi: così a Bologna (amministrazione socialista), dove nel 1917 sorse un Ente autonomo di consumo; così a Milano (amministrazione socialista), dove sempre nel 1917 nacque un'Azienda comunale consorziale, con la partecipazione di tutti gli enti di beneficenza e di tutte le cooperative di consumo. Alla fine della guerra si contavano 250 enti autonomi di consumo, mentre le principali cooperative si erano tutte ingrandite, attingendo crediti agli istituti ordinari e al neo-Istituto nazionale di credito per la cooperazione, cfr. V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia - 1861-1990, Bologna 1990, pp. 278 sgg. Gli enti furono osteggiati dai commercianti, ma, nei piccoli centri, furono, al contrario, spesso collegati a costoro. Nelle grandi città sorsero numerose leghe, collegate ai comitati patriottici, il cui principale proposito era quello di attuare una propaganda per la limitazione dei consumi, cfr. Dentoni, cit., e Tomassini, Approvisionnement, cit. Sull'andamento dei consumi, ID., Lavoro e guerra, cit., pp. 308-10. 85 La norma sulla proroga dei contratti agrari (d.l. 8 agosto 1915, n. 1220) non valeva per i familiari dei salariati avventizi richiamati al fronte, ed era sottoposta all'espletamento di formalità di cui coloro che ne avre bbero potuto beneficiare non erano spesso a conoscenza; essa comunque, come quella del blocco dei fitti, frequentemente non fu rispettata dai proprietari (cfr. l'ordine del giorno di denuncia della situazione votato dalla Federazione provinciale milanese dei contadini ai primi di settembre 1917 presso la Camera del lavoro di Milano: prefetto di Milano, 13 settembre 1916, in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione Polizia Giudiziaria, 1916-1918, b. 256. 32 Giovanna Procacci blocco dei fitti degli immobili, oltre al tesseramento già descritto), sussidi e pensioni alle famiglie dei combattenti.86 Il principale provvedimento nei confronti della popolazione più bisognosa fu appunto quello della concessione di sussidi sia alle organizzazioni che aiutavano i disoccupati (nel '14-15, e ancora all'inizio del'16), sia ai familiari dei richiamati (moglie, figli sotto i 12 anni, fratelli minori, padre e madre a carico sopra i 60 anni), se riconosciuti essere in stato di necessità da speciali commissioni comunali. Il concorso dello stato per i sussidi, seppur rilevante (5 miliardi e 220 milioni) non fu tale, come ammetterà Serpieri, da ristabilire un equilibrio tra redditi e consumi. I sussidi erano infatti molto bassi, di livello inferiore a quello degli altri paesi belligeranti, e furono inoltre falciati dall'inflazione.87 Ma soprattutto i sussidi concessi dallo stato escludevano numerose categorie, sia cittadine che contadine, cosicché, secondo Serpieri, fu sussidiato non più del 63% dei parenti dei richiamati: tra gli esclusi, erano da comprendere le famiglie naturali, i genitori al di sotto dell'età prevista, le famiglie di renitenti - fenomeno di grande rilievo nel sud, a causa dell'emigrazione transoceanica - e quelle di militari presunti disertori (anche se spesso risultati in seguito solo dispersi), contadini proprietari (anche se piccolissimi). Il sussidio era inoltre per legge inferiore nelle campagne rispetto alle città capoluogo. Quale fosse il significato che l'Italia ancora attribuiva a tale azione statale lo rivela la definizione che ne fornisce, nel suo volume, il De Stefani: quello di «attività caritativa»; ovvero un aiuto concesso paternalisticamente dalle istituzioni, non obbligatorio.88 Era questa la concezione della politica sociale condivisa dalla maggior parte della classe dirigente, e, in particolare, da Salandra, che si era distinto quale oppositore accanito all'intervento statale nei settori assicurativi e assistenziali fin dall'inizio della sua carriera politica - quando l'Italia aveva invece deciso di seguire l'esempio bismarkiano - e aveva mantenuto tale posizione anche in seguito, al momento dell'approvazione della legge sul monopolio delle assicurazioni sulla vita e sulla costituzione dell'Istituto nazionale per le assicurazioni. Il governo lasciò pertanto che l'amministrazione dei sussidi fosse regolata da un «minuscolo, non controllato ufficio»- secondo le parole della Commissione d'inchiesta - che prima della guerra atten86 Sulle pensioni guerra, e sulla necessità di stimolarne l'attuazione da parte dello stato, come già avvenuto in Gran Bretagna, Francia, Germania e Svizzera, si svolse un nutrito dibattito sulla «La Nuova Antologia», cfr. I. Bonomi, Le pensioni di guerra , 1.6.1916, pp. 326 sgg.; Pensioni civili e pensioni di guerra, pp. 341 sgg.; U. Da Como, Appunti sulle pensioni di guerra, 1.8.1917, pp. 305 sgg.; A. Cabrini, Le pensioni di guerra. Dal ritocco alla riforma , 16.8.1917, pp. 400 sgg. (sottolinea i limiti dei provvedimenti, notando che nessuna pensione è prevista per i militari-operai); ID., Ancora sulle pensioni di guerra. Commento agli ultimi decreti, 16.9.1917, pp. 204 sgg. Su tutto il tema dell'assistenza di guerra, rinvio al mio Dalla rassegnazione alla rivolta, cit., pp. 20-30. 87 I sussidi erano di 60 centesimi al giorno per la moglie e i genitori - una lira complessiva se i genit ori erano due - 30 centesimi per i minori (un chilo di pane a Milano costava 56 centesimi). Vennero aume ntati - ma non quanto il costo della vita - solo nel 1917 e poi nel 1918. A. Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Bari New Haven 1930, pp. 122-125. Commissione parlamentare d'inchi esta, cit., p. 24. 88 Come notava «L'Unità» di Salvemini e De Viti De Marco, quando le autorità comunali concedevano i sussidi previsti dalla legge, consideravano tale atto come un favore, e non rispondente a un diritto. Ogni reclamo - per ritardi, omissioni ecc., che avvenivano continuamente - era considerato un atto di audacia intollerabile. Poteva anche avvenire che il sussidio fosse negato perché chi lo reclamava apparteneva al partito a vverso a quello che aveva la maggioranza in comune, cfr. I sussidi alle famiglie dei richiamati, in «L'Unità», 9.3.1917. La normativa sui sussidi è descritta in De Stefani, cit., pp. 41-45, 74 sgg. Welfare-Warfare 33 deva all'erogazione dei sussidi a limitate categorie di militari, per poche migliaia di lire all'anno. Il servizio fu delegato ai comuni, che dovevano fornire un rendiconto mensile ai distretti: ma i comuni di norma non lo inviavano e i distretti non effettuavano controlli; i pre fetti, cui si erano rivolti i distretti, si rifiutavano di intervenire, non essendo materia civ ile. I comuni incaricavano gli organismi patriottici locali della compilazione degli elenchi dei bisognosi: erano questi, quindi, che decidevano in ultima istanza la distribuzione dei sussidi statali. Era però difficile che i comitati - che agivano nelle città, e solo in quelle di una certa dimensione - conoscessero le condizioni delle campagne e dei piccoli centri, la cui popolazione si trovò pertanto in larga misura priva di aiuti. Ai sussidi statali si aggiunsero in misura determinante quelli privati, nella maggior parte gestiti dai comitati patriottici (69 milioni nel 1917). E’ evidente che la concessione dei sussidi privati veniva condizionata da motivi di ordine politico: attraverso i sussidi veniva dunque attuato il controllo patriottico. Nell'agosto del 1916 (d.l. 31.8.16), i comuni furono autorizzati a riscuotere contributi straordinari per l'assistenza civile (che dovevano però essere sempre amministrati dalle organizzazioni patriottiche); ma furono pochi i comuni che fecero applicare la norma (nel 1917 fu raccolta la cifra modesta di 26 milioni). La mancanza di controllo centrale sui sussidi produsse - secondo la Commissione d'inchiesta sulle spese di guerra - numerosi illeciti, e servì perciò più a creare clientele che a lenire i bisogni.89 Furono sempre i privati - associazioni patriottiche, circoli cattolici e parrocchie, società di mutuo soccorso, organizzazioni operaie e, laddove le amministrazioni erano rette dai socia listi (come Milano e Bologna), i comuni - che svolsero l'azione di assistenza (e «beneficenza»). Salandra investì infatti esplicitamente le associazioni patriottiche di tale compito, incaricandole di rastrellare le somme necessarie.90 L'assistenza - sanità, asili, refettori, distribuzione lavoro a domicilio, ecc. - fu svolta quindi essenzialmente da privati. Riguardo al lavoro a domicilio, che consistette essenzialmente in attività femminile di lavorazione di indumenti per l'esercito, si calcola che fossero impiegate tre volte le operaie ausiliari, quindi da 500 a 600.000 donne (essendo le donne impiegate negli stabilimenti 198.000). Tali lavori furono considerati alla stregua di interventi di beneficenza: le operaie non avevano un contratto, e lavoravano quindi con salari bassissimi (in Francia e in Inghilterra erano stati fissati i minimi anche per il lavoro a domicilio), e senza indennità caroviveri, con evidenti enormi vantaggi per l'esercito. 91 89 L'inchiesta concluse cha la somma complessiva riservata ai sussidi, ammontante, come abbiamo detto, a più di cinque miliardi, venne solo in piccola parte usata legittimamente: ad esempio, in un comune, su 437 sussidi, solo 37 risultarono legittimi, cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta, cit., pp. 24-25. L'Inchiesta indagò su tutti gli organismi creati in periodo bellico, denunziando per tutti (e in particolare per il settore delle Armi e Munizioni e della Mobilitazione industriale), illeciti, disordine amministrativo, frodi. 90 Sull'attività dei comitati patriottici e del Commissariato per l'assistenza civile e la propaganda interna, cfr. A. Fava, Assistenza e propaganda nel regime di guerra (1915-1918), in M. Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella grande Guerra , Bologna 1982, pp. 175-212; sull'azione svolta dalle associazioni private nella capitale, cfr. A. Staderini, Combattenti senza divisa. Roma nella Gra nde Guerra, Bo logna 1995, pp. 83-85, 95, 100-102, 186-196; sulle funzioni svolte dal comune di Bolo gna, cfr. N. S. Onofri, La grande guerra nella città rossa. Socialismo e reazione a Bologna dal 1914 al 1918, Milano 1966; su Milano, cfr. M. Punzo, La giunta Caldara. L'amministrazione c omunale di Milano negli anni 1914-1920, Bari-Milano, 1986. 91 Cfr. B. Pisa, Una azienda di stato a domicilio: la confezione di indumenti militari durante la grande guerra , in «Storia contemporanea», 1989, n. 6. 34 Giovanna Procacci Nel 1918 il nuovo governo Orlando, nel quale spiccava la figura di F. S. Nitti al Tesoro, decise un maggiore intervento in ambito sociale. Il governo provvide alla costituzione di associazioni per e di combattenti (case del soldato, Opera nazionale combattenti, 1918), che si aggiunsero a quelle create a sostegno dei mutilati ed invalidi (Opera nazionale per la protezione e l'assistenza degli invalidi di guerra, 1917). Nel dicembre 1917 autorizzò l'Istituto nazionale delle assicurazioni ad emettere speciali polizze gratuite, pagabili ai familiari in caso di morte, o riscuotibili dopo 30 anni (ma furono valutate senza tener conto del deprezzamento della lira!).92 Furono istituiti anche nuovi organismi, come il Ministero per l'Assistenza militare e le Pensioni di guerra (1917) - che, tra le altre funzioni, aveva anche quella di controllare le pensioni e i sussidi, ma che non poté svolgere pressoché nessuna azione in tal campo, per la mancanza di un corpo ispettivo - e il Commissariato per l'assistenza e la propaganda, delegato ad attuare i compiti indicati da tale titolo, ma che, come rilevò la Commissione d'inchiesta per le spese di guerra, impiegò la totalità delle somme a disposizione per la propaganda e non per l'assistenza. 93 Anche in Italia, però, a partire dal 1917, in seguito alle vicende russe, e alle agitazioni che coinvolsero città, fabbriche e campagne, l'opinione pubblica iniziò a discutere sulla necessità di «dare un contenuto sociale» alla guerra: nacquero allora i progetti assicurativi e previdenziali, di cui parleremo in seguito. 1.2 - La svolta autoritaria - che si concretizzò in una progressiva militarizzazione del paese (e in particolare la militarizzazione della classe operaia degli stabilimenti che lavoravano per la guerra), e nell'applicazione estensiva delle leggi eccezionali - fece sì che le misure coattive e coercitive prevalessero in modo massiccio su quelle di assistenza ai fini della resistenza interna. Incise certamente su tale impostazione la situazione politica e sociale al momento dell'entrata in guerra, contraddistinta, come abbiamo già ricordato, da una ma ggioranza parlamentare contraria all'intervento, da un partito socialista schierato su posizioni pacifiste, da un paese tutt'altro che compattamente allineato su posizioni patriottiche, e, 92 L'obiettivo dell'Opera nazionale combattenti (istituita con decreto del dicembre 1917) era di avviare i reduci al lavoro attraverso una riqualificazione professionale, mediante la creazione di cooperative e l'as segnazione di terre incolte. L'Opera fu regolata il 16 gennaio 1919: essa comprendeva tre settori: uno agrario (co stituzione di un patrimonio terriero, concessioni in utenza), uno sociale (ripresa del lavoro, promozione di associazioni e cooperative), e uno finanziario (crediti ai combattenti). Nel 1918 prese l'avvio anche il progetto per la costituzione del consorzio di credito per le opere pubbliche (creato nel 1919, ma che iniziò a funzionare solo nel 1924). Sia la «polizza del combatten te», sia l'ONC che il CREDIOP (come l'avvio della gestione dell'Istituto nazionale cambi con l'estero) furono iniziative di Beneduce, stretto collaboratore di Nitti, cfr. F. Bonelli, A. Beneduce, in A. Mort ara (a cura di), I protagonisti dell'intervento pubblico in Italia, Milano 1984, p. 336; L. De Rosa, Nitti, Ibidem, pp. 230- 36; Fava, cit., pp. 178, 185; sull'Opera nazionale combattenti, cfr. G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra , Bari 1974, p. 10. Negli anni di guerra si erano formati un'Opera nazionale per gli orfani di guerra (1916), e vari comitati pubblici e privati, provinciali e comunali, cfr. M. Casalini, L'assistenza agli orfani dei contadini caduti in guerra , in «La Nuova Antologia», 1.12.1916, pp. 361 SGG.; A. Farace, I patronati per gli orfani dei contadini morti in guerra , Ibidem, 1.4.1917, pp. 330 sgg. 93 Su circa cinque milioni a disposizione del Commissariato, all'assistenza furono devoluti - dal 10 febbraio 1918 al 31 marzo 1919 - 37.659 lire (di cui solo 7.820 fino al 30 settembre 1918). «In proporzione a questa cifra, si può dire che la Propaganda Interna, come spesa, rappresentò tutta la gestione Comandini», cfr. Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta, cit., pp. 34-35 e sgg.; sul Ministero per l'Assistenza milit are, cfr. Serpieri, cit., p. 25. Welfare-Warfare 35 non ultimo, da un governo, retto da un vecchio esponente della Destra, quale Salandra (con agli Esteri il campione dell'autoritarismo politico, S. Sonnino), che non era riuscito a imporre lo stato d'assedio dopo la «settimana rossa», e per il quale la guerra costituiva l'occasione da tempo agognata della riscossa. Avvenne così che l'Italia si allontanasse da lla tradizione democratica inaugurata da Giolitti, e si differenziasse, rispetto alle prerogative lasciate al Parlamento, non solo da Francia e Gran Bretagna, ma anche dalla stessa Ge rmania - che volle ottenere il consenso dell'istituto legislativo in alcune decisioni basilari (come l'applicazione del servizio obbligatorio). L'Italia si trovò a condividere con i regimi più arretrati ed autoritari - come l'Austria, la Russia e la Turchia - la quasi totale mancanza di ruolo politico dell'organo di rappresentanza.94 Per altri versi, la spaccatura tra interventisti e neutralisti (questi ultimi già nel 1914 definiti quali «nemici interni») impostò fin dall'inizio la vita politica in termini di crociata patriottica, impedendo la realizzazione di una seppur limitata conciliazione nazionale. Date queste premesse, il compito di conseguire la resistenza interna fu affidato essenzialmente alla politica coercitiva . Il dissenso, sia politico che comune, venne demonizzato e perseguito capillarmente, fino a giungere, a partire dalla seconda metà del 1917, e soprattutto nel 1918, a forme persecutorie di tipo totalitario, nelle quali si combinarono il grottesco e il drammatico. Anche sotto questo aspetto, la situazione italiana ebbe molti caratteri in comune con quella degli Imperi Centrali. Nonostante la disponibilità espressa dai riformisti del partito socialista e dei sindacati, solo tardivamente fu concesso un maggiore spazio all'azione delle forze sindacali, come diremo oltre. Ma nessuna modifica si verificò sul piano politico, nonostante che l'impatto emotivo prodotto dalla rotta di Caporetto avesse aperto nuove prospettive di conciliazione interna. Al contrario, proprio tali prospettive fecero riprendere forza alla destra, che si coalizzò e, forte del nuovo clima creatosi dopo la rotta, riuscì ad imporre una ult eriore sterzata repressiva. I tentativi di riforma strutturale di Nitti, se ottennero dei risultati sul piano della ripresa economica e dei rapporti con gli alleati - fondamentali per l'invio di rifornimenti industriali e alimentari - non ebbero effetti di rilievo, come già abbiamo riferito, sul piano sociale e dell'assistenza. 2.1 - Riguardo alla legislazione del lavoro, fino al 1917 non videro la luce provvedimenti protettivi. Al contrario già a partire dall'agosto del 1914 fu data facoltà di sospendere le norme di tutela del lavoro femminile e minorile, riguardo a orari e turni (lavoro notturno, riposo settimanale). 95 Inoltre la guerra determinò l'interruzione dell'attività di controllo governativo: il servizio ispettivo, istituito nell'anteguerra, cessò infatti praticamente di funzionare, dato che il Ministero non aveva chiesto l'esonero del personale dell'Ispettorato del lavoro, che fu quindi in gran parte richiamato alle armi.96 94 Per questo sotto-paragrafo, rinvio al mio Dalla rassegnazione alla rivolta, cit., pp. 11-20 e passim. 95 Co n decreto 13.6.1915, n. 889, fu sospeso anche l'obbligo scolastico per i figli dei richiamati, cfr. De Stefani, cit., p. 20; sui provvedimenti nei primi anni di guerra, cfr. Cherubini, cit., pp. 94 sgg.; ID., Note sulle assicurazioni sociali in Italia dal 1915 al 1921, in «Previdenza sociale», 1971, 1, pp. 41 sgg. 96 Bachi, L'Italia economica nel 1917, cit., p. 199; Tomassini, Lavoro e guerra , cit., p. 128. Nel 1914 l'Ispettorato disponeva di 46 funzionari e aveva proceduto a 8.316 ispezioni. Dalla seconda metà del 1915 l'attività si ridusse notevolmente: dalle 8.243 aziende visitate nel 1915 si passò alle 3.418 nel 1916 e alle 1.567 nel 1917, Bianchi, Salute e intervento, cit., pp. 145 sgg. 36 Giovanna Procacci L'obiettivo di perseguire la massima utilizzazione della forza lavoro disponibile, ai fini dello sforzo produttivo, condusse le imprese - come avvertì il Bachi - ad abbandonare le più elementari misure protettive e pratiche profilattiche, e ad accumulare lavoratori in locali in sufficienti e inadeguati. 97 Forti della giustificazione patriottica, gli industriali attuarono livelli di sfruttamento non dissimili da quelli sperimentati ai tempi della prima industrializzazione alla fine del XIX secolo: turni fino a 18 ore consecutive, intensificazione del cottimo, ecc. Delle condizioni spesso insostenibili furono riprova estrema la richiesta di essere rinviati al fronte da parte di militari «comandati» in fabbrica (il cui salario era talmente basso da non poter sopperire alle necessità familiari), e il verificarsi addirittura di casi di suicidio.98 L'incremento massiccio della manodopera femminile, l'aumento impressionante degli infortuni - a causa dell'intensità dei ritmi, degli orari prolungati, dell'assenza di adeguate condizioni di sicurezza, dello stesso stato di ignoranza del rischio nel quale veniva tenuto l'operaio nuovo del mestiere -99 , e il numero crescente di sospensioni del lavoro per malattia condussero tuttavia la Mobilitazione industriale (MI) a intervenire riguardo alle condizioni di vita e lavoro in fabbrica. 100 In seguito alle sollecitazioni di Cabrini, che nell'estate del 1916 era stato ammesso a far parte del Comitato centrale di Mobilitazione industriale (CCMI), e a due interventi alla Camera, nel novembre 1916 e nel marzo 1917, di Turati (che fece notare come l'Italia si distinguesse in negativo da tutti gli altri paesi belligeranti circa la legislazione di tutela, gli orari e l'igiene), nel 1917 furono reintegrate alcune delle 97 Bachi, L'Italia economica nel 1917, cit., p. 198. Commissione parlamentare d'Inchiesta, cit., II, p. 126; sulle precarie condizioni di sicurezza, cfr. B. Bianchi, Salute e rendimento, cit., pp. 108-14, 122, 124. 99 Come riconosceva il «Bollettino del CC di M.I.», febbraio-marzo 1918, pp. 98-103. Il «Bollettino» ammetteva anche che gli infortuni aumentavano con il passare delle ore di lavoro, e che erano più frequenti tra i cottimisti. Il livello degli infortuni fu elevatissimo nelle industrie metallurgiche e meccaniche (addirittura il 33,95%), più basso in quelle chimiche ed esplosive (16,77%), nelle estrattive e edilizie (8,79%), e nelle altre (16,62%). Il numero medio del totale degli infortuni diminuì nel 1918 rispetto a ll'anno precedente, ma aumentò la percentuale degli infortuni mortali, Ibidem e «Annuario statistico», 1917-1918, 1919-1922, pp. 351, 422. 100 Nell'agosto del 1916 era stato promulgato un regolamento per l'applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (libretto di lavoro, norme sulla tutela igienica in fabbrica), che però era rimasto inapplicato: gli industriali avevano sostenuto che erano convinti che le disposizione di legge non avessero valore «quando la vita era sacrificata alle necessità di guerra» (Bianchi, Salute e intervento , cit., p. 147). I sindacati (FIOM, CGdL) avevano richiesto, sulla base di un'inchiesta i nglese del 1915, che gli orari per le maestranze femminili non superassero le otto ore, e che anche in Italia, come in Francia, fossero istituiti nelle fabbriche refettori, sale di allattamento, spogliatoi e gabinetti separati. Ma quando Cabrini aveva sollecitato, in una riunione del CCMI degli inizi di ottobre 1916, l'applicazione di norme di tutela e la ripresa delle funzioni dell'Ispettorato del lavoro, aveva suscitato la reazione negativa di Pio Carbonelli, direttore della M.I., che aveva sostenuto non essere il momento di parlare di tutela del lavoro femminile e di previdenza obbligatoria, criteri che avrebbero costituito pericolose intromissioni nell'organizzazione delle industrie (non si voleva infatti che organismi es tranei alla M.I., come l'Ispettorato, potessero interferire con questa). Tuttavia il CC di M.I. aveva accolto la proposta del ministro dell'Industria e Commercio e lavoro di ripristinare il funzionamento dell'Ufficio del lavoro, al fine di constatare l'osservanza delle norme di tutela, soprattutto nei confronti del lavoro femminile, mantenendo salve - assicurava Dallolio - «quell'autonomia e quella libertà di agire e d'iniziativa che costituisce la base nella quale fu edificata questa organizzazione [la M.I.]» (cfr. CC del 5-6 ottobre, di cui Dallolio riferisce l'11 ottobre al ministro dell'Industria, cfr. Archivio Centrale dello Stato, Carte Boselli, sc. 1, f. 3, carta 11. La lettera di Carbonelli è Ibidem f. 15). 98 Welfare-Warfare 37 norme sul lavoro femminile e minorile (ma va notato come i nuovi provvedimenti di tutela fossero preceduti da un inasprimento delle norme disciplinari riguardanti donne e ragazzi, emanate nell'autunno del 1916). 101 Sempre nel 1917 fu riv ista la normativa circa la Casa maternità (che verrà completata nel 1919), e furono soprattutto controllate le condizioni igieniche. L'intervento di maggior rilievo, sollecitato dalla preoccupazione che l'eccessivo prolungamento degli orari e l'intensità del lavoro a cottimo potessero produrre un affaticamento eccessivo e un conseguente rallentamento della produttività, fu l'istituzione nel 1917 di una sezione della M.I., dedicata alla Vigilanza igienico-sanitaria. Il servizio, che iniziò a funzionare a partire dall'estate, fu fornito nel 1918 di 105 ispettori (ma in Gran Bretagna erano 800); secondo le relazioni ufficiali, esso attuò dal giugno 1917 al novembre 1918 1.760 ispezioni negli stabilimenti, e controllò 10.473 operai. 102 Gli ispettori avevano il compito di controllare sia le condizioni di lavoro e l'osservanza delle norme, sia le giustificazioni di malattia effettuate dai medici militari: scopo non secondario - e dichiarato - dell'iniziativa era infatti quello «di rendere più estesa e stabile l'occupazione femminile», attraverso la verif ica dei certificati di mala ttia (presto il servizio si estese anche al resto della manodopera); ogni Comitato regionale fu pertanto dotato di un medico. Nel 1918 i controlli sulle assenze per malattie furono resi più rigidi, e fu disposto che i medici privati non fossero abilitati a rilasciare certificati agli operai militari (i quali, se malati, non potevano essere inviati in fa miglia, e non ricevevano nessun assegno).103 Qualunque fosse lo scopo delle ispezioni - che davano luogo a rapporti mensili (purtroppo estremamente scarni riguardo alle situazioni interne alla fabbrica) - tuttavia esse ebbero l'effetto di introdurre il principio dell'esistenza delle malattie professionali, e di mettere in rilievo le precarie condizioni di lavoro nella maggior parte degli stabilimenti presi in esame, soprattutto nelle aziende medie e piccole, e in quelle nate con la guerra, dove spesso fu rilevata la quasi totale mancanza di norme di sicurezza e di igiene. Fu anche messa in luce l'altrettanto abissale differenza esistente tra le industrie del nord e quelle del sud. Il servizio 101 Le norme emanate nel 1917 prevedevano che i Comitati regionali regolassero gli orari (non superiori a 60 ore settimanali), i turni, il lavoro notturno (proibito alle minori di 18 anni e ai fanciulli), il riposo settimanale, e avessero facoltà di emettere prescrizioni riguardo alla tutela igienica e disciplinare, i locali di lavoro, quelli di allattamento ecc.; furono costituiti un Ufficio del lavoro femminile nelle industrie di guerra presso il CC di M.I., e uffici nei comitati regionali, che entrarono a funzionare però solo verso giugno. Dallolio nel febbraio 1917 aveva incaricato Enrico Toniolo, segretario della M.I., di redigere una «memoria segreta» sulle condizioni del lavoro femminile e minorile, per indagare sullo «sfibramento» delle maestranze, già evidente dalle inchieste compiute in altri paesi, e sul conseguente rallentamento dell'attività produttiva. Veniva quindi prendendo piede l'idea di realizzare un ufficio ispettivo all'interno della M.I., come avverrà appunto con l'istituzione della Vigilanza igienico-sanitaria. Su tutta la questio ne, cfr. Tomassini, Lavoro e guerra, cit., pp. 127-135, 153157; B. Curli, Italiane al lavoro, 1914-1920, Venezia 1998, pp. 80 sgg.; sulle norme disciplinari dell'autunno 1916, cfr. G. Procacci, La legislazione repressiva, cit. 102 Cfr. Tomassini, Lavoro e guerra , cit., pp. 157-9; Curli, cit., pp. 121 sgg.; Bianchi, Salute e intervento, cit., pp. 146 (con ulteriori dati). 103 «Bollettino del Comitato centrale di Mobilitazione industriale», luglio 1918, pp. 249 sgg.; in caso di infortunio, all'operaio spettava l'indennità per un massimo di tre mesi. Nel 1918 in Liguria erano state istituite 41 sedi per il controllo sanitario, 35 in Lombardia e 29 in Piemonte, cfr. Bianchi, Salute e inte rvento, cit., p. 156. 38 Giovanna Procacci si occupò - seppur marginalmente - anche di altre questioni, come quelle riguardanti il razionamento dei viveri da parte dell'azienda e l'istituzione di mense di fabbrica.104 Nonostante l'importanza teorica delle iniziative governative, sotto l'aspetto del migliora mento delle condizioni di lavoro l'efficacia delle ispezioni fu assai ridotta, nonostante i richiami degli organi della M.I. affinché venissero applicate le norme di tutela e di sicurezza. Non esisteva infatti da parte dello stato la possibilità (e la volontà) di applicare sanzioni, dal momento che lo stesso regolamento della M.I. dichiarava esplicitamente che non doveva no esservi inframettenze pubbliche nella gestione tecnica ed economica delle aziende, né in quella della utilizzazione della manodopera e delle condizioni di lavoro; e una circolare del CCMI del giugno 1917 ribadì che l'elaborazione delle norme igieniche doveva tener presenti «non solo le speciali condizioni delle industrie, ma anche le esigenze attuali della difesa nazionale», per cui la scelta dei mezzi pratici per la tutela della salute delle ma estranze doveva essere «lasciata interamente a criterio dell'industriale». 105 Pertanto, come fu riconosciuto dall'Ispettorato del lavoro, fu «quasi normale l'inosservanza delle più semplici norme di igiene del la voro». 106 Le motivazioni patriottiche permisero così di eludere anche i più elementari criteri di sicurezza e di tutela della salute, e di ignorare il problema della prevenzione delle malattie professionali. Nel 1917 vennero imposte dallo stato alcune importanti norme assicurative e previdenziali: assicurazione infortunistica per i lavoratori agricoli, iscrizione obbligatoria alla Cassa previdenza per invalidità e vecchiaia per lavoratori in industrie ausiliarie (esteso nel dopoguerra a tutti i lavoratori dipendenti). Di tali innovazioni legislative parleremo diffusamente nel prossimo paragrafo. Ci limitiamo al momento ad osservare che, se limitata efficacia ebbero le ispezioni, anche tali norme ebbero limitatissima applicazione, quelle riguardanti i lavoratori industriali venendo osservate solo nelle grandi aziende. 2.2 - Molti degli aspetti della tensione politica e sociale sviluppatasi in Italia seguir ono, soprattutto a partire dalla seconda metà del 1917, una via analoga a quella percorsa in Ge rmania (scioperi a contenuto politico contro la militarizzazione, acutizzazione del contrasto sociale e politico, rafforzamento della destra, ecc.). Anche all'interno dell'organizzazione produttiva e delle relazioni industriali, l'Italia si ispirò al modello tedesco.107 Nel 1918, su esempio della Germania, fu tentata anche l'instaurazione di un servizio volontario civile (d.l. 12.2.1918, n. 146), che doveva coinvolgere i cittadini tra i 14 e i 60 anni, ed essere coattivo se le offerte non fossero state adeguate; ma il provvedimento risultò un totale insuccesso, poiché - secondo il Bachi - il rialzo delle retribuzioni aveva richiamato nelle industrie e nei servizi tutte le braccia valide. A un fallimento analogo fu destinata la Mobilit azione agraria, (d.l. 12.5.1918, n. 661), che avrebbe dovuto svolgere il compito di precettare 104 Il CC di M.I. insistette anche perché venissero istituite, all'interno delle ditte, cooperative per la distribuzione di generi di prima necessità (o che i generi venissero direttamente distribuiti agli operai a prezzi calmierati), o che si organizzassero cucine popolari e refettori (Archivio Centrale dello Stato, Ministero per le Armi e le Munizioni, Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale , b. 124). 105 Circolare del 26 giugno, cit. da Bianchi, Salute e intervento, cit., p 148. 106 Curli, cit., pp. 85. 107 Per l'organizzazione della M.I., si rinvia, oltre a Tomassini, Lavoro e guerra, cit., al classico V. Franchini, La Mobilitazione industriale dell'Italia in guerra, Roma 1932 (Franchini aveva fatto parte del CCMI; l'opera fu commissionata da Mussolini, evidentemente in vista di un futuro conflitto). Alla fine della guerra erano sottoposte alla M.I. 1.976 imprese, con 903.000 dipendenti. Welfare-Warfare 39 la mano d'opera per alcuni lavori agricoli. Non mancarono anche richieste di militarizzazione del lavoro agricolo e di calmiere contro gli aumenti salariali, cadute però nel vuoto.108 L'organizzazione dell'istituto della Mobilitazione industriale fu ricalcata su quella della Germania. Ma i provvedimenti coattivi, motivati con l'opposizione alla guerra dei socialisti e della loro base operaia, furono in Italia più rigidi che in Germania (e più precoci: furono infatti introdotti con l'entrata in guerra; in Germania, solo dopo l'a pprovazione del servizio ausiliario nel dicembre 1916). Proibito lo sciopero in base alle leggi eccezionali emanate all'inizio del conflitto (che vietavano gli assembramenti), venne attivato un meccanismo arbitrale: le controversie, che non fossero state risolte in sede aziendale, venivano sottoposte a Comitati regionali e in terza istanza al Comitato centrale di M.I.; i licenziamenti, le dimissioni, i trasferimenti di personale erano sottoposti al parere vinc olante dei Comitati regionali. Oltre ad affidare, su esempio tedesco, la dirigenza dell'istituto a un militare, e a stabilire con norme rigide la tipologia dell'intervento nelle relazioni industriali, l'Italia impose, a differenza della Germania e come invece era statuito nella più industrialmente arretrata Austria, la militarizzazione totale (compresi cioè donne e ragazzi) della classe operaia impiegata negli stabilimenti decisi come «ausiliari»; ciò rendeva rigidissimo il vincolo al posto di lavoro, con la conseguenza non solo di non rendere possibile la concorrenza tra imprese in una fase di penuria di mano d'opera - motivo per il quale il vincolo era stato adottato anche in altri paesi - ma di ridurre a uno stato di lavoratore coatto l'operaio («lavoro forzato», lo definisce Einaudi), al quale non veniva neppure concesso di autolicenziarsi per impossibilità di resistere ai ritmi e agli orari previsti (era questa una condizione ricorrente tra lavoratrici giovani e ragazzi). Di più: se il lavoratore maschio esonerato non risultava idoneo a sopportare le fatiche del lavoro di fabbrica, «per motivi di salute» - come sta scritto nelle motivazioni ufficiali - veniva inviato al fronte a combattere.109 A differenza della Germania e della Gran Bretagna, la soluzione dal vincolo al posto di lavoro non fu inoltre in Italia legata a una «giusta causa», ma decisa insindacalmente dai Comitati regionali. Scopo precipuo della M.I., come fu esplicitamente ammesso dagli organiz zatori del congegno, era infatti quello di «fissare la manodopera al posto di lavoro», ovvero di porre sotto il controllo dello stato, e in particolare dei militari, i rapporti di lavoro, e di impedire la conflittualità.110 In caso di disobbedienza, l'operaio veniva deferito al Tribunale militare. In Germania il vincolo fu bocciato, nonostante che a favore di esso si battesse von Falkenayn, perché - fu detto - il lavoro coatto avrebbe significato «paralizzare e distruggere la buona volontà degli operai, che prenderebbero il provvedimento come a favore degli im108 Cfr. Bachi, L'Italia economica nel 1918, cit., pp. 301-3. Sulla Mobilitazione agraria e suoi compiti (non realizzati), cfr. F. Piva, Mobilitazione agraria e tendenze dell'associazionismo padronale durante la «grande guerra», in «Quaderni storici», 1977, 36, pp. 808-35. 109 Come scriveva un ispettore, inviato in Calabria, il 1 febbraio 1918, «gli esonerati non addetti ai lavori, o con salute non sufficiente», vengono rinviati dal Comitato regionale di Mobilitazione industriale, su richiesta degli industriali, al fronte, per cessato esonero. Ciò che tuttavia colpiva l'ispettore non era tanto questo provvedimento - evidentemente diffuso - quanto il fatto che l'operaio non veniva pagato nel periodo, di almeno 15 giorni, che intercorreva tra la richiesta e la concessione del cessato esonero; Archivio Centrale dello Stato, Ministero per le Armi e le Munizioni, Comitato Centrale di Mobilit azione Indu striale, b. 124. 110 La definizione è di U. Ancona, uno degli estensori del progetto della M.I. (cfr. Tomassini, Lavoro e guerra, cit., pp. 93 sgg.). Questa rigidità normativa venne acquisita dalla Russia durante il periodo del comunismo di guerra. Per questa specifica condizione, il modello ispiratore non fu quindi quello tedesco, come generalmente si è sostenuto, ma quello, ben più coattivo, italo -austriaco. 40 Giovanna Procacci prenditori»; l'approvazione del vincolo avrebbe insomma «compromessa la fiducia di tutta una serie di strati popolari». 111 L'opportunità di ottenere il consenso ispirò dunque in larga misura l'azione dei militari in Germania (e ricordo anche che in Germania la legge sul servizio ausiliario venne presentata per l'approvazione al parlamento, mentre in Italia la legislazione passò per decreto). La maggiore rigidità e durezza disciplinare del sistema italiano può essere attribuita anche al fatto che in Italia, rispetto alla Germania, fu più forte il potere di pressione sugli organi dello stato da parte dell'industria di guerra, il cui sviluppo - date le limitate e insufficienti condizioni di industrializzazione del paese alla vigilia del conflitto - era pregiudiziale al progetto militare deciso con l'intervento. Il «primo miracolo economico italiano» - come è stato definito lo sviluppo industriale del periodo bellico -112 si realizzò grazie a vantaggi enormi concessi dallo stato all'imprenditoria: nessuna intromissione pubblica nell'organizzazione della produzione, nessun controllo tecnico e contabile sui costi effettivi dei manufatti, anticipazione fino all'80% delle materie prime e prezzi politici di esse, libertà di decisione su ritmi e orari, e, riguardo al controllo sociale, normativa disciplinare rigidissima. Il concetto dominante che permeò l'intervento dello stato, mantenuto tale per tutta la durata del conflitto, fu quello di «evitare ingerenze che turbassero la libertà industriale».113 Nonostante l'espansione delle funzioni statali verificatasi con il progredire della guerra, e la dilatazione del comple sso organismo burocratico che faceva capo alla M.I., l'azione dello stato non riuscì a oltrepassare di molto i confini decisi dagli industriali, neppure, come abbiamo visto, quando fu stabilito di compiere ispezioni. Ciò non signif icò, tuttavia, che gli industriali non nutrissero diffidenza verso l'interventismo statale, e non opponessero resistenze, fino a imporre la destrutturazione dell'Istituto della Mobilitazione industriale appena finita la guerra. A tale diffidenza è probabilmente da attribuire anche il fatto che in Italia, a differenza di altri paesi belligeranti, non si costituì nel dopoguerra un organismo delegato ai problemi della conversione e ricostruzione industriale.114 Su una funzione attuata dallo stato gli industriali si trovarono però pienamente concordi: sul controllo della forza lavoro. Le regole disciplinari preventive e repressive furono rigidissime: esse venivano imposte da personale di sorveglianza militare, presente in fabbrica, e, nei casi considerati più gravi, dai tribunali militari, ai quali venivano deferiti i colpevoli. Esse andavano dalla prigione al rinvio al fronte (se operai esonerati), a una larghissima applic a zione di multe, che decurtavano i salari, già minati dalla elevatissima inflazione. Severe le 111 Hardach, cit., pp. 208-9. M. De Cecco - A. Pedone, Le istituzioni dell'economia, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello stato italia no, cit., p. 261. 113 «Si volevano evitare ingerenze che turbassero la libertà degli industriali nel funzionamento tecnico e contabile delle loro aziende [...] nella speranza così di ottenere il massimo rendimento», cfr. Commissio ne parlamentare d'inchiesta, II, cit., pp. 9 sgg. Sull'enorme potere delle nuove concentrazioni «di interessi e di affari», insiste Bachi: «I nuclei d'affari che sono sorti giganti nel nostro paese [...] costituiscono una grave minaccia per l'economia e per la vita nazionale [...]. L'entità di questi organismi affida nelle mani di pochissimi uomini un potere incalcolabile sulla vita economica nazionale, e, quel che è più, nella vita politica, sulle vicende sociali, sulle direttive morali della collettività, superiore forse al potere di talune tra le autorità costituite» (Bachi, L'Italia economica nel 1917, cit., p. VIII). 114 L. Segreto, Statalismo e antistatalismo nell'industria bellica. Gli industriali e la Mobilitazione industriale (1915-1918), in P. Hertner - G. Mori (a cura di), La transizione dall'economia di guerra all'ec onomia di pace in Italia e in Germania dopo la Prima guerra mo ndiale, Bologna 1983, p. 333. 112 Welfare-Warfare 41 pene, ma soprattutto applicate per colpe inesistenti o irrisorie o per ma ncanze incolpevoli (logorio del macchinario che impediva di svolgere il lavoro a «opera d'arte», ritardo all'entrata in fabbrica, determinato sovente dalla mancanza di mezzi di comunicazione o dal clima: molti operai giungevano in fabbrica a piedi, percorrendo anche decine di chilometri), rifiuto di compiere un'operazione pericolosa (rifiuto che, data la militarizzazione, corrispondeva al reato, gravissimo, di disobbedienza verso superiore gerarchico), ecc. 115 Poco poterono compiere, nell'ambito dell'organizzazione del lavoro e della disciplina, i sindacati. Nonostante che si fossero resi fin dall'inizio del conflitto disponibili alla collaborazione, pesava su di essi il legame con il partito socialista, e, soprattutto, la tradizionale ostilità padronale nei loro confronti. Solo grazie agli immensi benefici offerti all'industria dallo stato, sia in ambito economico che in quello del controllo sociale, gli imprenditori - o meglio, una parte di essi, i settori più avanzati tecnologicamente della meccanica e della metallurgia, ma non i siderurgici - accettarono la linea della M.I. e di Dallolio, il quale, come Groener in Germania, si differenziava dalla rigida posizione autoritaria e repressiva dei comandi militari, sottoposti gerarchicamente al Comando supremo, e propendeva per l'applicazione dei metodi conciliativi (non escludendo però il ricorso a quelli repressivi se veniva travalicato il limite della contrattazione economica). A differenza di quanto avvenne in Inghilterra, dove i sindacati svolsero funzioni basilari all'interno dell'organizzazione del mercato del lavoro, e a differenza anche della Germania, dove le organizzazioni sindacali furono accettate come effettiva controparte fin dall'approvazione del servizio ausiliario, in Italia il rapporto con i sindacati fu sempre controverso, e il loro riconoscimento limitato e tardivo. 116 Il sindacato fu in Italia escluso dalla contrattazione dei ritmi e degli orari e da tutte le questioni riguardanti l'organizzazione del lavoro e la disciplina; ad esso restò in mano la non secondaria questione della difesa dei livelli salariali, della struttura del salario, delle indennità, del rapporto tra salario e costo della vita, ecc.: settori nei quali, attraverso la contrattazione arbitrale, il sindacato riuscì ad ottenere notevoli risult ati, comprese conquiste di categoria estese a tutto il territorio nazionale; ma non tali da mettere a tacere il malcontento operaio, determinato dalle condizioni generali di lavoro, e in particolare dalle norme disciplinari. Nonostante l'aumento degli iscritti, anche in Italia le forze sindacali furono scavalcate a sinistra. Solo la vivacità delle lotte del dopoguerra restituì ai sindacati parte della loro autorità. 7. LA LEGISLAZIONE SOCIALE TRA GUERRA E DOPOGUERRA. Il timore di agitazioni sociali e la necessità di dimostrare che i sacrifici compiuti dalle popolazioni avevano avuto un senso e che meritavano pertanto una ricompensa, spinsero nel dopoguerra tutti i governi a procedere alla progettazione e all'attuazione di un piano di riforme sociali. Era essenziale, infatti, da parte dei belligeranti, poter dimostrare che non solo in Russia, e non necessariamente attraverso una rivoluzione, la guerra aveva prodotto 115 La dottrina discusse se l'operaio che aveva lasciato il posto di lavoro dovesse venire fucilato, dato che il reato era equiparato alla diserzione. Per la casistica e i dati statistici, rinvio al mio La legislazione r epressiva, cit. 116 Nel 1916 rappresentanti sindacali furono inseriti in una «Commissione cottimi», dove, insieme a esponenti industriali (assenti però i rappresentanti governativi, al fine di mantenere informale il rapporto), venivano discussi, oltre ai termini dell'intensificazione del lavoro, anche questioni riguardanti la previdenza e lo stesso assetto industriale nel dopoguerra. Ma solo nel luglio 1917, i sindacati furono ammessi a far parte del CC di M.I., come rappresentanti ufficiali della classe operaia, a fianco di quelli degli industriali e degli esponenti governativi (d.l. 16.7.1917, n. 1.903). 42 Giovanna Procacci maggiore uguaglianza. Così, la repubblica di Weimar sancì nella costituzione il dovere dello stato di intervenire a organizzare la vita economica secondo principi di giustizia sociale, e, in riferimento all'esperienza dei soviet in Russia, riconobbe la legittimità dei consigli di fabbrica. Per quanto riguarda il meccanismo degli incontri triangolari tra le parti adottato in periodo bellico (imprenditori, operai, stato), la pratica non resse in Europa all'ondata di ritorno del liberismo postbellico, e all'impatto con l'intransigenza di alcuni settori industriali. Tuttavia l'esperienza di dialogo con le forze sindacali, riconosciute ufficia lmente come controparti, non andò perduta (almeno nell'immediato dopoguerra), e condusse all'affermazione di varie conquiste nell' ambito del lavoro, fino ad allora solo parzialmente attuate: come l'applicazione generalizzata dell'orario di 8 ore, dei contratti collettivi, delle commissioni interne, della tutela delle donne e dei minori, dei sussidi per la disoccupazione, ecc. A sanzione del nuovo riconoscimento dei diritti operai, fu decisa a Versailles nel giugno del 1919 la costituzione dell'Ufficio internazionale del lavoro - che comprendeva rappresentanti dei governi e dei sindacati padronali e operai - i cui obiettivi urgenti furono individuati nella lotta alla disoccupazione, nella protezione contro le malattie generali e professionali e contro gli infortuni, nella tutela delle donne e dei fanciu lli, nelle pensioni di invalidità e vecchiaia, nella libertà sindacale.117 Nell'immediato dopoguerra giunsero a compimento molte delle riforme assicurative e pre videnziali che già a partire dal 1917 avevano iniziato ad essere affrontate dai vari paesi belligeranti. Al centro delle attenzioni dei governi era essenzialmente la condizione della classe lavoratrice dell'industria e, secondariamente, delle campagne. Lo scopo apertamente preventivo della legislazione sociale portava infatti a preoccuparsi soprattutto di quei settori dai quali si potevano attendere i principali, e più pericolosi, fenomeni di conflittualità. Sebbene la guerra 1914-1918 avesse dato il via a un intervento pubblico nel sociale di tipo collettivo, essa non indusse a intraprendere quella svolta verso una legislazione a carattere universalistico, rivolta cioè a tutta la popolazione in quanto «cittadinanza», alla quale portò la seconda guerra mondiale, con il suo carico di «lacrime e sangue». In generale, la legislazione emanata tra le due guerre rimase per la maggior parte arginata al principio occupazionale, relativo quindi ai soli settori lavorativi. 118 In Gran Bretagna, le principali riforme determinate dalla guerra furono il suffragio universale e l'estensione nel 1920 dell'assicurazione statale obbligatoria contro la disoccupazione - che nell'anteguerra era stata prevista per pochi gruppi - a tutti i lavoratori. Anche se il piano di riforme non fu di particolare rilievo,119 tuttavia, grazie al proseguimento di una po117 Alcuni principi, riguardanti la maternità, furono inseriti nella convenzione internazionale di Washington del 1919, e nella raccomandazione di Ginevra del 1921: su queste e altre convenzioni e raccomandazioni, cfr. Cherubini, Storia della previdenza sociale, cit., pp. 251. 118 I processi assicurativi furono potenziati e consolidati soprattutto negli anni 1915-20, poi in quelli 1925-29 e alla fine degli anni '30 nei paesi scandinavi, dove si passò dall'assicurazione ai lavoratori a un'assicurazione popolare. In Russia, dopo la rivoluzione d'ottobre fu attuato un esteso, articolato e costoso sistema di sicurezza sociale, in larga misura gestito dai sindacati. La tutela dei lavoratori in caso di vecchiaia, invalidità e malattia fu attuata in URSS a totale carico dello stato, senza contributi dei lavoratori; le prestazioni erano però legate anche qui all'obbligo lavorativo, cfr. Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., pp. 100, 105-11, 135; Bartocci, Alle origini del welfare state, cit., p. 40. 119 La guerra non produsse effetti acceleratori della legislazione sociale in Gran Bretagna, né rese stabile la pratica arbitrale, che infatti fu abbandonata alla fine della guerra. Anzi, secondo alcuni autori, essa rallentò il processo di evoluzione sociale e politica, deviando l'interesse pubblico dalle ri- Welfare-Warfare 43 litica intelligente - estensione dell'assicurazione statale obbligatoria e cospicui sussidi ai disoccupati, fin anziamento statale delle abitazioni popolari, prevenzione sanitaria, ecc. - l'Inghilterra mantenne elevato il proprio livello di welfare, soprattutto con il 1925, quando il sistema di assistenza per tutti gli anziani bisognosi (finanziato con prelievi fiscali), fu integrato con un'assicurazione pensionistica. In Germania la guerra produsse profondi mutamenti di rotta. Come scrive Ritter, la trasformazione della tradizionale assistenza ai poveri in un moderna politica del benessere, iniziata già prima del 1914, si sviluppò negli anni di guerra in Germania, con la forte espansione dello stato interventista e sociale, inteso come strumento di risoluzione delle crisi sociali. I fondamenti dello stato sociale furono dunque, a parere di Ritter, posti tra il 1914 e il 1918, ancor prima di Weimar, grazie al riconoscimento dei sindacati e della libertà di associazione, dei comitati operai e degli istituti di arbitrato, e grazie all'estensione dei contratti collettivi, dei sussidi di disoccupazione, delle misure di difesa dei lavoratori e delle donne, e al diritto al fitto a equo canone. 120 In seguito la repubblica di Weimar perfezionò l'intervento: infatti, oltre introdurre fondamentali diritti politici - suffragio universale anche femminile, elezione diretta del presidente repubblica, ecc. - fu il primo paese ad inserire i diritti sociali nella costituzione, sancendo il diritto al lavoro e al mantenimento e un articolato sistema assicurativo, per salute, maternità, vecchiaia, invalidità, insieme all'obiettivo di «garantire a tutti un'esistenza dignitosa»: principi, la cui attuazione fu poi purtroppo nullificata dal susseguirsi degli eventi economici e politici del paese.121 Se dunque l'Inghilterra fu indotta dagli eventi bellici a perfezionare il sistema assic urativo avviato nell'anteguerra, a sua volta la Germania si aprì negli anni del conflitto e del dopoguerra ai principi assistenziali: i due modelli raggiunsero così una piena compenetrazione, anche se rimase preminente, come abbiamo più volte ricordato, l'intervento in ambito occupazionale. Passiamo all'Italia. Come abbiamo visto, il nostro paese si mosse su scie analoghe, l'assicurativa e l'assistenziale, con una netta prevalenza però della prima sulla seconda. Come è stato scritto, la guerra valse ad enucleare in materia drammatica l'insufficienza in Italia del sistema previdenziale, non solo per quanto riguarda l'invalidità e la pensionistica specifiche (cioè dipendenti da cause belliche), ma per quanto riguarda l'aumento degli infortuni connesso alla mobilitazione induforme sociali, che nell'anteguerra avevano conosciuto uno dei periodi più fertili; contro il riformismo si produsse nel dopoguerra una reazione, cfr. in tal senso M. Freeden, Partiti e ideologie nella Gran Bretagna postbellica, in F. Grassi Orsini - G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico dalla grande guerra al fascismo , Bologna 1996, pp. 154 sgg.; cfr. anche Milward, cit., pp. 41, 43, 46. In effetti, negli anni tra le due guerre il meccanismo previdenziale risultò insufficiente, cosicché gli operai dovettero ancora ricorrere alla «poor law» (L. Marrocu, Laburismo e Trade Unions. L'evol uzione del movimento operaio in Gran Bretagna 1867-1926, Bari 1981, p. 79). 120 L'assistenza di guerra fu, secondo Ritter, diversa dall'assistenza ai poveri, perché non operò discriminazioni sociali e politiche, e si rivolse sia ai disoccupati, che alle donne occupate, sia agli invalidi di guerra, che ai pensionati statali, cfr. Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., pp. 101sgg. Ciò che non si era ottenuto nel periodo bellico - l'intesa tra organizzazione lavoratori e datori - si attuò al momento del crollo del regime imperiale, con il patto sociale siglato tra padronato e sindacati nel novembre del 1918: con tratto collettivo, diritto al sussidio sociale, soprattutto contro la disoccupazione, arbitrato nei conflitti di lavoro. 121 Ibidem., pp. 113, e 102-07, 109-15, 127-32, sull'evoluzione dello stato sociale durante la repubblica di Weimar. 44 Giovanna Procacci striale, i problemi della rieducazione oltre che dell'assistenza agli invalidi e ai mutilati, l'erompe122 re di malattie (la tubercolosi in primo) mancanti di ogni valida protezione. Se la guerra mise in evidenza tali lacune, la legislazione (e, soprattutto, la messa in pratica delle norme) non furono in grado di colmarle, nonostante la gran massa di progetti e di iniziative di riforma: l'opposizione dell'antica e nuova destra fece infatti naufragare ogni proposito di un rinnovamento complessivo della legislazione, che rimase come in passato ristretta (sebbene in termini meno angusti) ad alcuni settori occupazionali. Nel 1917 avevano visto la luce due importanti interventi: quello riguardante l'assicurazione infortuni agricoli e quello sull'iscrizione obbligatoria alla Cassa nazionale previdenza invalidità e vecchiaia delle maestranze degli stabilimenti ausiliari. Il decreto (23.8.1917, n. 1.450) circa l'assicurazione ai lavoratori agricoli (dai 9 ai 75 anni) copriva una grave lacuna del sistema assicurativo italiano; nonostante, infatti, i dibattiti e le proposte a favore, nessuna norma era stata emanata riguardo ad una specifica tutela giuridica di tutti i lavoratori dell'agricoltura (solo alcune categorie di subordinati ne avevano goduto, nel 1904); la cuna tanto più avvertibile in periodo di guerra, dato il generale peggioramento delle condizioni dei ceti agricoli, a causa de ll'intensificazione del lavoro per i richiami alle armi. Assai favorevoli a un'assicurazione obbligatoria erano d'altra parte le classi padronali, impazienti di sottrarsi alle responsabilità giudiziarie connesse all'infortunio. 123 Riguardo alle controversie di lavoro, un elemento innovativo si ebbe nel marzo 1918 con la regolamentazione dei patti di lavoro per le risaie di Novara e Pavia (d.l. 14.3.1918, n. 350), in base alla quale nell'anno in corso la manodopera non locale avrebbe dovuto essere assunta esclusivamente attraverso gli uffici di collocamento provinciali (composti da rappresentanze paritetiche delle organizzazioni padronali e operaie), e le controversie rela tive al collocamento essere risolte da commissioni arbitrali miste. Come riferisce il Bachi, queste disposizioni furono applicate. In generale, invece, sia le norme riguardanti il lavoro, sia quelle sugli obblighi assicurativi furono ampiamente eluse, venendo osservate solo nelle grandi industrie, e non nelle piccole e in agricoltura. 124 122 Cherubini, Storia della previdenza sociale, cit., p. 226; T. Detti, Stato, guerra e tubercolosi, in «Annali», 7, Storia d'Italia (Einaudi), Torino 1984. 123 La legge entrò in vigore il 1.5.1918, ma fu applicata solo a partire dal 1.5.1919 (fu poi modificata, sia riguardo agli infortuni agricoli che industriali, nel 1921, inserendo un limite di mercede e di salario: legge 24 maggio 1921, n. 297). La norma comprendeva lavoratori di ambo i sessi, fissi e avventizi, proprietari, mezzadri e affittuari, purché prestatori di opera manuale. Essa copriva tutte le categorie, ma escludeva le malattie professionali, salvo quelle figurabili come infortunio. Sui precedenti e sull'iter, cfr. Cherubini, Storia della previdenza sociale, cit., pp. 197-211; ID., Note sulle assicurazioni sociali, cit., pp. 42-49 (a p. 48 i dati sugli infortuni a partire dal 1919); B. Bolotti, Per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro agricolo, in «La Nuova Antologia», 1.10.1916, pp. 344 sgg. (l'A. aveva presentato un disegno di legge in tal senso). La norma era stata preceduta da un decreto del 15.2.1917 (n. 415), che aveva in trodotto per la prima volta nella legislazione italiana, in luogo di quello facoltativo, l'arbitrato obbligatorio nelle controversie sugli infortuni, deciso da commissioni paritetiche e da un giudice di tribunale, Bachi, L'Italia economica nel 1917, p. 200. L'arbitrato era stato in realtà già applicato all'inizio del conflitto a proposito delle indennità dovute dalle amministrazioni militari agli operai borghesi impiegati in lavori militari (e sottoposti quindi alla giurisdizione dell'esercito) nei territori occupati ex-austriaci, per adeguare il sistema previdenziale italiano alla legislazione austriaca, che lo prevedeva. 124 Bachi, L'Italia economica nel 1918, p. 307. La maggior parte degli industriali aveva sempre dimostrato scarsa o nessuna sensibilità nei confronti degli infortuni sul lavoro, R. Romano, Gli indu- Welfare-Warfare 45 L'altra norma emanata in periodo bellico, il decreto sull'iscrizione obbligatoria alla Cassa nazionale di previdenza invalidità e vecchia ia (d.l. 29.4.1917, e norme di esecuzione 5.10.1917), faceva obbligo a tutti i lavoratori di ambo i sessi, di età non superiore ai 70 anni, occupati presso stabilimenti ausiliari, di essere iscritti alla Cassa; di tale iscrizione erano responsabili le imprese, e i contributi erano a carico dell'operaio e del datore di lavoro; in questa prima stesura non era infatti previsto il contributo statale, la cui integrazione verrà decisa nel dopoguerra, quando la norma, come vedremo, verrà perfezionata.125 Il decreto rispondeva a delle necessità oggettive: da una parte, il grande aumento dei lavoratori industriali, molti dei quali colpiti da invalidità permanenti; dall'altra, la crisi di molte società di mutuo soccorso, e di molte ammin istrazioni municipali, sulle quali ricadeva l'onere dell'assistenza, per il forte aumento delle spese (sussidi ai soci feriti, mortalità e morbilità, ecc.). Ma l'emanazione della normativa rispondeva anche ad un'altra sollecitazione, per così dire soggettiva, connessa alla polemica sugli «alti salari operai», promossa dagli industriali e dalla stampa di destra a partire dal 1916: la ritenuta sui salari avrebbe avuto il merito di obbligare gli operai ad un risparmio coatto, convogliato in organismi che fornissero contributi a operai disoccupati, dei quali si prevedeva la forte pressione una volta finito il conflitto. 126 A partire dal settembre 1916 si erano tenute varie riunioni presso il CCMI, da parte della Commissione cottimi, per discutere sull'opportunità di rendere obbligatoria l' iscrizione; gli industriali avrebbero voluto il coinvolgimento dello stato nei contributi; i rappresentanti sindacali avevano dimostrato alcune perplessità riguardo alle categorie più deboli, soprattutto quelle fasce di nuova classe operaia (operai-contadini, donne, ragazzi), che con la fine della guerra avrebbero presumibilmente terminato definit ivamente il loro impegno lavorativo in fabbrica.127 Tuttavia il provvedimento passò, e nonostante le iniziali scarse adesioni, fin ita la guerra, l'istituto si trovò fornito di un fondo di 45 milioni di contributi versati, per i quali doveva trovarsi una collocazione, dal momento che il 31 dicembre 1918 era stata sciolta la Mobilitazione industriale, ed era pertanto cessato l'obbligo d'iscrizione. L'esistenza di tale fondo, unitamente alla imprescindibilità di adeguare l'Italia ai livelli legislativi degli altri paesi europei (anche per il fatto che le province «redente» godevano sotto l'Austria di una legislazione assicurativa e previdenziale molto più avanzata che in Italia !) spinsero nel dopoguerra a estendere l'obbligatorietà dell'iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia (che prese il nome di Cassa nazionale per le assicurazioni) a tutti i lavoratori dipendenti (dai 15 ai 65 anni), compresi i lavoratori non manuali e i lavoratori agricoli (anche se mezzadri e coloni) e a istaurare - in risposta alle pres- striali e la prevenzione degli infortuni sul lavoro (1894-1914) , in M. L. Betri - A. Gigli Marchetti (a cura di), Salu te e classi lavoratrici in Italia dall'Unità al fascismo , p. 129. 125 Le rit enute erano proporzionate al salario, e i contributi paritetici; 1/6 era devoluto a un fondo pro -disoccupati; il rimando veniva accreditato su conti individuali, Gustapane, cit., p. 85. 126 Cfr. L. Segreto, Pensioni operaie e previdenze sociali per il dopoguerra. Un confronto tra sta to, i ndustriali e classe operaia, in Stato e classe operaia, cit., pp. 122-37 (anche su tutto il dibattito). 127 Sull'opposizione industriale nel 1917, cfr. «Bollettino dell'Ufficio del lavoro», 1917, p. 122. Circa la caduta delle obiezioni e l'accettazione del principio assicurativo, Bachi, L'Italia economica nel 1918, cit., pp. 320 sgg., L'Italia economica nel 1919, Città di Castello 1920, pp. 386-93 (pp. 389 sgg., opposizione da parte operaia). 46 Giovanna Procacci sioni industriali, operaie e dell'opinione pubblica - un diretto contributo dello stato nell'ammontare pensionistico (d.l. 21.4.1919; in vigore dal 1.7.1920).128 La norma segnava un notevole passo avanti nella legislazione sociale italiana: per la prima volta infatti una riforma interessava di colpo la quasi totalità dei lavoratori, e lo stato interveniva non solo come regolatore di welfare, ma anche come fornitore di un contributo diretto.129 Ma anche in questo caso l'applicazione della legge «procedette a rilento». 130 Collegato con la riforma dell'invalidità era l'intervento a favore di sussidi contro la disoccupazione involontaria, dal momento che il decreto del 1917 aveva previsto che un sesto dei contributi versati fossero destinati a un fondo per la disoccupazione involontaria, presso la Cassa depositi e prestiti. 131 Dopo la fine del conflitto, iniziando i primi massicci licenzia menti, fu imposto agli industriali di corrispondere agli operai civili (cioè non militari o esonerati) un'indennità di licenziamento; furono inoltre erogati sussidi temporanei per la disoccupazione, e furono finalmente approntati uffici di collocamento statali (novembre 1918), che affiancarono le casse organizzate presso i sindacati o istituite da comuni, province o altri enti morali; 132 nel novembre del 1919 furono emanati altri provvedimenti contro la di128 I lavoratori iscritti passarono da 659.000 nel 1919, ultimo anno di assicurazione non obbligatoria, a 6.402.003 in agricoltura e 3.915.244 nelle altre attività nel luglio del 1920, cfr. Gustapane, cit., pp. 8892 (che ricorda come il progetto soffrisse dell'opposizione di Beneduce, convinto che l'onere per lo stato e gli industriali fosse troppo alto). Sull'iter del Consiglio di previdenza, cfr. D. Marucco, Lavoro e previdenza, cit., pp. 87 sgg.; Bachi, L'Italia economica nel 1919, cit., pp. 386-90. 129 Lo stato contribuiva con 100 lire su ogni pensione liquidata e assumeva l'onere riguardo al serv izio militare compiuto tra il 24.5.1915 e il 30.6.1920; per alcune categorie di lavoratori autonomi, era proposta l'assicurazione volontaria, con un certo concorso dello stato. 130 R. Bachi, L'Italia economica nel 1921, Città di Castello 1922, p. 384. 131 Il problema della disoccupazione era stato già in parte affrontato sia durante la neutralità, per ovviare al fenomeno indotto dalla crisi economica e dal ritorno degli emigrati. Tra l'agosto del 1914 e l'aprile del 1915 vennero emanati quattro decreti a favore di un supporto finanziario per la realizzazione di opere pubbliche; nel 1915 furono corrisposti delle indennità ai pescatori della costa adriatica e nel 1916 furono concesse 160.000 lire alle associazioni che fornivano sussidi di disoccupazione: una cifra quindi di bassissima rilevanza, cfr. De Stefani, cit., pp. 4-7 (e 11 sgg. sul dopoguerra). Il problema si ripresentò durante il conflitto, di fronte alla mancanza di lavoro in conseguenza alla carenza di materie prime, e in particolare, a partire dall'inizio del 1918, di energia elettrica. Le indennità per mancanza di materie prime dovevano essere corrisposte dalle industrie in base a un decreto del 23.3.1917, ma spesso le industrie si rifiutavano (così la Westinghause, cfr. Archivio Centrale dello Stato, Ministero per le Armi e le Mun izioni, Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale , b. 270). Dietro pressione sindacale fu emanato un nuovo decreto (9.2.1918, n. 140) per un sussidio ai disoccupati, gravante sull'industria, pari alla metà della mercede ordinaria e dell'indennità caroviveri per le ore di disoccupazione eccedenti le sei settimanali; nel novembre 1921 il sussidio fu esteso agli impiegati privati, con retribuzione mensile non superio re a 800 lire, Bachi, L'Italia economica nel 1917, cit., p. 243; ID., L'Italia economica nel 1918, cit., pp. 304; ID., L'Italia economica nel 1921 , cit., p. 384; cfr. anche Pino-Branca, cit., p. 112. Ma sul complesso argomento della politica salariale, e in particolare sull'indennità di disoccupazione forzata e temporanea, e sull'a utomatismo dell'indennità caroviveri, ecc.) si rinvia a Tomassini, Lavoro e guerra, cit., pp. 258-351. 132 I sussidi di disoccupazione non venivano però concessi a lavoratori assenti per malattie, ai disoccupati stagionali e, sovente, anche a coloro che non fossero stati impiegati anche prima della guerra: a Bologna, ad esempio, fu negato il sussidio ad operaie divenute tali durante il conflitto, e, se concesso, fu per un ammontare più basso e un tempo più limitato rispetto alla manodopera maschile. Alle braccianti il sussidio fu sospeso nel dicembre 1919 (disoccupazione stagionale), con la giustificazione che la disoccupazione non era imputabile alla guerra, M. Palazzi, Donne sole, Milano 1997, p. 421. Sulla disoccupazione alla fine della guerra fornisce dati Bachi, L'Italia economica nel Welfare-Warfare 47 soccupazione, e in particolare il decreto del 19 ottobre 1919, n. 2.214, che prevedeva l'assicurazione obbligatoria di tutti i lavoratori previsti dalla legge sull'obbligatorietà dell'iscrizione alla Cassa nazionale per le assicurazioni. 133 Questi interventi - ai quali si aggiunsero, nell'ambito dei diritti civili, alcune norme a favore della condizione femminile, come l'accesso a professioni dalle quali le donne erano escluse (come l'avvocatura) e l'abolizione dell'autorizzazione maritale per l' esercizio del commercio e degli uffici tutelari; ma non il diritto di voto - devono essere inquadrati in quel clima, destinato a sfumare rapidamente, di euforia programmatica e progettuale dell'immediato dopoguerra. Già a partire dalla seconda metà del 1917, e soprattutto nell'ultimo anno di guerra, si era aperto un intenso dibattit o sulla necessità di «dare contenuto sociale» alla guerra. Come scrive il Bachi: al movimento di rivendicazione da parte delle colleganze operaie, è corrisposta, già negli ultimi tempi della guerra, presso il mondo industriale e nella collettività tutta, la sensazione della imprescindibilità di patti di lavoro e di una legislazione sociale assicurante alla classe lavoratrice un t enore di vita più elevato che nel tempo anteriore alla guerra.134 In questo senso si erano espressi, al parlamento e sulla stampa, più di un esponente del mondo politico e culturale, e numerosi progetti di rinnovamento erano stati esposti nei convegni che nella primavera e nell'estate del 1918 erano stati organizzati dalle varie correnti politiche interventiste, ricoagulatesi in partiti (partito repubblicano, pa rtito socialista riformista) e i congressi delle organizzazioni sindacali (CGdL, Federterra, neonata Confederazione italiana lavoratori, cattolica). 135 Si faceva insomma strada la necessità - per opportunità politica e per dovere sociale - che lo stato italiano, al pari delle principali nazioni europee, affrontasse il campo delle provvidenze e dell'a ssistenza, rivolta a tutta la popolazione bisognosa. La guerra avrà per conseguenza di modificare profondamente lo stato preesistent e delle cose anche rispetto al soddisfacimento dei bisogni , cui intendono provvedere le Assicurazioni operaie [...] - scriveva un autorevole esponente politico, P. Bertolini, già ministro dei Lavori pubblici e delle Colonie - Invero all'intento di guadagnare od almeno quietare gli animi delle classi lavoratrici si è andata associando la coscienza della utilità ed insieme del dovere di provvedere con uguale sollecitudine affinché sien sollevate le sofferenze e le miserie determinate da malattia, da invalidità, da vecchiaia anche per il resto della popolazione disagiata [...] molto più numerosa di quella dei lavoratori ….136 Alla convinzione dell'imprescindibilità di addivenire a riforme sociali - che si espletarono, nell'ambito del lavoro, nella conquista delle 8 ore, delle commissioni interne, dei contratti collettivi e dei minimi di paga in alcuni settori, dell'indennità caroviveri, dell'imponibile e del 1918, cit., p. 184, che riporta anche quelli dell'Umanitaria per il 1918; cfr. anche ID., L'Italia econ omica nel 1919, cit., pp. 390-93. 133 Il 23 novembre 1921 vennero assicurati contro la disoccupazione anche i dipendenti non operai delle imprese private. Tutta la materia dell'assicurazione contro la disoccupazione involontaria fu regolata con decreto 30 dice mbre 1923, n. 3.158. 134 Bachi, L'Italia economica nel 1918, cit., p. 304. 135 Cfr. ad esempio gli interventi di Labriola alla Camera nel 1917 e 1918, e il programma del Partito socialista riformista (in «Bollettino dell'Ufficio del Lavoro», quindicinale 1918, p. 71). Gli stessi n azionalisti presentarono un progetto per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni (Federzoni e De Capitani), Cherubini, Storia della previdenza sociale , cit., pp. 236 sgg. 136 P. Bertolini, Assicurazioni operaie o provvidenze sociali?, in «La Nuova Antologia», 1.3.1918, p. 158 (corsivo nostro ). 48 Giovanna Procacci collocamento in agricoltura, e nelle ricordate riforme assicurative e previdenziali - si era dunque sommata anche quella dell'opportunità di addivenire a una riforma globale del sistema assistenziale. 137 Ma, nonostante i numerosi pareri a favore, e i progetti elaborati, la normativa del dopoguerra non superò i limiti delle tradizionali misure occupazionaliassic urative. 1917 1917 1919 1919 assicurazione obbligatoria agricoltura contro infortuni iscrizione obbligatoria operai ausiliari alla cassa nazionale di previdenza invalidità e vecchiaia. iscrizione obbligatoria di tutti i lavoratori alla cassa nazionale di previdenza invalidità e vecchiaia assicurazione obbligatoria disoccupazione involontaria La lacuna più grave si verificò nel campo della assistenza sanitaria. Non giunse infatti a compimento il progetto di un'assicurazione contro le malattie, nonostante che la guerra avesse prodotto una forte recrudescenza di alcune forme morbose, come la tubercolosi, e avesse in generale determinato un notevole peggioramento dello stato di salute della popolazione.138 L'opportunità di superare gli argini dell'assistenza fila ntropica e di beneficenza era stata posta negli anni di guerra, e nell'agosto del 1917 era stata addirittura istituita una commissione parlamentare per lo studio dell'assistenza malattie (di cui aveva fatto parte D. Ferraris). Questa alla fine del 1919 presentò un progetto di assicurazione obbligatoria contro le malattie: ma il progetto non fu nemmeno presentato in parlamento. Valse ad affondarlo l'opposizione decisa del padronato agrario, e quella, seppur più blanda, degli industriali.139 Il cittadino dovette perciò proseguire a rivolgersi all'assistenza privata, a quella fornita dalle società di mutuo soccorso, dalle opere pie, o da altri enti morali. 137 Molti furono anche i progetti di riforma delle istituzioni politiche, o meglio dei modi di rappresen tanza; la guerra aveva infatti messo in crisi i cardini del sistema parlamentare, mentre il proliferare di enti e associazioni - economici, amministrativi, patriottici, pubblici e privati - aveva dato il vita a una frantumazione del potere centrale, con una conseguente ripresa dei dibattiti, già in atto prima della guerra, sulla necessità di sostituire (almeno in parte) alla tradizionale rappresentanza politica una rappresentanza degli interessi. I progetti di modifica - avanzati, nel 1919, tra gli altri, dalla CGdL co me dallo stesso Mussolini - prevedevano una «rappresentanza organica», realizzata all'interno di una «costituente degli interessi», o di un «parlamento del lavoro», connesso alla riforma del Senato. Nei fatti, però, le riforme riguardanti la rappresentanza si risolsero solo nell'approvazione della proporzionale; non andò infatti in porto neppure una prevista riforma del Consiglio superiore del lavoro. Nel dicembre del 1923 un decreto pose fine sia al Consiglio superiore del lavoro, sia a tutti i corpi consultivi già dipendenti dai cessati ministeri dell'Agricoltura, Lavoro e Previdenza sociale, Industria e Commercio. Dopo il 1925 alcuni organi (come il Consiglio superiore dell'Economia n azionale) tornarono in vita, nel quadro della ripresa dei temi corporativi, cfr. Gozzi, cit., pp. 262-67; Vecchio, cit., p. 21, e il saggio di P. Colombo, I progetti di riforma del Consiglio su periore del lavoro: rappresentanza professionale e trasformazioni del sistema rappresentativo-elettivo, ivi, pp. 386-427. 138 Cfr. G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra , Bari-New Haven, 1925. 139 D. Preti, Per una storia sociale del l'Italia fascista: la tutela della salute nell'organizzazione dello stato corporativo (1922-1940), in M. L. Betri - A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi Welfare-Warfare 49 L'assenza di una riforma dell'assistenza sanitaria rendeva irrealizzabile qualsiasi prospettiva di addivenire anche in Italia ad assicurazioni globali - e di istituire, in luogo di assicurazioni obbligatorie, delle previdenze sociali a carico dello stato - come suggerito in programmi congressuali e sulla stampa 140 La rapida involuzione politica rese poi inattuale ogni progetto di intervento coordinato e globale. La guerra aveva dunque dato una sferzata alla politica sociale, ma non aveva prodotto una svolta decisiva nel campo della legislazione. L'Italia aveva in parte recuperato il distacco normativo che la separava dagli altri principali paesi europei; e, per quanto limitato, l'intervento dello stato aveva sottratto la concezione della tutela del lavoratore alla beneficenza filantropica. 141 Ma la legislazione - approvata sotto la spinta dell'urgenza bellica e del clima postbellico, ed accolta quindi in quanto «necessità politica» -142 rimase condizionata dal suo carattere di controllo preventivo, e dai conseguenti obiettivi strumentali e settoriali (gli aspetti categoriali verranno poi accentuati dal fascismo). 143 Salvo le norme contro la disoc cupazione, e i sussidi ai mutilati e alle famiglie dei caduti, i provvedimenti rivolti a tutta la popolazione, presi per sopperire ai bisogni, cessarono quasi tutti con la fine della guerra (o poco dopo, come il prezzo politico del pane; rimase solo il blocco dei fitti). Riguardo all'intervento mediatore ed arbitrale dello stato inaugurato con il conflitto, esso si risolse, in seguito alla smobilitazione della M.I. e all'involuzione successiva dei rapporti sociali, nei ben diversi criteri di equilibrio tra le parti previsti dalla Carta del lavoro fascista. Ciò che invece venne recuperata fu l'esperienza di controllo attuata durante la guerra: ad essa - sia ne ll'ambito politico che delle relazioni industriali (ma senza la presenza di contraddittori) - si ispirò largamente il fascismo. Con la prima guerra mondiale si erano poste in Europa le premesse del moderno stato sociale; ma il processo evolutivo non progredì di molto tra le due guerre. La crisi del primo dopoguerra spinse infatti gli stati a limitare gli interventi di welfare, e ad intervenire più nel campo economico che in quello sociale: e tale tendenza si accentuò con il 1929, quando molti governi si adoperarono per impedire l'ampliamento del welf are. 144 Gli interventi nel lavoratrici in Italia dall'Unità al fascismo , cit., pp. 813-14; Cherubini, Storia della previdenza sociale, cit., p. 237, e, su tutto il dibattito, pp. 225-36. 140 Così si espressero i congressi della CGdL e della CIL. Sul dibattito e sulle soluzioni estere, cfr. P. Bertolini, Assicurazioni operaie o provvidenze sociali? Contributo allo studio del dopoguerra, in «La Nuova Antologia», cit., e ivi, 16.3.1918 (Bertolini si dichiarava favorevole alle provvidenze e all'istituzione di veri e propri servizi pubblici, senza contributi da parte degli interessati, come realizzato per le pe nsioni in Danimarca e in Inghilterra). Fallirà il progetto Rava, elaborato all'interno della Commissione per il dopoguerra (la cosiddetta «Commissionissima»), favorevole a un sistema pensionistico globale, esteso anche ai lavoratori autonomi e al ceto medio. 141 Curli, cit., pp. 86, 293. 142 «Nuovi voti e nuovi schemi sono stati formulati ed è diventata generale ormai la convinzione della necessità politica-sociale di una immediata organizzazione di forme integrali di previdenza operaia», Bachi, L'Italia economica nel 1918, cit., pp. 320 sgg. 143 Con il fascismo, mentre cessarono la loro attività le società di mutuo soccorso, si costituì una miriade di mutue di categoria (e poi federazioni nazionali e enti nazionali), in modo da concedere privilegi ed ottenere consen si settoriali. 144 Di fronte all'allargamento delle sfere sociali, i governi reagirono con un ritorno all'«ortodossia», S. Carpinelli - G. Melis, Lo Stato e le istituzioni, in Novecento, «Parole chiave», 12, 1996, p. 157. Gli effetti delle crisi economiche - quella dell'immediato dopoguerra e quella del '29 - furono però - come ci ricorda Ritter - ambivalen ti: in alcuni paesi esse produssero un'involuzione delle prestazioni s o- 50 Giovanna Procacci sociale stimolati dalla guerra erano stati generati da una duplice sollecitazione: avevano rappresentato la risposta necessaria alla nuova società di massa scaturita dal conflitto; ma soprattutto avevano costituito un atto mirante a evitare la politicizzazione dei lavoratori, una forma di controllo sociale preventivo. Non stupisce quindi che a poco tempo di distanza dalla fine del conflitto, di fronte all'incalzare delle richieste dal basso, apparissero altri strumenti di controllo, questa volta repressivi. Se in alcuni paesi, come l'Inghilterra, il welfare di guerra riuscì, almeno per un certo periodo, ad armonizzare e stabilizzare i rapporti tra le classi, non altrettanto avvenne nei paesi con un più debole tessuto democratico, nei quali alle istanze di riforma della sinistra si reagì con un crescente e progressivo spostamento a destra. ciali; in altri (USA, Gran Bretagna, paesi nordici), contribuirono allo sviluppo del sistema alla fine degli anni Trenta, Ritter, Storia dello Stato s ociale , cit., p. 105. Luigi Tomassini Il mutualismo in Italia Prima dell’avvento del fascismo la previdenza in Italia era in gran parte regolata per i ceti popolari da istituti mutualistici che all’inizio del ‘900 già erano diverse migliaia, raggruppando quasi un milione di aderenti. Per svolgere la loro attività essi raccoglievano il risparmio dei loro iscritti, in quote regolari, solitamente mensili, e provvedevano una serie molto differenziata di prestazioni, ma fondamentalmente corrispondevano un premio in caso di malattia, infortunio, invalidità, morte, puerperio, ecc. In alcuni casi, prevedevano addirittura un sistema di cedole successive alcune estratte altre periodiche lungo un arco di 100 anni per remunerare il capitale versato dagli aderenti. In molti altri casi esse davano origine a veri e propri istituti di credito popolare; nel periodo del corso forzoso della moneta, alcune di esse giunsero a emettere sostituti del circolante, a fronte di versamenti dei soci o di acquisti nelle imprese commerciali controllate. Avevano cioè un forte contenuto di risparmio e assicurativo, anche se non si possono assimilare direttamente alle assicurazioni popolari, che in altri paesi si diffondono largamente in quel periodo, poiché hanno un raggio di intervento assai più ampio. Il risparmio raccolto in queste società era esiguo singolarmente considerato, ma assai importante nel suo complesso: si può calcolare che all’inizio del secolo fosse una somma pari al 2,5% di tutto il risparmio esistente in Italia, presso Banche, Casse di Risparmio, Monti di Pietà, Casse postali, ecc. Ancora più importante il fatto che questa costituiva molto spesso l’unica forma di rispa rmio e di previdenza per i ceti popolari, in un periodo in cui non esistevano né le disponibilità economiche né la cultura del risparmio e della previdenza presso la gran parte della popolazione. Finora questo tema è stato assai poco studiato, forse anche perché con il fascismo si è dato avvio ad un diverso sistema previdenziale, del tutto centralizzato, che poi è stato in gran parte ereditato dall’ordinamento previdenziale nella repubblica nel dopoguerra. Tuttavia, questo fenomeno, che invece in altri paesi come la Francia ha avuto una maggiore continuità e sviluppo fino ai giorni nostri, è stato estremamente importante per l’avvio di politiche previdenziali e di welfare nel nostro paese, anche e soprattutto per motivi di ordine culturale oltre che per il rilievo economico che comunque ebbe. È anche possibile avere notizie abbastanza dettagliare sull’entità e sullo sviluppo storico di questo tipo di associazionismo; anche se i fondi archivistici delle singole associazioni sono nel complesso caratterizzati purtroppo da situazioni di estrema dispersione e incuria, e i fondi del Ministero di Agricoltura e Industria e Commercio non sono certo in una condizione migliore, tuttavia per contro, all’epoca, proprio per la rilevanza politica amministrativa del tema, furono compiute inchieste, studi, rilevazioni statistiche, che mettono a disposizione un ricco materiale edito. Su alcune di queste fonti, e per la precisione sulle statistiche ministeriali del mutuo soccorso, (o delle società operaie, come venivano chiamate al tempo) si basa in gran parte questo studio, che intende verificare come in concreto si sviluppò questo fenomeno su scala regionale e per settori, anche in concomitanza e in conseguenza di quello che si può consi- 52 Luigi Tomassini derare il più rilevante, se non l’unico, intervento legislativo in materia, cioè la legge Berti del 1886. LA LEGGE BERTI La legge Berti del 1886 costituisce l’unica legge che in Italia abbia regolato il mutuo soccorso, dalle origini ai giorni nostri: si tratta inoltre di una legge assai poco vincolante, che si limita a dare alcune norme elementari per la costituzione delle società che avessero voluto ottenere il riconoscimento giuridico. Come si spiega questa mancanza di intervento legislativo su un terreno che pure anche per l’Italia fu a suo tempo di grande importanza sociale e politica? A mio parere, ciò dipende essenzialmente da due fattori: dalla particolare connotazione del mutuo soccorso in Italia (sviluppo ritardato, orientamento politico laico, modello organizzativo “leggero”), e dal fatto che a partire da una certa data, lo Stato intervenne molto pesantemente sul terreno proprio del mutualismo, ma in maniera diretta e in proprio, cercando di sostituire quindi il mutuo soccorso con proprie politiche sociali, piuttosto che regolarlo con apposite normative. Solo in questo contesto si può capire la esiguità della normativa giuridica sul mutuo soccorso in Italia: una limitatezza che del resto non corrisponde affatto ad una carenza di dibattito su questi temi, che invece furono approfonditamente discussi e che costituirono oggetto di confronto sia negli ambienti intellettuali, sia all’interno della burocrazia ministeriale, sia in Parlamento, per molti decenni. Per questo, articoleremo questo intervento in modo da prendere in esame: in primo luogo i caratteri di fondo del mutualismo italiano in confronto agli altri modelli nazionali diffusi nell’Europa dell’epoca; in secondo luogo il lungo dibattito preparatorio della legge del 1886, in modo da evidenziare le diverse posizioni, anche in rapporto alle varie esperienze straniere prese in esame, e in particolare riguarda a quella francese; infine le conseguenze e i limiti dell’applicazione effettiva della legge del 1886 nel periodo successivo, fino al fascismo. Il mutualismo in Italia 53 IL MUTUALISMO ITALIANO 1848-1922 Quindi in Italia lo sviluppo del mutualismo, con la parziale eccezione del caso piemontese, giunse con notevole ritardo rispetto al resto d’Europa, almeno rispetto ai quei Paesi dove vi erano ordinamenti di carattere liberale. Il fenomeno, infatti, già alla fine del XVIII secolo era in Inghilterra tanto diffuso da rendere necessaria una regolamentazione attuata nel 1793 mediante l’emanazione di un’apposita legge (Act for the Encouragement and Relief of Friendly Societies) incaricata di regolare le “Friendly Societies”, che altro non erano che vere e proprie società di mutuo soccorso, dal momento che la legge le definiva appunto come: A society of good fellowship for the purpose of raising from time to time by voluntary contributions, a stock or fund for the mutual relief and maintenance of all and every member thereof, in old age, sickness, and infirmity, or for the relief of widows and children of deceased 145 members. L’Inghilterra però costituiva, come è noto, una eccezione, assieme agli Stati Uniti, come già aveva notato Tocqueville, per la precoce e forte diffusione di strutture associative di questo tipo. Nel resto l’Europa la situazione era assai più arretrata, e non solo nei paesi “latini”, nei quali peraltro la situazione era comunque assai differenziata. In Spagna il mutualismo conobbe una diffusione molto più limitata, e simile per certi versi a quella italiana: si trattava di un fenomeno che era stato a lungo ignorato, ma che recentemente, grazie agli studi coordinati da Santiago Castillo presso l’Università Computense di Madrid, è stato oggetto di un grande interesse. Se ne ricava che anche in Spagna il mutualismo ebbe una notevole diffusione, soprattutto con aspetti interessanti di continuità con i “gremios” cioè con le preesistenti forme di aggregazione di tipo corporativo. Anche in Francia il mutualismo ebbe una precoce diffusione, con caratteristiche anche in questo caso originali, quali la forte presenza di società di ispirazione cattolica e il peculiare rapporto con le preesistenti organizzazioni corporative. Già nel 1852 in Francia si aveva una legislazione complessiva in materia di mutuo soccorso, che regolava ed incentivava un fenomeno individuato dal II Impero come uno dei principali strumenti di controllo e di regolazione della questione sociale. 146 Il caso francese mostra come anche un regime autoritario poteva valersi del mutualismo, una volta che esso avesse già un impianto stabile e consolidato; ma in Italia gli antichi stati non recepirono affatto l’indicazione del Secondo Impero e continuarono a mantenere forti restrizioni legislative e amministrative nei confronti del mutuo soccorso: una situazione destinata a cambiare solo con l’unificazione e la costituzione del nuovo stato liberale. Una riprova evidente dell'influenza del liberalismo nella creazione dell'associazionismo è data dalla stessa geografia del mutualismo al momento dell'unificazione. La regione in cui il mutualismo era più diffuso era senza paragone il Piemonte: ovvero l'unico stato in cui, con lo Statuto Albertino si erano mantenuti i principi dello stato liberale, e fra essi la libertà d'associazione. 147 145 D. Neave, Friendly Societies in Great Britain, in M. van der Linden, Social Security Mutualism, cit., p. 42. Cfr. in particolare M. Dreyfus, La mutualité. Une histoire maintenant accessible, Paris, Mutualité Française, 1988, pp. 20 sgg. 147 Sul caso piemontese, cfr., oltre ai volumi già citati, cfr. B. Gera e D. Robotti (a cura di), Cent'anni di solidarietà. Le Società di mutuo soccorso piemontesi dalle origini. Censimento storico e rilevazione delle associazioni esistenti, 7 voll., Torino, Regione Piemonte, Sovrintendenza Archivistica per il Piemonte e la valle d'Aosta, 146 54 Luigi Tomassini Con l'Unità, e quindi con l'estensione a tutto il regno dei nuovi principi liberali, la situazione si riequilibrò notevolmente, nel senso che le regioni del centro nord si riallinearono rapid amente al Piemonte, mentre il Sud conobbe uno sviluppo considerevole se paragonato alla assenza quasi totale dell'inizio, ma restò sempre a notevole distanza dalle regioni del Nord.148 Nel 1862, alla data della prima statistica ministeriale, le associazioni erano 443 con 11.608 soci. Di esse solo il 15% erano nate prima del 1848; il 38% fra il 1848 e il 1860 (di cui il 70% in Piemonte) e il 47% nei soli due anni fra l'unificazione e la redazione dalla statistica. Da quella data, l'associazionismo di mutuo soccorso continuò a crescere a ritmi sostenuti fino all'inizio del nuovo secolo (cfr. tav. seguente) Membri delle SMS 1862-1904 994183 1000000 926027 900000 781491 800000 Membri 700000 600000 500000 400000 331548 300000 200000 218822 111608 100000 0 1862 1873 1878 1885 1898 1904 Un fenomeno quindi quantitativamente rilevante, che interessava una base molto ampia per l’Italia del tempo. 149 Si deve considerare infatti che la popolazione attiva al censimento del Cooperativa Borgo Po, 1989; D. Robotti, Dalle corporazioni alle società di mutuo soccorso: l'associazionismo professionale torinese nel XIX secolo , in M. T. Maiullari, Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo, cit. 148 Sull'associazionismo di mutuo soccorso nel meridione cfr. D. Ivone, Associazioni operaie, clero e borghesia nel Mezzogiorno fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffré, 1979; ID., Le società operaie di mutuo soccorso nella città meridionale della seconda metà dell'Ottocento, in «Clio», vol. 18, 1982, p. 227; cfr. anche, con diverse valutazioni, C. G. Donno, Mutualità e cooperazione in terra d'Otranto (1870-1915), Lecce, Milella, 1982. Più recentemente, V. Cappelli, Per una storia dell’associazionismo nel Mezzogiorno. Statuti e programmi di sodalizi calabresi (1870-1926), in «Rivista Storica Calabrese», n.s., 7, 1986, pp. 201-18. 149 Sotto questo aspetto, la diffusione del mutualismo in Italia era paragonabile a quella dei maggiori e più avanzati paesi europei. Per un quadro comparativo, sono da vedere gli atti (M. van der Linden (ed.), Social Security Mutualism. The Comparative History of Mutual Benefit Societies, Ben, Berlin, Frankfurt, New York, Paris, Wien, Peter Lang, 1996), del convegno internazionale sulla storia del mutualismo tenutosi a Parigi nel dicembre 1992, organizzato dalla International Association of Labour History Institutions di Amsterdam. E' da ricordare che il mutualismo italiano ebbe un ruolo di primo piano assieme alla Francia nella costituzione della Fédération Internationale de la Mutualité (fondata a Milano nel 1906 con Luigi Luzzatti presidente onorario). Il mutualismo in Italia 55 [...???] Ma quale era la composizione della base sociale di questo tipo di associazioni? Questa domanda cruciale purtroppo non ha risposta nei dati delle statistiche ministeriali, se non in maniera molto indiretta. L'unico dato disponibile è quello relativo alla qualifica delle società stesse. Questo ci permette di definire la composizione della base sociale in tutti i casi in cui si trattava di associazioni professionali. Come si vede da tutte le statistiche ministeriali, il ventaglio delle qualifiche professionali era assai variegato, e comprendeva una quantità di mestieri e professioni che non erano propriamente operaie. Ma il dato che senz'altro più salta agli occhi, e che costituisce una costante del mutuo soccorso in Italia, è la nettissima prevalenza del modello territoriale misto. Cioè, le società che nel loro nome si rivolgono genericamente agli operai o ai lavoratori di una determinata località, sono la grande maggioranza: mai inferiori ai due terzi del totale, dall'inizio fino al 1904. E' quindi difficilissimo stabilire quale fosse la base sociale: anche perché probabilmente, come mostrano alcune ricerche su casi locali, essa era sottoposta a sensibili cambiamenti nel corso degli anni e delle congiunture economiche generali o locali. Un altro dato caratteristico del mutualismo italiano è che nonostante il grande svilu ppo quantitativo del fenomeno nel suo complesso, la dimensione media delle società restò significativamente bassa, anzi diminuì sul lungo periodo. Fra il 1862 e il 1904 infatti le società aumentarono da 443 a 6.347; ma la media degli iscritti per società passò da 191 a 146. Anche nel momento di massimo sviluppo del mutualismo, alla fine del XIX secolo, le società con meno di 100 associati non solo erano la maggioranza, ma avevano anche un trend di sviluppo più accentuato delle altre. Questa piccola dimensione arreca conseguenze notevoli su alcuni caratteri di fondo dell’associazionismo mutualista italiano: in particolare sull’organizzazione interna e nelle finalità assistenziali e previdenziali. Un po' diversa era la situazione patrimoniale: il patrimonio medio per socio nello stesso lasso di tempo era circa quadruplicato (da 18 a 85 lire), raggiungendo nell'insieme la cifra ragguardevole di 75.000.000 di lire. 150 Gli impieghi erano prevalentemente in titoli: ma non mancavano le attività di tipo imprenditoriale (cooperative, società di piccolo credito, forni, farmacie, ecc.) o attività ricreative e culturali di vario tipo (circoli ricreativi, caffè, ballo, teatro, ecc.). 151 150 Secondo la statistica del 1904. Per dare un termine di paragone, ciò equivaleva al 2,5% di tutto il risparmio depositato in Italia presso gli istituti di credito ordinari, casse postali, banche popolari, monti di pietà, ecc. nel 1900. (Secondo i dati raccolti da F. Bonelli, Osservazioni e dati sul finanziamento dell'industria italiana all'inizio del secolo XX, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 1968, II, p. 280). 151 La distribuzione media del patrimonio nelle singole società dava anch'essa un quadro di notevole dispersione: come si vede dalla tav. 4 più della metà delle società avevano un patrimonio sotto le 5.000 lire. Questo aumento delle rendite patrimoniali copriva pressappoco la diminuzione delle entrate dovute ai soci onorari e benefattori, in netto calo. Le quote versate dai soci ordinari erano restate praticamente uguali, sia in proporzione che in cifra assoluta: erano passate da 8,7 a 9,9 lire (annue) fra il 1862 e il 1904. Anche la struttura delle spese era restata sostanzialmente identica: la voce dei sussidi copriva sia nel 1862 che nel 1904 circa i due terzi delle spese complessive. 56 4000 Luigi Tomassini 3649 3500 3000 2500 2000 1768 1500 1779 1194 1000 422 500 620 153 249 68 102 94 144 da 301 a 400 da 401 a 500 da 500 aa 1000 26 36 0 fino a 100 soci da 101 a 200 da 201 a 300 da 1000 a 3000 3 8 oltre 3000 Tav. 2: Società di mutuo soccorso al 1885 e 1895 secondo il numero di iscritti. In pratica, le società si limitavano nella grande maggioranza a richiedere quote piuttosto basse garantendo servizi piuttosto limitati, praticamente l'assistenza malattia per la malattie acute, mentre assai rare erano le associazioni che potevano fornire pensioni. Oltretutto, le quote di associazione e i sussidi corrisposti potevano variare con grande flessibilità, secondo la congiuntura economica generale o della società. Nel complesso quindi l'associazionismo di mutuo soccorso in Italia delineava un modello caratterizzato dai seguenti elementi: netta prevalenza di società territoriali, dalle dimensioni alquanto ridotte, con un patrimonio crescente, e nel complesso considerevole, ma con una struttura economica e societaria flessibile e «leggera», ovvero fondata su meccanismi che consentivano uno sviluppo minimo dell'apparato burocratico, e ampliavano la gamma delle attività sociali in molte direzioni non istituzionali, quali attività ricreative, culturali, coopera tive, ecc. Proprio questo è uno degli aspetti fondamentali dell'associazionismo di mutuo soccorso: il fatto cioè che sulla base di questa struttura leggera e di queste disponibilità patrimoniali, limitate ma dotate di notevole continuità e comunque in complesso in costante aumento, si innestavano una serie di attività socializzanti estremamente varie e di notevole interesse. Eliminato: con Il mutualismo in Italia 57 Fra queste, le attività di istruzione e di incoraggiamento alla lettura, stimolate sia dai soci onorari e dal governo, sia dagli stessi dirigenti democratici e socialisti; 152 o, su un versante più ricreativo, gite di istruzione (spesso nei luoghi cari al Risorgimento nazionale), gruppi corali, musicali, filo drammatici, a cui talora si accompagnava la costruzione di veri e propri teatri. Questo, della costruzione di locali sociali, era uno degli aspetti più interessanti del mutuo soccorso (specialmente in regioni come la Toscana), dato che a differenza della gran parte delle altre forme associative, esso consentiva la disponibilità di capitali di una certa consistenza, e quindi spesso di costruire o acquistare sedi sociali, le quali poi divenivano punti di aggregazione per una serie di altre attività socializzanti e per altre strutture associative. Comunque, non è da trascurare al di là di questi sviluppi successivi tutta una serie di pratiche, di rituali (feste sociali, banchetti, uso di simboli e bandiere sociali) come pure di semplici attività sociali (le stesse assemblee periodiche, le commissioni di lavoro su temi specifici, le attività dei collettori per le riscossioni settimanali o mensili o per il controllo e l'attribuzione dei sussidi; le forme di scambio di assistenza come l'assistenza notturna ai malati gravi, ecc.) che costituivano un terreno di socializzazione assai ampio e articolato. Tutta questa multiforme attività nascondeva per così dire, nella percezione collettiva, quello che era il nucleo di fondo del meccanismo assicurativo del mutuo soccorso, e finiva per rendere meno urgente e sentito in Italia il compito di regolare per legge la materia, a differenza di quanto avveniva all’estero. In particolare, l’unica legge sul mutualismo fu introdotta in Italia solo nel 1886, ed ebbe efficacia regolativa ed ampiezza applicativa assai ridotte. La distribuzione geografica del mutualismo era estremamente diversificata, come si è visto dalle I L DIBATTITO SUL MUTUO SOCCORSO E LA LEGGE DEL 1886 La sede privilegiata per la discussione sul mutuo soccorso in Italia era stata tradizionalmente quella dei congressi periodici degli scienziati: una sede in cui la migliore intellettualità liberale italiana aveva avuto modo di confrontarsi in un periodo in cui (fino al 1861) l’Italia era ancora suddivisa in molti piccoli stati, solo uno dei quali aveva (dal 1848) una costituzione liberale. Dopo l’unità il dibattito divenne molto più largo e vivace: soprattutto in virtù del tipo di sviluppo politico che stava avendo il mutualismo in quegli anni. Al decimo congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Siena nel 1863 (controllare) il dibattito si accentrò proprio sulla questione della regolazione normativa del mutuo soccorso, che in quegli anni conosceva uno sviluppo impetuoso; ma la discussione aveva comunque un chiaro significato politico, proprio perché questo sviluppo si accompagnava a quegli orie ntamenti molto marcati in senso democratico e favorevoli ad una politicizzazione del mutuo soccorso, di cui abbiamo sopra parlato. È necessario ricordare inoltre che proprio in quegli anni il nuovo stato liberale, per niente consolidato sia sul piano interno (dove ad esempio un fenomeno come il brigantaggio dava la misura delle difficoltà di integrazione di larghe masse di popolazione e di intere regioni), che su quello internazionale (dove il riconoscimento diplomatico della nuova situazione non 152 Cfr. la Statistica del 1873, che parla degli incoraggiamenti governativi per le attività di istruzione svolti dalle società di mutuo soccorso. 58 Luigi Tomassini si poteva ancora ritenere del tutto acquisito), era sottoposto a forti spinte antiunitarie, e quindi stava conducendo una forte battaglia contro tutti i residui degli antichi stati. In questo ambito, mentre il nuovo governo adottava provvedimenti come la abolizione dell’asse ecclesiastico e l’incameramento dei beni della Chiesa, si inquadrano i forti motivi polemici contro alcuni residui del passato, come la manomorta o le corporazioni, che caratterizzavano il congresso, e che parevano in certa misura rivivere nei progetti che intendevano dare tutela legislativa al mutuo soccorso, riconoscendo alle società di mutuo soccorso la personalità giuridica e la qualifica di “enti morali”. In un certo senso, le classi dirigenti liberali si trovavano quindi nel nuovo stato in una condizione di tale incertezza e debolezza, da non poter pensare di esercitare una forte tutela sul nascente movimento mutualista, sul tipo di quella esercitata nello stesso periodo in Francia da Napoleone III; e preferivano lasciare al movimento privo di ogni regolazione giuridica, e di ogni controllo centralizzato, confidando nelle spontanee virtù regolatrici del sistema liberale. Del resto, l’anima repubblicana e democratica che aveva costituito una delle due forze portanti del Risorgimento italiano, sia pure in subordine a quella moderata, e che si incarnava nelle figure di Mazzini e Garibaldi, non poteva in alcun modo essere emarginata, in quella fase della costruzione dello stato nazionale, in cui mancavano ancora alcuni degli obiettivi fondamentali del processo unitario, come Roma e Venezia, e si doveva ancora costruire quella integrazione interna sulla base di ideali nazionali a cui i democratici davano un apporto sostanziale, proprio anche attraverso l’associazionismo operaio e il mutuo soc corso. La preoccupazione di impedire il riemergere di spinte centrifughe e di poteri alternativi allo stato prevaleva dunque ancora sui timori di una egemonia politica dei democratici sul movimento: timori che tuttavia erano ben presenti, anche perché in effetti ai primi congressi delle società operaie, le correnti democratiche avevano conosciuto importanti successi. La posizione assolutamente liberista dei maggiori promotori italiani del mutualismo era espressa molto chiaramente da Enrico Fano, anche in riferimento agli esempi d’oltralpe. Fano infatti rifiutava esplicitamente il modello francese della legge del 1850, con il successivo regolamento del 1851 e il decreto del 1852, proprio perché presupponeva un controllo e una regolazione legislativa così centralizzata e accentuata: di contro, proponeva addirittura soltanto il semplice riconoscimento della facoltà di esercitare i diritti civili in base alla loro costituzione. Il problema delle pensioni e la legge sul riconoscimento giuridico Certamente influì su questa diffidenza l’esempio francese, dove la legislazione messa in essere da Luigi Napoleone aveva sì fortemente incentivato lo sviluppo del mutualismo, ma a prezzo di un fortissimo controllo governativo e di una «notabilisation», come è stata definita, che vedeva assumere un ruolo preminente nelle associazioni da parte non solo dei borghesi, proprietari e professionisti, locali; ma anche della Chiesa, dato che come recitava la legge francese, tali società potevano essere create nei comuni dove il prefetto ne avesse riconosciuto l’utilità «par les soins du maire et du curé». 153 Era questo soprattutto uno dei punti su cui i democratici e una parte degli stessi liberali moderati erano più sensibili. Il 153 M. Dreyfus, La mutualité, cit., p. 54. Il mutualismo in Italia 59 risorgimento era stato spiccatamente laico, anche perché il compimento dell’unità nazionale era stato in parte realizzato contro la volontà del Papato, che aveva duramente reagito contro coloro i quali gli avevano tolto consistente parte dello Stato della Chiesa, e che per tutto il primo decennio postunitario mantenne la parte residua, comprendente Roma e il Lazio, solo in virtù della protezione francese. Il mutualismo italiano quindi all’inizio non vide quasi nessuna partecipazione cattolica; società di mutuo soccorso cattoliche cominciarono ad affermarsi con una qualche rilevanza solo dopo il 1871, quando, di fronte al crescente successo del mutualismo liberale, anche l'atteggiamento dei cattolici cominc iò a mutare. Proprio al I congresso del 1874, fu approvata una risoluzione che, rifacendosi ai precedenti corporativi medievali, auspicava il sorgere di SMS «ispirate alla carità cattolica [con cui salvare] l’operaio dal cercare tali risorse presso associa zioni con tendenze sovversive e contrarie alla cattolica religione». 154 Anche per questo nel primo decennio dopo l’unità, l’idea di una regolamentazione per legge del mutuo soccorso in Italia trovò pochissimo seguito. I democratici erano nettamente contrari, vedendo in ciò uno strumento mascherato di ingerenza governativa; ma anche fra i moderati, molti erano coloro che dissentivano apertamente dal modello francese, e sostenevano che la libertà assoluta era la migliore soluzione per questo tipo di associazioni. Questa posizione era rafforzata dal fatto che per le caratteristiche sopra delineate e per la particolare struttura del mutualismo italiano ragioni “tecniche” per un controllo erano un po’ meno pressanti che in altri paesi dove il mutuo soccorso era più diffuso ed avanzato. Inoltre, specie per i primi anni, la questione che poi animò il dibattito sul mutualismo, e cioè quella delle pensioni di vecchiaia, si poneva in termini meno urgenti ed evidenti di quanto non sarebbe accaduto qualche decennio più tardi. Già dopo il 1870, cioè dopo il compimento dell’unità nazionale con la conquista di Roma, si manifestò di nuovo un certo interesse verso il problema della regolazione dello stato giuridico delle società di mutuo soccorso. Il problema aveva degli aspetti tecnici piuttosto importanti, soprattutto per quanto riguardava la questione delle pensioni. Nei momenti di grande euforia che avevano seguito l’unificazione, col rapidissimo sviluppo di un gran numero di nuove società, molte di esse si erano spinte a prevedere fra i loro scopi anche quelli delle pensioni di anzianità e dei sussidi per malattie inabilitanti al lavoro, senza in realtà aver fatto basato tali promesse su un preciso calcolo statistico, e senza poter fruire di un appoggio dello Stato (era stata deliberata la creazione di una Regia Cassa di Rendite vitalizie nel 1859, ma non era mai stata di fatto costituita). Si poneva quindi la questione di una tutela dei soci di queste società, come pure que lla della facoltà per le società stesse di acquisire beni immobili e donazioni. Cominciava cioè un lungo dibattito sulla legislazione sul mutuo soccorso in Italia, assai ben ricostruito dagli studi di Dora Marucco, che sarebbe proseguito fino al 1886, senza che nessun progetto riuscisse ad essere approvato dal parlamento. La ragione di questo ritardo stava soprattutto nel fatto che non vi era accordo fra le stesse associazioni operaie di mutuo soccorso sulle modalità con cui la legge avrebbe dovuto regolare il settore. 154 Atti del I Congresso Cattolico italiano tenutosi a Venezia del 12 al 16 giugno 1874, cit. in Cherubini, Beneficenza e solidarietà, p. 367. Il ritardo dell’associazionismo cattolico, e la consapevolezza della necessità di recuperare terreno rispetto a quello laico, è confermata, per un caso locale, ma particolarmente interessante, da L. Osnaghi Dodi, L’azione sociale dei cattolici nel milanese (1878-1904), Milano, Sugarco, 1974. 60 Luigi Tomassini Come abbiamo già detto, il congresso delle società di mutuo soccorso italiane tenutosi a Roma nel 1872, il primo dopo la presa di Roma e quindi dopo la unificazione completa della penisola che in un certo senso portava a compimento il Risorgimento italiano, si pronunciò in senso contrario al progetto di legge allora proposto e in genere ad ogni forma di legisla zione e di controllo sulle associazioni di mutuo soccorso; il principio che guidava le società operaie, specie quelle di orientamento mazziniano e democratico, era che ogni organo governativo, e in particolare la prevista commissione consultiva sugli istituti di previdenza e sul lavoro, non avrebbero potuto che limitare la libera attività delle associazioni, le quali secondo il loro intento avevano anche un importante ruolo politico da svolgere. Tuttavia, nel congresso di Bologna del 1877, per la prima volta, le società operaie approvarono esplicitamente un ordine del giorno in cui si affermava la necessità di una legge per il riconoscimento giuridico, anche se essa andava formulata in maniera tale da eliminare ogni controllo governativo. Effettivamente, ormai, la esigenza di una legislazione in materia si faceva sentire sempre più fortemente. Le società di mutuo soccorso italiane, che erano in gran parte nate dopo il 1861, come abbiamo visto, erano quindi di regola molto giovani; ma col passare degli anni alcuni problemi di ordine tecnico amministrativo, che erano stati sottovalutati all’inizio, come quelli del rapporto tecnico fra quote sociali e sussidi, del numero minimo di iscritti, delle pensioni, cominciavano a venire al pettine; inoltre, la forte mortalità e il forte ricambio che caratterizzava lo sviluppo delle società di mutuo soccorso in Italia, costituivano un elemento di forte preoccupazione perché i molti casi di fallimento di società di mutuo soccorso mal ordinate potevano riverberarsi in una sfiducia generalizzata verso quel tipo di meccanismo. Inoltre, nel 1876 con la cosiddetta «rivoluzione parlamentare» la sinistra liberale aveva assunto la guida del governo, dopo un quindicennio ininterrotto di predominio della destra. Per quanto in Italia queste due correnti del liberalismo italiano non fossero politicamente e socialmente troppo lontane, la sinistra aveva certamente una sensibilità maggiore verso alcuni problemi di natura sociale. In particolare, con il ministro Domenico Berti, all’inizio degli anni ’80, il governo Depretis programmò una serie di interventi legislativi in campo sociale: per una cassa di assicurazioni contro gli infortuni degli operai sul lavoro, per la legislazione sugli scioperi, per una cassa nazionale per le pensioni di anzianità agli operai; per l’istituzione dei probiviri nell’industria; e infine per il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso. Il nuovo progetto veniva quindi ora ad inquadrarsi in un contesto molto più ampio; e in una prospettiva che non poteva lasciare indifferenti le società operaie. Anche se i progetti di Berti non ebbero effettiva attuazione, almeno nell’immediato, una certa maggiore sensibilità da parte operaia si manifestò in occasione del congresso di Roma del marzo 1882, dove il progetto stesso, sia pure con qualche emendamento, fu approvato. Il tasso di socialità che le associazioni italiane sviluppavano, con le loro piccole dimensioni che permettevano un contatto personale e diretto fra tutti i soci, con le mille e svariatissime iniziative collaterali e attività sociali e culturali, erano già una ragione più che sufficiente per rendere impopolare ogni legislazione troppo restrittiva; anche se il diba ttito politico si concentrò negli ultimi anni sulla possibilità che le società di mutuo soccorso evolvessero verso la forma del “miglioramento”, ovvero avanzassero rivendicazioni per il miglioramento delle condizioni economiche e salariali degli operai, prefigurando associazioni di tipo sindacale. Il mutualismo in Italia 61 In realtà il carattere “misto” e territoriale della gran parte del mutualismo italiano rendeva difficili simili prospettive; mentre le associazioni sindacali si sarebbero infatti sviluppate poi autonomamente. Molto più pressante, proprio per questo carattere di rappresentanza “ge nerale” e non categoriale, era invece l’istanza della “politicità” delle associazioni, che era propugnata dai democratici. Quest’ultima però finiva per tradursi in una pregiudiziale contraria alla legge in quanto controllo da parte dello stato, che perdeva sempre terreno, di fronte all’esigenza ormai sempre più diffusa di formulare comunque una normativa tecnica. Così il progetto i legge Berti era una specie di compromesso fra queste diverse esigenze. Da una parte dettava alcune norme tecniche, ma prevalentemente formali, per la redazione degli statuti, lasciando peraltro alle associazioni la più ampia libertà di determinare i contenuti effettivi (ad esempio, si sanciva l’obbligo di indicare negli statuti la sede, i fini, le modalità e le condizioni di ammissione, le norme per l’impiego del patrimonio; ma si lascia vano da parte tutte quelle norme positive, relative ad esempio al numero minimo dei soci, alla suddivisione del patrimonio secondo le finalità, e via dicendo che erano stato oggetto della discussione per i progetti precedenti. Ugualmente, i fini delle associazioni erano stabiliti in maniera estremamente elastica ed ampia: bastava, per essere riconosciuta, che una associazione avesse uno o più dei seguenti fini: «assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavoro o di vecchiaia; venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti». Infine, i vantaggi previsti erano notevoli per la parificazione alle opere pie, in quanto riguardava donazioni, lasciti, e imposte relative; ma dal punto di vista fiscale corrente stabiliva dei vantaggi che nella pratica non erano molto maggiori di quelli che la prassi riconosceva anche alle società non riconosciute. Come affermò l’ex ministro Maiorana, relatore della commissione parlamentare che esaminò la legge, Quella che esaminiamo è una piccola legge, la quale per parecchi articoli avrebbe potuto figurare nei regolamenti, per altri nel diritto comune.155 L’ex ministro guardava forse con un po’ di rancore a questa legge che arrivava in porto, laddove i suoi progetti invece avevano fallito; ma in realtà sottolineava giustamente il fatto che si trattava di una «piccola legge»: e questo carattere era accentuato senz’altro dal fatto che essa prevedeva la volontarietà della richiesta di riconoscimento, lasciando quindi la possibilità a tutte le associazioni che non si fossero riconosciute nelle disposizioni emanate, la possibilità di restare al di fuori dell’orbita di applicazione della legge stessa. L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE DEL 1886 La legge del 1886 per come era concepita, permetteva quindi una grande libertà alle associazioni mutualiste, ma accordava anche a quelle non riconosciute notevoli vantaggi, quasi dello stesso tipo di quelli accordati alle società riconosciute: il che evidentemente non favoriva la diffusione del riconoscimento giuridico. Inoltre, il sospetto di una ingerenza governativa, e una posizione di intransigenza sul piano della collaborazione con le classi dirigenti caratterizzava molte società democratiche, e so155 Ivi p. 127. 62 Luigi Tomassini prattutto quella parte di associazioni che in qualche modo stavano entrando nell’orbita ideale del movimento operaio di matrice socialista. Così, la diffusione del riconoscimento giuridico fu estremamente lenta nel nostro paese negli anni successivi alla emanazione della legge. Dopo quasi 20 anni, nel 1904, la statistica ministeriale rilevava che solo il 23% delle società esistenti avevano chiesto ed ottenuto il riconoscimento ai sensi della legge del 1886, con una accelerazione nei primi anni. Una prima osservazione da fare riguarda la ripartizione regionale della distribuzione delle società riconosciute. Le associazioni riconosciute erano infatti particolarmente diffuse al sud: se ne contavano nel 1904 403, contro 839 al Nord; mentre le società non riconosciute erano 621, ma contro ben 3.144 al Nord. In altre parole, nel Meridione il 39% delle società esistenti erano riconosciute ai sensi della legge del 1886; mentre al Nord e al centro solo il 21%. Si hanno molti indizi che fanno ritenere che questa diffusione del riconoscimento giuridico al Sud fosse più un sintomo di debolezza che di forza delle associazioni meridionali: infatti le associazioni riconosciute al Sud erano il 26% del totale nazionale, ma raggruppavano solo il 19% dei soci. Per contro le società di mutuo soccorso del nord erano il 55%, ma con il 64% dei soci. Evidentemente le associazioni che si ponevano sotto la tutela della legge erano al Nord le più forti e numerose; mentre al Sud non vi era apprezzabile differenza, sotto questo aspetto, fra le società riconosciute e non riconosciute, come si vede dalla tabella seguente: Nord Centro Sud media dei soci – società riconosciute 219 175 137 media dei soci – società non riconosciute 138 124 115 Questa diversa incidenza della legge si poteva verificare anche esaminando la situazione finanziaria delle associazioni. Come si vede dal grafico seguente, il patrimonio delle associazioni di mutuo soccorso riconosciute era così distribuito nel 1904: Gr. 1.1. : Patrimonio delle società giuridicamente riconosciute per aree geografiche nel 1904 63 Il mutualismo in Italia Nord 77% Sud 10% Centro 13% Ciò significava una distribuzione assai diversa da quella del numero delle società, che è invece raffigurato nel Grafico seguente: Gr. 2.1. : Numero delle società giuridicamente riconosciute per aree geografiche nel 1904 Nord 55% Sud 26% Centro 19% Il patrimonio medio per società poteva essere calcolato in 34.092 lire al Nord, contro 16.788 al Centro e solo 8.702 al Sud, per le società riconosciute. Sotto questo aspetto, la differenza era molto meno marcata per le società non riconosciute. Infatti, il patrimonio medio per società era in questo caso di 8.429,94 lire al Nord, 6.454,54 al Centro e 3.555,23 al Sud. In tutti i casi regionali, le società riconosciute erano di gran lunga le più ricche: il patrimonio medio per società era infatti più del doppio sia al Sud che al Centro, e addirittura il quadruplo al Nord. Da tutti questi dati si ricava che le società che chiedevano di rientrare nell’ambito di applicazione della legge al Nord erano di gran lunga le più ricche e ben ordinate, le più numerose, e probabilmente quelle con l’amministrazione più efficiente. Al Sud invece erano asso- 64 Luigi Tomassini ciazioni molto più deboli, ma comunque sensibilmente più ricche delle altre, ma probabilmente con una amministrazione più farraginosa. Un ulteriore indicatore del disagio delle società del Sud veniva dal fatto che al quota di soci morosi era esattamente doppia di quella delle società del Nord. Un dato comune a tutto il mutualismo italiano era la bassa incidenza delle spese amministrative e di funzionamento (ivi comprese quelle per gli immobili) rispetto alle uscite erogate per servizi e sussidi ai soci. Questo dato non differiva quasi per niente fra Nord e Centro e fra società riconosciute e non: vi era invece una netta diversificazione con le società meridionali, come appare dalla tabella seguente, e stavolta a favore delle società non riconosciute, che sembravano meno appesantite da impegni amministrativi. Nord Centro Sud Percentuale delle spese per amministrazione sul totale società riconosciute società non riconosciute 35,2% 34,1% 32,8% 30,0% 59,6% 45,8% Un’altra forte differenza fra le società che avevano scelto di rientrare nell’ambito della legge del 1886, rispetto a quelle che ne erano rimaste fuori, era nel peso relativo dei contributi sociali nelle entrate della società. Come del resto si può arguire dai dati già esposti, le società riconosciute avevano una quota molto più forte di redditi patrimoniali, mentre quelle non riconosciute traevano il loro principale cespite d’entrata dalle quote sociali. Nord Centro Sud società riconosciute quote donazioni redditi patrimoniali 53,5% 7,7% 38,8% 56,3% 17,4% 26,3% 51,9% 2,2% 45,9% società non riconosciute quote donazioni redditi patrimoniali 69,8% 6,1% 24,2% 70,0% 7,2% 22,8% 74,8% 6,9% 18,4% In particolare, le due regioni dove il mutuo soccorso italiano aveva radici più antiche e dove lo sviluppo industriale era maggiore, cioè il Piemonte e la Lombardia, con il 38% delle società, contavano il 52% di tutti i redditi derivanti dagli investimenti e dal patrimonio. Inoltre, da notare che per i nostri fini la fortissima incidenza delle donazioni sui bilanci delle società riconosciute nel centro Italia: a formare questa quota contributiva in maniera decisiva proprio l’associazione di cui ci occupiamo. Dal punto di vista delle finalità sociali, la differenza più rilevante riguardava comu nque le pensioni di anzianità. Solo il 21% delle società non riconosciute prevedeva di corrispondere pensioni di anzianità ai propri soci, mentre la quota saliva al 36% fra le società riconosciute, con punte di oltre 50% nelle regioni avanzate del Nord, come in Lombardia, e minimi al Sud, dove, come abbiamo visto, il ricorso alla legge non era espressione di una forza delle società quanto di un bisogno di tutela. Il mutualismo in Italia 65 Del resto, la legge era nata, come abbiamo visto, soprattutto per rispondere in qualche modo proprio al problema delle pensioni di anzianità: visto che invece, per quanto riguardava la semplice assistenza per malattia acuta, le società riuscivano a corrispondere abbastanza bene ai loro scopi, data la loro struttura “leggera” e la grande flessibilità che questa consentiva loro. In realtà comunque il problema del trattamento pensionistico degli operai in Italia fu risolto solo dopo che si fu constata la inadeguatezza della legge del 1886, con una serie di provvedimenti diretti da parte dello Stato; anche se in una prima fase integrati con l’attività de lle società di mutuo soccorso. GEOGRAFIA E SVILUPPO DELL’ APPLICAZIONE DEL RICONOSCIMENTO GIURIDICO SECONDO LE STATISTICHE MINISTERIALI DEL 1895 E DEL 1904. In questa parte del lavoro cercheremo di vedere quale fu quindi il campo di applicazione della legge sul riconoscimento giuridico, disaggregando l’analisi sia per aree geografiche, sia per tipo di società. Va detto in primo luogo che le statistiche ministeriali non prevedono suddivisioni per tipologie e categorie delle società censite. Noi abbiamo invece provveduto, sulla base di una banca dati informatizzata che raccoglie tutti i dati delle statistiche, a rielaborazioni e riaggregazioni che tengono conto anche delle diverse tipologie. In questo senso, non essendo prevista dalla fonte nessuna diversificazione per tipologie, ci siamo affidati al nome delle associazioni stesse: il che è un criterio che non garantisce una esattezza assoluta, dato che non sempre al titolo della associazione corrispondeva una effettiva attività: ad esempio può darsi che una associazione di mutuo soccorso agricola perdesse questa sua specificazione, pur mantenendo per qualche tempo il termine nel titolo, o che viceversa una società mista si definisse in termini più precisi dal punto di vista professionale, senza che questo trovasse riscontro nel nome della società: ma si può ritenere che nel complesso i nomi della società corrispondano sia pure indicativamente e non con criteri di assoluta precisione, alle attività effettiv amente coperte. Fatta questa premessa, per l’analisi abbiamo proceduto nel modo seguente. Dal complesso delle società di mutuo soccorso riconosciute abbiamo estrapolato le società che riportavano nel titolo l'indicazione di una specifica professione, le società che indicavano una categoria di lavoratori comunque determinata in maniera non generica (come operai o contadini) quindi includendovi categorie come i lavoratori del mare, i lavoratori del commercio, ecc. Il primo elemento che colpisce è l'estrema varietà delle denominazioni. Ciò corrisponde da una parte ad una grande ampiezza del raggio d'estensione del mutualismo, che abbraccia categorie che vanno dai semplici braccianti fino a impiegati di livello medio o professionisti, come i medici; dall'altra parte ad una frammentazione estrema delle denominazioni, che segue le linee frastagliatissime delle diverse qualifiche occupazionali del tempo, in netto contrasto con la genericità del riferimento che abbiamo visto essere tipica della gran parte del mutualismo italiano. Si incontrano così associazioni che giungono a precisare in maniera estremamente dettagliata e circoscritta l'ambito professionale di rif erimento. L'altro dato assolutamente rilevante e in qualche misura sorprendente è il fatto che in questa categoria di associazioni definibili come «professionali» nelle statistiche professionali, categoria che già è estremamente ristretta anche rispetto ad altri casi nazionali, sono parti- 66 Luigi Tomassini colarmente scarse le associazioni che fanno esplicito riferimento al «mestiere» e quindi al mondo del tradizionale lavoro urbano dell'artigianato e della piccola fabbrica. Di contro ad un lavoro meno qualificato corrisponde di frequente un esplicito riferimento nel nome dell’associazione. Isolando il dato professionale è stato possibile anche individuare l’ampio raggio delle categorie abbracciate dall’associazionismo, che andavano dai braccianti ai medici, maestri e impiegati. Inoltre non è raro incontrare società dove datori di lavoro e lavoratori convivono. Una delle categorie più rappresentate è sicuramente quella dei piccoli e medi commercianti. Si possono incontrare associazioni comprendenti un’unica mansione lavorativa, e società comprendenti mestieri apparentemente disomogenei: quali camerieri caffettieri cuochi ed interpreti di Venezia (tab. tutte 1895), ma che in realtà spesso erano attività che si espletavano comunque in uno stesso ambito lavorativo. Per quanto riguarda la dislocazione geografica per aree del 1895 si rileva un'insolito equilibrio fra Nord e Sud: il numero delle associazioni censite nel meridione infatti è pari al 45% del totale, contro un 49% nella parte settentrionale del paese. Tuttavia se si prende in considerazione il numero dei soci effettivamente iscritti alle associazioni, si nota che il quadro cambia sensibilmente nella stessa statistica del 1895. Infatti il numero dei soci nelle società meridionali scende drasticamente in proporzione al totale nazionale, raggiungendo appena il 28%. Un trend esattamente opposto è invece quello che caratterizza le società settentrionali, le quali nello stesso anno raggruppano il 69% dei soci a livello nazionale. Per quanto riguarda le società delle regioni centrali della penisola, anche esse, come quelle meridionali perdono drasticamente di peso se si considera il numero dei soci invece che quello delle associazioni; ma comunque, in entrambi i casi, coprono percentuali molto esigue rispetto al totale nazionale ed anche rispetto al peso della popolazione presente. Si tratta come si vede, di dati in parte sorprendenti, specie per quanto riguarda il numero delle associazioni. Per spiegare meglio questo fenomeno sarà quindi opportuno condurre un'analisi più approfondita, controllando meglio l'articolazione territoriale per regioni (grafici in appendice) e per province (tabelle corrispondenti). Per quanto riguarda la statistica del 1895 il dato che maggiormente colpisce è l'alto numero di società professionali esistenti in Campania: 26 su 135, pari a circa il 20% del totale. Una quota molto alta di società hanno anche regioni come il Lazio ed il Veneto, con 19 ciascuna, mentre la Lombardia e soprattutto il Piemonte si trovano in posizione piuttosto arretrata in questa speciale graduatoria, visto che si situano rispettivamente al quarto e al settimo posto. Una prima spiegazione di questo fenomeno si ha da quanto abbiamo detto in precedenza: le associazioni meridionali sono quelle caratterizzate dalla estrema dispersione in piccoli mestieri, in attività minute nei settori dei servizi e delle occupazioni meno qualificate, e quindi, per quanto numerose, sono povere di soci e di patrimonio rispetto alle società del Nord. Per quanto la media dei soci nelle società della Campania e della Sicilia non sia del tutto inconsistente, superando comunque i cento soci per associazione in entrambi i casi, è vero d'altra parte che la maggior parte delle piccole e piccolissime associazioni dei mestieri minori hanno sede proprio in queste regioni. Il mutualismo in Italia 67 Fra le ultime 10 società per numero di soci, infatti, troviamo ben 8 società meridionali, associazioni piccolissime e dalle denominazioni un po’ pittoresche che lasciano intravedere una realtà sociale e professionale corrispondentemente dispersa e disaggregata, come, ad esempio la Società dei turacciolai di Caltagirone o la Società dei fa bbri ferrai meccanici e chiavettari di Napoli. Per contro, per quanto riguarda le società con un maggior numero di soci, il Nord è molto più rappresentato fra le società più numerose. In alcuni casi, come nel caso de lla società che vanta il maggior numero di soci in assoluto, la Società di Mutuo Soccorso istruzione ed educazione degli insegnanti di Torino, o per la Società di Mutuo Soccorso fra le persone di servizio di Milano, si tratta di associazioni molto antiche, che hanno una storia, un patrimonio e raggio d'azione molto più ampio ovviamente delle piccolissime associazioni appena citate. Comunque, in ogni caso, il dato conserva una sua importanza, e merita di essere sottolineato, perché testimonia evidentemente quanto meno di uno sforzo per impiantare un articolato tessuto associativo nelle regioni meridionali che, come sappiamo, era stato uno degli obbiettivi del mutualismo italiano in quegli anni. In effetti la situazione è già sensibilmente cambiata, anche solo per quanto riguarda il numero delle società esistenti, nel 1904 infatti se ne contano 207 contro le 135 della precedente censimento. Il Nord ha un aumento che gli permette di mantenere il suo primato associativo, tuttavia è il Centro ad avere l’aumento più evidente passando dal 6% al 22% per il numero delle società, dal 3% all’11% per il numero di soci. Questo incremento è dovuto soprattutto ad un aumento della Toscana per quanto riguarda il numero delle società (che passano da 4 a 11, con i soci che passano da 527 a 1440), ma anche dall’incremento che nelle Marche si verifica soprattutto nel numero degli associati (che passano da 46 a 769). In Toscana, sono le recenti società legate ai trasporti a incrementare il numero dei soci, come nel caso della “Cassa di sovvenzione e vedovile fra il personale tramviario e degli omnibus” fondata a Firenze nel 1902 con 343 soci. Mentre nelle Marche è il riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso tra il personale operaio della manifattura tabacchi ad incrementare in modo consistente il numero dei soci, infatti ne aggiunge ben 482 di cui 422 donne. Per quanto riguarda i soci nel 1904 Piemonte raddoppia passando da 5.470 a 11.247 mentre il numero totale di società ha l’aumento più significativo da 9 a 32 società: infatti non solo aumentano di numero e consistenza le società localizzate nella sola Torino (Società di Mutuo Soccorso fra il personale della società anonima torinese del tramway de 1900 con 967 soci) ma si aggiungono due nuove province non presenti nella statistica del 1895: quali Novara ed Ale ssandria (con 15 società in più e 2.500 soci circa). Per quanto riguarda il patrimonio è sicuramente il Piemonte ad avere il primato sulle altre regioni, seguito dalla Lombardia e dall’Emilia: rispettivamente Piemonte 4089731, Lombardia 3.595.985 e l’Emilia 1.918.414. La situazione di primato del Centro e del Nord Italia rispetto ad un Sud frazionato in tante piccole società viene confermata anche dalle tabelle per province. Infatti vediamo che se nel 1904 Napoli aveva ben 27 società rispetto ad una realtà economicamente più consistente come Bologna che ne contava solo 10, il rapporto fra i soci ribalta questa graduatoria facendo balzare Bologna prima fra tutte le regioni con 12914 soci, mentre Napoli ne contava solo 2.189. Analogo discorso si potrebbe fare per l’entità patrimoniale delle asso- 68 Luigi Tomassini ciazioni, che non solo era concentrata a Nord ma divisa in gran parte tra le province di Torino Milano e Bologna. Ma vediamo ora quale era la suddivisione interna, per così dire per categorie, fra le società che avevano una specificazione professionale nel loro nome. LE SOCIETÀ AGRICOLE Le società agricole costituiscono una delle realtà associative più importanti nell’ambito delle statistiche prese in esame. Il criterio di selezione seguito è quello di isolare tutte le società dove nel titolo compare la parola agricola o agricoltori o altrimenti qualifiche comunque attinenti a mansioni le gate al mondo agricolo. Non mi sono naturalmente limitato a considerare le pure e semplici derivazioni del termine agricolo, ma ho preso in considerazione tutte le espressioni che potessero riferirsi ad attività connesse con l'agricoltura, come ad esempio nel caso della Società Unione di Mutuo Soccorso ed istruzione fra i terrazzani di Alessandria, composta appunto di braccianti specializzarti nella costruzione di terrazzamenti agricoli. Nel 1895 si riscontrano molte società genericamente intitolate ad operai e contadini, mentre nel 1904, il nome delle società risulta molto più articolato, con società che raggruppano più mestieri anche disomogenei, come nel caso della Società di Mutuo Soccorso fra operai, agricoltori, reduci delle patrie battaglie e soldati in congedo di Moncucco Torinese, o della Società di Mutuo Soccorso fra Artisti, agricoltori, impiegati e commercianti di Rivalta Bormida. Per quanto riguarda la distribuzione geografica di questo tipo di associazioni, come si vede dal grafico numero 1. 2, nel 1895 è il Nord ad avere la maggioranza di società con il 74%, seguito dal Sud che ne ha un 23% e da un ridottissimo Centro al 3%. Questi dati vengono confermati anche dal corrispondente grafico sul numero di soci per aree (gr. 3.2), che mostra un Nord ancora più importante con una percentuale dell’83%, un Sud sceso al 16% ed infine il Centro all’1%. A determinare questa situazione di predominio del Nord sono il Piemonte (43% con 87 società), la Lombardia (21% con 44 società) e il Veneto (7% con 16 società) con 147 società su di un totale complessivo di 199 società, e con 25.221 associati su 30.337 in totale. Si tratta di società di dimensioni medio alte, dovute probabilmente al fatto che in molti casi esse non comprendono solamente una, ma più categorie, e probabilmente dovute anche in molti casi ai particolari caratteri dell'insediamento umano in queste zone agricole, ciò fa sì che, dove il mutualismo riesce ad attecchire, incontra larghe adesioni, o, per contro, non penetra affatto. Sono infatti ricorrenti i casi di società che superano i 200 e i 300 soci fino ad arrivare a società come la Società di Mutuo Soccorso operaia agricola di Stradella (di 774 soci) e la Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione fra gli artisti operai ed agricoltori di Voghera (di 734). La principale motivazione di questo grande numero di associati nelle società del Nord è da ricercarsi nel fatto che la maggior parte di queste associazioni sono di tipo territoriale e dunque raggruppano al loro interno lavoratori di più ambiti occupazionali residenti in uno stesso Comune; questo lo si desume sia dal fatto che le società in questione hanno spesso sede in piccoli o medi Comuni, che dal titolo stesso delle società dove vengono citati più mestieri. Il mutualismo in Italia 69 Per il Sud sono Puglia e Calabria ad avere più società, nella prima, dove si contano ben 14 società, vediamo che sono nella massima parte concentrate nella provincia di Lecce, mentre per la seconda regione si concentrano nella provincia di Reggio Calabria. Per il Centro Italia le uniche regioni che registrano la presenza di sodalizi mutualistici sono il Lazio con quattro società e la Toscana con un’unica associazione a Pisa. Quest’ultimo dato deve essere letto alla luce del fatto che in questo lavoro sono state analizzate solo le società giuridicamente riconosciute, e che quindi esistevano altre associazioni, che avevano rifiutato il riconoscimento giuridico. Per quanto riguarda la distribuzione geografica per aree, nel 1904 si conferma il dato emerso nel 1895 di una netta prevalenza di associazioni al Nord (76%), mentre il Centro e il Sud aumentano rispettivamente al 4% e al 20%. Mentre per quanto riguarda il numero dei soci si registra una diminuzione del 4% per il Nord che passa al 79%, a vantaggio del Centro che sale al 3% e del Sud che arriva al 18%. Per il Sud sono in ordine di importanza la Calabria, la Sicilia e l’Abruzzo ad avere il maggior numero di società e di soci, confermando così i dati che erano emersi nella corrispettiva tabella del 1895 per regioni (vedi appendice tab. 3.2), con la vistosa eccezione della Puglia che passa dalle 14 società del 1895 a 5 società nel 1904. Dal confronto delle stastistiche emerge infatti che le uniche cinque società a sopravvivere sono quelle di Lecce, provincia che comunque in precedenza ne contava il doppio. Inoltre notiamo anche che le uniche due società che ritroviamo in entrambe le statistiche hanno perso un numero cospicuo di soci (la Società agricola di Mutuo Soccorso “religione libertà e lavoro” di Mesagne che nel 1895 contava 300 soci nel 1904 ne ha solo 40). L’entità patrimoniale delle società si concentra quasi interamente al Nord che da solo arriva all’89% suddiviso in ordine di importanza fra la Lombardia, il Piemonte e il Veneto mentre, sia per il Centro che per il Sud, le percentuali sono irrisorie con l’unica eccezione dell’Umbria che conta il patrimonio più importante con 96.520 lire. Analizzando in ultimo le tabelle per provincia di entrambi gli anni e soffermandoci sulle prime quindici, notiamo come tutte le città del Sud perdono società, con l’unica eccezione di Catanzaro che passa da tre società ad otto. Questo dato è solo apparentemente in contrasto con l’assetto economico dell’Italia dell’epoca, basato interamente sull’agricoltura, in quanto è solo il Nord ad avere un’organizzazione del lavoro (con la presenza della figura sociale del bracciante dell'azienda capitalistica moderna, con tutto quello che ne consegue per le abitudini di vita e le pratiche di solidarietà che sono state a suo tempo messe in luce dagli studi di Zangheri e Procacci), che permette all’associazionismo di affermarsi, mentre questo è molto più difficile per un Centro basato sulla mezzadria e ancora di più in un Sud latifondista. LE SOCIETA’ “OPERAIE ” 70 Luigi Tomassini Essendo moltissimi i sodalizi che riportano nel loro titolo la dicitura Società Operaia di Mutuo Soccorso (peraltro prevista dalla legge), abbiamo qui selezionato come società operaie solo quelle associazioni che riportano la parola operaia\operai nella seconda parte del titolo, sembrandoci così più evidente la volontà delle associazioni stesse di qualificarsi come operaie. Pochissime società nominano nel loro titolo lo stabilimento industriale dove lavorano i loro associati, quattro nel 1895 e cinque nel 1904, mentre sono molte quelle associazioni che nominano il paese o i paesi da cui provengono i soci, questo porta quindi a supporre la prevalenza di società di tipo territoriale su quelle professionali, caratteristica questa tipica del mutualismo italiano. Nel 1895 le società operaie si concentrano al Nord per più della metà (62%), mentre il Centro e il Sud contano rispettivamente il 17% e il 21%, equilibrio questo che si mantiene anche in rapporto ai soci dove le prime due aree geografiche aumentano di poco, registrando rispettivamente il 64% e 18% e dove solo il Sud ha una perdita di tre punti percentuali che lo portano al 18%. Nel Nord Italia le regioni in cui si ha una concentrazione maggiore di società e di soci sono la Lombardia (75 società con 18.721 soci) e il Piemonte (62 società con 11.293 soci), seguite subito dopo dalla Toscana per il Centro (27 società con 7.194 soci) e dalla Campania per il Sud (23 società con 4.169 soci). Il dato sulla Toscana risulta particolarmente interessante, sia perché questa regione non era mai comparsa fra le prime tre per numero di società e di soci, sia per la distribuzione abbastanza omogenea fra le province. Nel 1904 il totale delle società raddoppia, si passa infatti dalle 287 associazioni (del 1895) a 575, questo aumento riguarda però esclusivamente l’area Nord dell’Italia, che da sola ora raggruppa il 72% delle società complessive, mentre il Centro raggruppa il 13% del totale e il Sud il 15%. Il rapporto con il numero di soci lascia questo quadro sostanzialmente invariato, l’unico dato di rilievo è la perdita al Sud di ben 5 punti percentuali che si attesta così al 10%. Nell’area Nord è la regione Piemonte con 212 società e 35.934 soci a costituire la realtà associativa più rilevante, seguita subito dopo dalla Lombardia (131 società e 26.956 soci). Tuttavia il dato più interessante in questa nostra classifica è quello relativo alla Toscana, che si riconferma al terzo posto sia per il numero di associazioni che per quello di soci, dimostrando così la presenza di un tessuto associativo di tipo operaio qualitativamente e quantitativamente significativo. Infatti, accanto a società mutue legate a stabilimenti industriali come la manifattura Ginori di Firenze o il Lanificio Ricci di Arezzo, si verifica la nascita di nuove società soprattutto nella provincia di Firenze, che arriva a raddoppiarle. Inoltre la presenza di un rilevante numero di soci maschi mantenuto per entrambi gli anni in questione, unito al fatto che molte società hanno anche un’antica data di fondazione, ci porta a ritenere queste società ben radicate sul territorio. Per il Meridione si verifica invece una vera e propria inversione di rapporti fra le sue due regioni di punta: la Campania e la Calabria, la prima infatti che nel 1895 aveva il maggior numero di società e di soci, cede ora il posto alla seconda, che conta il ragguardevole numero di 34 società e 3.037 associati. I grafici 5. 3. per aree geografiche e 8. 3. per regioni sul patrimonio confermano quanto detto fino ad ora: infatti si registra un 83% per l’area Nord, un 11% per le regioni centrali e un 6% per il Meridione; con regioni come la Lombardia ed il Piemonte (338.050.853 lire Il mutualismo in Italia 71 la prima e 5.540.825 la seconda) che distanziano nettamente l’entità patrimoniale delle società del resto d’Italia, ma con una Toscana che, anche con una cifra nettamente inferiore (826.559 lire) alle prime due, si situa comunque al terzo posto. Per le regioni del Sud è da rilevare il dato che la Campania, pur avendo perso il suo primato per il numero di società e di soci, risulta prima per l’entità patrimoniale delle sue società (142.778 lire). Per ultimo, analizzando le tabelle 2. 3. 1895 per provincia e 5. 3. 1904 per provincia, possiamo individuare che le provincie che in assoluto hanno una crescita maggiore sono quelle del Piemonte, con Torino che passa da 13 società a 70, Alessandria da 27 a 63, Novara da 16 a 50 e Cuneo da 6 a 29. Per il Centro è Firenze la più importante che le raddoppia arrivando a 14 associazioni, mentre per il Sud è la provincia di Re ggio Calabria con più società (ma ha un aumento di una sola società), mentre Catanzaro che è la seconda provincia, ha uno sviluppo notevole passando da sei società a tredici. LE SOCIETÀ “ARTIGIANE” In questa categoria di associazioni sono state inserite tutte quelle società che riportano espressamente nel titolo la parola artigiano, o suoi sinonimi dell’epoca come artista o artiere. Naturalmente, la qualifica di artigiano nel titolo non costituisce in sé una certificazione riguardo alla reale composizione sociale della base dell’associazione: mentre infatti per le società agricole si può supporre che l’inserimento del termine nel nome della società volesse significare una presenza effettiva, o almeno l’intenzione di prevedere una rilevante presenza di lavoratori de l settore agricolo, nel caso del termine artigiano siamo di fronte ad un termine che per certi versi è ancora intercambiabile con quello di operaio; cosicché ad esempio potremmo trovare molte società operaie dove la base sociale vede presenti forti componenti artigiane, mentre in società artigiane possono essere presenti componenti propriamente operaie (a cominciare dalla più importante di queste, la Fratellanza Artigiana d’Italia, che contava al suo interno un’importante numero di lavoratori dipendenti e di operai veri e propri). Tuttavia l’uso del termine è comunque indicativo di un diverso atteggiamento culturale, oltre che probabilmente di una effettiva diversificazione sociale, per cui abbiamo preferito distinguere queste società da quelle che portano soltanto il termine operaio nel loro titolo. La concentrazione associativa per aree regionali mostra più della metà delle associazioni localizzate a Nord (56%), con le restanti società suddivise quasi in modo paritario fra il Centro e il Sud, rispettivamente con il 20% e il 24%. Andando a confrontare questi dati con quelli relativi al numero di soci la situazione non cambia in modo sostanziale, infatti l’equilibrio fra le aree geografiche rimane lo stesso anche se il Nord passa ad una percentuale più alta, 66%, e il Centro e il Sud scendono entrambi al 17%. Piemonte Lombardia e Veneto sono le regioni con più società e più soci, ma mentre le prime due insieme contano 20 società con 5.145 associati, il Veneto con 4 associazioni ne conta ben 2.858; in quest’ultima regione infatti si localizzano due società grandi e di antica fondazione come la Società di Mutuo Soccorso fra gli artigiani vicentini di Vicenza del 72 Luigi Tomassini 1858 con 1.500 soci e la Società di Mutuo Soccorso degli artigiani negozianti e professionisti di Padova del 1865 con 1.008 soci. Per il Centro sono l’Umbria e il Lazio le regioni più importanti contando entrambe 4 socie tà, tuttavia per il numero di soci solo la prima ha una qualche rilevanza con 1.668 soci complessivi. Nel Sud sono invece la Campania e la Calabria le regioni più significative con quattro associazioni e con poco più di novecento soci ciascuna. Nel 1904 si verifica un raddoppio delle società, che va a vantaggio sia del Nord che si rafforza ulteriormente arrivando al 61% di società, ma anche del Centro Italia che arriva ad un 25%, mentre per il Sud si registra un consistente calo che lo porta al 14%. Il confronto con il numero di soci ci mostra ancora una volta che è solo il Nord, che sale fino all’83%, a sviluppare un associazionismo mutualistico composto da società rilevanti numericamente, mentre il Centro (12%) e, in misura ancora maggiore, il Sud (5%) rimangono caratterizzati dalla presenza di piccole o medie associazioni. La tabella 6. 4. per regioni ci permette inoltre di visualizzare che la più grande concentrazione di società è in Piemonte che conta 36 associazioni, seguito dalla Lombardia con 13 e dal Veneto con 7; mentre per il numero di soci la Lombardia con 29.471 associati distanzia nettamente le altre due regioni. Per il Centro si conferma il prevalere dell’Umbria con 11 società e 2.527 soci, ma anche un significativo aumento per la Toscana che passa a cinque società e a 1.002 associati. Per quanto riguarda il Sud vediamo invece che, se anche alcune regioni come la Campania e la Calabria aumentano di società e di soci, nel complesso il Meridione rimane in posizione nettamente minoritaria e di scarsa crescita rispetto al resto d’Italia. Il patrimonio è concentrato in massima parte al Nord (76%), con una buona percentuale per il Centro 19% e una molto esigua per il Sud 5%. Infatti dal grafico 10. 4. per regioni possiamo constatare che in ordine di rilevanza Piemonte (802.221 lire), Lombardia (647.088 lire), Veneto (341.562 lire) ed Emilia distanziano nettamente le altre regioni, con le uniche eccezioni dell’Umbria per il Centro (226.754 lire) e della Ca mpania per il Sud (109.096 lire). Quindi il confronto delle tabelle 5. 4 e 6. 4. (per provincia) ci permette un bilancio conclusivo che registra come dati più interessanti: l’aumento delle provincie piemontesi, sia per il numero di società ma soprattutto per quello dei soci, la creazione di nuove società sia al Centro che al Nord (Firenze, Pisa, Milano, Ravenna, ecc.), mentre per il Sud la situazione rimane sostanzialmente quella del 1895. LE SOCIETÀ “PROFESSIONALI” Dal complesso delle società di mutuo soccorso riconosciute abbiamo estrapolato le società che riportavano nel titolo l'indicazione di una specifica professione, le società che indicavano una categoria di lavoratori comunque determinata in maniera non generica (come operai o contadini) quindi includendovi categorie come i lavoratori del mare, i lavoratori del commercio, ecc. Il mutualismo in Italia 73 Il primo elemento che colpisce è l'estrema varietà delle denominazioni. Ciò corrisponde da una parte ad una grande ampiezza del raggio d'estensione del mutualismo, che abbraccia categorie che vanno dai semplici braccianti fino a impiegati di livello medio o professionisti, come i medici; dall'altra parte ad una frammentazione estrema delle denominazioni, che segue le linee frastagliatissime delle diverse qualifiche occupazionali del tempo, in netto contrasto con la genericità del riferimento che abbiamo visto essere tipica della gran parte del mutualismo italiano. Si incontrano così associazioni che giungono a precisare in maniera estremamente dettagliata e circoscritta l'ambito professionale di riferimento: è questo il caso di associazioni come quella degli sportellai maranesi di Napoli o fra i cuoiai freschi del macello di Napoli. L'altro dato assolutamente rilevante e in qualche misura sorprendente è il fatto che in questa categoria di associazioni definibili come "professionali" nelle statistiche professionali, categoria che già è estremamente ristretta anche rispetto ad altri casi nazionali, sono particolarmente scarse le associazioni che fanno esplicito riferimento al "mestiere" e quindi al mondo del tradizionale lavoro urbano dell'artigianato e della piccola fabbrica. Di contro ad un lavoro meno qualificato corrisponde di frequente un esplicito riferimento nel nome dell’associazione, ad esempio la società dei maccaronai e fornai di Perugia. Isolando il dato professionale è stato possibile anche individuare l’ampio raggio delle categorie abbracciate dall’associazionismo, che andavano dai braccianti ai medici, maestri e impiegati. Inoltre non è raro incontrare società dove datori di lavoro e lavoratori convivono, come nel caso della Società di Mutuo Soccorso degli scaricatori della dogana e porto tra lavoranti padroni e affini di Napoli. Una delle categorie più rappresentate è sicuramente quella dei piccoli e medi commercianti, quali per esempio la Società di Mutuo Soccorso degli artigiani negozianti e professionisti di Padova o la Società “Michele Amari” tra i negozianti e trafficanti di vino di Palermo. Si possono incontrare associazioni comprendenti un’unica mansione lavorativa (pasticcieri), e società comprendenti mestieri apparentemente disomogenei: quali camerieri caffettieri cuochi ed interpreti di Venezia, ma che in realtà erano attività che si espletavano comunque in uno stesso ambito lavorativo. Per quanto riguarda la dislocazione geografica per aree del 1895 si rileva un'insolita equilibrio fra Nord e Sud: il numero delle associazioni censite nel meridione infatti è pari al 45% del totale, contro un 49% nella parte settentrionale del paese. Tuttavia se si prende in considerazione il numero dei soci effettivamente iscritti alle associazioni, si nota che il quadro cambia sensibilmente nella stessa statistica del 1895. Infatti il numero dei soci nelle società meridionali scende drasticamente in proporzione al totale nazionale, raggiungendo appena il 28%. Un trend esattamente opposto è invece quello che caratterizza le società settentrionali, le quali nello stesso anno raggruppano il 69% dei soci a livello nazionale. Per quanto riguarda le società delle regioni centrali della penisola, anche esse, come quelle meridionali perdono drasticamente di peso se si considera il numero dei soci invece che quello delle associazioni; ma comunque, in entrambi i casi, coprono percentuali molto esigue rispetto al totale nazionale ed anche rispetto al peso della popolazione presente. Si tratta, come si vede, di dati in parte sorprendenti, specie per quanto riguarda il numero delle associazioni. 74 Luigi Tomassini Per spiegare meglio questo fenomeno sarà quindi opportuno condurre un'analisi più approfondita, controllando meglio l'articolazione territoriale per regioni (grafici 6. 5 e 7. 5) e per provincie (tabelle 2. 5 e 3. 5). Per quanto riguarda la statistica del 1895 il dato che maggiormente colpisce è l'alto numero di società professionali esistenti in Campania: 26 su 135, pari a circa il 20% del totale. Una quota molto alta di società hanno anche regioni come il Lazio ed il Veneto, con 19 ciascuna, mentre la Lombardia e soprattutto il Piemonte si trovano in posizione piuttosto arretrata in questa speciale graduatoria, visto che si situano rispettivamente al quarto e al settimo posto. Una prima spiegazione di questo fenomeno si ha da quanto abbiamo detto in precedenza: le associazioni meridionali sono quelle caratterizzate dalla estrema dispersione in piccoli mestieri, in attività minute nei settori dei servizi e delle occupazioni meno qualificate, e quindi, per quanto numerose, sono povere di soci e di patrimonio rispetto alle società del Nord. Per quanto la media dei soci nelle società della Campania e della Sicilia non sia del tutto inconsistente, superando comunque i cento soci per associazione in entrambi i casi, è vero d'altra parte che la maggior parte delle piccole e piccolissime associazioni dei mestieri minori hanno sede proprio in queste regioni, come si vede dall'elenco in tabella 3. 5. Fra le ultime 10 società per numero di soci, infatti, troviamo ben 8 società meridionali, associazioni piccolissime e dalle denominazioni un po’ pittoresche che lasciano intravedere una realtà sociale e professionale corrispondentemente dispersa e disaggregata, come, ad esempio la Società dei tura cciolai di Caltagirone o la Società dei fabbri ferrai meccanici e chiavettari di Napoli. Per contro, per quanto riguarda le società con un maggior numero di soci, il Nord è molto più rappresentato fra le società più numerose. In alcuni casi, come nel caso de lla società che vanta il maggior numero di soci in assoluto, la Società di Mutuo Soccorso istruzione ed educazione degli insegnanti di Torino, o per la Società di Mutuo Soccorso fra le persone di servizio di Milano, si tratta di associazioni molto antiche, che hanno una storia, un patrimonio e raggio d'azione molto più ampio ovviamente delle piccolissime associazioni appena citate. Comunque, in ogni caso, il dato conserva una sua importanza, e merita di essere sottolineato, perché testimonia evidentemente, quanto meno, uno sforzo per impiantare un articolato tessuto associativo nelle regioni meridionali che, come sappiamo, era stato uno degli obbiettivi del mutualismo italiano in quegli anni. In effetti la situazione è già sensibilmente cambiata, anche solo per quanto riguarda il numero delle società esistenti, nel 1904: infatti se ne contano 207 contro le 135 della precedente censimento. Il Nord ha un aumento che gli permette di mantenere il suo primato associativo, tuttavia è il Centro ad avere l’aumento più evidente passando dal 6% al 22% per il numero delle società, dal 3% a l’11% per il numero di soci. Questo incremento è dovuto soprattutto ad un aumento della Toscana per quanto riguarda il numero delle società (che passano da 4 a 11, con i soci che passano da 527 a 1440), ma anche dall’incremento che nelle Marche si verifica soprattutto nel numero degli associati ( che passano da 46 a 769 ). In Toscana sono le recenti società legate ai trasporti a incrementare il numero dei soci, come nel caso della “Cassa di sovvenzione e vedovile fra il personale tramviario e degli omnibus” fondata a Firenze nel 1902 con 343 soci. Mentre nelle Marche è il riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso tra il personale operaio della manifattura tabacchi ad incrementare in modo consistente il numero dei soci, infatti ne aggiunge ben 482 di cui 422 donne. Il mutualismo in Italia 75 Per quanto riguarda i soci nel 1904 Piemonte raddoppia passando da 5470 a 11247 mentre il numero totale di società ha l’aumento più significativo da 9 a 32 società: infatti non solo aumentano di numero e consistenza le socie tà localizzate nella sola Torino (Società di Mutuo Soccorso fra il personale della società anonima torinese del tramway de 1900 con 967 soci), ma si aggiungono due nuove provincie non presenti nella statistica del 1895: quali Novara ed Alessandria.(con 15 società in più e 2500 soci circa). Per quanto riguarda il patrimonio è sicuramente il Piemonte ad avere il primato sulle altre regioni, seguito dalla Lombardia e dall’Emilia: rispettivamente Piemonte 4089731, Lombardia 3595985 e l’Emilia 1918414. La situazione di primato del Centro e del Nord Italia rispetto ad un Sud frazionato in tante piccole società viene confermata anche dalle tabelle per provincie (2. 5 e 5. 5). Infatti vediamo che se nel 1904 Napoli aveva ben 27 società rispetto ad una realtà economicamente più consistente come Bologna che ne contava solo 10, il rapporto fra i soci ribalta questa graduatoria facendo balzare Bologna prima fra tutte le regioni con 12.914 soci, mentre Napoli ne contava solo 2.189. Analogo discorso si potrebbe fare per l’entità patrimoniale delle associazioni, concentrata al Nord e divisa rispettivamente tra le provincie di Torino, Milano e Bologna. LE SOCIETÀ “MILITARI” Rientrano in questa categoria tutte quelle società che riportano nel loro nome un riferimento al mondo militare, in modo generico come nel caso della Società di Mutuo Soccorso dei Militari in Congedo di Alessandria, o più specifico come nel caso della società di Bologna intitolata Società di Mutuo Soccorso fra sottufficiali dei R.R. Carabinieri e Carabinieri in congedo. Alcune società specificano, nel loro titolo, l’appartenenza ad un evento bellico particolare, come la Società di Mutuo Soccorso fra i superstiti Garibaldini “Giuseppe Garibaldi” di Roma o la Società di Mutuo Soccorso fra i veterani riminesi nelle “guerre 1848-49” di Rimini. Nel grafico 1. 6. del 1895 sulla suddivisione per aree geografiche, il Nord (51%) è predominante, ma non in modo assoluto avendo il Sud una percentuale del 33% ,e il centro una del 16%. I valori percentuali sul numero dei soci confermano sostanzialmente quelli sopra menzionati con un Nord al 59% un Centro al 10% e un Sud al 31%. Il grafico 6. 6. sul numero di società e il grafico 8. 6. sul numero di soci per regioni, dello stesso anno, ci permettono poi di visualizzare più specificatamente la reale dislocazione di questa tipologia di associazioni sul territorio nazionale, mostrandoci in ordine di importanza il Piemonte e la Lombardia, ( quest’ultima soprattutto in riferimento al numero di soci), e l’Emilia; per il Sud sono invece la Sicilia e Calabria a riportare i valori più significativi sia in relazione al numero di società che di soci, i quali superano spesso il centinaio come nel caso della Società di Mutuo Soccorso fra i militari in congedo di Caltanissetta che conta 306 associati. Mentre per il Centro è soprattutto il Lazio ad avere il maggior numero di società. Nel 1904 il Nord e il Sud perdono entrambi una piccola percentuale a vantaggio del Centro, che passa dal 16% al 21%, aumento questo che viene riconfermato dal grafico sul 76 Luigi Tomassini numero di soci per aree (4. 6) che porta le regioni dell’Italia centrale ad un 30%. Responsabile di questo aumento e’ la regione Lazio, ed in particolare di una associazione localizzata a Roma: la Società previdenza fra gli ufficiali del Regio Esercito e della Reale Marina con 1055 soci. Un’altra questione da porre in rilievo sono le nove società della Sicilia, che la portano al secondo posto nella nostra classifica per regioni. Anche il numero dei soci risulta molto importante se paragonato a quello delle altre regioni meridionali ( la Sicilia conta infatti ben 1.071 soci, mentre la Sardegna ne conta 376 e la Calabria 95). Per quanto riguarda il patrimonio vediamo che per la prima volta si localizza per più della metà (63%) al Centro, con un 25% al Nord e con un 12% al Sud. A causare la grande prevalenza della parte centrale dell’Italia è il Lazio che lascia nettamente indietro il resto del paese. Per puntualizzare meglio quest’ultima questione ( per fare un esempio il Piemonte che risulta primo per il numero delle società conta un patrimonio di 15.887.800 lire, mentre il Lazio che è quarto per il numero di società ha un patrimonio di 63.133.500 lire) è necessario riferirsi alla tabella 5. 6. che indica la distribuzione per provincie nel 1904, e che ci fa rilevare che tutte le società erano concentrate nella capitale. LE SOCIETA’ “MISTE” O “GENERALI ” Sono state inserite in questa categoria tutte quelle associazioni che nel titolo non riportano una qualifica specifica, quindi vi rientrano tutte le società semplicemente denominate di mutuo soccorso, o intitolate ai reali, o a personaggi famosi dell’epoca, come nel caso della Società di mutuo soccorso femminile "Margherita di Savoia" di Alessandria, o le numerose intitolate a Garibaldi e le meno numerose a Cavour, o quelle altrimenti intitolate a notabili locali o a santi patroni. Inoltre vi abbiamo fatto rientrare anche quei sodalizi difficilmente inquadrabili in una categoria determinata come la Società di Mutuo Soccorso istituita nello Stato di Illinois (Ame rica) con filiale in Pizzone a Campobasso. Nel 1895 si contano 588 società distribuite per la metà al Nord, in una buona percentuale al Sud 33%, e per un 17% al Centro. In rapporto al numero di soci, grafico 3. 7, si registra un lieve aumento per il Nord Italia che passa al 57%, una medesima percentuale per il Centro e una diminuzione per il Sud che conta ora il 26%. Il Piemonte con 117 società è la regione più importante, e, fatto insolito, è seguita dalla Calabria che conta 63 società, e quindi più associazioni rispettivamente della Lombardia che ne conta 58 e del Veneto che ne ha 42. Le quattro regioni centrali, come si può constatare dalla tabella 3. 7 per regioni del 1895, risultano invece essere su posizioni numeriche sostanzialmente paritarie, con 30 società per la Toscana, 22 per l’Umbria e 21 per la Marche e 17 per il Lazio. Per le altre regioni del Sud si registra, come per il già citato caso calabrese, la presenza di un buon numero di società: l’Abruzzo conta infatti 40 associazioni e la Campania e la Puglia ne hanno invece la prima 39 e la seconda 37. Nel 1904 il numero complessivo delle società aumenta solo di un centinaio di sodalizi, che si distribuiscono sul territorio, come mostra il grafico 2. 7 per aree geografiche, un po’ diverso rispetto a quella del 1895, vediamo infatti che il Nord è ora al 42%, e che quindi ha Il mutualismo in Italia 77 perso società sia a vantaggio del Sud 36%, ma soprattutto del Centro che sale al 22%. In rapporto al numero di soci la percentuale del Nord aumenta di un po’ arrivando al 48%, mentre il Sud perde sei punti percentuali, (e il Centro non mostra variazioni.) Dalla tabella 6. 7( per regioni) possiamo vedere che il Piemonte è ancora la regione più importante, anche se ha perso una ventina di società, seguita dalla Lombardia (64 società ) e dal Veneto (53 società), la Toscana è ancora la regione con più società per il Centro, aumentando inoltre le sue associazioni di una decina, mentre per il Sud la Calabria ha perso decisamente peso passando da un’ipotetica seconda posizione alla nona, mentre l’Abruzzo e la Campania aumentano ma di poco. Il patrimonio è localizzato in massima parte al Nord (60%), ma con una discreta distribuzione anche nelle altre aree geografiche ( 22% al Sud e 18% al Centro). Nelle tabelle relative alla suddivisione per provincia (2. 7 e 5. 7), risulta, come al solito una netta prevalenza di provincie del Nord (Alessandria, Torino, Novara, Genova e Milano), tuttavia tra le prime dieci compaiono, oltre quelle su menzionate, tre del centro(Roma, Firenze e Perugia) e due del Sud(Napoli e Lecce). Nel Sud sono invece la Campania e la Calabria le regioni più significative con quattro associazioni e con poco più di novecento soci ciascuna. Nel 1904 si verifica un raddoppio delle società, che va a vantaggio sia del Nord che si rafforza ulteriormente arrivando al 61% di società, ma anche del Centro Italia che arriva ad un 25%, mentre per il Sud si registra un consistente calo che lo porta al 14%. Il confronto con il numero di soci ci mostra ancora una volta che è solo il Nord, che sale fino all’83%, a sviluppare un associazionismo mutualistico composto da società rilevanti numericamente, mentre il Centro (12%) e in misura ancora maggiore il Sud (5%) rimangono caratterizzati dalla presenza di piccole o medie associazioni. Il grafico per regioni (7. 7) ci permette inoltre di visualizzare che la più grande concentra zione di società è in Piemonte che conta 36 associazioni, seguito dalla Lombardia con 13 e dal Veneto con 7; mentre per il numero di soci la Lombardia con 29.471 associati distanzia nettamente le altre due regioni. Per il Centro si conferma il prevalere dell’Umbria con 11 società e 2527 soci, ma anche un significativo aumento per la Toscana che passa a cinque società e a 1002 associati. Per quanto riguarda il Sud vediamo invece che, se anche alcune regioni come la Campania e la Calabria aumentano di società e di soci, nel complesso il Meridione rimane in posizione nettamente minoritaria e di scarsa crescita rispetto al resto d’Italia. Il patrimonio è concentrato in massima parte al Nord (76%), con una buona percentuale per il Centro 19% e una molto esigua per il Sud 5%. Infatti dal grafico 10. 7 per regioni possiamo constatare che in ordine di rilevanza Piemonte (802.221 lire), Lombardia (647.088 lire), Veneto (341.562 lire) ed Emilia distanziano nettamente le altre regioni, con le uniche eccezioni dell’Umbria per il Centro (226.754 lire) e della Ca mpania per il Sud (109.096 lire). Quindi il confronto delle tabelle 2. 7 e 5. 7 (per provincia) ci permette un bilancio conclusivo che registra come dati più interessanti: l’aumento delle province piemontesi, sia per il numero di società ma soprattutto per quello dei soci, la creazione di nuove società sia al Centro che al Nord (Firenze, Pisa, Milano, Ravenna, ecc), mentre per il Sud la situazione rimane sostanzialmente quella del 1895. 78 Luigi Tomassini APPENDICI Nicola Labanca Militari, politica e militarizzazione in Italia* PREMESSA METODOLOGICA E IMPOSTAZIONE DELLA RICERCA Il regime fascista si pose l’obiettivo di una militarizzazione del Paese. Negli anni Venti, e nei primi anni Trenta, sino all’assunzione del potere in Germania da parte di Hitler, un tale obiettivo rappresentava un’eccezione: dopo la Grande Guerra le opinioni pubbliche e i governi liberali tendevano semmai a deprimere l’entità delle spese militari e in generale la militarizzazione delle società. Fare dell’Italia un paese di “milioni di baionette” costituiva per dimensioni e per entità dello sforzo un esperimento unico anche nella storia dell’Italia unita. L’Italia liberale aveva disposto di un grosso esercito: già prima della prova del fuoco nella Grande Guerra grazie al sistema di mobilitazione delle riserve generazioni di italiani transitarono figurativamente e (a ttraverso i periodici richiami) concretamente nelle sue milizie (mobile, territoriale). Si aggiungeva una serie minore ma importante di organizzazioni paramilitari (il tiro a segno nazionale, ad esempio). Rispetto a tutto ciò, però, la militarizzazione del fascismo segnava una discontinuità, logica conseguenza dell’ideologia e del programma politico di espansione del fascismo. La militarizzazione degli italiani ebbe risultati incompleti già durante gli anni “di pace” del Ventennio e infine naufragò negli anni della guerra mondiale. Il fallimento della militarizzazione ingenerò nello stesso dittatore un certo sconforto, propenso ad accusare lo spirito degli Italiani piuttosto che ad ammettere le aporie, i compromessi e le contraddizioni del proprio programma e del fascismo in genere. Nel 1940-‘43, peraltro, il fascismo non volle proclamare la mobilitazione generale di tutte le forze vive del Paese, come a suo modo aveva fatto l’Italia liberale nel corso della Grande Guerra e come negli stessi anni stavano facendo alcune potenze liberali. La militarizzazione è un tema ricorrente nelle storie generali del fascismo. A livello di ricerca, se ne sono occupati forse per primi gli storici della cultura e del costume. Gli storici delle politiche e delle istituzioni militari, come anche chi ha guardato in un’ottica comparata * Questo rapporto di ricerca anticipa alcune pagine di una ricerca in corso su La stampa militare d’informazione nell’Italia liberale. Di essa, un primo disegno è stato offerto al seminario del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari, Media, opinione pubblica e immagine delle Forze armate in Italia tra Otto e Novecento, Roma, 18-19 novembre 1999. Alcune pagine sono in comune con una relazione su La stampa e il silenzio su Caporetto dopo Caporetto presentata al Convegno L’ultimo anno della Grande Guerra (Bassano del Grappa, 25-28 maggio 2000) e ora in corso di stampa negli atti del convegno. Altre considerazioni saranno più estesamente svolte nei risultati di una ricerca su La morte del padre. Militari e regicidio in Italia in prospettiva comparata – condotta nell’ambito di un progetto interuniversitario dal titolo Il crollo dello stato. Apparati pubblici e op inione pubbl ica nelle congiunture di crisi di regime (Italia XIX-XX secolo, coord. naz. Paolo Macry e all’interno dell’unità operativa di ricerca su La crisi dell o stato in It alia e in Francia alla fine del XIX secolo: corpi, istituzioni, gruppi sociali , coord. loc. Maria Malatesta – in corso di stampa su “Cheiron”, a. 2001. 138 Nicola Labanca ai regimi totalitari, hanno sottolineato l’importanza dello sforzo di “educazione militare degli italiani” promosso dal regime. D’altro canto molto rimane ancora da esaminare: il ritardo degli studi può essere spiegato con la considerazione che lo stesso fallimento di quello che pure era uno dei punti cardini dell’ideologia e del programma fascista ha forse spinto a sottovalutato non tanto le guerre del duce quanto la complessità e la rilevanza comparata della preparazione della “nazione militare” in tempo di pace. Militarizzare una società, però, è impossibile senza militarizzare anche la politica, il governo, lo Stato. Come ogni altro regime “totalitario”, il fascismo cercò di fare questo a partire dalle strutture di un partito unico, “civile”, fortemente gerarchizzato e militarizzato. Ma da dove veniva l’idea che una struttura (politica) militarizzata era “superiore” ad una civile? Da prima del fascismo. La militarizzazione voluta da un regime tendenzialmente totalitario era certo qualcosa di diverso dalla militarizzazione e dal militarismo, diciamo, “classici” conosciuti dalle potenze liberali. Del noto motto fascista, “obbedire e combattere” potevano in qualche modo rinviare a modelli statuali, forme di organizzazione della cittadinanza e a programmi di redistribuzione delle risorse (anche simboliche) tipici di ogni esercito e di ogni paese, anche a regime liberale: “credere” era invece un imperativo peculiare di un regime totalitario. Dalla prospettiva delle relazioni fra militari e civili, di conseguenza, se i primi due imperativi promettevano un rilievo del tutto particolare ai militari, il terzo (“credere”) rinviava esplicit amente ai civili, ai fascisti e alle loro forme di quella “nuova politica” tipica della mobilitazione del consenso, nella quale i militari finivano per andare oggetti (fascistizzazione del corpo ufficiali) assai più che soggetti attivi. Militarizzare una politica (ed una società) equivale ad esportare, e ad imporre, modelli militari di organizzazione, di valori e di comportamento a scapito dei rispettivi modelli civili. L’esportazione assume caratteri diversi a seconda dei periodi storici, dei contesti e degli attori. Rimane comune l’elemento per cui i modelli militari di organizzazione della vita associata sono considerati superiori (più efficienti, più ordinati, più combattivi) di quelli civili. Viene in sostanza auspicato quello che ad alcuni gra ndi sociologi, da Comte a Spencer a Durkheim, era apparso invece uno stadio precedente anche dal punto di vista cronologico nella storia (politica, economica ecc.) della vita associata umana; una reazione, insomma. Per certi versi la Grande Guerra aveva rilanciato taluni modelli organizzativi: dall’organizzazione scientifica del lavoro al capitalismo organizzato. Ma i terribili costi umani della guerra e più in generale i processi di democratizzazione, di estensione del suffragio e di partecipazione politica ad essa seguiti funzionarono come efficaci deterrenti. Anche in termini di attori è possibile riscontrare differenze: in genere sono i militari a farsi proponenti di un’estensione alla società civile delle proprie logiche, dei propri moduli orga nizzativi, in una parola del proprio potere. Il fenomeno, assai studiato dai sociologi della politica e dai politologi, dell’intervento dei militari in politica può essere visto come un caso di militarizzazione (della politica e dello spazio del governo, appunto). In alcuni casi, però, come è stato notato, alcuni civili sono più militaristi dei militari: ciò è particolarmente vero per i regimi fascisti. Nel caso italiano come in quello tedesco l’attore, o almeno il decisore, della militarizzazione fu appunto un civile (nei due casi, il dittatore) o un partito formalmente civile (anche per certi versi militarizzato), il PNF e il NSDAP. Peraltro andrebbe osservato che, nell’età delle masse e della “nuova politica”, l’aspetto impositivo (e antidemocratico) della militarizzazione non poteva non andare di pari passo con la mobilitazione; l’imposizione di modelli ideologici si accompagnava ad una ridistribu- Militari, politica 139 zione di risorse (materiali o simboliche, economiche o culturali); in una parola, per quanto possa sembrare strano, al warfare finiva per associarsi qualche elemento di wellfare. Tali considerazioni generali hanno motivato la necessità, interrogandosi sulla militarizzazione fascista e sugli aspetti di incrocio fra warfare e wellfare, di tornare alle origini di que sto fenomeno. Se è vero che la militarizzazione del fascismo inte ndeva imporre alla società italiana (con le particolarità peculiari di un regime reazionario di massa) i modelli militari, quand’è che per la prima volta questi modelli militari furono proposti in maniera esplicita all’attenzione della società politica? Una ricerca genealogica della militarizzazione degli italiani prometteva inoltre di cogliere quanto vi era di peculiarmente fascista nel processo di militarizzazione, e quanto invece veniva da più lontano. Il riferimento alla Grande Guerra, il più evidente e forse il più importante, era ovvio. La prima guerra mondiale aveva agito su tutti i paesi belligeranti: dalla politica all’economia alle mentalità non vi era settore della vita associato in cui essa non avesse influito, diffondendo modelli organizzativi, politici, sociali, ideologici. Tale influenza aveva conosciuto articolazioni importanti, nei vari paesi. Notevoli differenze ad esempio aveva esercitato l’esempio della Grande Guerra nell’organizzazione della politica fra paesi a regime politico liberale più maturo e latecomer della democrazia, o anche solo del suffragio universale. Pur con tutte le differenze, però, l’esperienza della Grande Guerra e della sua militarizzazione aveva aspetti fortemente comuni. È venuta quindi l’esigenza di cercare momenti, situazioni, congiunture più individuali e specifiche. La crisi italiana di fine secolo, pur nella lontananza cronologica e nella differenza di contesti (regime politico liberale/regime fascista, breve congiuntura/ventennio, precedente/successivo alla Grande Guerra) e degli attori, è sembrata offrire una situazione in cui in Italia i (alcuni) militari proposero il proprio modello alla società politica in un momento di massima crisi: il regicidio. Come si vedrà la reazione militare al colpo subito con l’omicidio del capo dello Stato, un colpo drammatico per ogni regime politico anche se non del tutto infrequente nel corso dell’Ottocento, fu brusca. Essa pera ltro seguiva a quanto già nel maggio 1898 era avvenuto: l’intervento a tutela dell’ordine pubblico contro i moti del maggio non era stato senza ripercussione nelle relazioni fra militari e civili, nella classe dirigente, nell’opinione pubblica, nel Paese. La reazione dei militari al regicidio, peraltro, non aveva solo valenze costituzionali (il riposizionamento dell’esercito nell’ordine liberale e la proposta, come vedremo, di un’estensione del modello militare alla società politica e civile). La coincidenza della morte del re con il delinearsi di una importante svolta politica liberale, anche da lì avrebbe preso le mosse il decennio giolittiano, spiega le ragioni politiche oltre che costituzionali della scelta dei militari. Di fronte ad una società che insorge (maggio 1898) e che pare – ad alcuni osservatori militari – attentare al capo dello Stato e delle forze armate (1900), mentre la società politica accenna a prendere una direzione che pare non garantire i militari, a questi si pone la scelta fra accettare subordinatamente l’evolvere degli eventi, proporre il proprio modello a quella società (civile e politica) o addirittura intervenire in prima persona. Scartate la prima e la terza opzione, i militari italiani scelsero la seconda. Che poi la militarizzazione non seguì, questo è da addebitarsi ad innumerevoli fattori: dal radicamento del sistema politico liberale all’inconsistenza della percepita minaccia politico-sociale ad esso portata, nonché alla forza relativa dei militari e degli altri attori (Corona, classe politica ecc.). Ma la proposta, sinora trascurata dagli storici, sembra sia stata fatta. 140 Nicola Labanca U NA FONTE Una fonte peculiare per la storia delle forze armate italiane del periodo fra l’Unità e l’ascesa del fascismo156 sinora piuttosto trascurata dagli storici è la stampa militare d’informazione. In tale definizione sono ricompresi quegli organi di stampa direttamente rivolti ai militari (ufficiali superiori, ufficiali subalterni, sottufficiali) e in genere agli interessati di questioni militari, per lo più redatti da militari. Esempi di questa stampa militare erano testate come l’“Italia militare”, “L’esercito” o “La preparazione”, nonché le loro trasformazioni prodottesi nel corso del sessantennio postunitario e prefascista come l’“Italia militare e marina”, “L’esercito italiano” o “Esercito e marina”. 157 Questi periodici militari, a differenza dalla stampa tecnica diretta emanazione degli Stati maggiori (come la “Rivista militare italiana”, la “Rivista marittima”, la “Rivista d’artiglieria”), avevano una caratteristica: erano al tempo stesso fonti ufficiose, finanziate dal Ministero o da enti militari ad esso collegati, ma al tempo stesso erano imprese edit oriali vere e proprie, con attivi e perdite, che stavano insomma sul mercato. Edite di norma tre volte alla settimana, ma in taluni periodi persino quotidianamente, senza una platea di lettori paganti la loro stessa esistenza sarebbe stata messa in forse (e questo doveva essere un rischio costante visto che, a giudizio anche di accreditati osservatori,158 gli ufficiali italiani non leggevano molto). Se questo al loro tempo le rendeva economicamente ed editorialmente più deboli, oggi le rende invece assai interessanti all’occhio dello storico: se sono durate così a lungo, vuol dire che qualcuno (il ministero, gli stati ma ggiori, i militari) le comprava e vi si riconosceva. Quale altra categoria professionale disponeva nell’Italia liberale di altrettanta dovizia di carta stampata? Si tratta quindi di una fonte documentaria eccezionalmente ricca, molto importante al tempo (chi voleva conoscere gli umori circolanti nel mondo militare non poteva fare a meno di leggerla ), anche se purtroppo – se si escludono poche eccezioni159 – quasi ignorata dal lavoro degli storici. Gli storici militari più 156 Su cui cfr. Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943 , Torino, Einaudi, 1978; Piero Del Negro, Army, state and society in the Nineteenth and early Twentieth century. The Italian case, in “The journal of Italian history”, a. (1978) n. 2, ora in ID., Esercito, Stato, Società. Saggi di sto ria militare, Bologna, Cappelli, 1979; Lucio Ceva, Le forze armate, Torino, UTET, 1981; Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989. Una monografia complessiva è quella di John Gooch, Esercito, stato, società in Italia (1870 -1915), Milano, Angeli, 1994. 157 Gli estremi cronologici di questa vicenda editoriale possono essere indicati nel 1862 (nascita dell’“Italia militare”) e nel 1926 (chiusura de “Esercito e marina”). Fra tali date la stampa militare d’informazione fu quasi ininterrottamente pubblicata. Altri periodici o giornali militari furono stampati prima e dopo quella data, ma rappresentarono altre tipologie di stampa militare. 158 Cfr. Emilio De Bono, Nell'esercito nostro prima della guerra, Milano, Mondadori, 1931; e Eugenio De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano, Mondadori, 1927. 159 Per uno sguardo complessivo alla storiografia più recente cfr. La storiografia militare italiana negli ultimi venti anni , Milano, Angeli, 1985; Oreste Bovio, L'Ufficio Storico dell'Esercito. Un secolo di storiografia milit are, Roma, Ussme, 1987; Nicola Labanca (a cura di), L’istituzione militare in Italia. Pol itica e società, Milano, Unicopli, in stampa. Hanno utilizzato la stampa militare d’informazione (di cui un elenco sta in I cento anni della Rivista militare. Numero unico, Roma, Tip. Regionale, 1976) Giorgio Rochat, L'esercito italiano nell'estate 1914, in “Nuova rivista storica”, a. 1961 n. 2; ID., L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussol ini (1919-1925), Bari, Laterza, 1967; Nicola Labanca, Il generale Cesare Ricotti e la politica milit are italiana (1884-1887), Roma, Stato maggiore dell'esercito. Ufficio storico, 1986; ID., In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993; John Gooch, Esercito, stato, società in Italia (1870 -1915), cit.; Militari, politica 141 tradizionali, interessati alla ricostruzione dei combattimenti o della strategia o delle dottrine d’impiego le hanno sempre preferito la stampa militare tecnica, espressione diretta degli Stati maggiori. Così facendo, però, la visione delle forze armate che ne è scaturita si modellata, appunto, su quello che gli Stati maggiori volevano che il corpo ufficiali pensasse, piuttosto che su quello che il corpo ufficiali davvero pensava. Le raccolte dei periodici militari d’informazione sono anche quantitativamente formidabili. Allo storico odierno si presentano come un vero e proprio archivio, un’enorme massa di carte. Anche a non considerare organi di stampa come “La preparazione” e “Cooperazione delle armi”, in più di sessant’anni seguiti all’Unità furono stampate e diffuse (anche a calcolare questi periodici come trisettimanali, ma per qualche tempo furono quotidiani) quasi ottantamila pa gine a stampa. È un vero “archivio” di notizie e di informazioni, per lo studio della politica e delle mentalità del corpo ufficiali italiano dell’età liberale: un archivio solo superficialmente e – come vedremo – da pochi storici appena sondato. Questi organi di stampa ci restituiscono un’immagine a tutto tondo delle forze armate del tempo. Immagini e messaggi possono essere volontariamente emessi (propaganda) o involontariamente rilasciati (riflesso): di norma i primi sono appannaggio della comunicazione diretta all’esterno dell’istituzione militare, i secondi sono pertinenti alla comunicazione interna. Ognuna di queste comunicazioni ha le proprie leggi, o almeno i propri codici e i propri linguaggi. La stampa militare d’informazione partecipa di ambedue queste finalità comunicative e deve essere letta con metodo e attenzione, per non scambiare ciò che era propaganda da ciò che era autorappresentazione,160 e viceversa. IL MAGGIO 1898 La crescita del ruolo delle forze armate e l’aumento delle spese militari caratteristici della politica crispina si erano riflessi nella vivacità della stampa militare d’informazione, fra anni Ottanta e anni Novanta. La prova delle economie militari, già nei primi anni Novanta, la sconfitta di Adua (1896) e infine l’intervento repressivo nel maggio 1898 aprirono una crisi politica dentro l’esercito e forse anche da parte della classe politica e dell’opinione pubblica nei suoi confronti. La stampa militare d’informazione era consapevole di questa situazione: Purtroppo quella che chiameremo la classe dirigente militare è uscita, non diremmo dalla sola campagna d’Affrica, ma dal complesso degli avvenimenti che ci hanno colpiti, abbastanza e161 sauto rata (…) è difficile dire come e quando riacquisterà la perduta autorità. Fu l’intervento repressivo e a tutela dell’ordine pubblico del maggio 1898 ad aiutare le forze armate a superare la crisi di legittimazione, almeno presso i ceti borghesi. L’evento non passò sotto silenzio nei fogli militari. Quindi, cautamente, quasi in maniera imbarazzata, i moti fecero la comparsa dapprima nelle rubriche di cronaca della stampa militare. I nomi che scorrevano furono in un primo momento quelli dell’Italia agricola, soprattutto del sud: a Minervino Murge, Molfetta, Ascoli Piceno, ma poi anche a Bagnacavallo, Piacenza, FigliFerruccio Botti, Virgilio Ilari, Il pensiero militare dal primo al secondo dopoguerra , Roma, Stato maggiore dell'esercito. Ufficio storico, 1985; Vincenzo Caciulli, L'amministrazione della guerra, l' esercito e la commissione d'inchiesta del 1907, in “Farestoria”, a. V (1985), n. 2. 160 Compare questa categoria nel titolo di Gianni Oliva, Storia dei carabinieri. Immagine e autorappresent azione dell’Arma (1814-1992), Milano, Leonardo, 1992. 161 “L’esercito italiano”, 21 agosto 1896. 142 Nicola Labanca ne, Pesaro, Bari, seppure “con dolore”, l’esercito era stato chiamato nella “repressione dei tumulti”. 162 Infine, più radicali, si poté leggere de moti urbani e “socialisti” di Milano. A quel punto l’intervento militare era passato dalle rubriche di fatti diversi agli editoriali di prima pagina. A dir la verità già in occasione dei primi la descrizione offerta dai fogli militari è senza equivoci: vi si parla di “stragi, furti, omicidi, incendi”, si deplora “il popolo ubbriaco di sangue” che crea il “massimo scompiglio”. “È stata insomma una vera ribellione sanguinosa e furibonda, accompagnata dal più selvaggio saccheggio”; “Si desidera dagli onesti un governo militare, annichiliti come siamo tutti dagli orrori consumati”. Sedati i moti, che avevano sorpreso gli organi di polizia civili locali, l’esercito passava la mano alla politica: “Bari è tranquilla in apparenza, urgono però gravi provvedimenti”. 163 Col passare dei giorni le critiche alle forze civili dell’ordine e alla classe politica sierano fatte esplicite, come esplicita era stata la rivendicazione di autonomia. L’esercito avrebbe preferito non intervenire, ma ora che era in piazza mal tollerava il controllo civile se è vero che “le autorità militari hanno troppo riguardo ad applicare i poteri che vengono ad esse conferite da certe disposizioni e nessuno dirige nel modo effettivamente prescritto e con un unico concetto ed intento la repressione dei tumulti”. La polizia avrebbe dovuto intervenire prima, perché “vale più uno sparo della polizia alle spalle dei dimostranti che una carica militare davanti”.164 Non mancava, qua e là, la consapevolezza che la “maniera forte” non risolveva né il problema contingente dei moti né quello più strutturale della legittimazione politica dello Stato unitario. L’“Italia militare e marina” si spinge a suggerire riforme sociali: “ad ogni modo, ripetiamo, la situazione generale è grave, speriamo che il governo giunga presto a ristabilire l’ordine, ma ottenuto ciò non si sarà fatto tutto. Una riforma tributaria s’impone. Bis ogna assolutamente evitare di trovarsi altra volta in questi e forse peggiori frangenti”.165 I fogli militari davano quindi l’impressione che, dentro l’esercito, vi fosse chi, con accenni di tono sonniniano più che riformista, comprendeva che non tutto poteva essere risolto dalla repressione: “non è giusto, non è umano, non è prudente lasciare l’Italia nell’indigenza e nella miseria”. Ma questo riguardava la società e la politica. L’auspicata riforma sociale avrebbe aiutato l’esercito a concentrarsi sugli altri suoi compiti istituzionali, riducendo gli interventi per la tutela dell’ordine pubblico. Attendendola, la posizione era fra le più rigide. Le cannonate erano legittimate: a Milano “il generale Bava è deciso di impegnare anche l’artiglieria contro qualunque tentativo insurrezionale”. Per l’appunto erano quelli anche i giorni in cui usciva il Militarismo di Guglielmo Ferrero, con le sue accese critiche liberali al mondo militare. La reazione della stampa militare diventò allora scomposta, si parlò di complotti, si incitò il governo a perseverare nella repressione: “è chiaro ormai che si trattava di un piano premeditato, che è scoppiato prima del momento prestabilito dai caporioni dei partiti sovversivi, è abortito per l’energia spiegata dal governo. L’incendio non è ancora spento”. 166 Di tutto questo rimaneva all’esercito una magra consolazione: la riuscita delle operazioni militari del maggio permetteva poter affermare finalmente che “non è colpa degli ufficiali, 162 “Italia militare e marina”, 3-4 maggio 1898. “Italia militare e marina”, 4-5 maggio 1898. 164 “Italia militare e marina”, 5-6 maggio 1898. 165 “Italia militare e marina”, 7-8 maggio 1898. 166 “Italia militare e marina”, 10-11 maggio 1898. 163 Militari, politica 143 sottufficiali, caporali e soldati se l’Italia nostra ha subito la sconfitta di Adua. Fra tante disgrazie questa è una consolazione. Indubbiamente gli italiani da qualche giorno vedono di un altro occhio il loro esercito”. 167 La Corona, la borghesia, il moderatismo erano riconoscenti.168 IL REGICIDIO E I RAPPORTI FRA MILITARI E POLITICA (1900) La fine secolo fu particolarmente difficile per le forze armate italiane. Le economie militari, Adua, l’intervento del maggio 1898 e infine il regicidio (si ricordi che il monarca, oltre che dello Stato, era anche capo delle forze armate): furono tutti eventi che misero a dura prova le forze armate, susseguendosi incalzanti. E questo proprio mentre un nuovo corso più liberale stava lentamente avviandosi nella politica nazionale. La memoria dell’intervento nelle piazze nel maggio 1898 era stata traumatica per il mondo militare: a distanza di tempo il ricordo era ancora lì, anche se vi si faceva riferimento ricorrendo ad eufemistiche parafrasi, del tipo “i malaugurati avvenimenti che tutti ricordano”.169 Il trauma era mitigato solo dalla soddisfazione di aver retto l’urto: questa era la “triste eredità dei fatti del maggio 1898, nei quali l’esercito aveva dato prova a Milano e nelle Puglie di una solidità e di una disciplina nemmeno supposta dai partiti avversi alle istituzioni”.170 L’ordine, alla fin fine, era stato fatto rispettare senza un’eversione totale del sistema costituzionale, anche perché convinti – si sosteneva – che “fra i mezzi di cui dispone lo Stato 171 per mantenerlo [l’ordine], l’esercito sia quello sicuramente più democratico”. Il passaggio di secolo diffondeva un’aria di tempi nuovi: in politica il 1900 preludeva ad una svolta verso il giolittismo. In tal senso sarebbe interessante ripercorrere le polemiche che i fogli militari intrattennero con un radicale come Nitti, che non combatteva l’esercito frontalmente (come il giovane Ferrero) ma pareva volere l’istituzione militare più che altro come scuola della Nazione e si opponeva alle missioni politico-diplomatiche affidate ai militari. Quest’aria di rinnovamento contaminava anche l’esercito, persino nelle sfere più tecniche. La stessa tattica di combattimento veniva ora ripensata, o presentata, in modo nuovo e in sintonia coi tempi nuovi: la dottrina tattica più recente, si scriveva, “non è austera e rigida, ma adatta ai tempi di libertà, di espansione, di progresso. È un metodo piacevole, amabile, che persuade, e la persuasione è l’essenza della disciplina militare: è forza poten172 te di coesione delle unità tattiche”. Si ricominciava però (se mai siera smesso) a pensare in grande: in tema di politica estera i fogli militari non volevano l’Italia come una grande Svizzera173 e in politica interna polemizzavano a destra e a sinistra (da Ferrer a Nitti, da Pantaleoni a Colaja nni) contro i “s ostenitori di utopie sociali e propugnatori di abdicazioni costanti”.174 Dopo Adua le quotazioni delle operazioni all’oltremare erano in ribasso. Al tempo della spedizione in Cina i fogli 167 168 “Italia militare e marina”, 18-19 maggio 1898. In generale cfr. Umberto Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano, Feltrinelli, 1975. 169 “L’esercito italiano”, 6 luglio 1900. 170 “L’esercito italiano”, 3 gennaio 1900. 171 “L’esercito italiano”, 4 gennaio 1900. 172 “L’esercito italiano”, 4 febbraio 1900. 173 “L’esercito italiano”, 29 luglio 1900. 174 “L’esercito italiano”, 18 luglio 1900. 144 Nicola Labanca militari enfatizzarono le (per la verità non numerose) manifestazioni d’affetto per le truppe in partenza per l’impero celeste: L’Italia ama il suo esercito (...) Lo scatto del sentimento nazionale si è prodotto questa volta, colla violenza di una molla lungamente compressa”. Essi ringraziarono per “questo voto popo lare, universale in tutte le città ove si sono costituite le truppe, lungo le stazioni ferroviarie ove sono state di passaggio (…) L’antimilitarismo non aveva vinto: Fortunatamente l’opera sua, tutta intenta a sfruttare perfidamente una grande e immeritata sventura nazionale non ha lasciato tracce profonde.175 In realtà l’“Esercito italiano” era consapevole del carattere strumentale ed esagerato di queste enfasi. Il foglio militare non si era nascosto “questa specie di avversione del popolo alle imprese coloniali”. Si addebitava anche questo ai tempi nuovi, forse perché “le imprese coloniali sembrano urtare contro le tendenze democratiche moderne”.176 Per una volta la risposta della stampa militare d’informazione non stava nel suggerire nuove misure repressive, ma era di tipo tradizionale: essa tornava ad auspicare che “dinanzi alle questioni che impegnano l’interesse e l’onore della Nazione non esistano in Italia partiti”, come deve avvenire nei “paesi chiamati a grandi destini”. 177 I tempi nuovi sembrarono ai fogli militari infiltra rsi nell’organismo dello stesso esercito. Piccoli episodi, per il momento: ma erano segnali nuovi e inquietanti. Nelle elezioni di un delegato alla sala convegni e alla cassa ufficiali del presidio di Gaeta, gli ufficiali subalterni elessero – contrariamente a quanto prescritto dal regolamento e dal più rigido senso della gerarchia – due loro colleghi già puniti in fortezza. La stampa militare ufficiosa prese posizione definendo il tutto cosa “riprovevole”: è “quasi atto di protesta come è diventato di moda”. Era quello uno fra i primi casi di quella contestazione delle gerarchie che poi sarà raccolta dal “modernismo militare”: quasi contemporaneamente avvenivano i fatti del capitano Ortolani a Palermo e del capitano Trivulzio a Verona. Ciò preoccupava i fogli militari, forse anche in maniera eccessiva: se persino l’atmosfera interna all’esercito stava mutando voleva proprio dire che “ i tempi sono cambiati, e tutto si ingrossa, e tutto si gonfia, tutto diventa argomenti di terrore e di sinistri vaticini”. 178 Quest’atmosfera precipitò nel 1900. Il regicidio per i militari equivalse ad una doppia eliminazione: quella fisica del capo dello Stato e quella simbolica del padre-tutore delle forze armate. Anche questo periodo andrebbe del tutto ristudiato. Per il frattempo si può osservare che la risposta della stampa militare d’informazione al gesto di Bresci fu rabbiosa: venne invocata la pena di morte e con essa, contro gli avversari delle istituzioni, la sospensione delle garanzie costituzionali e liberali. Ciò che non si era detto nel 1898 fu detto esplicitamente nel 1900: il principe valoroso che il piombo nemico ha rispettato nel Quadrato di Villafranca è caduto colpito a tradimento dal piombo assassino di un italiano, indegno di questo nome, mentre esciva fidente da una festa popolare alla quale non aveva negato anche questa volta il suo geniale patrocinio. Sia maledetto nei secoli l’autore di così esecrando misfatto, che ci copre di vergogna in faccia alle Nazioni civili, ma non sia colpita meno dal pubblico disprezzo e Dio 175 “L’esercito italiano”, 15 luglio 1900. “L’esercito italiano”, 4 aprile 1900. 177 “L’esercito italiano”, 15 luglio 1900. 178 “L’esercito italiano”, 14 febbraio 1900. 176 Militari, politica 145 volesse dalla meritata punizione l’opera abbietta e nefanda dei suoi complici morali. Eppure la vita di questo perverso parricida è inviolabile! Strana e incredibile ironia delle parole! La tutelano le leggi della Patria: egli è sotto l’usbergo del grande principio dell’inviolabilità della vita umana! E forse domani sarà dichiarato demente! (…) [Bisogna] colpire nel cuore quella triste propaganda che col suo diuturno lavoro per mezzo della parola e della stampa arma nell’ombra la mano di questi gerenti responsabili delle più 179 pazze utopie. Sono parole di notevole durezza, a intendere la quale basterebbe confrontare la differenza di toni fra queste prese di posizione e quelle, assai più liberali, del discorso della Corona pronunciato dal nuovo re alla Camera. 180 Di fronte al regicidio – nell’emozione del momento – quello che si era fatto straordinariamente e per un giorno nel 1898 doveva diventare ordinario. Come prima cosa lo Stato doveva rinserrare le fila: “dovunque regna il disordine e la confusione. Cento comandano e 181 nessuno obbedisce (…)”. “ L’esercito italiano” propose quindi “una salutare intimidazione”, si dichiarò a favore di “una grande severità nella giustizia punitiva” (pena di morte per reati politici), “pur essendo convinti che quals iasi regime penale, per quanto rigido, non toglierebbe di mezzo i reati di sangue”. Un elementare darwinismo sociale avrebbe dovuto ispirare tutto lo Stato per esemplarlo, per modellarlo, sull’istituzione militare. Se la società degenera e lo Stato vacilla, mentre l’esercito rimane incrollabile, è necessario “domandarsi in virtù di quali espedienti nell’esercito si mantiene salda la disciplina, se questa non avesse una base ben solida nel codice penale militare”. Si doveva insomma tornare alla pena di morte: “alla quale, è opportuno soggiungere, non seppero rinunciare altri stati d’Europa di costumi incomparabilmente più miti dei nostri e di una avanzata civiltà”. A parole la stampa militare rendeva omaggio alle umanitarie idealità degli abolizionisti; ma in un paese di civiltà arretrata e proclive alla violenza contro le persone come il nostro si è formata la strana situazione che gli avversari del regime patibolare, col trionfo delle loro teorie, hanno guarentito la vita all’omicida; per converso però nessun sistema preventivo seppero escogitare per mettere un freno agli impu lsi sanguinari, diretti contro i pacifici cittadini.182 Come e forse più che nel 1898, nel 1900 l’opinione pubblica militare si sentì e sentì lo Stato assediato, da destra e da sinistra: “si annuncia tra pochi giorni la convocazione in Roma di un Congresso socialista e a breve distanza di tempo di uno clericale o cattolico che dir si voglia. Tutti elementi sovversivi” 183 (anche se tra neri e rossi, com’è ovvio, sono gli ultimi 179 “L’esercito italiano”, 31 luglio 1900. “L’esercito italiano”, 12 agosto 1900: Il discorso alla camera insisteva su “quali saldi radici abbia nel Paese la monarchia liberale “, sin da quando “Risorgimento sacra fu la parola del magnanimo Carlo Alberto”, si commuoveva per il “plebiscito di dolore” per il regicidio e concludeva: “L’Italia fu sempre e fficace strumento di concordia e tale sarà altresì durante il mio regno, nel fine comune della conservazione della pace. Ma non basta la pace esteriore. A noi bisogna la pace interna”, “Ed uchiamo le nostre generazioni al culto della Patria, all’onesta operosità, al sentimento dell’onore: a quel sentimento a cui s’ispirano con tanto slancio il Nostro Esercito e la Nostra Armata, che vengono dal popolo e sono pegno di fratellanza, che congiunge nell’Unità e nell’amore della Patria tutta intiera la famiglia italiana. Raccogliamo e difendiamoci colla sapienza delle leggi e colla rigorosa loro applicazione. Monarchia e parlamento procedano solidali in quest’opera salutare”. 181 “L’esercito italiano”, 2 agosto 1900. 182 “L’esercito italiano”, 15 agosto 1900. 183 “L’esercito italiano”, 26 agosto 1900. 180 146 Nicola Labanca a preoccupare di più). In un editoriale il conflitto politico veniva schematizzato con riferimenti geografici: la lotta pare essere fra Torino-Roma (la monarchia piemontese, la classe dirigente liberale moderata) contro Milano (la città dello “stato di Milano”, la città anticrispina, la città operaia: la città insomma dove le cannonate di Bava non erano state sparate a caso), dove albergano “conservatori dalla vista molto corta, clericali fanatici e astensionisti, demagoghi di varie tinte”: non è da oggi purtroppo che s i va diffondendo in tutta Italia l’impressione che sia la città di Milano il quartier generale dei partiti sovversivi e che questi vi trovino quel consenso e quell’appoggio incondizionato che costituisce se non un pericolo, un fomite di debolezza per l’unità nazionale, un ostacolo deplorevole al retto e ordinato funzionamento delle libertà statutarie.184 Il favore del foglio militare per la pena di morte (inquietante, visti la politica degli stati d’assedio e il ricorso all’impiego di truppe in funzione di ordine pubblico) era però solo il segnale di un riorientamento politico più generale. Si risentirono nell’anno del regicidio i toni dell’antiparlamentarismo degli anni Ottanta, questa volta però radic alizzati: un atteggiamento duro, più duro dello stesso sonniniano ritorno allo Statuto. Mentre Zanardelli si affacciava e Giolitti si preparava, la politica voluta da “L’esercito italiano” si riassumeva nel ritorno delle forze armate e più in generale di tutto lo Stato alla prerogativa regia: solo così l’esercit o non sarebbe stato più “asservito nelle sue leggi costitutive, nei suoi ordinamenti discussi, screditati e non di rado manomessi, alle cabale ed alle convulsioni di un parlamentarismo in decadenza”. Negli editoriali ci si schierava contro questa fatale e manifesta tendenza ad abbandonare le istituzioni militari alle onnipotenza min isteriale che si convertiva a sua volta in una sua abdicazione quasi costante dei diritti del pot ere esecutivo nelle mani di maggioranze parlamentari mutevoli ed invadenti, aveva finito per trasformare anche l’alta gerarchia militare in una specie di burocrazia, amante del quieto vivere ed aliena da tutto ciò che avrebbe potuto urtare anche lontanamente i desideri dei despoti del quarto d’ora. L’esercito, impunemente offeso e vilipeso dalla tribuna parlamentare e dalla stampa, abbandonato al suo destino, non ebbe da gran tempo una difesa vigorosa ed efficace (…). L’esercito era sano: la sua crisi non veniva dall’interno, ma dalla società civile. Oh, se ritornasse un soffio del bel tempo antico, se ritornassero in onore, come tutto lascia sperare, quelle vere virtù militari, quelle consuetudini e quel rispetto delle forme che costituiscono l’essenza del prestigio militare e che furono sovente troppo leggermente sacrificate al genio inventivo di troppo facili novatori, noi crediamo che l’Esercito riacquisterebbe presto tutta la sua fede, tutta la sua energia (…) La riabilitazione delle istituzioni militari, se ciò è permessa la parola, la riscossa dei principii che costituiscono la loro base, debbono essere necessariamente il primo passo sulla via che ci deve condurre al ristabilimento del necessario equilibrio tra i pubblici poteri A giudicare dalla stampa militare d’informazione l’esercito – che rimaneva “una delle forze più conservative dello Stato” – voleva un regime di ordine.185 Voleva sganciarsi dal parlamento e lottare contro “la finzione costituzionale – ingegnosa sin che si vuole inventata dai nostri cugini d’oltralpe così facili ad improvvisare delle formule come a disfarsene – 184 185 “L’esercito italiano”, 19 agosto 1900. “L’esercito italiano”, 21 agosto 1900. Militari, politica 147 che circonda il capo dello Stato irresponsabile di ministri responsabili”. Il foglio militare pareva consapevole di quello che scriveva, e non si curava del fatto che quasi di sicuro “i professori di diritto costituzionale potranno bene torcere il naso”: quale è la conclusione? Che al capo dello Stato nell’ambito della costituzione e delle leggi deve essere consentita quella iniziativa e quella libertà d’azione che la costituzione gli conferisce e che diventano indispensabili quando l’azione del potere legislativo per qualsiasi motivo non 186 è più tale da assicurare il buon governo dello Stato, il progresso morale e politico del paese. La rilevanza di queste affermazioni, sinora trascurate dalla storiografia, è duplice: tanto dal punto di vista costituzionale quanto da quello più congiunturale-politico. I due motivi si intrecciano. A credere ai fogli militari la svolta politica contenuta nel governo Zanardelli e la mancata stretta reazionaria dopo il regicidio spingevano per un ri-collocamento costituzionale permanente, che assumeva nell’immediato anche un valore politico contingente. A loro modo, in quei mesi i fogli militari parlavano frequentemente di politica al corpo ufficiali che li acquistava o li leggeva: ed era una politica evidentemente antizanardelliana e antigiolittiana. Se in molte altre occasioni la stampa militare d’informazione si era astenuta dal commentare i risultati elettorali, al massimo citando i nomi dei militari deputati eletti e formulando in base a questo un giudizio, nei giorni del regicidio quegli stessi fogli tuonano contro i successi dei partiti popolari, come nelle elezioni amministrative di Milano. In particolare qui il rimprovero della stampa militare d’informazione andò a quei settori liberali che non avevano disdegnato un’alle anza o anche solo un contatto con i partiti “sovversivi”: nella città lombarda, ad esempio, “politici dalla vista corta si sono cullati nella ingenua speranza che seguendo questa via e camminando alla retroguardia dei partiti che ora si chiamano popolari, avrebbero fatto dei proseliti nelle file avverse e gettato il disordine e lo scoraggiamento nel campo nemico, non pensando che le masse incolte e più o meno politicamente incoscienti corrono dietro per loro natura ai programmi più esagerati, e coloro che promettono di più e non sanno che farsene dei radicali annacquati!”. L’accusa andava prima di tutti a Nitti e al suo “gruppo presuntuoso e sventato” di liberali che “aggravò la questione economica e creò una fonte inesauribile di malcontenti, fornendo ai partiti sovversivi la loro bandiera”.187 Contro Nitti (e, più in là, Giolitti) non bastano ai fogli militari nemmeno i programmi di Sonnino. Se per questo lo Stato rimaneva comunque liberale e “civile”, per gli editorialisti della stampa militare solo le forze armate potevano rappresentare assieme un modello e un programma: sono quelle le “istituzioni che sono la gran base del nuovo Stato italiano, che servono a tenerlo in carreggiata e senza delle quali qualunque evoluzione, quelle stesse riforme sociali additate nello scritto dell’ Antologia diventano aleatorie, in quanto i partiti sovversivi molto meglio delle volontarie e graduali concessioni, frutto di calme e serene discussioni, amano le riforme strappate d’un colpo colla imposizione e colla viole nza”. Sotto l’impressione del regicidio quindi a questi fogli persino Sonnino pareva conciliante: ma i partiti sovversivi “sono inconciliabili”. Non dovevano valere nei loro confronti le pur autoritarie riforme proposte dall’anti-Giolitti: le sue riforme andavano bene per un paese ordinato “ma per un paese come il nostro, profondamente turbato dalle più acerbe passioni e funestato dalla più alta percentuale di criminalità che si conosca, ci pare assolutamente inadeguato allo scopo, un vero empiastro sopra una gamba di legno”.188 Il fatto era che c’era adesso un nemico interno: i partiti sovversivi. “Il socialismo italiano non è 186 “L’esercito italiano”, 31 agosto 1900. “L’esercito italiano”, 2 settembre 1900. 188 “L’esercito italiano”, 19 settembre 1900. 187 148 Nicola Labanca un partito economico ma un partito rivoluzionario, sovversivo ed antinazionale”, si scriveva. La politica che urgeva, secondo la stampa militare d’informazione, non poteva che essere repressiva. 189 Contro Giolitti “L’esercito italiano” prese posizione aperta: la sua riforma tributaria “non ha salvato altri paesi più ricchi, più prosperi e meno gravati dalle tasse del nostro, dalla lue del socialismo che è la malattia del tempo e principalmente il portato della grande industria (…) Ne abbiamo una prova eloquente in Italia. Le province che stanno meglio economicamente sono appunto quelle nelle quali il socialismo ha fatto un maggior numero di proseliti”. Ma allora, se Giolitti era un avversario e Sonnino persino troppo cauto, se le riforme progressive erano pericolose e quelle autoritarie inadatte, per il foglio militare non restava che una scelta: “Conviene innanzitutto rialzare il prestigio delle istituzioni e della legge”, al limite con un “profondo e completo mutamento di uomini e di sistemi”.190 In un passo, addirittura, si lasciò intravedere sullo sfondo che l’esercito avrebbe potuto vedere di buon occhio persino lo spettro dello spagnolismo. Si partì inneggiando al noto brindisi del conte di Torino, il quale riferiva quanto al re stesse a cuore il riordinamento dell’esercito, ritratto come una nave senza nocchiero in gran tempesta, travolto nelle sue leggi e nei suoi ordinamenti dal turbine parlamentare (…) non sufficientemente tutelato contro le quotidiane offese della tribuna parlamentare e della stampa e contro la propaganda dei partiti esterni, lanciato senza la necessaria preparazione in temerarie imprese, discusso e ridiscusso nella sua compagine tecnica e morale dopo aver versato fiumi di sangue generoso e fatto olocausto sull’altare della patria di ogni legittimo risentimento (…)”;191 e si finì insultando e minacciando. Le vicende politiche nazionali fra 1898 e 1900 sembravano infatti a “L’eserc ito italiano” evidenziare una contraddizione crescente fra “tempi nuovi e uomini vecchi”: il giornale presentò il parlamento alla stregua di un teatrino, con il popolo italiano come un pubblico che non del tutto “si è abituato a subire in pace quegli artisti fischiati e protestati che in linguaggio teatrale si chiamano cani”. E Se si tentasse qualcosa di nuovo? (…) A noi pare che si potrebbe almeno provare; tanto che non c’è nulla da perdere, poiché ci sembra per lo meno difficile che degli uomini politic amente vecchi e sfiatati e che riportano naturalmente al potere il lungo strascico dei loro rancori, dei loro dispetti e delle loro ambizioni deluse, possano mettere insieme qualche cosa di veramente nuovo e vitale.192 Con questo il foglio militare, i militari, si auto-proponevano a modello per la politica, invece di esserne lo strumento? È difficile ad oggi dare una risposta. Di certo l’esercito, di fronte alla convulsioni ma anche all’indirizzo riformistico che cominciava a delinearsi, sembrava allontanarsi dalla politica. Lontano, a suo modo, lo era sempre stato: anche quando, come negli anni Ottanta, questi fogli si erano caratterizzati per una aspra critica antiparlamentare, mai si erano proposti a modello per la politica. Ma tra 1898 e 1900, ancora embrionalmente, ancora per il momento solo nelle redazioni dei fogli milita189 “L’esercito italiano”, 22 settembre 1900. “L’esercito italiano”, 25 settembre 1900. 191 “L’esercito italiano”, 28 settembre 1900. 192 “L’esercito italiano”, 30 settembre 1900. 190 Militari, politica 149 ri, costretti – per la loro stessa carattere – a commentare quotidianamente gli avvenimenti della politica che avessero interesse per le forze armate, questa autoproposizione divenne esplicita. Così facendo un primo passo importante era stato posto: l’esercito si poneva come modello di una militarizzazione della società e della politica. LINEE DI RICERCA Questa pagine avevano il solo scopo di documentare come umori e tendenze verso la militarizzazione della politica non nacquero solo in ambito “civile” o fascista. Esse venivano da lontano, sia pure con connotazioni ed in circostanze diverse da quelle che poi esse avrebbero assunto nel contesto fascista degli anni Venti e Trenta. In tanto variare di situazioni, però, sarebbe rischioso sottovalutare l’eco e i legami delle continuità. Uno di questi fili di continuità rimanda, come abbiamo documentato, all’età liberale preGrande Guerra e allo stesso ambito militare. L’esperienza del primo conflitto mondiale avrebbe dato concretezza a queste idee, che per il momento rimasero tali visto anche l’affermarsi della svolta riformista giolittiana. L’inquadramento diretto di milioni e milioni di uomini richiamati alle armi, la presa in mano dei destini della nazione con l’esautoramento del controllo civile e politico sui militari tramite l’assunzione dei pieni poteri da parte del Comando Supremo, l’irreggimentazione dell’opinione pubblica e la mobilitazione del consenso, l’inquadramento (formale) dell’economia attraverso la struttura della Mobilitazione Industriale permisero una prova pratica di militarizzazione. La militarizzazione tentata dal fascismo sarebbe stata una filiazione delle idee emerse fra l’altro nel 1898-1900, oltre che della pratica del 1915-’18? Sia pure su un punto specif ico, la documentazione offerta dalla reazione della stampa militare d’informazione al maggio 1898 e al regicidio del 1900 appare di primaria importanza perché permette di arricchire sia la conoscenza dei rapporti fra civili e militari in età liberale, meglio datando il movimento di separazione delle forze armate dal panorama parlamentare-liberale, sia l’eziologia dei progetti di militarizzazione della politica e dello Stato poi tentati, compresi quelli – ben più tardi – dal regime fascista durante il Ventennio. Gli storici avevano ricollegato lo “sganciamento” dei militari dai civili a vari momenti: 193 l’avvio della Triplice Alleanza nel 1882, l’ampliamento dei poteri del capo di Stato maggiore generale rispetto al ministro della Guerra nel 1907,194 il torno di anni fra la guerra libica e la Grande Guerra.195 Gli accenti dei commenti della stampa militare d’informazione suggeriscono di considerare che almeno già alla data del regicidio nel mondo militare vi era chi aveva delineato per le forze armate la formalizzazione di quadro costituzionale extraparlamentare, e per lo Stato un modello militarizzato almeno a livello di valori e di aspir azioni, e sia pure in un contesto fortemente “eccezionale” (come reazione al regicidio). Non era però una reazione impulsiva e incontrollata, come i commenti degli stessi fogli militari al 1898 avevano dimostrato. Una ricerca genealogica sui progetti di militarizzazione della politica, dello Stato e della società espressi dal fascismo è in buona parte ancora da farsi. Appare però utile, oltre al mi- 193 Cfr. Fortunato Minniti, Esercito e politica da Porta Pia alla Triplice alleanza , Roma, Bonacci, 1984. 194 Cfr. Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia del l'esercito italiano dal 1861 al 1943 cit. 195 Cfr. Marco Meriggi, Militari e istituzioni politiche nell'età giolittiana , in “Clio”, a. XXIII (1987) n. 1. 150 Nicola Labanca to dello Stato nuovo dei dottrinari dello Stato etico e all’organizzazione in forme totalitarioreligiose tipiche della “nuova politica”, caratteristiche degli anni de lla Grande Guerra e di quelli ad essa immediatamente successivi, si debba cercare più a fondo anche nelle pieghe dell’Italia liberale. Sia pur in contesti diversi, tendenze ed umori – come quelli qui indagati fra i militari – già circolavano da tempo. Gian Carlo Falco. Crisi bancarie e trasformazione del sistema finanziario italiano fra prima guerra mondiale e restaurazione monetaria. Il Banco di Roma. 1. P REMESSA : L’ IMPORTANZA DEL SALVATAGGIO DEL BANCO DI ROMA NEGLI ANNI V ENTI. La breve ma intensa crisi di riconversione succeduta alla prima guerra mondiale provocò la caduta o il ridimensionamento di molte banche, soprattutto in Europa e in Asia. Ognuno di questi episodi aveva cause specifiche, anche se in Oriente, dove furono colpite importanti banche giapponesi e istituti operanti in Cina, come la Hong Kong and Shanghai Bank, la svalutazione dell’argento, metallo su cui si fondava la circolazione monetaria della Cina e che svolgeva una funzione insostituibile nei pagamenti della maggior parte dell’area asiatica e medio-orientale, fu lo strumento che diffuse le brusche variazioni di prezzi e redditi alla base della crisi finanziaria. Le banche europee, invece, subirono i contraccolpi dell’improvvisa e ampia caduta dei prezzi internazionali e della domanda che si manifestarono dai primi mesi del 1920, dopo l’innalzamento dei tassi di sconto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e l’applicazione di politiche monetarie restrittive in quei paesi. Molti istituti di credito si erano impegnati nell’immediato dopoguerra in una politica fortemente espansiva, sostenendo iniziative industriali, commerciali e immobiliari, per aiutare la riconversione di imprese quando cessò la domanda be llica, per favorire la crescita di nuove attività, o per sostenere operazioni speculative che apparivano promettenti, immobilizzando quote consistenti del loro attivo. Comportandosi in quel modo, le banche avevano ritenuto di partecipare ad affari profittevoli, di rafforzare la loro presenza in settori di importanza strategica, di assicurarsi l’incremento del lavoro banc ario sviluppando i rapporti con clienti più dinamici o più subordinati nei loro confronti. Molte banche, infine, giudicavano con favore l’assunzione di partecipazioni dirette in imprese di vario tipo (e nelle speculazioni su merci, valute, beni immobili che esse realizzavano) perché le consideravano un mezzo efficace per compensare i rischi a cui erano esposte, come creditrici, in una congiuntura dominata da spinte inflazioniste. In realtà l’estensione dei rapporti fra banche e imprese e l’ampio coinvolgimento in operazioni speculative di varia natura si rivelarono insostenibilmente rischiose per diversi istituti dopo l’inversione di congiuntura avvenuta nel 1920. L’aumento dei tassi d’interesse, l’applicazione di politiche monetarie rigidamente restrittive in diversi paesi e la chiusura dei principali mercati finanziari internazionali resero impossibile per molte banche compensare perdite, liberarsi di immobilizzi, adattarsi a una rid uzione dei ricavi. Fra il 1921 e gli inizi del 1923 crisi bancarie clamorose interessarono la francese Banque industrielle de Chine, la Landamandsbank danese e la Andresens og Bergens Kreditbank norvegese; tutte furono affrontate con l’intervento dei governi dei rispettivi paesi. Le crisi di maggiore portata furono però quelle che colpirono due grandi banche italiane, costrette a misurarsi con difficoltà insormontabili dopo un periodo di intenso e rapido sviluppo coinciso con la guerra e l’immediato dopoguerra: la Banca italiana di sconto e il Banco di Roma. Le autorità monetarie italiane furono anch’esse profondamente coinvolte e dovettero misurarsi con una situazione estremamente rischiosa. L’impatto delle due crisi sul sistema finanziario italiano fu enorme; le disposizioni che ne scaturirono esercitarono per anni 152 Gian Carlo Falco un’influenza profonda sulla politica monetaria dei governi, fino al drammatico e tormentato avvio di una politica monetaria di stabilizzazione sotto la pressione di una grave crisi valutaria scoppiata a metà 1925. La crisi dei due istituti accentuò i caratteri oligopolistici del sistema bancario italiano e la sua divisione in comparti mal comunicanti che le autorità monetarie avevano cercato già in precedenza di correggere. Essa sollecitò un maggiore impegno dello stato per rimediare ai limiti di cui il sistema soffriva e alle insufficienze che rivelava nel finanziamento degli investimenti, un limite che minacciava il consolidamento della recente industrializzazione quando la capacità di autofinanziamento delle imprese risultò inadeguata. Le due crisi, e in particolare quella del Banco di Roma, ebbero infine importanti conseguenze politiche e giocarono addirittura un ruolo nella transizione dal regime liberale alla dittatura fascista. Mentre la crisi della Banca italiana di sconto ebbe una forte risonanza tra i contemporanei e fu analizzata con particolare acutezza dal giovane Piero Sraffa a pochi mesi dal suo precipitare, la crisi e il salvataggio del Banco di Roma ricevettero meno atte nzione dai contemporanei. Anche le ricostruzioni storiografiche recenti ne hanno lasciato in ombra diversi aspetti significativi. Alcuni hanno preferito sottolineare come essa influì sull’evoluzione della Banca d’Italia verso il ruolo di banca centrale; altri hanno affermato la natura prevalentemente politica, di quella vicenda, trasformata dal governo fascista in occasione per smantellare la struttura creditizia e cooperativa del Partito Popolare Italiano. Così viene rovesciata in modo troppo meccanico la spiegazione, partigiana ed inadeguata, che Alberto De’ Stefani, primo Ministro delle finanze del governo fascista, aveva cercato di dimostrare in un volume del 1960, secondo cui il Banco sarebbe stato travolto dagli sperperi compiuti per finanziare il PPI, la sua stampa e le sue organizzazioni cooperative e sindacali. La crisi del Banco di Roma appare, nella descrizione dell’ex ministro, una manifestazione dei gua sti prodotti dalla prevalenza degli interessi politici di parte sull’interesse collettivo, rappresentato dallo stato quando esso è retto da un governo forte e sprezzante delle mediazioni, come riteneva fosse stato il governo fascista alle origini. Altri ancora hanno affrontato la questione nel quadro di una storia aziendale che risulta solo parzia lmente esplicativa e soffre di sommarietà ed imprecisioni. Le vicende del Banco di Roma tra la prima guerra mondiale e gli anni Venti meritano invece una ricostruzione più approfondita che cerchi di ricomporre in un quadro unit ario i diversi piani entro cui esse esercitarono la loro influenza. L’esperienza aziendale illustra con chiarezza le linee fondamentali delle trasformazioni organizzative in corso nelle banche ordinarie di credito in Italia e nel loro campo di attività, mentre mutavano profondamente i condizionamenti esercitati dal sistema monetario internazionale e la gestione monetaria interna. Ne emerge un profilo del rapporto tra banche e industria in parte diverso rispetto alla fase di avvio dell’industrializzazione italiana e all’età giolittiana, grazie all’azione combinata di diversi fattori. La dipendenza delle imprese dall’attività di intermediazione e di creazione di liquidità delle banche pare accresciuta, per di più in un contesto di instabilità dei cambi e del sistema dei prezzi, che creava molte opportunità legate alla speculazione, ma accentuava anche l’incertezza sui possibili sviluppi della situazione. In questo modo emergono le ragioni di debolezza di una componente fondamentale del sistema bancario italiano nel primo dopoguerra insieme con quelle della sua rapida affermazione e di un precario consolidamento negli anni Venti. Si possono così individuare le basi della drammatica e generalizzata crisi bancaria italiana dei primi anni Trenta, e la mescolanza di ragioni strutturali derivanti dai caratteri del sistema bancario nazionale e di errori e insufficienze nelle scelte aziendali che la rese possibile; almeno in parte erano il frutto degli adattamenti Crisi bancarie 153 escogitati per rimediare ai limiti e agli ostacoli creati dal tipo di sistema economico entro cui le banche operavano. Quelle stesse vicende esercitarono un’influenza sul funzionamento dell’intero sistema finanziario italiano di portata largamente superiore alle dimensioni della singola impresa o del singolo gruppo. Esse sollecitarono decisioni importanti di politica monetaria, nella prima metà degli anni Venti, per evitare il crollo del Banco, che resero impraticabile per diversi anni una scelta deflazionistica, contribuendo a determinare la relativa anomalia delle scelte monetarie italiane rispetto alle prescrizioni che allora prevalevano tra gli esperti, specia lmente nei paesi creditori. In questo modo riuscir ono, indirettamente, a favorire il consolidamento e lo sviluppo del sistema industriale italiano nell’immediato dopoguerra, pur contribuendo, nello stesso tempo, a rendere più gravi i problemi di stabilizzazione valutaria e di riorganizzazione del sistema finanziario che emersero alla metà degli anni Venti. Infine la crisi del Banco e la decisione di salvarlo influirono sulle alleanze politiche che permisero la transizione dal sistema politico liberale a quello fascista nelle forme che conosciamo. La scelta di estendere l’intervento degli istituti di emissione e poi del Tesoro per salvare il Banco contribuì, in un primo tempo, ad aggregare una maggioranza conservatrice come base della formazione del governo diretto da Mussolini nell’ottobre 1922, rompendo la disciplina del Partito Popolare Italiano. La successiva estensione dell’impegno del Tesoro a favore del Banco contribuì a consolidare lo schieramento politico a favore del governo Mussolini, creando una vistosa frattura entro il partito cattolico nei primi mesi del 1923 e favorì il definitivo ritiro di ogni appoggio del Vaticano al PPI. Ne risultò la perdita di efficacia e di forza politica di un partito che negli anni del primo dopoguerra, e particola rmente nel 1921-1922, aveva svolto un ruolo fondamentale nella vita politica nazionale, rifiutando soluzioni orientate in senso reazionario e disapprovando l’illegalità e la violenza imposti dai fascisti nella vita polit ica italiana. Affronterò in questa sede solo una parte dei temi che ho richiamato, tracciando uno schematico profilo dell’esperienza aziendale del Banco di Roma tra la conclusione della gestione Pacelli e il tentativo dell’amministratore delegato Carlo Vitali di rivit alizzare l’istituto dopo la seconda crisi che lo colpì in meno di un decennio. Trascurerò per ora l’analisi dettagliata delle conseguenze del salvataggio del Banco per la politica monetaria italiana, mentre tenterò di richiamare i termini generali del complesso rapporto tra l’azione finanziaria del Banco e l’esperienza politica dei cattolici italiani tra la prima guerra mondiale e il fascismo. Quel rapporto aiuta efficacemente a comprendere l’evoluzione dell’istituto in un periodo cruciale di trasformazione del sistema finanziario italiano e mette in evidenza la peculiarità della sua esperienza. La sua valutazione ha inoltre rappresentato la questione forse più controversa, finora, nella letteratura che ha affrontato l’argomento. Le interpretazioni esistenti non mi paiono del tutto convincenti e vorrei proporne una che ritengo più adeguata ai fatti, così come ho potuto ricostruirli sulla base di un’ampia indagine su diverse fonti d’archivio, molte utilizzate per la prima volta. Rispetto alla storiografia esistente la novità non consiste certo nel rilevare il rapporto tra Banco di Roma e PPI, troppo visibile e tanto spesso dichiarato da non essere cancellabile, ma di definirlo nella sua reale natura, portata e conseguenze, facendone emergere la funzione strutturale tanto nella vita della banca (nella sua crescita, nel consolidamento e nella lotta contro la crisi), quanto nella crisi che impose il forte ridimensionamento dell’attività del Banco in Italia e all’estero. 154 Gian Carlo Falco 2. IL BANCO DI ROMA AGLI INIZI DEL N OVECENTO: IL FALLIMENTO DI UN TENTATIVO DI TRASFORM AZIONE. Le conseguenze politiche del salvataggio del Banco di Roma si riconnettono ai particolari rapporti che, dalle origini, legavano l’istituto al mondo cattolico romano, ad esponenti della nobiltà papalina e soprattutto al Vaticano. Essi gli conferirono connotati diversi da quelli delle altre maggiori banche italiane tra fine Ottocento e prima guerra mondiale e continuarono ad influire sulla sua gestione tra 1917 e la prima metà degli anni Venti. Agli inizi del Novecento il Banco appariva un istituto di modesto rango: i mezzi propri (capitale e riserve) non toccavano neppure 6,9 milioni, contro i 69 circa della Banca commerciale italiana e i 31,8 del Credito Italiano. La raccolta, nello stesso anno, non raggiungeva 20,2 milioni, contro più di 137 milioni de lla BCI e i 63,8 del Credito Italiano, secondo le cifre dei bilanci ufficiali. Ma in pochi anni il Banco accelerò la sua crescita facendo ampio ricorso ad aumenti di capitale: 8 fra 1902 e 1912, che ne portarono l’importo a 200 milioni, ponendo l’istituto al primo posto, per entità del capitale, fra le società ordinarie di credito italiane. Le riserve dichiarate, invece, erano di soli 7,3 milioni, nettamente inferiori a quelle delle altre due banche. La raccolta salì contemporaneamente a 253,8 milioni da 36,7, un incremento di quasi 7 volte, ottenuto grazie all’estensione della rete di sportelli, in particolare fuori del Lazio, a cui si era limitato lo sviluppo iniziale. Il rapporto tra mezzi propri e raccolta (1:1,14), tuttavia, sottolineava che la crescita realizzata dipendeva fondamentalmente dalla mobilitazione di capitali presso i sottoscrittori delle numerose emissioni di nuove azioni, come accadeva nelle vecchie banche d’affari ottocentesche. I due concorrenti diretti del Banco di Roma, invece, nello stesso anno potevano vantare un rapporto fra mezzi propri e raccolta di oltre 1:3,7 per la BCI e di 1:4,8 per il Credito Italiano, grazie, particolarmente, allo sviluppo dei conti di corrispondenza. Questi rappresentavano, nel 1912, rispettivamente i 2/3 del totale per la Commerciale e quasi la metà per il Credito, mentre erano poco più dei 2/5 nel Banco di Roma, grazie ad un eccezionale incremento che non aveva riscontro né negli anni precedenti, né in quelli immediatamente seguenti perché legato al finanziamento delle operazioni in Libia. La differenza tra il Banco e i suoi concorrenti rispecchiava l’esistenza di rapporti diversi con la clientela. Il Banco legò la sua raccolta, in parte, alla gestione di patrimoni impiegati in titoli (soprattutto pubblici), su cui esso pagava un interesse aggiuntivo rispetto a quello prodotto dai titoli stessi, ma utilizzandoli per il risconto o le anticipazioni con gli istituti di emissione, mentre non aveva rapporti molto estesi con la clientela commerciale e soprattutto industriale, diversamente dalle due grandi banche settentrionali. Parte degli sforzi che i dirigenti del Banco fecero agli inizi del Novecento per promuoverne lo sviluppo, furono rivolti a correggere il limite rappresentato dagli scarsi rapporti con la clientela commerciale e industriale per assicurare maggiore dinamismo all’istituto. La decisione di aprire una filiale a Napoli (unico centro del Mezzogiorno in cui il Banco fu presente fino alla prima guerra mondiale), poi di raggiungere alcune zone del Piemonte, la Liguria ed il litorale toscano, permisero di stabilire rapporti con diverse imprese industriali, in parte attive dove era più limitata la concorrenza delle maggiori società ordinarie di credito, pur senza lasciare emergere un disegno organico di intervento a favore di particolari settori produttivi. L’istituto non riuscì a raggiungere, con le sue partecipazioni, un peso rilevante in nessun settore produttivo. Tra i clienti del Banco figuravano imprese tessili di Pisa, Livorno, Pontedera e La Spezia, aziende molitorie di Napoli, società produttrici di gas di città ed energia elettrica, fornaci per laterizi e un’importante impresa che commerciava legname e produceva traversine ferroviarie. Il Banco sosteneva una prestigiosa azienda di pro- Crisi bancarie 155 duzione e distribuzione cinematografica, specializzata nella produzione di pellicole di soggetto storico, la Cines, in cui aveva un’ampia partecipazione; la società ne controllava, a sua volta, un’altra che aveva l’esclusiva per l’Italia della promettente produzione di viscosa e la realizzava in uno stabilimento in Lombardia consentendo lauti profitti, ma costringendo a investimenti e spese consistenti. Altre imprese industriali, in cui il Banco assunse partecipazioni e a cui accordò crediti, operavano nel settore alimentare e nella meccanica (la fabbrica di auto Itala, insediata a Torino) ed erano controllate da gruppi industriali e finanziari liguri. Una delle scelte più significative del nuovo indirizzo del Banco fu, infatti, l’apertura di una filiale a Genova (che imp licava l’attesa di un maggiore impegno nel finanziamento delle attività commerciali legate al porto, allora in forte sviluppo), seguita dall’assorbimento del Banco della Liguria. Grazie a questa soluzione, i dirigenti del Banco speravano di realizzare un rapido incremento degli affari impadronendosi della clientela dell’istituto assorbito, secondo una pratica molto diffusa in quegli anni e nel primo dopoguerra, benché fosse risultata potenzia lmente rischiosa e quindi poco profittevole. Quasi contemporaneamente i dirigenti del Banco di Roma decisero di indirizzare l’istituto verso la penetrazione economica e commerciale in Tripolitania e Cirenaica, alcuni anni prima della conquista italiana della Libia nel 1911. Là il Banco si impegnò nell’acquisizione di terreni agricoli, nella gestione di attività industriali legate ai consumi della popolazione urbana locale e nel commercio delle esportazioni fondamentali: sparto, spugne e prodotti della pesca. Dopo la conquista italiana, il Banco ottenne anche la gestione del porto di Tripoli e dei collegamenti marittimi con Italia ed Egitto, diventando il fondamentale strumento di controllo e gestione dell’economia locale in forma diretta o attraverso partecipazioni. L’espansione all’estero, coronata dalla penetrazione in Libia, rappresentò la seconda, specifica, scelta di sviluppo compiuta dal gruppo dirigente del Banco agli inizi del Novecento. Essa cominciò da Parigi, piazza estera di riferimento ancora fondamentale per il sistema bancario italiano, e fu continuata con l’ apertura di filiali in Egitto, a Malta e in alcune città costiere della Turchia, in Catalogna. La distribuzione geografica di una parte almeno delle filiali italiane aperte prima della guerra e della maggior parte di quelle mediterranee (con l’eccezione della Libia) teneva conto, apparentemente, non solo dell’importanza finanziaria, commerciale, industriale e amministrativa delle piazze scelte, come facevano tutte le grandi banche e particolarmente dei tradizionali flussi commerciali tra regioni mediterranee, fonte di operazioni cambiarie, di finanziamento commerciale e di riscossioni. Ma essa rifletteva anche l’esistenza di comunità ecclesiastiche cattoliche. Il Banco assicurava agli ordini religiosi presenti nei paesi mediterranei, e in particolare a quelli italiani, il trasferimento di fondi tra le diverse case e Roma (e Gerusalemme, in alcuni casi) e cercava di assicurarsi la gestione delle loro risorse finanziarie, oltre a gestire almeno una parte di quelle del Vaticano. Quando Pacelli, nel 1904, si recò in Egitto per valutare la possibilità di aprirvi delle filiali del Banco, ad Alessandria e al Cairo, curò attentamente i rapporti con i principali ordini religiosi cattolici là presenti e iniziò le sue visite alle personalità locali dal nunzio pontificio. Anche la presenza a Malta faceva riferimento alle organizzazioni religiose che vi erano insediate, tanto che, ancora nel 1920, diversi religiosi registrati come residenti a Malta disponessero di un pacchetto di azioni dell’istituto e tre anni più tardi il Sovrano Ordine Militare di Malta era intestatario di circa 400 titoli. Questo modo di operare indicava una certa continuità con le ragioni che avevano giustificato la fondazione del Banco nel 1880: favorire il trasferimento dell’obolo di San Pietro dalle comunità cattoliche estere a Roma, fornire alla Santa Sede uno strumento capace di migliorarne la posizione finanziaria, gravemente pregiudicata dalla perdita del potere tem- 156 Gian Carlo Falco porale, e offrire alle congregazioni un riparo contro disposizioni di natura tributaria o patrimoniale che ledessero i patrimoni ecclesiastici. La fusione con la Banca artistico-operaia di Roma, nel 1899, altra banca in cui il Vaticano aveva una larga partecipazione, confermò i rapporti fra il Banco di Roma e gli ambienti cattolici della capitale, e contribuì ad avviare l’espansione dell’istituto nel Lazio, consente ndogli di rilevare la rete di filiali in località agricole della regione. Si profilò così una delle particolarità operative del Banco di Roma nei due decenni successivi: l’intreccio di attività proprie di una grande banca con quelle proprie di una banca locale, prima che altri grandi istituti di credito percepissero le opportunità offerte da un simile indirizzo, particolarmente in termini di raccolta. Affluirono al portafoglio del Banco anche alcune partecipazioni industriali, cedute dal Vaticano per compensare l’istituto delle passività della Banca artistico-operaia che si accollava. Ma i suoi rapporti con il sistema industriale italiano restarono meno intensi e diversificati di quelli delle maggiori società ordinarie di credito o di alcuni istituti locali, come la Società Bancaria Italiana, presenti nelle regioni dove si concentrava l’espansione di iniziative industriali in quegli anni. Il Banco di Roma non aveva rapporti significativi con i grandi settori industriali di base (siderurgia, elettricità, meccanica pesante) che erano in strette relazioni con le grandi banche. Anche il rapporto con l’armamento marittimo, cliente importante soprattutto della Banca Commerciale, si riduceva, per il Banco, alla gestione diretta della linea GenovaTripoli e della linea di cabotaggio fra Tripoli e l’Egitto, attivate dopo la conquista della Libia. Le entrate ottenute mediante l’ordinario lavoro bancario con le imprese non riuscivano ad essere proporzionalmente equivalenti a quelle di BCI e Credito Italiano. Il Banco, invece, sviluppò le operazioni commerciali dirette (come in Libia), il finanziamento della raccolta e commercializzazione del cotone in Egitto, l’investimento in proprietà immobiliari (in Italia, in Egitto e a Parigi), cercando in questi affari un’alternativa ai più limitati proventi dell’attività bancaria in senso proprio o alle operazioni di carattere finanziario che avrebbero richiesto una maggiore integrazione nei circuiti dell’alta banca europea, che solo la Banca Commerciale poteva realmente vantare tra le banche italiane. Inoltre effettuava il commercio di divise in relazione alle esigenze del commercio estero locale su mercati che consentivano commissioni e margini particola rmente elevati su questo tipo di operazioni (come Egitto e Turchia) e curava i pagamenti internazionali di tratte commerciali. L’iniziativa in Libia, probabilmente elemento di un disegno diplomatico del governo italiano di penetrazione economica in territori su cui l’impero ottomano non esercitava più un efficace controllo, pareva uno degli affari che il Banco ricercava per assicurarsi guadagni, tanto più che si realizzò in condizioni di monopolio. Com’è noto, il calcolo si rivelò sbagliato e per diversi anni le operazioni in Libia furono causa di perdite e contribuirono a provocare il radicale mutamento del gruppo dirigente del Banco e il passaggio di mano del controllo sulla banca stessa. Le perdite furono parzialmente indennizzate dallo stato italiano; la Banca d’Italia favorì, con operazioni di sconto garantite da titoli, il trasferimento della maggioranza delle azioni del Banco a un nuovo gruppo di controllo e ulteriori crediti furono concessi dal Consorzio per sovvenzioni su valori industriali (CSVI) su cambiali di comodo per favorire lo smobilizzo dell’attivo dell’istituto che nell’ultimo anno di guerra riuscì ad avviare una nuova, accelerata espansione, dopo il fallimento del primo tentativo di trasformazione del Banco. L’affare libico, con i suoi risvolti diplomatici e coloniali, contribuì ad avvicinare il Banco al governo guidato da Giolitti. Per un istituto tradizionalmente gestito da cattolici particolarmente fedeli al papato e quindi estranei, o addirittura avversi, ai gruppi liberali che dominavano la vita politica italiana si trattava di un’innovazione radicale, un segno del progressivo Crisi bancarie 157 inserimento dei cattolici nel gioco politico nazionale, in funzione anti-socialista, culminato, com’è noto, nel patto Gentiloni per le elezioni del 1913. A partire da quel momento, il rapporto fra i dirigenti del Banco e il mondo politico divenne più stretto e aiutò, ripetutamente, a propiziare la soluzione positiva di importanti affari che dipendevano da decisioni dell’esecutivo o dell’amministrazione pubblica e a compensare alcuni limiti strutturali che affliggevano il Banco. Il rapporto comportò, talvolta, rischi e oneri, ma non fu solo causa di perdite e gravi errori di gestione, come pretendeva De’ Stefani riferendosi all’esperienza del 1919-1922. Inoltre, diversamente da quanto lo stesso De’ Stefani suggeriva, il rapporto non cessò con la fine dell’esperienza del PPI, principale referente politico del Banco in quegli anni, ma continuò sotto il governo fascista, facendo dell’istituto la prima conquista in campo bancario di Mussolini, anteriore a quella degli istituti parastatali o di quelli in cui gli amministratori erano in parte designati dagli enti locali e quindi dal potere politico che li controllava. Questa evoluzione corrispose a importanti modifiche nel controllo della maggioranza azionaria. È opinione diffusa, sostenuta da documenti privati pubblicati da Benny Lai e da molti indizi, che una parte significativa delle azioni, forse la maggioranza, appartenesse alla Santa Sede. Nel 1916, quando si cercò di rimediare alla grave crisi del Banco che pose fine al tentativo di espansione guidato da Pacelli, il capitale sociale aveva ormai subito due drastiche riduzioni, la prima, di un quarto, nel 1915, la seconda di metà di quanto restava, nel 1916, scendendo a soli 75 milioni (complessivamente una svalutazione di 62,5%) e l’ex presidente del Banco fu costretto a cedere le azioni in suo possesso ai dirigenti che gli subentrarono. Le particolari cautele impiegate nella trasmissione, fatta con l’intervento congiunto di personaggi che godevano della fiducia del Vaticano (fra i quali Giocchino Gioja, che non avrà mai ruolo operativo nell’istituto, e Carlo Santucci, esponente di prestigio dei cattolici conservatori romani, che contribuì forse alla soluzione di una transazione difficile e riservata in qualità di legale) fanno pensare che Pacelli detenesse almeno una parte di quei titoli per conto del Vaticano. Il quale avrebbe sacrificato la sua partecipazione (non sappiamo se completamente o solo in parte), ammettendo implicitamente una responsabilità nella condotta degli affari del suo fiduciario Pacelli, per evitare conseguenze negative per il mondo cattolico italiano. Il sacrificio sostenuto dal Vaticano doveva consentire la ripresa del Banco grazie all’intervento della maggioranza dei banchieri cattolici attivi in diverse realtà regionali. Tra questi spiccavano gli esponenti delle organizzazioni romagnole, emiliane e venete in rapporto con il conte Grosoli Pironi, considerati con simpatia dal pontefice Benedetto XV, già arcivescovo di Bologna. Egli era stato, quindi, a contatto con una delle esperienze di maggior successo dell’organizzazione economico-sociale cattolica e verso di essa mostrava simpatia, diversamente da Pio X, oltre ad essere personalmente in rapporto con i principali esponenti di quell’organizzazione. I banchieri locali cattolici erano personalità diverse dagli esponenti del cattolicesimo romano che avevano fino ad allora guidato il Banco; l’impegno che molti di loro avevano posto anche nell’attività politica locale, a partire dal 1919 si identificò con gli obiettivi e l’azione del PPI. Dal 1916 fino agli inizi del 1923 il controllo del Banco restò saldamente nelle loro mani, anche se essi continuarono ad essere affiancati da alcuni esponenti del cattolicesimo romano, forse garanti della fedeltà dell’istituto nei confronti del Vaticano e degli ambienti ecclesiastici. Grazie al controllo sul capitale che il nuovo gruppo dirigente esercitava, l’istituto fu al riparo dagli assalti e dai tentativi di conquista che coinvolsero tutte le altre grandi banche italiane e alcune banche regionali quando il forte fabbisogno di liquidità e di risorse finanziarie da destinare agli investimenti o l’esigenza di rafforzare la propria posizione sul mercato sollecitò alcune gran- 158 Gian Carlo Falco di imprese industriali a prendere il controllo di istituti di credito per dotarsi delle risorse necessarie. 3. IL RINNOVAMENTO DEL BANCO DI ROMA DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE: LA CREAZIONE DI UN GRUPPO INTEGRATO. Così il risanamento del Banco e la sua riorganizzazione furono affrontati da un nuovo gruppo di amministratori provenienti da un gruppo di banche locali cattoliche; queste erano coordinate tra loro da un istituto di tipo federativo, il Credito nazionale, fondato poco prima dello scoppio della guerra. Le banche erano diventate, in età giolittiana, uno strumento fondamentale dell’organizzazione economica che il movimento cattolico utilizzava per la sua azione sociale. Erano concentrate soprattutto al nord e al centro della penisola e il numero maggiore era rappresentato da casse rurali, concepite come un sostegno per mezzadri, piccoli fittavoli e coltivatori diretti, individuati come i gruppi sociali più sensibili ai valori cattolici. Operavano in zone dove l’agricoltura riusciva ad assicurare livelli di reddito monetario che permettevano l’accantonamento di risparmi grazie a produzioni che erano commercializzate con un certo vantaggio (dai bozzoli alla canapa, dalla menta al vino, secondo le zone); già prima della guerra molte raccoglievano più depositi di quanto riuscivano a impiegare localmente e destinavano l’eccedenza all’acquisto di titoli pubblici. Per rimediare alle scarse capacità di impiego diretto erano state realizzate forme di coordinamento fra le casse e se ne era appoggiata l’attivit à a banche locali confessionali, di origine e natura prevalentemente urbana. Il coordinamento, realizzato ordinariamente mediante federazioni provinciali o regionali, assicurava un certo controllo della gestione, per evitare errori e illegalità, e rafforzava l’indirizzo politico-religioso degli enti, mentre la collaborazione con le banche locali forniva uno sbocco alla raccolta eccedente gli impieghi locali e permetteva di offrire servizi aggiuntivi (come gli assegni circolari) che non funzionavano efficacemente su base solo locale. La maggior parte delle banche locali era stata fondata in forma cooperativa e disponeva di un patrimonio molto ridotto rispetto alla raccolta. Molte, perciò, sarebbero state danneggiate dalle disposizioni che Nitti, come Ministro di agricoltura, industria e commercio, aveva proposto nel 1913, per garantire meglio i depositanti, stabilendo che il patrimonio (il capitale più le riserve) raggiungesse almeno il 10% dei depositi raccolti. Le banche cooperative cattoliche dovevano rivalutare il capitale, un’operazione che per molte costituiva un onere ed un ostacolo e che poteva imporre la trasformazione in società anonima, un passo che poteva avere come conseguenza la modifica del gruppo di controllo. Il coordinamento delle banche locali a livello nazionale parve, alla vigilia della prima guerra mondiale, la soluzione adeguata sia al problema della loro redditività aziendale (perché consentiva di trasferire le disponibilità in eccesso presso gli enti capaci di impiegarli), sia a quello dell’affidabilità della loro gestione (il personale più competente delle organizzazioni centrali avrebbe vigilato sulle gestioni periferiche, applicando dei regolamenti uniformi), sia all’esigenza di ricapitalizzare le banche pur mobilitando risorse liquide di entità contenuta. Lo scambio di partecipazioni e il trasferimento di fondi dagli enti più ricchi ai meno dotati sarebbero serviti allo scopo. Per coordinare gli sforzi e centralizzare le iniziative fu fondato il Credito nazionale. A questo istituto, organo centrale del sistema bancario cattolico, si ricorse quando la crisi del Banco di Roma impose la mobilitazione di nuovi capitali liquidi dopo che una prima, consistente quota delle perdite era stata assorbita grazie all’uso delle riserve e alla svaluta- Crisi bancarie 159 zione del capitale. L’intervento del Credito nazionale fu, probabilmente, concepito, in quelle circostanze, come semplice apporto finanziario senza contropartite in te rmini di controllo del Banco, per aumentare la liquidità dell’istituto integrando quella che esso otteneva dal risconto della Banca d’Italia. L’intervento evitava inoltre che le finanze vaticane, certamente provate dalla svalutazione del patrimonio del Banco, fossero costrette a fornire ca pitali per consentire la ripresa dell’istituto. Ma nel 1916, quando si dovette svalutare di nuovo il capitale, dimezzandolo, e reintegrarlo, l’intervento del Credito Nazionale e delle banche cattoliche assunse proporzioni che rendevano inevitabile la ricerca di garanzie sulla gestione futura dell’istituto salvato. Pacelli fu obbligato a deposit are presso il Credito nazionale le azioni del Banco di cui disponeva e si profilò il completo rinnovamento del gruppo dirigente dell’istituto in crisi, tenendo conto del controllo che il Credito nazionale ormai esercitava sulla maggioranza delle azioni. Con il secondo intervento a favore del Banco, gli organizzatori cattolici e i banchieri locali che con loro collaboravano si imp egnavano a liberare Benedetto XV da un affare rivelatosi disastroso per le finanze della Santa Sede, anche se questa continuò forse a conservare una partecipazione (che non mi è possibile determinare) e a valersi dell’istituto per alcune esigenze finanziarie. L’iniziativa del Credito nazionale, nel 1916, coinvolgeva l’intera organizzazione economica cattolica italiana e la maggior parte delle banche locali che ne facevano parte. L’esperienza fatta dalle banche locali cattoliche negli anni precedenti aveva reso evidente ai loro dirigenti l’importanza di svolgere un’attività di più ampio respiro e il controllo del Banco di Roma rappresentava un’opportunità di grande interesse finanziario, oltre che un atto di devozione nei confronti del pontefice, specialmente nelle nuove condizioni create dalla congiuntura di guerra. Poche componenti del movimento economico cattolico preferirono rimanere estranee al salvataggio. Tra queste spiccavano il Banco Ambrosiano, controllato dai cattolici moderati milanesi, radicato da tempo nel capoluogo lombardo ed estraneo all’organizzazione cattolica nelle campagne, e il Credito romagnolo di Bologna. Il gruppo dirigente di questa banca si era diviso da poco tra un ramo ferrarese (che fondò il Piccolo Credito Ferrarese) e uno bolognese, rimasto alla guida del vecchio istituto, per divergenze sugli indirizzi da seguire. Mentre il secondo si concentrò su una prudente gestione creditizia, il primo si impegnò con molto dinamismo nell’uso delle risorse raccolte in impieghi industriali e commerciali, in modo diretto o attraverso partecipazioni. Perlopiù si tra ttava di attività comple mentari dell’agricoltura: commercializzazione dei raccolti, distribuzione di concimi, attrezzi, macchine e sementi, trasformazione di prodotti. Tra 1916 e 1917, inoltre, cominciarono a interessarsi nell’acquisto di terreni bonificati da utilizzare per la produzione di barbabietole da zucchero, visto che gli zuccherifici avevano difficoltà a trovare la materia prima che gli occorreva e la coltivazione delle barbabietole diventava particolarmente remunerativa. Altri gruppi cattolici che avevano aderito inizialmente al salvataggio del Banco di Roma, entro il 1917 preferirono ritirarsi, forse per divergenze sui criteri di gestione applicati dai nuovi dirigenti e per diversità di vedute sui loro programmi. Lo segnalano le dimissioni date dall’avv. Bellia di Torino dal consiglio di amministrazione del Banco di Roma. I cattolici piemontesi che Bellia rappresentava preferirono consolidare autonomamente una propria organizzazione bancaria e cooperativa, imperniata su un istituto regionale, il Credito piemontese, senza rapporti con l’organizzazione che si raggruppò attorno al Banco di Roma. Solo la Banca di Piccolo Credito Novarese, tra gli istituti cattolici piemontesi, sviluppò una relazione d’affari con il Banco, alcuni anni più tardi, contribuendo a rendere possibile l’acquisizione e lo sviluppo della Società delle Bonifiche dei Terreni Ferraresi, uno dei maggiori immobilizzi del Banco. 160 Gian Carlo Falco La guerra fece aumentare la liquidità disponibile nelle province agricole dove operavano gli istituti cattolici (in particolare in Emilia e Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, in parte della Toscana e in Umbria), grazie all’aumento dei prezzi delle derrate e delle materie prime. Si rafforzò così l’esigenza di coordinare e centralizzare le operazioni delle banche cattoliche, per dare impiego all’accresciuta raccolta realizzata nelle campagne, costruendo una struttura bancaria piramidale che sostenesse altre attività, industriali e commerciali, controllate dai cattolici, ma godesse anche di autonomia per sperimentare indirizzi operativi più ambiziosi, ampi e potenzialmente remunerativi di quelli fino ad allora prevalsi. Dopo il 1917, la struttura economica e finanziaria cattolica adottò criteri di gestione più dinamici e parve accettare i rischi di un ambizioso e vasto progetto capitalis tico che andò articolandosi e precisandosi negli anni. Il Banco di Roma assunse progressivamente il carattere di riferimento finanziario di un complesso di imprese di vario tipo, di cui molte si integravano reciprocamente dal punto di vista produttivo; esse risultavano collegate da un sistema di partecipazioni incrociate che limitava l’apporto di fondi liquidi e assicurava, nello stesso tempo, il controllo delle società. Grazie a loro il Banco tornava ad essere una delle maggiori banche ordinarie italiane appoggiandosi a un consistente nucleo di aziende controllate e clienti, imitando quanto realizzavano le altre grandi banche nazionali pur mobilitando una minore quantità di mezzi propri e trovando una soluzione alle difficoltà di stringere rapporti con una clientela industriale e commerciale che fino alla crisi del 1914-1916 gli aveva fatto difetto. Dal punto di vista politico un simile sviluppo in campo finanziario ed economico poteva contribuire con particolare efficacia all’affermazione di un movimento cattolico organizzato, con un saldo radicamento sociale, interclassista e autonomo rispetto ai tradizionali strumenti di rappresentanza politica degli interessi e dei gruppi sociali, in piena coerenza con gli indirizzi che porteranno alla formazione del Partito Popolare Italiano nel 1919. Iniziativa economica e azione politica si trovarono quindi, per la prima volta, strettamente intrecciate e si sostenevano reciprocamente. Il programma di sviluppo del Banco di Roma fu realizzato, dopo un periodo di transizione, sotto la guida, in un primo tempo, di Giuseppe Vicentini (inizialmente semplice consigliere) e Ferdinando Bussetti (inizialmente vice presidente), nominati ammin istratori delegati. Dall’autunno del 1920, dopo le dimissioni di Bussetti, deluso forse per il mancato potenziamento delle iniziative in Egitto che aveva sostenuto e logorato da una diarchia che non doveva essere stata facile, il solo Vicentini rimase alla testa della banca e del suo gruppo. Benché i due amministratori fossero stati bruscamente proiettati da esperienze locali ad un istituto di credito di rilievo nazionale, erano entrati perfettamente, e con una certa prontezza, nel ruolo, per loro nuovo, di dirigenti di una grande banca che doveva risollevarsi da una grave crisi e confrontarsi con le novità di una situazione economica carica di opportunità ma anche di rischi. Essi continuarono a mantenere stretti contatti con l’ambiente cattolico da cui provenivano, come la maggior parte degli altri amministratori del Banco, reclutati soprattutto nelle organizzazioni economico-finanziarie di Veneto e Romagna (ma con rappresentanti anche di altre regioni) che controllavano il Credito nazionale e sfruttarono abilmente quei contatti per rafforzare e sviluppare le loro iniziative e i loro progetti fina nziari nel dopoguerra, soprattutto dal 1921. Il nuovo gruppo non aveva, nei confronti del Vaticano, lo stesso rapporto di stretta subordinazione e forte identificazione che aveva distinto gli esponenti della nobiltà romana responsabili della guida del Banco dalle origini alla prima guerra mondiale, benché almeno Vicentini fosse fortemente influenzato da Grosoli Pironi, il cui ossequio nei confronti del Pontefice era assoluto. Il nuovo gruppo dirigente continuava ad essere devoto alla Santa Sede e alle gerarchie ecclesiastiche, nei cui con- Crisi bancarie 161 fronti mostrava sollecitudine e disciplina, ma procedeva adottando pienamente le regole del gioco del modo finanziario italiano. Un caso esemplare che mostra la forza del rapporto con le gerarchie ecclesiastiche si incontra a proposito dell’impegno posto dall’industriale svizzero di Lucerna, ma da tempo residente a Firenze, Bürgisser, amministratore del Banco, che aiutò il cardinale Maffi, arcivescovo di Pisa, a trasferire almeno mezzo milione di titoli italiani in Svizzera contro le disposizioni sul controllo dei cambi in vigore tra 1919 e 1920. Casualmente scoperto, cercò in ogni modo di non coinvolgere il cardinale e riuscì a risolvere a proprio favore il procedimento giudiziario che ne risultò grazie all’efficace intervento di Vicentini e del suo abile segretario, l’avvocato Bocca. Ma è anche significativo un secondo episodio, del 1921-1922: il recupero particolarmente sollecito degli assegni in marchi tratti sulla BIS in moratoria a favore di un alto prelato italiano che doveva trasferire fondi in Germania in occasione del proprio soggiorno in quel paese. Il nuovo gruppo dirigente fu capace di assicurare una pronta ripresa del Banco, in parte grazie alla situazione congiunturale, ma certo anche per l’abilità nel cogliere le opportunità che essa offriva. In un periodo relativamente breve esso riuscì a dar vita ad un gruppo finanziario nuovo e potente, profondamente diverso dal Banco diretto da Pacelli, meno laziale e genovese, più aperto verso altre zone economiche del paese benché ancora anomalo, rispetto alle grandi società ordinarie di credito nazionali, per le forze e i gruppi di interesse che a esso facevano riferimento. Esso si impegnò anche, soprattutto nel primo periodo passato alla guida del Banco, a correggere alcuni dei difetti e degli errori emersi nella gestione Pacelli. Le attività dell’istituto furono prontamente sottoposte a verifica e solo alc une furono tenute. Non sempre la scelta risultò particolarmente preveggente, come mostra l’esempio della Cines. Si trattava di una società cinematografica che controllava anche una società produttrice di viscosa che aveva l’esclusiva per l’Italia di un utile brevetto del Comptoir des Textiles Artif iciels francese, essenziale per una produzione a costi contenuti. I nuovi dir igenti preferirono chiudere il rapporto con il barone Fassini, titolare del brevetto e amministratore delegato della società, nel timore che il sostegno all’impresa comportasse impegni finanziari eccessivi, e rinunziarono alle prospettive molto allettanti che il settore della viscosa mostrava, pur ricavando dalla vendita della partecipazione ben 17 milioni. L’episodio illumina i criteri che ispirarono la condotta dei nuovi amministratori anche per un’altra ragione. Prima di prendere la loro decisione, essi lasciarono degradare i rapporti personali con il Fassini, valutando che la sua assoluta preminenza nella gestione e nella strategia della società fosse un rischio per il Banco, che doveva comportarsi ormai con e strema prudenza. Così rivelavano l’importanza che attribuivano al controllo delle gestione delle imprese in cui l’istituto partecipava. Invece nel caso della società meccanica Itala, pesantemente esposta nei confronti del Banco, preferirono mantenere la partecipazione, grazie forse alla redditività delle commesse militari che essa aveva ottenuto. Ma anche in questo caso emersero le preoccupazioni per il controllo della gestione (per quanto solo finanziario e non di merito, sul processo produttivo) e fu introdotto nel consiglio di amministrazione un fiduciario del Banco con il compito di seguirla. Lo stesso avvenne nel caso della Società Aterno, nel cui consiglio entrò, come fiduciario del Banco, l’ing. Ariberto Castelli di Milano (lo stesso dell’Itala), in buoni rapporti con l’azionista che guidava l’impresa come amministratore delegato, l’ing. Guttinger e il maggiore consulente in campo industriale di cui si valse il Banco fino all’inizio del 1923. Probabilmente l’esistenza di un importante contratto di fornitura di traversine ferroviarie che la società aveva in corso di esecuzione nel 1915-1916 favorì la decisione di mantenere il rapporto con la società. Questa successivamente, con la partecipazione del Banco, diede vita a una società per lo 162 Gian Carlo Falco sfruttamento della torba di Campotosto, in Abruzzo, impegnandosi nella realizzazione di costosi impianti fissi, fra cui una ferrovia per il trasporto del prodotto, concepiti mentre si tentava con ogni mezzo di trovare combustibili alternativi al carbone, importato in quantità scarse e ad alto prezzo. Nella fase iniziale della riorganizzazione del Banco venne affermata con forza l’esigenza di operare con rigore ed evitare impieghi che procurassero perdite. I nuovi dirigenti scrutinarono con particolare cura i rapporti con le imprese e gli affari da accettare e si preoccupano della profittabilità a breve termine e della liquidità degli impegni che assumevano. L’impegno per un maggior rigore nella gestione si manifestò anche nei confronti delle filiali: un’inchiesta condotta nel 1918 su quella di Genova mise in evidenza i gravi limiti del direttore nel vagliare la solvibilità della clientela commerciale e nel curare i rapporti con gli operatori migliori della piazza. A guerra ormai conclusa, nel secondo semestre 1919, infine, i dirigenti del Banco cercarono di riprendere il controllo sulle filiali egiziane che avevano goduto fino ad allora di larga autonomia, sotto la guida di un dirigente indisciplinato, Interdonato, molto legato a gruppi di interesse locali e pericolosamente incline a progetti grandiosi ed avventati, forse nella convinzione che eventuali perdite potessero essere facilmente compensate da consistenti guadagni occasionali, favoriti da una fitta rete di relazioni influenti. Una traccia di questo atteggiamento emerge dalle sue pressioni sul direttore della sede di Milano del Banco perché sovvenzionasse con liberalità un influente personaggio egiziano di passaggio in città, col risultato di creare un buco di oltre 30.000 lire per l’anticipo di sterline senza garanzia. Ma con il passare degli anni il rigore nel vaglio degli affari e nella gestione ordinaria si attenuò, man mano che l’incremento dei prezzi fece ritenere che ogni operazione si chiudesse con un guadagno certo. Anche la sistemazione degli immobilizzi ereditati in Libia richiese molto impegno negli anni iniziali della nuova gestione, benché gli sviluppi della situazione nella colonia, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, limitassero ai soli centri maggiori la presenza militare e amministrativa italiana. Diverse attività assunte con una certa avventatezza in società con operatori da tempo radicati nell’economia libica (per esempio quella della pesca e commercializzazione delle spugne o la pesca e lavorazione del tonno) furono faticosamente e lentamente cedute ai soci accettando perdite significative. Le attività sviluppate in relazione alla cosiddetta penetrazione pacifica in Tripolitania e Cirenaica e quelle connesse alla trasformazione di Tripoli in capitale della colonia furono conferite a una specifica società finanziaria con sede nella città, il Sindacato coloniale italiano (Sincolit), che godeva, grazie alla sua localizzazione, di ampie agevolazioni fiscali e che diventerà, dal 1919, sotto la guida di Bussetti, uno degli strumenti fondamentali utilizzati dal Banco per controllare un vasto gruppo di iniziative commerciali e produttive. Al momento della sistemazione del Banco, nel 1923, nel Sincolit si era accumulato un blocco di immobilizzi e partite in perdita tra i più rilevanti del grandioso dissesto dell’istituto. La relativa originalità dell’esperienza bancaria impersonata dal Banco di Roma tra gli ultimi anni di guerra e il dopoguerra emerge dalla politica degli impieghi che venne seguita, combinando gli orientamenti espressi dai due amministratori delegati. Grazie all’alleanza tra il gruppo ferrarese e quello veneto, con il consenso dei rappresentanti toscani e del garante papale Santucci, si tentò di realizzare sulla scala di grandezza del Banco di Roma (quindi nazionale e mediterranea) quello che era stato prima realizzato su base regionale nelle realtà locali in cui le organizzazioni agricole cattoliche avevano operato con successo prima della guerra. Una viva attenzione fu rivolta agli affari fondiari, acquisendo terre da gestire direttamente o da rivendere a prezzi sensibilmente aumentati dopo averle frazionate, approfittando della forte domanda di terre da parte di piccoli proprietari coltivatori, Crisi bancarie 163 mezzadri e coloni che impiegavano così le risorse finanziarie ottenute grazie all’aumento dei prezzi dei loro prodotti. Il gruppo dirigente del Banco cercò anche di realizzare un’integrazione fra produzione agricola, commercio e trasformazione industriale dei prodotti agricoli applicando una logica di integrazione verticale largamente adottata già prima della guerra nell’industria perché era considerata particolarmente efficace e redditizia, soprattutto in mercati di dimensioni relativamente modeste. La produzione di zucchero, decisiva per diverse zone della Romagna e del Veneto, costituì forse un modello a cui si ispirarono i dirigenti del Banco e certo, soprattutto dal 1921, assorbì molte energie di Vicentini. La crescita urbana, la forte domanda di alloggi e il rapido aumento dei prezzi delle aree e dificabili e degli immobili che accompagnarono la guerra e il dopoguerra segnalavano la convenienza di impegnarsi anche nel settore immobiliare. Il Banco si interessò profondamente ad alcuni grandi progetti di riorganizzazione urbanistica dei centri storici, appoggiando lo sventramento dei vecchi quartieri, spesso di impianto medioevale e molto degradati, per sostituirle con edifici moderni, inseriti in un contesto urbano completamente rinnovato. Il Banco animò e sostenne la società Rinnovamento edilizio di Bologna, realizzatrice di uno di questi programmi, e fu interessato ai progetti analoghi riguardanti Padova, Roma e Milano, città dove l’istituto partecipò anche alla costruzione di case nei quartieri della perife ria. La gestione delle attività produttive era affidata a imprese controllate, riunite in società finanziarie che ne assicuravano il controllo e l’indirizzo e che fornivano titoli utilizzabili per effettuare operazioni di riporto o per ottenere anticipazioni dagli istituti di emissioni; grazie a queste operazioni il Banco poteva integrare i mezzi propri e le risorse acquisite con la raccolta ed espandere gli impieghi. Le holdings operavano specializzandosi per settori di attività, riunendo quelle complementari: in questo modo riproducevano la struttura gestionale sperimentata in occasione dello smobilizzo avviato nel 1915-1916 con la creazione del Sincolit, della Società imprese e gestioni immobiliari (dedicata agli attivi immobiliari), della Società finanziaria industriale (in linea di principio destinata a riunire le partecipazioni industriali). Il commercio di alimentari, di beni di consumo, di prodotti agricoli, di legname, di combustibili; l’esercizio di trasporti; la produzione di beni di consumo e la trasformazione industriale di alimenti, la produzione di beni intermedi e di investimento utili per l’agricoltura (concimi, macchine, attrezzi: talvolta in collaborazione con altri, specialmente l’Ansaldo) costituirono altri campi di attività del gruppo del Banco di Roma. Si trattava di una strategia ben adatta a cogliere le opportunità del restocking boom del 1919, relativamente redditizia in una fase congiunturale di prezzi in aumento (da aprile 1919) e di un mercato dominato dai venditori. La rapida affermazione e i consistenti guadagni realizzati inducevano a concepire progetti di espansione, anche internazionale, sempre più ambiziosi, anche se difficilmente avrebbero assicurato una adeguata e costante redditività a breve scadenza, dato lo stato di incertezza che crearono le conseguenze della guerra e dei movimenti sociali in Europa e nel Mediterraneo. Infatti sarà necessario attendere fino al 1923-1924 per ottenere un quadro polit ico e diplomatico meno incerto nell’area mediterranea. La strategia di espansione commerciale e finanziaria in quella zona, uno dei capisaldi dell’azione del Banco di Roma per diversi anni nel dopoguerra, pareva un logico e opportuno sviluppo de lla presenza di filiali del Banco in alcuni centri economici affacciati su quel mare o raccordati commercialmente ed economicamente a esso. Lo smembramento dell’Impero Ottomano e i mandati attribuiti in Medio Oriente a Gran Bretagna e Francia avevano consentito l’apertura di filiali nell’attuale Libano, in Siria e in Palestina che si sperava di rendere profittevoli sviluppando le operazioni in cambi, il finanziamento del commercio internazio- 164 Gian Carlo Falco nale e la gestione dei pagamenti che vi erano connessi. L’aspirazione era di inserire il Banco in un’ampia rete di relazioni commerciali costruita sullo scambio di manufatti contro materie prime, capace di abbracciare buona parte dei sistemi economici che nel Mediterraneo trovavano una via di reciproca comunicazione. In questa prospettiva, nel 1919-1920, il Banco cercò di impiantare delle strutture commerciali in Romania, Bulgaria, Turchia e Jugoslavia, accordandosi con i gruppi locali che avevano ereditato iniziative bancarie e commerciali austro-ungariche e poté utilizzare i suoi sportelli nel Medio Oriente per svolgere i servizi di incasso per conto di esportatori tedeschi, quando ripresero a operare nella zona. La maggior parte di queste iniziative, come quelle egualmente tentate con modesta fortuna nel sud dell’Ucraina e della Russia e nel Caucaso, accordandosi con gruppi di ca pitalisti locali, soffrirono però della turbolenza dei rapporti internazionali fra gli stati di quelle regioni, della loro instabilità politica e della incertezza che pesò per diversi anni sul loro assetto, fino alla metà degli anni Venti. Le iniziative assunte nel clima di euforia del primo dopoguerra si trasformarono perciò in immobilizzi e perdite che contribuirono pesantemente alla crisi del Ba nco. I nuovi dirig enti, infine, tentarono di stringere alleanze e accordi con altri gruppi, come era consuetudine nel mondo degli affari e come le altre maggiori banche avevano sistematicamente fatto prima della guerra, per frazionare i rischi. I tentativi permisero di stabilire rapporti particolarmente stretti con il gruppo Ansaldo. Il Banco era entrato in contatto con la grande impresa meccanica nel 1919, per stipulare un accordo relativo alla commercializzazione di trattori, ma la convergenza di interessi fra il Banco di Roma e i fratelli Perrone si era concretizzata in forme più grandiose nella definizione, entro la fine del 1920-inizi del 1921, di un programma congiunto di penetrazione economica in Angola, di gestione di una linea marittima con l’Africa Occidentale ad opera di una società di armamento specifica, e di alleanza in un’altra società di armamento, la Roma, a cui l’Ansaldo sperava di vendere alcune delle sue navi in corso di produzione. In questo modo i dirigenti del Banco avrebbero soddisfatto il loro vivo desiderio di disporre di una flotta per svolgere efficacemente i propri programmi commerciali e i Perrone avrebbero dato respiro ai propri cantieri, privi di acquirenti esterni al gruppo Ansaldo. L’intesa con i Perrone culminò nello scambio di un significativo pacchetto di azioni del Banco di Roma contro un pacchetto di azioni Ansaldo, possibile ragione (benché la compartecipazione non fosse diffusamente nota prima del 1923) dell’effetto di trascinamento che la crisi della Banca italiana di sconto, all’inizio del 1922 esercitò sul Banco di Roma. Essa giustifica, inoltre, il ruolo importante svolto da Vicentini nel negoziare con la Banca d’Italia, la Banca Commerciale e il Credito Italiano l’intervento a sostegno della BIS tentato nel novembre 1921. Un’intesa strategicamente importante fu tentata anche con la società Bombrini-ParodiDelfino. Dopo una brillante esperienza come produttrice di esplosivi che le aveva lasciato molte risorse, la società pensò di riconvertirsi alla produzione di concimi, forse utilizzando anche il giacimento di Kosseir, sulla costa egiziana del Mar Rosso, controllato dal Banco di Roma. Grazie ai rapporti dell’istituto con il mondo agricolo e al radicamento nell’economia egiziana, in particolare nel finanziamento della commercializzazione del cotone, la BPD poteva aver trovato un socio ideale, eventualmente anche per avviare una produzione di concimi in Egitto, dove i produttori di cotone si sforzavano di aumentare le rese per compensare le perdite causate dalla sostituzione delle varietà coltivate con nuove varietà capaci di resistere all’attacco di parassiti. La collaborazione però non riuscì a concretizzarsi: Parodi, entrato nel consiglio di amministrazione del Banco, dopo qualche mese si dimise, rompendo Crisi bancarie 165 con il Banco di Roma e lasciando uno strascico di polemiche che prendevano spunto da difetti di gestione e organizzazione dell’istituto. I dirigenti del Banco di Roma, e Vicentini in particolare, consolidarono invece la collaborazione con uno dei maggiori produttori di zucchero nazionali, l’Eridania e riuscirono ad avviare rapporti con quasi tutti gli altri maggiori zuccherifici e imprese collegate (produzione di birra, di lievito, distillerie). Le relazioni si rafforzarono grazie all’esigenza dell’industria saccarifera di disporre di terreni nelle zone di bonifica della bassa valle del Po per la coltura della barbabietola. Pur considerando poco vantaggiosa la conduzione diretta delle terre mediante salariati per la difficoltà di gestire la manodopera necessaria, impegnata molto saltuariamente nei lavori agricoli e troppo oneroso l’impegno per portare a compimento le bonifiche ancora necessarie, l’Eridania aveva investito capitali nell’acquisto di tenute per garantirsi l’approvvigionamento di barbabietole. Il Banco, attraverso l’acquisto di ampie tenute nelle zone di bonifica, si impegnò a fornirle (appoggiandosi alla rete di organizzazioni agricole cattoliche della Romagna e del Veneto) e avviò un intenso sviluppo della produzione agricola, prevedendo anche l’avvio di nuove bonifiche e il perfezionamento delle vecchie. Gli investimenti fondiari, fino al 1922, rappresentarono uno degli impegni maggiori per l’istituto e per le sue holdings. Le società fondiarie controllate, tuttavia, non furono solo impegnate nella produzione di barbabietola; il Banco ne organizzò diverse riunendo tenute dislocate in diverse zone d’Italia, dal Veneto alla Campania, alla Sicilia. Non si trattava di sole terre di bonifica, anche se esse finirono con il rappresentare il patrimonio pre valente. Tra le società controllate spiccavano la vecchia Società Bonifiche dei terreni ferraresi e la recentissima Società delle Bonifiche Pontine, gestite collaborando rispettiva mente con Gino Lisi, un agrario ferrarese in strette relazioni con Vicentini, e con l’ing. Clerici, un ex banchiere trasformatosi in tecnico idraulico e in capitalista agrario, aderente al PPI. In esse l’istituto immobilizzò decine di milioni e anche queste partecipazioni influirono pesantemente sulla crisi del Banco. L’espansione degli impieghi fu realizzata, soprattutto nel 1919, partecipando alla trasformazione in anonime di aziende già esistenti, suscettibili di espansione, a cui il Banco apportava capitali, riservandosi un diritto di controllo sulla gestione, affidata ai vecchi proprietari o gestori. Queste partecipazioni furono così frequenti che i dirigenti dell’istituto fissarono dei criteri per assumerle in modo da tutelare efficacemente gli interessi del Banco. In particolare, definirono il livello minimo della partecipazione e il ra pporto da stabilire con i vecchi gestori, in modo da assicurarsene le specifiche competenze. In questo modo si accelerava lo sviluppo del Banco e lo si poneva rapidamente in grado di trarre vantaggio dalla congiuntura, utilizzando con una certa la rghezza le disponibilità esistenti. D’altra parte i programmi dell’istituto rivelano una certa propensione al gigantismo: come se la disponibilità di risorse finanziarie consentita da una banca di cospicue dimensioni permettesse di affrontare ogni “affare” conquistando subito il primato in termini di dimensioni dell’iniziativa. Questa sembra la logica con cui operò la “combinazione Lisi”, il complesso di società e holdings fondiarie finanziato dal Banco di Roma e gestito da Gino Lisi, o la S. A. Bonifiche Pontine diretta dal Clerici. Alla stessa logica parvero ispirate le numerose iniziative commerciali internazionali coordinate dal Sincolit, prima guidato da Bussetti, poi da Angelo Belloni, dai primi inte rventi per la commercializzazione di derrate e di manufatti di cotone in Europa centrale, in America Latina, in Egitto e Spagna, fino all’acquisizione di una società commerciale specializzata nell’esportazione di manufatti di cotone per trasformarla nel Consorzio fabbricanti italiani per l’esportazione, nel 192. Anch’esso salì rapidamente ai primissimi posti tra le case specializzate in un genere di 166 Gian Carlo Falco commercio particolarmente importante per l’economia italiana del tempo. Ma anche il sostegno accordato al gruppo degli Oleifici nazionali, un articolato complesso industriale presente in diverse regioni italiane, impegnato nella spremitura di semi e di olive per ricavarne olii e grassi vegetali, panelli per l’alimentazione del bestiame, olio di lino e di cotone, saponi, o quello dato al Sicam, la maggiore impresa nazionale di lavori portuali, fondata con un gruppo olandese nel 1919, per iniziativa di Bussetti, pareva ispirarsi agli stessi criteri di gestione. Un simile orientamento, come ho già detto, poteva essere compatibile solo con una congiuntura espansiva, caratterizzata da prezzi in costante aumento che non richiedeva alcun impegno per contenere i costi e assicurarsi un buon rendimento e che rendeva conveniente il ricorso, ampio e continuativo, al credito. In una congiuntura di prezzi stabili o, peggio, in ribasso, questo tipo di gestione diventava presto insostenibile. La maggior parte delle imprese in cui il Banco aveva assunto partecipazioni e a cui concedeva credito parevano molto esposte ai rischi anche perché non erano gestite in modo oculato e prudente. Molte erano il prodotto delle fortune accumulate in guerra da imprenditori improvvisati, dotati in alcuni casi di buone competenze tecniche nel campo a cui si applicavano, ma poco abili dal punto di vista organizzativo o commerciale. Altri presentavano invece uno spiccato senso degli affari, ma non avevano capacità tecniche. D’altra parte il Banco, ultimo arrivato tra le maggiori banche italiane e teso ad estendere l’ambito geografico delle sue operazioni rispetto a quello coltivato prima del 1914, non riuscì o non volle valutare con molta acribia i soci e i clienti con cui cercò di fare affari. Investimenti eccessivi, accumulo troppo consistente di scorte, speculazioni errate, incisero pesantemente sui risultati di gestione di molte imprese del gruppo del Banco di Roma, una volta scoppiata la crisi nel 1920, inducendo le imprese a indebitarsi ulteriormente nella speranza di rimediare. Si innescò così un processo cumulativo che assorbì le risorse del Banco, immobilizzandolo ed esponendolo ai rischi di insolvenze diffuse e consistenti. Il rischio era tanto più grave perché la crescita molto rapida dell’istituto aveva imposto la dilatazione del numero di impiegati anche a scapito delle loro competenze e qualità. Inoltre il controllo del centro sulla periferia risultava aleatorio, anche per la difficoltà di disporre sollecitamente di scritture contabili uniformi e attendibili che mostrassero un quadro preciso e regolarmente aggiornato dell’evoluzione degli affari. Lo stesso coordinamento tra le maggiori sedi periferiche e le filiali che esse dovevano controllare e indirizzare risultò spesso difettoso. Il nuovo gruppo dirigente era convinto che le filiali dovessero integrarsi efficacemente nell’economia locale esercitando il tradizionale lavoro bancario; dopo il 1919 furono addirittura inclini ad affiancargli operazioni speculative su titoli e soprattutto valute e in alcuni casi merci, per conto della clientela. L’indirizzo contraddiceva però l’esigenza che la direzione centrale aveva di gestire una quota importante delle risorse per realizzare la propria strategia. Esso trovava comunque un limite molto grave nella scarsa disponibilità di personale sufficientemente competente: soprattutto nel 1921-1922 la direzione centrale subì perdite nelle filiali proprio a causa di errori di valutazione sulle tendenze in atto. D’altra parte le valutazioni che gli stessi dirigenti dell’istituto facevano degli affari esaminati erano frequentemente basate su speranze e su informazioni approssimate e di carattere qualitativo che comportavano ampi margini di discrezionalità. Nel pieno della crisi di riconversione, perciò, essi non riuscivano a valutare in modo attendibile i rischi. La nuova politica degli impieghi seguita dal Banco di Roma presupponeva la disponibilità di risorse ottenute attraverso la raccolta di depositi e mediante i conti di corrispondenza, dal momento che il capitale, reintegrato nel 1918 a 100 milioni, fu aumentato a 150 nel sette mbre 1919. A questo livello rimase fino al 1923, quando tornò allo stesso livello del 1912 Crisi bancarie 167 (200 milioni), mentre i prezzi erano nel frattempo aumentati di 4-5 volte rispetto agli anni prebellici. Il capitale del Banco era adesso sensibilmente inferiore a quello delle altre maggiori società ordinarie di credito. Perciò i nuovi dir igenti cercarono di sfruttare il più possibile l’evoluzione della raccolta nelle zone rurali e nei piccoli centri, dilatando la rete degli sportelli e ricorrendo massicciamente all’apertura di semplici recapiti, soprattutto dal 1921, quando il problema della scarsa liquidità divenne particolarmente acuto. Nello stesso periodo si cercò di impostare il riequilibrio della distribuzione territoriale del Banco aumentandone la presenza nel Mezzogiorno, soprattutto Sicilia, Puglia e Campania, dove la densità degli sportelli bancari era ancora modesta, nonostante il reddito fosse aumentato. L’espansione della rete comportava oneri significativi perché imponeva il reclutamento di personale e la disponibilità di immobili per raccogliere cifre talvolta modeste. Ma vi ricorrevano anche le altre grandi banche italiane, così come avevano fatto quelle degli altri pa esi europei fin dagli inizi del Novecento, ricalcando l’esperienza delle Joint stocks banks britanniche. Soprattutto la BIS se ne era valsa, impegnandosi attivamente nell’assorbimento di piccole banche locali per accelerare i tempi di organizzazione della sua rete di sportelli, dal momento che anch’essa aveva un enorme bisogno di disponibilità per sostenere il peso di un attivo immobilizzato. Rispetto alle concorrenti, tuttavia, il Banco di Roma poté trarre vantaggio dai rapporti con le banche cattoliche e le casse rurali, disponendo dei saldi attivi dei loro conti di corrispondenza, oltre che valersene per la sottoscrizione di azioni delle società a cui partecipava. I costi di questo tipo di operazione erano inferiori a quelli di una rete autonoma, perché si limitavano all’interesse pagato sui saldi creditori. Anche quando i rapporti tra il Banco di Roma e il Credito Nazionale furono interrotti, nel 1923, il Banco cercò di mantenere il controllo o la collaborazione di banche locali (come la Banca Regionale del Lazio, il Credito marchigiano), ritenendo che esse consentissero di ottenere fondi a costi più contenuti delle proprie filiali e recapiti. Si giustificano anche in relazione all’opportunità di raccogliere fondi gli sforzi compiuti dai nuovi dirigenti del Banco per attrarre i fondi liquidi degli ordini religiosi, curare l’impiego dei loro patrimoni finanziari e i movimenti di danaro fra le diverse case. Filiali come quella di Gerusalemme e quella di Ma lta, in particolare, dovevano a quel tipo di clientela la loro esistenza. Anche i depositi di titoli in comodato, sviluppata con una certa ampiezza dal Banco, nonostante l’ostilità delle autorità monetarie, pareva riflettere i rapporti con gli ordini religiosi che rite nevano di conciliare, con quell’operazione, una relativa sicurezza di impiego con un rendimento maggiore dei titoli di cui disponevano, dal momento che gli interessi o i dividendi ufficialmente dovuti erano integrati dal Banco con il versamento di una provvigione. I rapporti con la rete di banche cattoliche si rivelarono utili anche per la diffusione degli assegni circolari, rivelatisi un importante strumento per la temporanea raccolta di disponibilità di liquidità. Rispetto alla gestione di Pacelli, il Banco estese notevolmente il ventaglio delle proprie operazioni cercando di integrare i guadagni realizzati con l’ordinaria attività di intermediazione, di rendimento insufficiente, con i proventi di speculazioni su immobili, su titoli e cambi, e quelli del commercio, particolarmente internazionale. Queste operazioni riflettevano le opportunità prodotte dalle fluttuazioni di prezzi e cambi causate dalle condizioni di guerra e soprattutto dal successivo processo di riorganizzazione e riconversione. Esse consentivano rapidi e consistenti guadagni, pur presentando un carattere aleatorio molto accentuato che accresceva i rischi e l’instabilità. Non erano in realtà operazioni anomale per degli istituti di credito: esse rappresentavano un campo di attività tradizionale delle merchant banks, e l’espansione coloniale di fine Ottocento aveva contribuito a consolidarne l’esercizio, anche 168 Gian Carlo Falco se il rischio e l’aleatorietà che vi era connesso avevano indotto a considerarle operazioni poco ra ccomandabili ed estranee alla vera attività bancaria. Ma le condizioni del dopoguerra, in particolare, diedero nuovo spazio a quelle pratiche e anche istituti caratterizzati da una gestione oculata e abile vi si impegnarono, curando soprattutto alcuni prodotti (caffè e tabacco, in particolare). Rispetto a questi, probabilmente, il Banco si affidò di più a quel genere di operazioni, senza riuscire a specializzarsi, con il risultato di trovarsi esposto a perdite rilevanti quando non riuscì a prevedere l’evoluzione dei mercati. Ma il Banco diede maggiore spazio, sotto la nuova gestione, anche a operazioni che rientravano nel lavoro bancario ordinario, prima trascurate, come accettazioni, avalli e fidejussioni, in rapido aumento grazie all’impulso ricevuto dal commercio internazionale. La rapida “resurrezione” del Banco dopo la crisi del 1915-1916, quindi, fu consentita dal fortunato sovrapporsi di soluzioni diverse, risultate efficaci nella specifica situazione congiunturale. Alcune riflettevano caratteri particolari dell’istituto (i rapporti con le banche locali cattoliche e il movimento cattolico, per esempio, con quanto essi rappresentavano per la politica della raccolta e degli impieghi e la disponibilità di una rete mediterranea di filiali), ma altre riproducevano innovazioni ed esperienze che tutte le grandi banche stavano compiendo, anche se con intensità e fortune diverse. Rispetto alle banche maggiori e più consolidate, inoltre, il Banco soffri per rilevanti difetti di organizzazione e per una minore competenza del personale qualificato. L’abbassamento delle barriere di ingresso sul mercato di nuove banche nell’immediato dopoguerra, tuttavia, aiutò la temporanea affermazione dell’istituto, nonostante gli errori e i limiti della sua gestione. Ma l’inversione di congiuntura lo trovò particolarmente esposto al rischio di crisi. Il 1920, in seguito alla caduta de prezzi internazionali, rappresentò un punto di svolta. Le imprese esportatrici subirono perdite vistose o immobilizzi sui propri stocks (aggravati, nel caso del Banco, dal fa tto che si era affidato a partners che lo truffarono, come avvenne in America Latina). I finanziamenti internazionali che avevano aiutato la ripresa dopo la guerra si contrassero colpendo tutti i comparti collegati al mercato internazionale, ostacolando il commercio. Le posizioni difficili che il Banco non era riuscito a correggere, come quella in Egitto, appesantivano la sua situazione e la riorganizzazione radicale che vi fu tentata, rinnovando persone e metodi di gestione, non poteva ottenere risultati a breve termine. Gli investimenti immobiliari non erano ancora completati e non rendevano; nella stessa condizione si trovavano molte altre iniziative a cui partecipava il Banco, a cominciare dal Sicam. Inoltre emerse, dopo un anno di frenetica espansione, che i rapporti con grandi gruppi industriali erano pochi: perciò le opportunità di lavoro bancario erano scarse, e questo aveva riflessi negativi sul conto economico dell’istituto, proprio mentre gli venivano a mancare i proventi delle operazioni speculative e le alleanze concluse e le partecipazioni assunte si trasformavano in fonte di immobilizzi. Dai primi mesi del 1921 Vicentini, rimasto solo alla guida dell’istituto, moltiplicò gli sforzi per rimediare. La crisi dell’Ilva lo indusse a tentare di acquistare il Lloyd Mediterraneo, una società di armamento controllata dalla grande impresa siderurgica. Le gravissime difficoltà dell’Ansaldo e della BIS gli offrirono l’opportunità di porsi nella posizione di mediatore fra gli istituti di emissione, la Banca commerciale e il Credito Italiano, patrocinando la costituzione del consorzio interbancario che era convinto bastasse per fronteggiare le difficoltà della BIS, una volta liberata dell’Ansaldo, e di contribuire alla formazione del Consorzio Ligure Ansaldo pe r controllare il grande gruppo industriale, all’inizio del 1922. L’operazione consentiva al Banco, secondo Vicentini, di passare al livello più alto del sistema finanziario italiano, pagando una somma relativamente modesta perché l’operazione avveniva in sociale e sotto l’egida della Banca Crisi bancarie 169 d’Italia che avrebbe garantito le aperture di credito concesse per salvare la BIS. La caduta di Ilva e Ansaldo, la crisi e la moratoria della Bis erano percepite, dai dirigenti del Banco, anche come un’opportunità di crescita per il loro istituto. Come emerge da uno scambio epistolare tra Vicentini e Belloni, il loro atteggiamento nei confronti della BIS presentava aspetti diversi. Per combattere contro la posizione di maggior forza della Banca Commerciale Italiana e impedire che esercitasse una posizione monopolistica nel suo segmento di mercato, occorreva mantenere buoni rapporti di collaborazione con la sua rivale più ac canita. Ma quando essa cominciò a perdere i suoi depositi, alla vigilia della crisi che la travolse, i dirigenti del Banco tentarono sistematicamente di recuperarli, senza curarsi di peggiorarne il dissesto, per aumentare la propria raccolta, tentare di salire ad un livello superiore per quanto riguardava le dimensioni e affrontare in condizioni migliori i molti problemi che già a fine 1921 il Banco aveva. Quasi contemporaneamente Vicentini decise e perfezionò l’oneroso e impegnativo acquisto della Società Bonifiche Terreni Ferraresi senza curarsi troppo del peggioramento che l’operazione comportava per la liquidità dell’istituto. Secondo ogni apparenza, la considerava il coronamento di un disegno strategico di ampia portata, destinato a rafforzare in misura decisiva la posizione del Banco nel settore saccarifero e a costituire una delle basi del suo futuro sviluppo. Nei primi mesi del 1922, infine, ormai posta in moratoria la BIS, il Banco ottenne, di stringere rapporti con Senatore Borletti, fino ad allora in relazioni d’affari con la BIS, rilevando la metà delle azioni della Società Cascami Seta, una delle sue partecipazioni, e una quota del capitale del Canapificio e Linificio Nazionale, operazioni considerate tanto importanti da meritare una specifica segnalazione anche nella stringata relazione all’assemblea annuale degli azionisti. Lo stesso onore toccò all’acquisto della Società Bonifiche Terreni Ferraresi. Queste iniziative si sovrapposero all’emergere di un rapporto più diretto tra Vicentini e la direzione del PPI, come se l’amministratore delegato del Banco intendesse sfruttare le potenzialità presenti nell’accresciuto peso politico del partito durante l’esperienza del governo Bonomi, quando esso divenne un fattore decisivo di governabilità. D’altra parte alcune decisioni di quel governo sulla gestione della spesa statale, per contribuire allo sviluppo delle infrastrutture, e sul finanziamento di lavori pubblici come strumento per combattere la disoccupazione, fornirono ad alcune delle società controllate dal Banco dei fondi indispensabili per proseguire i loro programmi di investimento (in alcuni casi concludendoli). Indirettamente essi alleviarono anche le difficoltà di cassa del Banco di Roma e alimentarono le speranze di un possibile, imminente superamento delle difficoltà. 4. LA CRISI DEL BANCO E LA LUNGA AGONIA : 1922-1923 L’intreccio che si venne a creare tra il Banco e la BIS in crisi, insieme con la percezione della fragilità strutturale del Banco stesso, però, ridussero l’istituto in una posizione estremamente difficile già dai primi giorni del 1922, appena dichiarata la moratoria della BIS. Essa scatenò una prima ondata di ritiri di depositi che colpì diverse sedi e soprattutto le filiali estere. L’istituto, con un attivo ormai immobilizzato, costretto a cospicui esborsi per fronteggiare i molti impegni, di cui alcuni erano recentissimi, riuscì a fronteggiare le richieste solo ricorrendo alla Banca d’Italia per importi cospicui, data l’ormai cronica mancanza di liquidità. La convinzione di dover compiere ogni sforzo per evitare una seconda, clamorosa crisi bancaria a breve distanza da quella della BIS persuase Stringher, direttore generale della Banca d’Italia, a concedere con larghezza il sostegno che gli era richiesto, nonostante diffidasse della qualità delle garanzie offerte in contropartita e non vedesse una via 170 Gian Carlo Falco d’uscita dalla situazione che si stava creando. Superata la prima ondata di ritiri, che interessavano anche i depositi vincolati e i depositi in titoli, entrambi appannaggio di clienti di un certo rango, nuove ondate si succedettero, per ragioni che apparivano difficili da identificare. Il gruppo dirigente e Vicentini in particolare spiegarono sistematicamente, nel 1922, l’origine dei ritiri richiamandosi al panico sollevato dalla crisi della BIS e attribuirono la loro continuazione al deliberato proposito di mettere in difficoltà l’istituto, accennando all’ostilità dei maggiori concorrenti, al desidero di rivalsa delle banche locali, urtate dall’arrivo sul loro territorio del Banco, che copriva un numero di piazze ma ggiore di qualsiasi altra banca di credito ordinario, raggiungendo anche piccoli e piccolissimi centri. I dirigenti di filiale confermavano alcune di queste indicazioni, ma ne fornivano anche altre. Su alcune piazze toscane, per esempio, importanti banche regionali (il Monte dei Paschi di Siena, si precisava) suggestionavano i clienti del Banco per sottrarli al rivale; altrove erano le banche locali concorrenti a creare difficoltà. In certi casi la clientela commerciale era messa in allarme sospendendo il pagamento degli assegni di conto corrente e circolari del Banco o opponendo ostacoli ed eccezioni ai clienti che li presentavano. Nelle zone agricole, soprattutto toscane, interessate dal conflitto sui patti colonici che accompagnò la crisi del primo governo Facta, i dirigenti di filiale riferirono di assemblee di agrari che invitavano a boicottare il Banco di Roma identificandolo con il PPI, favorevole ai coloni. È evidente che la tesa situazione sociale e politica dell’estate 1922 era particolarmente adatta ad alimentare incertezze e allarmi, peggiorando la situazione del Banco. Nel marzo-aprile 1922, alla vigilia e durante la Conferenza internazionale di Genova, dopo il tormentato varo della liquidazione della BIS e la costituzione della Banca Nazionale di Credito, il Banco dovette nuovamente affrontare un’ondata di ritiri, partic olarmente intensa e minacciosa. Vicentini si impegnò con particolare energia nel convincere Sturzo e il ministro popolare del Tesoro Bertone ad appoggiarlo presso Stringher e la Banca d’Italia per ottenere nuove anticipazioni e sconti su titoli e effetti delle imprese che il Banco controllava o in cui aveva rilevanti partecipazioni. L’esposizione della Banca d’Italia verso il Banco era all’incirca triplicata in pochi mesi, rispetto ai 280 milioni circa a cui era arrivata all’inizio dell’inverno 1921-1922. Nonostante le sue forti perplessità e i fondati timori di mettere in pericolo, con la solidità della Banca d’Italia, la situazione monetaria e finanziaria dell’intero sistema economico nazionale, Stringher si piegò alle sollecitazioni, non vedendo alternative per scongiurare il peggio. L’esperienza compiuta alla fine di aprile 1922 faceva intuire che il Banco riusciva a sopravvivere quasi solo grazie alle periodiche erogazioni di liquidità concesse dagli istituti di emissione e in particolare dalla Banca d’Italia. Ma le resistenze di Stringher crescevano. La decisione stessa di indicare un tetto massimo di operazioni previste per la Sezione Speciale Autonoma del Consorzio per Sovve nzioni su Valori Industriali, l’organo creato nel marzo 1922 per gestire lo smobilizzo di Ansaldo e BIS, a un livello molto elevato (1 miliardo) ma tale da essere completamente assorbito da quelle operazioni senza lasciare margini per l’intervento a favore del Banco di Roma, rivelava più che la difficoltà di percepire interamente la gravità della situazione, le resistenze delle autorità monetarie a proseguire gli interventi a favore del Banco. La corrispondenza tra Stringher e Miraglia (il direttore generale del Banco di Napoli, la seconda banca di emissione italiana) mostra in modo esplicito la portata delle riserve dei due personaggi verso la situazione che si era determinata e le resistenze che esercitavano. Era evidente che solo una soluzione che coinvolgesse apertamente l’esecutivo, e da raggiungere tramite una tra ttativa e una decisione a livello politico, sarebbe riuscita a mobilitare le risorse occorrenti al Banco per sopravvivere. Nell’estate, apparentemente, i ritiri di depositi rallentarono. A Crisi bancarie 171 mesi di distanza dall’inizio del fenomeno risultavano particolarmente diminuiti i depositi in titoli che il Banco, come la BIS e vari istituti minori, aveva cominciato a raccogliere dopo che le forti emissioni di titoli pubblici degli anni di guerra e del primo dopoguerra avevano accresciuto la loro consistenza nei patrimoni privati. Il loro ritiro suggerisce che si era verificata una forte crisi di fiducia nella clientela del Banco, anche quella tradizionalmente più fedele come gli ordini religiosi o membri del clero che disponevano di fondi patrimoniali. Vicentini intervenne almeno due volte, manifestando preoccupazione, perché la Segreteria di Stato vaticana smentisse degli appelli alla prudenza rivolti ai membri del clero che li invitavano a ridurre i depositi in titoli presso il Banco di Roma. Ma nonostante la relativa tregua estiva in cui, però, il Banco diede quasi fondo alle ultime disponibilità di credito della Banca d’Italia, la situazione diventava sempre più allarmante e complessa. La crisi di governo del luglio 1922 non permise più di esercitare pressioni sull’esecutivo per ottenere nuovi aiuti, e anche dopo la formazione del secondo governo Facta, la crescente riluttanza di Banca d’Italia e Banco di Napoli ad aumentare ulteriormente la loro esposizione non consentì al ministro Peano di tradurre in atti concreti la simpatia che pure dimostrava nei confronti del Banco. Quel governo, in campo finanziario come in altri campi, non aveva l’autorità necessaria per decisioni di grande importanza, per cui la soluzione della crisi del Banco di Roma e del pericoloso coinvolgimento in essa degli istituti di emissione pareva presupporre una svolta politica, verso un governo capace di maggiori e più autorevoli iniziative sul piano politico. Entro il PPI si manifestavano con crescente evidenza segnali de llo spostamento a destra di una parte del partito e della convinzione che la soluzione dipendesse dall’estensione a destra della maggioranza. Le defezioni dal PPI, nell’estate 1922, di Cornaggia Medici (ex membro del consiglio di amministrazione del Banco), a Milano, e di Boncompagni Ludosiv isi a Roma, potevano rafforzare una simile evoluzione. Ma il movimento più significativo ed efficace in questa direzione fu la lettera dei senatori del PPI al segretario del partito, Sturzo, del settembre 1922, che lo invitava ad accettare l’evoluzione a destra e a rifiutare ogni possibilità di collaborazione con i socialisti riformisti, un pericolo che si era profilato nel luglio 1922 durante la crisi del primo ministero Facta. La lettera fu promossa da Grosoli Pironi e Santucci, legati entrambi, personalmente, al Banco di Roma, e certamente avvertiti della gravità dei rischi che l’istituto correva; essi erano anche in relazione con la Segreteria di Stato vaticana, un elemento importante per valutare gli sviluppi successivi dell’iniziativa ebbe. Il testo, elaborato e diffuso con il sostegno e la partecipazione dei vertici dell’istituto, aprì la via alla partecipazione di esponenti del PPI al governo Mussolini dopo la marcia su Roma. Uno dei rappresentanti popolari nel nuovo governo, Tangorra, ottenne il Ministero del tesoro, quello responsabile della politica monetaria e delle decisioni per affrontare la crisi del Banco. Nel novembre 1922 Mussolini stesso avallò l’ulteriore concessione di crediti al Banco da parte degli istituti di emissione, ponendo alcune condizioni e limitando in parte l’autonomia di decisione dei vertici dell’istituto, ma la sciandoli immutati. Sarebbe però stata sviluppata la concentrazione delle partecipazioni in holdings per liberare il Banco dagli immobilizzi versandogli un corrispettiv o fornito dagli istituti di emissione nel quadro delle operazioni della Sezione speciale autonoma del CSVI. La morte di Tangorra dopo poche settimane e l’impressione, fondata, che la soluzione raggiunta non fosse in grado di risanare la situazione, ma permettesse semplicemente di prolungare la lunga agonia del Banco a spese del Tesoro e dell’aumento della circolazione monetaria, rafforzarono però le richieste del Ministro delle finanze De’ Stefani di provvedimenti più severi nei confronti del Banco. Le decisioni che riguardavano il Banco si intrecciavano strettamente con le richieste di riduzione del prelievo fiscale diretto, contrazio- 172 Gian Carlo Falco ne della spesa pubblica, riduzione dell’intervento statale in economia, controllo della circolazione monetaria, che il governo fascista aveva posto al centro delle proprie dichiarazioni programmatiche nella certezza di riuscire a consolidare, su quella base, i consensi degli ambienti d’affari e dei gruppi di interesse economici. Maturò così la decisione di subordinare gli aiuti al Banco al mutamento del suo gruppo dirigente, una scelta che De’ Stefani sostenne con particolare determinazione, confortato dalle argomentazioni del suo prestigioso consulente economico-finanziario Maffeo Pantaleoni. Era facile percepire i pericoli insiti nella conferma del vecchio gruppo dirigente, poco incline a rinunciare alle proprie scelte strategiche, tanto onerose. La modifica degli equilibri contrattati nell’autunno 1922, prevalentemente con il PPI, imponeva però di affrontare una trattativa su un piano ancor più e levato, valutando insieme con la Segreteria di Stato vaticana le implicazioni della scelta. Solo così si sarebbe potuto scongiurare il rischio di trasformare la rimozione dei vecchi dirigenti (e l’implicito ridimensionamento del PPI, privato dell’appoggio finanziario diretto che gli veniva dal Banco e indebolito sul piano dell’organizzazione economica dei cattolici italiani) in un motivo di mobilitazione del Vaticano e delle strutture ecclesiastiche contro il governo, in difesa del carattere cattolico dell’istituto. La trattativa, condotta direttamente da Mussolini e dal cardinale Gasparri, nel gennaio 1923, in un incontro particolarmente riservato nella casa di Santucci, il presidente del Banco, permise al governo fascista di raggiungere i suoi obiettivi. In cambio dell’impegno a salvaguardare il carattere cattolico della banca, cioè la sua disponibilità e devozione nei confronti del Vaticano e dell’organizzazione ecclesiastica, il governo ottenne l’assenso a rinnovare i dirigenti e a troncare, di fatto, i molti legami del Banco con il PPI e l’organizzazione economica cattolica. Mussolini considerò quella trattativa un atto di fondamentale importanza perché legittimava il suo governo, rendeva evidente il distacco del Vaticano dal PPI, profilatosi con la nomina di Pio X al pontificato all’inizio del 1922, ed eliminava ogni pericolo di condizionamento del governo da parte del PPI. Le critiche questo partito rivolse al governo e ai fascisti nel congresso di Torino, nell’aprile 1923, quando il suo gruppo dirigente reagì alla riduzione dei margini di manovra del partito, furono quindi affrontate senza conseguenze negative da Mussolini con la facile rinunzia ai membri popolari del governo e con una secessione a destra dei popolari, il cui potere appariva ormai drasticamente e definitivamente ridimensionato. A quel punto, però, Mussolini non aveva più bisogno di una copertura cattolica-popolare per mantenersi al governo. L’accordo con il Vaticano, infine, adombrava possibilità di intese più ampie che maturarono solo diversi anni più tardi, sfociando nella firma dei patti del Laterano, nel 1929, un risultato di grande rilievo politico per il governo fascista. L’intesa raggiunta nel 1923 sul Banco di Roma ne costituisce una premessa significativa. Questo aiuta a comprendere perché alla direzione dell’istituto fossero chiamati, con un attento dosaggio, personaggi in rotta con il PPI, eventualmente aderenti al PNF, ma cattolici dichiarati, o personaggi che avevano rapporti con il mondo cattolico. Francesco Boncompagni Ludovisi, nuovo presidente dal febbraio 1923, garantì la continuità dei rapporti con il Vaticano spostando l’asse politico del Banco, nettamente, verso il fascismo. Contemporaneamente fu designato un nuovo amministratore delegato, Carlo Vitali, un avvocato bergamasco, amministratore di una banca provinciale di matrice cattolica, il Credito Commerciale di Cremona, un istituto apparso molto dinamico nel dopoguerra, e vice presidente dell’Associazione bancaria italiana. Si trattava di un personaggio rigido e di polso che poteva applicarsi con efficacia a riplasmare l’organizzazione del Banco secondo le attese del governo, anche se non disponeva né delle relazioni, né della visione strategica necessarie per tentare un serio rilancio del Banco. A lui tuttavia si era rivolto De’ Stefani per disporre Crisi bancarie 173 di un piano di salvataggio alternativo a quello elaborato da Vicentini prima delle trattative del novembre 1922. Diversamente da quanto accadde per la Banca Nazionale di Credito, subentrata alla BIS, la Banca d’Italia non riuscì a influire sulla scelta dei nuovi amministratori, scelti interamente dal potere politico. Vicentini restò, per il momento, ai vertici dell’istituto, come vicepresidente, pur vedendo il suo ruolo ridotto a una semplice parvenza, grazie sostanzialmente al fatto che il Credito Nazionale continuava ad avere la maggioranza delle azioni del Banco, mentre una consistente quota di minoranza era ancora nelle mani dei Perrone. In queste condizioni né Mussolini, né le autorità monetarie potevano affrontare una contrapposizione frontale con i possessori delle azioni con la certezza di riportare un successo. D’altra parte non esisteva ancora un vero programma per realizzare il salvataggio dell’istituto e il suo smobilizzo. Tanto l’intesa del novembre 1922, quanto le nuove decisioni del febbraio 1923 avevano avuto, in definitiva, un valore prevalentemente politico, agli occhi di Mussolini, per cui gli aspetti finanziari dell’intervento delle autorità monetarie e le soluzioni operative concrete avevano ricevuto solo una limitata attenzione in rapporto agli sgravi fiscali e alle riduzioni di oneri che il salv ataggio avrebbe comportato, l’indicazione di massima dell’importo previsto e la rateizzazione dei rimborsi. Una volta stabilito che l’onere del salvataggio e dello smobilizzo sarebbe stato addossato alla Sezione Speciale Autonoma e, per questa via, ripartito tra Tesoro e istituti di emissione, e tolto ogni limite massimo alle operazioni della stessa Sezione Speciale, l’individuazione dei passi concreti poteva essere rimandata a un secondo momento, benché questa soluzione si risolvesse necessariamente in un aggravio delle condizioni del Banco e quindi, in ultima istanza, in un maggior onere per Tesoro e istituti di emissione. D’altra parte la stessa situazione del Banco era nota solo in modo approssimativo per i difetti di organizzazione e gestione che ho ricordato più sopra e il piano di risanamento prodotto da Vicentini per la trattativa del novembre 1922 era relativamente indeterminato per quanto non si riferiva all’entità degli aiuti e al loro costo, poiché si basava sull’ipotesi di un lento smobilizzo operato dallo stesso istituto. L’unica misura concreta di riorganizzazione decisa dall’accordo del novembre 1922 era stata la concentrazione delle diverse partecipazioni del Banco in due finanziarie, la vecchia Società finanziaria industriale e la Società finanziaria commerciale, appositamente costituita. Alle due finanziarie erano anche trasferiti tutti i crediti verso le aziende partecipate del Banco. Nel frattempo procedeva lo riorganizzazione e il rinnovo dei funzionari: alcuni furono licenziati, nuovi elementi, talvolta di simpatie fasciste, furono reclutati. Furono poste le basi della riorganizzazione gestionale del Banco, accentuando l’accentramento delle decisioni, aumentando i controlli interni, riducendo i fidi, liquidando alcuni immobilizzi. Solo nell’estate 1923, tuttavia, si profilò un progetto organico di sistemazione del Banco che prevedeva la ridefinizione dei suoi rapporti con gli istituti di emissione e delineava un’articolata e completa strategia di smobilizzo. Essa si imperniava sul ricorso a una sola società finanziaria per gestire immobilizzi e perdite, la Società Finanziaria per l’Industria e il Commercio, posta sotto la presidenza di Oscar Sinigaglia, affiancato dal direttore generale Pietro Veroi. Al Banco sarebbero state lasciate risorse e attivi sufficienti per ripartire, benché su una scala seriamente ridimensionata rispetto al passato. Contemporaneamente furono esautorati gli esponenti rimasti del vecchio gruppo dirigente, dopo aver ottenuto il controllo del capitale, nell’agosto 1923, mediante un intervento intimidatorio di Mussolini, sollecitato da De’ Stefani. Il capo del governo pretese la consegna delle 900.000 azioni del Banco di Roma di cui disponeva il Credito Nazionale, valutate complessivamente una lira, pretendendo che il capitale del Banco sarebbe stato ormai completamente perduto. In cambio 174 Gian Carlo Falco delle azioni, il Banco di Roma avrebbe bonificato al Credito nazionale 49 milioni di sue esposizioni, mentre eventuali altre esposizioni definite successivamente sarebbero state esaminate benevolmente, dopo una verifica dei conti del Credito nazionale da parte della Banca d’Italia. Il completo rinnovo del gruppo dirigente del Banco fu realizzato nel settembre 1923, dopo le dimissioni di Vicentini e dei suoi vecchi colleghi. Il blocco di azioni provenienti dal Credito Nazionale fu poi integrato con le 200.000 azioni del Banco controllate dai fratelli Perrone. I titoli così riuniti furono conferiti alla Società Finanziaria per l’Industria e il Commercio. 5. GLI OSTACOLI ALLA RIPRESA . A partire da quel momento iniziò il faticoso accertamento della reale posizione del Banco, il trasferimento delle partite immobilizzate alla finanziaria organizzata per la liquidazione e un’articolata serie di provvedimenti che miravano a riorganizzare il Banco, ormai ridimensionato, trovando soluzioni efficaci per sostituire quanto era stato cancellato dalla crisi e dall’interruzione dei legami fra l’istituto e il Credito Nazionale. Per ridurre le spese di gestione il Banco realizzò tra la seconda metà del 1923 e il settembre 1924 la riorganizzazione della rete di sportelli, riducendola drasticamente, nonostante questo comportasse la riduzione della raccolta e quindi la decurtazione delle risorse che l’istituto poteva destinare agli impieghi. Il capitale del Banco era prevalentemente concentrato nelle mani della SSA come contropartita degli impegni presi per lo smobilizzo del Banco di Roma. In queste condizioni non era possibile disporre aumenti che aumentassero le risorse da destinare agli impieghi per cercare di aumentare i ricavi dell’istituto. In queste condizioni l’equilibrio dei conti economici del Banco poteva essere raggiunto solo impegnandosi in operazioni speculative, ripetendo l’esperienza compiuta nel periodo di rapida ripresa tra la fine della guerra e il dopoguerra. Allo stesso espediente aveva fatto ricorso Vicentini, per quanto la situazione congiunturale lo consentiva, nel 1922, per rimediare al ritiro dei depositi e alle conseguenze negative degli immobilizzi. La congiuntura del 1923 e del 1924, grazie alle opportunità offerte dai mercati valutari e dalla ripresa della Borsa, permise di riprodurre la stessa soluzione. Per garantire maggiore ris ervatezza alle operazioni e consentire una maggiore disinvoltura e flessibilità, fu costituita una apposita società anonima, la Banca Commissionaria Italiana, per svolgere le operazioni di tipo speculativo. La riproduzione delle vecchie soluzioni della gestione Vicentini emerge anche nel tentativo fatto di migliorare la raccolta di depositi evitando gli oneri di una rete troppo vasta di sportelli. In questo caso si fece ricorso alla Banca Regionale, un istituto di ispirazione cattolica diffuso nelle campagne laziali, che rilevò alcuni sportelli del Banco e stipulò accordi sull’uso dei suoi assegni circolari e altre forme di collaborazione. In termini sostanzialmente non molto diversi Vitali strinse accordi con una seconda banca regionale, il Credito Adriatico, anch’essa di matrice cattolica. Finalmente il Banco acquisì una partecipazione nel Credito Fondiario Sardo. Le tre banche, tuttavia, non riuscivano a garantire il volume di raccolta delle banche federate nel Credito Nazionale e non permisero la soluzione efficace dei problemi di raccolta del Banco. Dal 1926 in avanti, perciò, parve nuovamente opportuno prendere in considerazione l’apertura di propri sportelli, nella speranza di migliorare anche le operazioni attive dell’istituto. Queste rappresentavano il punto più delicato e insoddisfacente della nuova posizione del Banco. La maggior parte delle partecipazioni erano state trasferite alla SFIC insieme con i crediti immobilizzati, mentre l’esigenza di aumentare la liquidità del Ba nco indusse Vitali, in un primo tempo, a guardare con diffidenza anche l’esposizione verso imprese solide. Lo Crisi bancarie 175 smantellamento del sistema di partecipazioni reciprocamente integrate, d’altra parte, ridusse l’attrattiva che i rapporti con il Banco poteva avere per alcuni clienti assoc iati in affari specifici, come l’Eridania. Molto presto apparve estremamente difficile stabilire rapporti con imprese industriali di buon livello, capaci di fornire una consistente quantità di lavoro bancario, disposti a pagare le commissioni e gli interessi, ordinariamente elevati, che il Banco praticava e capaci o desiderosi di mantenere la propria esposizione nei limiti delle più rigorose pratiche bancarie. Nei primi anni Venti era facile trovare condizioni più favorevoli. I rapporti con gli zuccherifici, per esempio, passarono quasi completamente al Credito Italiano, eccetto quelli con la Società Romana Zuccheri. Si consolidarono invece i rapporti con le grandi aziende fornitrici di energia e acqua a Roma, con la Selt -Valdarno, con la società finanziaria La Centrale e con l’azienda telefonica che questa controllava. Il rapporto forse più intenso stabilito da Vitali con il mondo industriale italiano fu quello con il gruppo Pesenti, cementieri bergamaschi che iniziarono allora una relazione con il Banco prolungatasi per decenni. Attraverso una serie complessa di vicende vennero abbandonati gli impegni nel campo delle bonifiche e delle gestioni fondiarie perché considerati troppo onerosi e impegnativi. Il controllo della Società Bonifiche Pontine fu ceduto a uno dei maggiori capitalisti fondiari italiani, Mazzotti Biancinelli, che rilevò anche alcune attività immobiliari, come il Rinnovamento edilizio di Bologna. Una profonda riorganizzazione interessò le filiali estere. Per sfuggire alla doppia ta ssazione che poteva colpire attività esercitate all’estero (quella imposta dal paese dove l’istituto operava e quella italiana) e per cercare di collegarsi meglio all’ambiente locale, il Banco trasformò le filiali di Francia e Spagna in istituti autonomi per quanto strettamente controllati. Ridimensionò nettamente la struttura attiva in Egitto, pur senza modificarne i caratteri fondamentali e l’importanza attribuita alle operazioni di finanziamento della campagna cotoniera, sviluppando una collaborazione con il Credito Italiano nella gestione del nuovo Banco italo-egiziano. La posizione del Banco nella società era subordinata, sostanzialmente, a quella del Credito Italiano. Restarono invece come filiali del Banco quelle di Palestina, Siria e Libano, Turchia, nonostante si valutasse la possibilità di conferirle a una o più banche autonome controllate. Prevalse la scelta di tenerle come filiali del Banco perché si ritenne che la nazionalità italiana costituisse una garanzia di sicurezza e un vantaggio. Complessivamente, però, i risultati ottenuti dagli impieghi erano modesti. Nei primi anni della gestione Vitali solo le operazioni in titoli e valute risultarono molto profittevoli e pe rmisero di migliorare nettamente i risultati economici del Banco. Queste operazioni furono curate con impegno e un buon successo, ma erano destinate a contrarsi dopo i provvedimenti sulle borse del 1925 e dopo le due crisi valutarie del 1925 e del 1926 che aprirono la via alla stabilizzazione e parziale rivalutazione della lira. La contrazione di un cespite importante di guadagni ripropose, dal 1926, la questione dell’incremento del giro di affari del Banco e delle difficoltà che si incontravano per realizzare un buon rendimento degli impieghi. La modesta consistenza dei rapporti con le grandi imprese industriali era normalmente ricordata come causa fondamentale degli scarsi guadagni. Nemmeno la politica di contenimento delle spese, per altro, ottenne risultati positivi, eccetto che per la contrazione degli sportelli. Fra 1923 e 1924 fu esaminata accuratamente la possibilità di unire Banca Nazionale di Credito e Ba nco di Roma, razionalizzando le loro reti di sportelli, che presentavano un certo numero di duplicazioni. Nel 1924 si valutò la possibilità di fondere le filiali francesi dei due istituti, questa volta per sfruttarne la complementarità. Ma i progetti non furono realizzati. Di nuovo nel 1928-1929 fu discussa la possibilità di una fusione tra il Banco di Roma e la BNC, ormai controllata dal Credito Italiano, ma emerse anche la possibilità che 176 Gian Carlo Falco venissero riuniti Banco e Credito, cercando di aggregare anche una parte delle società di armamento. Neppure questa volta i progetti si concretizzarono e le maggiori società ordinarie di credito italiane affrontarono separate il comune assorbimento nell’Iri. Quei progetti fanno percepire, tuttavia, l’importanza che la dimensione delle banche rispetto al mercato italiano aveva assunto già negli anni Venti. Eliminato all’inizio del 1922 il concorrente più aggressivo, la BIS, le tre grandi banche rimaste stentavano a trovare adeguate opportunità di lavoro, soprattutto se si riducevano le occasioni offerte dalla speculazione, che presentavano l’inconveniente, però, di accentuare l’instabilità di un sistema finanziario non particolarmente robusto. Le grandi banche riuscivano a sopravvivere solo trattando ogni tipo di operazione e comportandosi come banche generaliste. Inoltre dovevano costantemente preoccuparsi della fedeltà dei clienti industriali, ritenuti gli unici davvero remunerativi. La partecipazione risultava perciò uno strumento dai molti usi: garantiva contro il pericolo di insolvenze, almeno entro certi limiti, consolidava i rapporti tra banchiere e cliente, forniva opportunità di guadagno nei brevi periodi di euforia borsistica e finalmente assic urava, con i riporti, uno strumento per accrescere le disponibilità nei periodi di scarsa liquid ità o comunque difficili. Purtroppo agevolava gli immobilizzi, come emerse drammatic a mente fra 1931 e 1933. Il Banco di Roma, sopravvissuto a due crisi di grandi proporzioni in 10 anni grazie a circostanze eccezionali (la guerra e un salvataggio di ampia portata), non riuscì a ripetere, alla metà degli anni Venti, quello che solo le condizioni della guerra gli avevano permesso ai tempi della gestione Vicentini. Non stupisce quindi che le autorità monetarie dovessero ripetutamente correggere e aumentare l’importo destinato al salvataggio e smobilizzo dell’istituto, fra 1923 e 1926, contribuendo anche in questo modo a irrigidire su alti livelli l’offerta di moneta nel sistema economico italiano che caratterizza quel periodo, rendendo impossibile una politica deflazionistica che non fosse particolarmente severa, come quella che preparò “quota 90”. Non sorprende neppure che le stessa autorità monetarie incontrassero difficoltà gravissime per cedere il pacchetto azionario del Banco che era rimasto in loro possesso e dovessero concedere particolari agevolazioni per ottenere che un gruppo eterogeneo e poco stabile accettasse di acquistarlo. Il rapporto con il governo fascista, in queste condizioni, rappresentò il mezzo con cui i nuovi dirigenti dell’istituto cercarono di assicurare le fortune del loro istituto. Di nuovo la relazione con il potere politico giocava un ruolo nella gestione del Banco di Roma. Fabrizio Bientinesi Ricerca del consenso e gruppi di pressione: la riforma tariffaria e la politica commerciale dell’italia, 1903-1930* 1. LE PREMESSE Nel 1878 l’Italia introduceva una tariffa che rompeva per la prima volta l’indirizzo liberistico seguito dopo l’unificazione. I dazi sui prodotti tessili e su quelli dell’industria cotoniera in particolare vennero aumentati non per ragioni fiscali, ma per creare una protezione contro la concorrenza estera e stimolare la crescita dell’industria nazionale. Pochi anni dopo, nel 1887, lo stesso principio veniva allargato a molti altri settori produttivi ed in modo particolare alla cerealicoltura ed alla siderurgia. La scelta provocò aspre polemiche. Si parlò subito di un’alleanza fra grande proprietà assenteista del Meridione ed un emergente ceto industrial-finanziario del Nord. Senza alcun dubbio le pressioni per un aumento della protezione in questi settori furono rilevanti e, soprattutto per quanto riguardava la protezione del frumento, l’Italia si allineava a quanto stava accadendo in altri paesi. Ma per quanto rigua rdava la siderurgia le indubbie pressioni dei gruppi finanziari interessati si sommavano ad una precisa scelta politica del governo italiano: la creazione di un’industria che re ndesse l’Italia il più possibile indipendente dalle forniture estere in campo militare. L’episodio della tariffa del 1887 costituiva però un primo significativo esempio di una forte e non sempre limpida compenetrazione fra interessi produttivi, pubblica amministrazione e ceto politico.196 Dopo la guerra commerciale con la Francia del 1888, l’Italia seguendo il nuovo indirizzo di politica estera stipulò importanti trattati commerciali con gli Imperi centrali e con la Svizzera. Date le caratteristiche prevalenti del sistema produttivo italiano e le caratteristiche merceologiche dell’interscambio con questi paesi, l’Italia concesse riduzioni tariffarie sui prodotti industriali in cambio di analoghe facilitazioni per le proprie esportazioni agricole, soprattutto per quanto riguardava frutta, ortaggi e vino. Il malcontento degli industriali italiani fu limitato dalla consapevolezza della necessità di rompere l’isolamento commerciale italiano dopo l’episodio francese. Ridurre le concessioni sui prodotti industriali avrebbe significato mettere a rischio le esportazioni agricole italiane, ripetendo il tragico scenario che si era realizzato durante la guerra commerciale italo-francese. Cominciò così ad affacciarsi la prospettiva di una nuova riforma tariffaria. Lo scopo era non solo di accrescere i dazi ma soprattutto di aumentare il numero di voci della tariffa, riducendo la portata delle concessioni. 196 Sulla tariffa del 1887, cfr. Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d'interpretazione in Storia d'Italia, Annali I, Dal Feudalesimo al capitalismo , Torino, Einaudi, 1978, p. 1.216-18; Mirella Calzavirini, Il protezionismo industriale e la tariffa doganale del 1887, «Clio», 1966; Lucio Villari, Per la storia del protezi onismo in Italia, «Studi Storici», 1965, 6; Romano Prodi, Il protezionismo nella politica e nell’industria italiana dall’unificazione al 1887, «Nuova Rivista Storica», 1996, 1-2. 178 Fabrizio Bientinesi 2. DALLA PREVALENZA DEGLI INTERESSI AGRICOLI ALL ’AFFERMAZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI INDUSTRI ALI, 1903-1918 Nel 1903, alla vigilia del rinnovo dei trattati di commercio, la Commissione Stringher, incaricata di rivedere la tariffa, non riuscì a portare a termine il proprio compito.197 Si spensero così le speranze di coloro che avevano auspicato di arrivare ai negoziati con una nuova tariffa. Le trattative per il rinnovo dei trattati di commercio furono accompagnate da un’intensa attività di pressione da parte dei produttori agricoli. L’impegno fu più evidente da parte degli agricoltori meridionali, che dettero vita ad apposite associazioni. 198 Nonostante ciò, limitarsi a considerare il problema come un confronto fra agricoltori meridionali ed industriali settentrionali, come sinora è stato fatto, sarebbe riduttivo. In maniera meno appariscente, anche i produttori agricoli del Nord, in modo particolare i viticoltori piemontesi, chiesero la riduzione dei dazi sui prodotti industriali per mantenere i trattamenti prefe199 renziali ai prodotti primari italiani. Allo stesso modo, i produttori di seta, una categoria generalmente classificata come “liberista”, non esitò a reclamare un’“equa difesa contro l’invadenza degli altri stati”. 200 Una simile articolazione di interessi e posizioni non facilitò certo l’iniziativa per la cre azione di un gruppo liberista, al quale mancò sia un collegamento 201 con gli interessi agricoli che un vero sostegno da parte delle forze polit iche. L’importanza dei temi legati al commercio internazionale ed alla difesa tariffaria e la loro influenza sulla vita politica it aliana (peraltro a lungo trascurata dall’analisi storiografica) si manifestò ampiamente di lì a poco, in occasione del trattato con la Spagna. L’aspra protesta dei viticoltori meridionali e piemontesi provocò la caduta del governo Fortis e provocò anche non pochi imbarazzi nel gruppo liberista per l’atteggiamento tenuto in quell’occasione da uno dei suoi più importanti esponenti, De Viti de Marco, che appoggiò il rigetto del trattato. 202 Le riduzioni tariffarie sui manufatti concesse alla Germania, all’Austria-Ungheria ed alla Svizzera, il fallimento del trattato con la Spagna, mercato nel quale gli industriali riponeva no grandi speranze, contriburono ad accrescere il malcontento dell’ambiente manifatturiero italiano. Dopo un periodo di relativa latenza, lo scontro si riaprì agli inizi del secondo decennio del secolo. Gli interessi industriali infatti in quel momento stavano compiendo il passo che li avrebbe portati dalle prime forme di associazione, limitate in senso settoriale e geografico, alle rappresentanze generali. Nel 1910 vennero formate a pochi mesi di distanza la Confederazione generale dell’industria (Confindustria) e l’Associazione fra le società per azioni (Assonime). Nelle due associazioni l’influenza dei settori più protezionisti (side 197 Cfr. Archivio centrale dello Stato (ACS), Fondo Presidenza del Consiglio (Pcm) , (1903), 2.1.17. La più attiva delle quali sembrava essere la “Associazione per la tutela degli interessi meridionali nella rinnovazione dei trattati di commercio”, presieduta dal presidente della Camera di Commercio di Bari, De Tullio, cfr. ACS, Pcm, (1903), 2.1.1.022. 199 Cfr. le lettere dei viticoltori piemontesi in ACS, Pcm, (1904), 11.1.110; 11.1.557; 11.1.565. 200 Lettera dell’Associazione dei fabbricanti di seterie di Como, 16 agosto 1904, ACS, Pcm, (1904), 10.1.110. 201 Cfr. anche Silvia Inghirami, La predica inutile de i liberisti. La lega antiprotezionista e la questione doganale in Italia (1904 -1914), Milano, Angeli, 1991. 202 Antonio De Viti de Marco, Il problema doganale e l'attuale momento politico in Un trentennio di lotte polit iche, Napoli, Istituto editoriale del Mezzogiorno, s.d. Il comportamento di De Viti de Marco fu criticato anche da Einaudi, cfr. Luigi Einaudi, La logica protezionista, «Riforma Sociale», 1914, p. 825. 198 Ricerca del consenso 179 rurgia, cantieristica, saccarifero) era molto forte e in breve tempo venne intrapresa un’azione assai articolata per influenzare l’opinione pubblica ed il governo. Facendo tesoro delle analoghe esperienze fatte in Gran Bretagna e Francia, il fronte degli industriali affiancò agli argomenti tradizionali nuovi sostegni per le proprie richieste. Il pericolo del dumping, la crescita dei cartelli negli Stati Uniti e soprattutto in Germania si rivelarono argomenti assai effic aci sia per sorreggere le richieste di inasprimenti tariffari sia per giustificare analoghe tendenze al proprio interno. Dal punto di vista organizzativo l’azione si rivelò ancora più efficace. Oltre alla creazione di un gruppo parlamentare per la difesa degli interessi industriali, le associazioni industriali decisero di creare “commissioni-ombra” per influenzare le commissioni ufficiali impegnate in campi di particolare interesse. Questo avvenne sia per le forniture governative,203 sia soprattutto per la revisione della tariffa. La Confindustria e l’Assonime dettero vita insieme al Comitato nazionale per le tariffe doganali ed i trattati di commercio. La decisione venne presa poco dopo l’annuncio della crea zione di una Commissione ufficiale per la revisione della tariffa (gennaio 1913). Gli ambienti liberisti furono messi subito in allarme. In effetti, alla luce di una lettera di Stringher, la collaborazione fra i due organismi fu precoce ed assidua.204 Completavano il quadro i legami con il movimento nazionalista che, dopo un breve periodo di incertezza, finì con l’abbracciare in pieno la causa protezionista. 205 Un primo successo fu l’adozione per la Tripolitania di un regime doganale differenziale per i prodotti italiani, contrario dunque al regime della porta aperta auspicato dai liberisti.206 In campo doganale l’obiettivo fu selezionato con precisione: gli industriali sostenevano con decisione l’adozione di una doppia tariffa autonoma, sull’esempio francese. Il sistema autonomo permetteva di variare i dazi anche dopo la ratifica dei trattati, dal momento che l’impegno convenzionale si limitava alla concessione del trattamento più favorevole, senza alcun impegno per la misura dei dazi la cui modifica richiedeva un voto parlamentare. In tal modo si svuotava di ogni significato la clausola della nazione più favorita, vero bersaglio del revisionismo tariffario degli industriali.207 203 Si trattava del «Comitato speciale per gli approvvigionamenti di Stato». Cfr. su questo punto Felice Guarneri, Battaglie economiche fra le due guerre, Bologna, Il Mulino, 19882 , pp. 227-228; Annibale Gilardoni, Protezione del lavoro nazionale ed appalti pubblici , «Rivista delle Società Commerciali», 1914, I sem., pp. 422-428, Mario ABRATE, La lotta sindacale nella industrializzazione in Italia, 1906-1926, Torino, UTET, 1967, pp. 132-133. 204 Cfr. lettera di Stringher a Chimirri del 10 settembre 1913, Archivio Storico della Banca d’Italia (ASBI), Fondo Stringher, busta 47, 603.9.03.72. 205 Cfr. le tre relazioni tenute da Alfredo Rocco al III Congresso nazionalista, cfr. I princìpi fondamentali del nazionalismo economico, Il problema doganale, La politica e l'azione sociale, pu bblicate in Il nazionalismo economico. Relazioni al III Congresso dell'Associazione Nazionalista Italiana, Bologna, Neri, 1914. 206 Alcuni esponenti del gruppo liberista (Einaudi, Giretti, De Viti de Marco) avevano proposto per la Tripolitania il regime doganale della porta aperta, che avrebbe assoggettato i prodotti provenienti da qualsiasi paese allo stesso dazio (v. ad esempio Luigi Einaudi – Edoardo Giretti, A proposito de lla Tripolitania. Ott imismo o pessimismo doganale?, «Riforma Sociale», pp. 740-764). La relazione ufficiale sul problema, affidata a Pompeo Bodrero, si pronunciò invece per l’adozione di dazi differenziali a favore dei prodotti italiani, cfr. P. Bodrero, Relazione sul regime doganale per la Tripol itania e la Cirenaica, presentata al Ministro delle Colonie S. E. il Prof. Ferdinando Martini, Ro ma, Bertero, 1914. 207 Vi è da notare che il principio dell’autonomia aveva causato non pochi problemi alla Francia. Alcuni stati si rifiutarono di trattare sulla base di una tariffa che lasciava libera la Francia di aumentare 180 Fabrizio Bientinesi Il modus operandi degli industriali prevedeva così un totale cambiamento rispetto al meccanismo attraverso il quale si erano esplicate le pressioni dei produttori fino a quel momento. Non più pressioni episodiche, legate alle singole scadenze commerciali, ma la creazione di specifici organismi destinati ad un’azione di lobbyng costante e preventiva. In campo tariffario, l’obiettivo era il ribaltamento del processo che aveva portato alla tariffa del 1887. In quell’occasione, la tariffa era stata inasprita in sede parlamentare. Ora, si mirava a presentare alla discussione una tariffa che rispondesse già il più possibile ai desideri degli industriali. Per la revisione tariffaria, i piani degli industriali sembravano destinati ad un pieno successo. Lo scoppio della prima guerra mondiale ed il successivo ingresso in guerra dell’Italia ostacolarono seriamente l’opera della Commissione ufficiale incaricata di preparare la revisione tariffaria, originariamente concepita in previsione della scadenza dei princ ipali trattati, il 31 dicembre 1917. Il metodo dell’invio di questionari ai produttori si rivelò un vero e proprio fallimento ed il ricorso ai dati forniti dal Comitato nazionale divenne obbligato. 208 È interessante notare come, in tutta la vicenda, il fronte industriale mantenne una notevole compattezza. Anche gli industriali più moderati, come i cotonieri ed i produttori di manufatti in gomma, sostennero le decisioni della maggioranza, limitandosi a chiedere maggiori facilitazioni per l’esportazione e l’importazione di materie prime a favore delle quali si era poco prima pronunciato ufficialmente il Comitato tariffario degli industriali. Nell’aprile 1917 il Comitato nazionale si pronunciava ufficialmente a favore dell’adozione di una doppia tariffa autonoma. 209 Nel maggio 1917 la Commissione ufficiale decise di far propria la proposta di una doppia tariffa autonoma. 210 Questa decisione provocò dissensi prima all’interno della Commissione e poi, una volta divulgata la notizia, da parte delle associazioni degli agricoltori meridionali. 211 La polemic a raggiunse l’aula della Camera dove per la prima volta si fece cenno alla connivenza fra organismi ufficiali ed industriali.212 Questa reazione e la rotta di Caporetto congelarono di fatto ogni decisione in merito al regime doganale. i propri dazi in qualsiasi momento. Si aprì così una guerra commerciale con la Svizzera, conclusasi nel 1895 con la riduzione di alcuni dazi della tariffa minima, formalmente votati dal parlamento fra ncese salvando così il principio dell'autonomia tariffaria. Ciò non fu possibile nel 1905, al momento della stipulazione del trattato commerciale con la Russia, fortemente voluto dalla Francia per ragioni di alleanza politica, quando vennero vincolati i dazi su alcuni prodotti, fra i quali il petrolio. 208 In alcuni casi i commissari richiamarono esplicitamente le richieste del Comitato nazionale. Fu il caso di Bocca (industria della pelle), Silvestri (industria meccanica) e Lepetit (industria chimica), tutti membri del Comitato nazionale, cfr. Commissione reale per lo studio del regime economicodoganale e dei tratt ati di commercio, Volume II, p. 227 (Bocca); p. 7 (Lepetit); pp. 186-196 (Silvestri), Roma, 1918. Il debito nei confronti del Comitato nazionale venne riconosciuto ufficialmente nell’ultimo volume dei lavori della Commissione, cfr. Commissione reale per lo studio del regime economico doganale e dei trattati di commercio, Volume XXX Relazione generale, Roma, Bertero, 1920, pp. 163-164. 209 Comitato nazionale per le tariffe doganali ed i trattati di commercio, Linee di riforma della tariffa d oganale vigente , Milano, La Stampa Commerciale, 1917. 210 Commissione reale per lo studio del regime economico-doganale e dei trattati di commercio, Volume I Indirizzo generale della politica doganale, Roma, Bertero, 1918. 211 Cfr. Industriali ed agricoltori , «L'Unità», n. 27, 5 luglio 1917. 212 Atti parlamentari, Camera dei deputati , Legislatura XXIV, Discussioni, tornata del 7 luglio 1917, pp. 14.083-14.088. Ricerca del consenso 181 § 3 D ALLA FINE DELLA GUERRA ALLA GRANDE CRISI: UNA POLITICA DI COMPROMESSI . La situazione nel primo dopoguerra si presentava confusa, e non soltanto per quanto riguardava il problema doganale. Il confronto fra le rappresentanze industriali da una parte e le organizzazioni di agricoltori meridionali e gruppi liberisti dall’altro riprese serrato. Gli industriali continuavano a proporre l’adozione di una doppia tariffa autonoma e di dazi assai più alti rispetto a quelli dell’anteguerra, sia per compensare la crescita dei prezzi che per fronteggiare la nuova minaccia del “valuta-dumping”, cioè delle esportazioni provenienti da paesi a valuta deprezzata. Dall’altra parte, si chiedeva di tornare alla vecchia tariffa come base per i futuri trattati. Le due posizioni erano inconciliabili, ma i governi dell’epoca dovettero destreggiarsi fra di loro. Un primo progetto, sottoposto nel giugno 1919 all’approvazione delle associazioni industriali (ma non delle associazioni agricole), riprendeva lo schema proposto dalla Commissione ufficiale nel 1917 ma senza autonomia doga nale. In tal modo, il principale obiettivo degli industriali rimaneva escluso. Nel luglio successivo la Confindustria ribadiva con un comunicato ufficiale la scelta dell’autonomia doganale.213 Come misura interlocutoria il governo italiano emise pochi giorni dopo un decreto col quale ristabiliva la libertà d’importazione, escludendone però numerosi ed importanti prodotti. Fra la fine del 1919 ed il 1921 si successero ben tre commissioni di funzionari incaricate di preparare la nuova tariffa. La situazione cominciava a divenire difficile per l’Italia. Spagna e Svizzera denunciarono i trattati commerciali e la Spagna addirittura sottopose le merci italiane ai dazi addizionali riservati ai paesi a moneta svalutata. La soluzione venne risolta con un decreto legge nel giugno 1921, col quale il governo Giolitti impose l’entrata in vigore della nuova tariffa. Per le sue caratteristiche, la nuova tariffa venne definita “l’ultimo esito di quel «sistema» giolittiano basato sul do ut des tra riformismo e protezionismo”. 214 Non si trattava di una tariffa autonoma e questo rappresentava una sconfitta per il fronte industriale. Ma accoglieva i coefficienti di maggiorazione più volte invocati dopo il 1919 dagli industriali, ancora una volta seguendo l’esempio della Francia. In più, i coefficienti (se non convenzionati nei trattati) erano modificabili con un semplice de creto governativo. Non solo, ma le successive revisioni condotte dopo la fine del conflitto avevano aumentato a dismisura il numero di voci della tariffa (29.555 fra voci e sottovoci, di cui i 4/5 riguardanti prodotti siderurgici e meccanici)215. In questo senso, il percorso suggerito dalla Commissione Stringher nel 1903 era stato portato a termine. Non solo, ma la volontà manifestata di ridurre notevolmente la durata delle convenzioni commerciali rappresentava di per sé un elemento intrinsecamente protezionistico. La nuova tariffa così si presentava come uno strumento duttile, facilmente utilizzabile come strumento di prote zione o di apertura. Ma le sue caratteristiche miste finirono per scontentare entrambi gli schieramenti. Il periodo successivo coincise con profonde trasformazioni economiche e 213 Cfr. Note economiche. I voti della Confederazione generale dell'industria, «La Metallurgia italiana», 31 luglio 1919, n. 7, pp. 367-368. «La Società per azioni» scriveva, nella prima metà di giugno, che i rappresentanti del Comitato nazionale erano stati invitati a prendere visione della tariffa preparata dai funzionari e così «proporre eventualmente le correzioni ritenute indispensabili, prima che tale tariffa sia comunicata alla Commissione Parlamentare», cfr. «La Società per azioni», n. 11, 1-15 giugno 1919, p.177. 214 Antonia Carparelli, I perché di una mezza siderurgia in Acciaio per l’industrializzazione, a cura di Franco Bonelli, Torino, Einaudi, 1982. 215 Cfr. Francesco A. Répaci, La questione doganale , in Scritti di economia e finanza Milano, Giuffrè, 1967, Vol. I, p. 253-321; ID., Il livello del protezionismo in Italia , in Scritti di economia e finanza, Vol. I, pp. 325-392 (orig. «Riforma Sociale», 1922, pp. 465-539). 182 Fabrizio Bientinesi politiche. La crisi economica che colpì duramente la siderurgia e la cantieristica ridusse enormemente il peso e l’influenza dei settori e dei gruppi più apertamente protezionisti. Cominciò così a farsi strada la possibilità di una mediazione fra i diversi interessi ed in questo senso funzionarono a perfezione le caratteristiche stesse della nuova tariffa. Il fascismo, che ancora nel gennaio 1922 sembrava almeno ufficiosamente vicino alle posizioni protezioniste, in pochi mesi si allineò su posizioni opposte, giungendo al potere come alfiere del liberismo.216 Il cambiamento fu evidente durante l’approvazione della tariffa da parte della Camera. La sottocommissione incaricata dei prodotti siderurgici e meccanici, di cui faceva parte anche Benni, presidente della Confindustria, ridusse i dazi sui prodotti della siderurgia di base (ghisa e semilavorati) mentre lasciò praticamente intatti i restanti prodotti.217 Inoltre, venne approvata una modifica alla legge doganale che toglieva al governo il potere di aumentare i coefficienti tariffari, lasciando solo la possibilità di ridurli. L’approvazione della tariffa doganale rappresentò il picco del “liberismo” fascista. La conclusione di alcuni importanti trattati sembrò chiudere per un periodo l’ostilità fra interessi agricoli ed interessi industriali. Ma al contrario di quanto viene generalmente affermato, la polit ica commerciale seguita fra il 1922 ed 1926, anno del trattato con la Germania, non fu affatto all’insegna di un liberismo deciso. Al contrario, si trattò di una politica cauta, molto sensibile alle nuove caratteristiche degli scambi internazionali e alle incertezze economiche e valutarie che segnarono il periodo. In primo lu ogo, l’Italia ridusse in modo deciso l’applicazione della clausola della nazione più favorita. Si trattava, come si è visto, di una delle richieste più importanti avanzate dagli industriali nel periodo prebellico, che finalmente veniva accolta approfittando della ormai ampia diffusione che le limitazioni alla clausola, palesi o nascoste, avevano conosciuto nel primo dopoguerra a livello internazionale. 218 In secondo luogo, i negoziatori italiani fecero ampio uso della “multiconvenzionalità”. In sostanza, le stesse voci convenzionate con un paese venivano convenzionate anche con altri, benché, in teoria, la loro applicazione fosse garantita dalla clausola della nazione più favorita (salvo, naturalmente, le specifiche limitazioni). I paesi contraenti accettavano perché, convenzionando in maniera specifica il maggior numero possibile di voci, si mettevano relativamente al riparo da modifiche unilaterali, “guerre doganali”, provvedimenti “indiretti” di limitazione delle importazioni (provvedimenti sanitari etc.). Il volume di commercio estero convenzionato risultava dunque “gonfiato” dalle duplicazioni. Secondo i miei calcoli, la quantità di scambi sottoposti al trattamento “convenzionale” (quindi con sgravi tariffari o dazi bloccati) nel 1926 era pari al 31,56%. I 2/3 del commercio estero dell’Italia erano dunque sotto regime “generale” ed i dazi potevano essere aumentati, almeno teoricamente, in qualunque momento (cfr. tabella seguente). Tab. 1 Valore dei capitoli convenzionati nei trattati commerciali stipulati dall’Italia nel 1925, [valori 1926] 216 È questo almeno il caso di De’ Stefani, divenuto poi il simbolo del “liberismo” fascista, cfr. Alberto De’ Stefani, Interessante storia della nuova tariffa doganale, «Rivista di Politica Economica», 1922, pp. 10-12. 217 Cfr. Atti parlamentari , Camera dei deputati , Legislatura XXVI, Discussioni, tornata del 23 maggio 1923, p. 9.284 e sgg. 218 Cfr. LEAGUE OF NATIONS - INTERNATIONAL ECONOMIC CONFERENCE, Final Report of the Trade Barriers Committee of International Chamber of Commerce, Genève, 1927; LEAGUE OF NATIONS, Commercial Policy in the Inter-War Period, Genève, 1942. 183 Ricerca del consenso Stato (A) Totale valori capitoli conv.ti A × 100 C B ×100 C 16,04 7,49 16,01 4,89 4,95 13,26 0,00 12,39 13,43 11,53 (B) Totale valori capitoli conv.ti senza capitoli pluriconv.ti 1.009.922.880 205.462.524 417.013.267 280.031.146 250.443.916 989.083.272 0 741.067.406 897.062.403 659.316.463 Albania Austria Cecoslov. Finlandia Francia Germania Grecia Spagna Svizzera URSS 1.782.160.173 832.440.321 1.778.914.062 543.097.740 550.148.588 1.473.123.473 0 1.376.666.833 1.491.849.433 1.281.271.537 Totale (C) 11.109.672.160 100 5.449.403.277 100 18,53 3,77 7,65 5,14 4,60 18,15 0,00 13,60 16,46 12,10 Totale effettivo imp.ni 8.168.556.498 conv.te (D) Perc.le su totale imp. 31,56 1926 fonte: elaborazione da MINISTERO DELLE FINANZE, Movimento commerciale 1926, Roma, 1927. I contrasti fra industriali ed agricoltori, che parevano per un breve momento sopiti, ripresero più aspri che mai in occasione del trattato con la Germania. In verità, le prime avvisaglie di una rinnovata ostilità si erano manifestate durante i negoziati per l’accordo commerciale con la Cecoslovacchia. I produttori agricoli, specie del Meridione, speravano che il mercato cecoslovacco potesse sopperire alle perdite subite su altri mercati. In Gran Bretagna la concorrenza spagnola aveva ormai preso il sopravvento. L’Austria attraversava un momento economicamente difficile, mentre il mercato tedesco rimaneva chiuso a causa delle difficoltà valutarie e della politica di stretto controllo sulle importazioni. Ma l’economia cecoslovacca, relativamente industrializzata e fiorente, se da un lato sembrava garantire uno sbocco non trascurabile ai prodotti agricoli italiani, dall’altro appariva una concorrente temibile agli industriali italiani, soprattutto in alcuni precisi settori (meccanica, vetro, tessile). L’accordo, siglato nel 1924, fu accettato obtorto collo dalle organizzazioni 219 industriali. In questo clima, le trattative con la Germania furono viste da industriali ed agricoltori come l’occasione propizia per regolare i reciproci rapporti di forza. Seguendo un percorso ormai definito, i primi a mobilitarsi furono gli agricoltori del Meridione ed ancora una volta l’iniziativa principale venne dalla Puglia. In una lettera del 16 ottobre 219 La Confindustria si era opposta alla firma dell’accordo, che era stato infine accettato «per ragioni politiche». Alle trattative con la Cecoslovacchia aveva partecipato come inviato della Confindustria Felice Guarneri, futuro Ministro degli Scambi, cfr. CONFINDUSTRIA, Annuario 1924, Roma, tip. Egeria., pp. 171-202. 184 Fabrizio Bientinesi 1924220 Mussolini veniva informato della costituzione di un comitato a difesa degli interessi agricoli. Ne facevano parte due liberisti «storici» come De Viti de Marco e Giuseppe Frisella Vella, ma lo presiedevano Antonio De Tullio ed Achille Starace, già vice-segretario del partito nazionale fascista e da poco eletto deputato. La composizione del Comitato rendeva esplicita la svolta avvenuta nel confronto sulla politica commerciale da parte degli agricoltori meridionali. Alla presidenza si trovavano uniti l’uomo che, come presidente della Camera di commercio di Bari e membro della Commissione reale, si era decisamente opposto allo schieramento industriale nel periodo be llico e prebellico ed uno dei personaggi in piena ascesa nel partito fascista. Nel nuovo panorama politico, il ruolo del movimento liberista si era rapidamente ridimensionato. Dopo i primi entusiasmi, Einaudi e molti altri si erano resi conto che Mussolini non era affatto il restauratore dello stato liberale ma semmai il suo affossatore. Il ricostituito gruppo liberista fu ben presto marginalizzato e si limitò a poche pubblicazioni. 221 La stessa partecipazione di De Viti de Marco e Frisella Vella, in una posizione evidentemente subordinata, assume i contorni di una battaglia di retrogua rdia, o se si preferisce, di testimonianza morale. I rappresentanti degli interessi agricoli avevano ormai optato per alleanze politiche e personali che sembravano offrire maggiori garanzie di efficacia. Sfrondato dai suoi contorni teorici, il confronto sulla polit ica commerciale si rivelava per ciò che in fondo era sempre stato: un grosso conflitto d’interessi nel quale il «gruppo che non seppe essere partito» aveva cercato di inserirsi, non sempre con la necessaria lucidità. Ma gli agricoltori meridionali ancora una volta non furono soli. Il notevole sviluppo della produzione ortofrutticola in Emilia -Romagna aveva spinto i produttori della regione a rivolgersi direttamente a Mussolini, fidando anche nel “legame” del duce con la propria terra. È particolarmente significativo il telegramma inviato il 27 ottobre dalla Federazione italiana dei sindacati degli agricoltori di Bologna nel quale si accusano «le intenzioni oltranzisticamente protettive degli industriali», ed in modo particolare degli industriali siderurgici. Le accuse vanno poi al di là del problema contingente, attribuendo agli industriali la volontà di arrivare all’autonomia doganale, nonostante le chiare scelte compiute nel 1921 e nel 1923.222 L’altro punto che venne polemicamente posto in rilievo fu la partecipazione in veste ufficiale dei rappresentanti della Confindustria alle trattative. Il 24 ottobre la Federazione dei sindacati agrari di Modena denunciava senza mezzi termini: Notizia divulgata che Olivetti predisporrebbe trattato commerciale italo-tedesco sacrificando esportazione prodotti suolo considerati secondaria importanza determina viva reazione.223 Emergeva chiaramente, al di là del valore puramente polemico di alcune affermazioni come quelle sulle mire «autonomistiche» degli industriali, la consapevolezza dei me ccanismi attraverso i quali le organizzazioni industriali avevano fatto fino a quel momento sentire la propria influenza nelle scelte di politica commerciale. Di qui le pressioni, coronate dal successo, affinché ai negoziati potesse partecipare un rappresentante degli interessi agricoli. 224 Non solo, ma anche alcuni industriali fecero pressioni affinché i negoziati con la Ger220 Cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.17.2.174. Cfr. Costituzione del Gruppo Libero-Scambista Italiano, «Riforma Sociale», 1922, pp. 565-566. 222 Cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.17.2174. 223 Cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.4.251. 224 Ne dà conferma il Ministro degli Esteri a Mussolini il 9 ottobre 1924: «è mio intendimento far partecip are, quale membro della delegazione italiana, un rappresentante degli interessi dei nostri agricoltori cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.17.2174. Anche la richiesta fatta da Teofilo Rossi per far partecipare alle trattative un rappresentante ufficiale (nella persona di Giuseppe Marchetti) dell’Unione delle 221 Ricerca del consenso 185 mania andassero rapidamente a buon fine. Fu il caso della FIAT, che richiese un impegno dei negoziatori italiani affinché il dazio tedesco sulle autovetture non superasse i 100 marchi/q.225 Il caso FIAT ben rappresenta le difficoltà che la Confindustria incontrò in quest’occasione. L’importanza degli interessi in gioco infatti spinse molti industriali a presentare a titolo personale, od al massimo di gruppo, richieste per la difesa dei propri prodotti o la concessione di esenzioni o riduzioni sugli inputs produttivi. Si trattava in alcuni casi di richieste contraddittorie 226 e che in ogni caso mettevano in crisi la strategia confindustriale basata sul principio delle mediazione interna e della successiva presentazione di un corpo unico di richieste, come era accaduto ad esempio con il Comitato nazionale. La Confindustria si trovò così costretta ad inviare una circolare riservata nella quale si invita vano gli aderenti a dare prova «della maggiore disciplina astenendosi in modo assoluto da iniziative e azioni isolate che potrebbero riuscire pregiudizievoli».227 D’altro canto la FIAT godeva ormai di un’importanza notevole nel panorama industriale italiano e l’episodio del trattato italo-tedesco rappresentava il primo segnale dell’esistenza di una sorta di autonoma capacità di pressione dell’azienda torinese che avrebbe trovato conferma negli anni successivi. 228 Un tentativo di mediazione fra le varie parti fu tentato dal ministro dell’Economia Nazionale. Il 15 ottobre 1924 venne convocata una riunione con i rappresentanti della Federazione dei sindacati agrari, della Confindustria, dell’Assonime e dell’Unione delle Camere di commercio per «invitarle ad un’opera di concorde collaborazione e per richiamarle alla necessità di creare ... un fronte unico fra i vari interessi italiani».229 Il risultato fu però de ludente. L’unica soluzione per eliminare le polemiche sulla strumentalizzazione della polit ica commerciale, soprattutto da parte industriale, sembrò riportare lo svolgimento delle trattative alla prassi prebellica. I rappresentanti delle organizzazioni economiche avrebbero quindi fornito una semplice consulenza tecnica ma sarebbero rimasti esclusi dalle trattati- Camere di commercio mirava a rompere il monopolio confindustriale nell’ambito della politica commerciale, cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.4.251. Naturalmente in questa richiesta rientravano anche elementi di prestigio personale e di «spirito di corpo» burocratico. 225 In risposta alla richiesta personale fatta da Giovanni Agnelli a Mussolini il 3 ottobre 1925, Di Nola assicurò che «la delegazione italiana ... non mancherà di insistere perché i dazi tedeschi sulle automobili vengano ridotti a limiti che non possano ostacolare la nostra esportazione verso detto paese», ACS, Pcm, (1926), 15.5.333. In realtà i negoziatori italiani furono costretti ad accettare un sistema di tariffa a scalare in base al quale i dazi sulle automobili avrebbero raggiunto il limite di 100 marchi/q. chiesto dalla FIAT solamente il 1° gennaio 1928, partendo da valori molto più elevati (250 marchi per le auto più leggere, 175-180-200 marchi per le auto più pesanti). 226 Si prendano ad esempio le richieste della Federazione nazionale delle associazioni fra gli industriali chimici e quella della ditta Bonelli di Milano, cfr. ACS, Pcm, (1926), 15.4.251. 227 Cfr. Archivio Storico della Confindustria (ASCI), Fondo circolari, circolare 385/7479 del 5 dicembre 1924. 228 In particolar modo fra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, quando la FIAT intervenne prima per impedire l’insediamento produttivo della “Ford” in Italia e l’importazione di parti statunitensi per completare la produzione della Isotta-Fraschini, poi per ottenere dazi sempre più alti sulle import azioni automobilistiche, cfr. ACS, Pcm, (1928-1930), 3.1-7.6690; ACS, Pcm, (19281930), 3.1-7.8968; ACS, Pcm, (1928-1930), 9.6.11451; ACS, Pcm, (1928-1930), 9.3.12684; ACS, Pcm, (1928-1930), 9.3.11592; ACS, Pcm, (1931-1933), 3.1-7.1968; ACS, Pcm, (1931-1933), 15.8.78947. 229 Lettera del Ministro dell’Economia Nazionale a Mussolini, ACS, Pcm, (1926), 15.4.2174. 186 Fabrizio Bientinesi ve. Questa soluzione provocò una levata di scudi degli industriali. Benni inviò un vero e proprio ultimatum a Mussolini: Sono informato che contrariamente a quanto V. E. ebbe bontà di assicurarmi verbalmente proporrebbesi trasformare delegati associazioni economiche in esperti, escludendoli dalle tra ttative colla delegazione tedesca ... so interpretare anche pensiero Pirelli presidente Associazione Anonime assente Italia. Classe industriale così preoccupata gravità problema trattato Germania che se sua rappresentanza non avesse almeno minime garenzie [sic] richieste ciò obbligherebbemi dimissioni Presidenza Confindustria scarico mia gravissima responsabilità. Sarò Roma sabato mattina.230 Dal messaggio emergono indicazioni interessanti sul tipo di rapporti che intercorrevano fra Mussolini e gli industriali. Se infatti il primo rappresentava qualcosa di diverso dal semplice fantoccio manovrato dalle classi egemoni, i secondi sembravano mantenere un atteggiamento privo di soggezione qualora ritenessero che i propri interessi fossero minacciati. La necessità di arrivare ad una composizione dei contrasti interni imponeva al governo italiano un rinvio dei negoziati formali e così il 10 gennaio 1925 le due controparti si scambiarono delle note per la regolazione provvisoria dei rapporti commerciali. 231 Il modus vivendi re golava l’applicazione reciproca della clausola della nazione più favorita ma si trattò di un piccolissimo passo avanti. La Germania infatti aveva concluso sino a quel momento un solo trattato, con la Spagna ed era stata proprio il timore della concorrenza spagnola a far accettare lo scambio di note con la quale di fatto la Germania non concedeva niente o quasi. Da parte loro i negoziatori italiani avevano però imposto delle esclusioni di una certa rilevanza all’applicazione della clausola. Rimanevano fuori e quindi assoggettati alla tariffa piena tutti i prodotti siderurgici (con l’esclusione della ghisa e dei blooms), i motori, tutti i veicoli, i generatori ed i trasformatori elettrici, le pompe e le pelli conciate. In definitiva tutti i prodotti per i quali la concorrenza tedesca appariva più temibile. La situazione era resa ancora più complicata dalle speculari divisioni che esistevano in Germania. Mentre i produttori meccanici spingevano per una rapida conclusione, agricolt ori e produttori di acciaio erano fermi su posizioni di intransigente protezionismo (non solo nei confronti dell’Italia, peraltro). Il problema dell’Alto Adige, le voci su un’unione doganale austro-tedesca non facevano che rendere più acceso il clima dei negoziati e così elementi di minore importanza divennero punti di contrapposizione quasi inconciliabili. 232 Le trattative sembravano arrivate alla rottura nell’agosto 1925, preoccupando lo stesso Mussolini che ritenne di dover intervenire per favorire la loro conclusione.233 Alla fine il trattato 230 Telegramma di Benni a Mussolini del 1° gennaio 1925, ACS, Pcm, (1926), 15.4.2174. È da notare che gli industriali avevano chiesto sin dal 1924 la proroga della pubblicazione del Repertorio doganale a dopo la firma del trattato con la Germania. Il fine era ovviamente quello di ridurre le conces sioni alla Germania manovrando proprio sui rimandi di repertorio, cfr. lettera del Sottosegretario di Stato al Ministero delle Finanze, datata 10 novembre 1924, ACS, Pcm, 9.1.2759. 231 R.D.L. 10 gennaio 1925, n. 6. Al 10 gennaio 1925 scadevano infatti le clausole del trattato di Versailles riguardanti la politica commerciale e doganale tedesca. 232 Era il caso ad esempio dell’eccesso di estratto secco richiesto dalla Germania per l’ammissione del vermouth italiano al trattamento preferenziale stabilito per i vini liquorosi, oppure il vincolo stabilito dal campionario tedesco per la forma dei bottoni oltre che per la materia. Si trattava di punti che dietro la loro apparente meschinità coinvolgevano interessi non trascurabili. Le esportazioni di vermouth e bottoni di corozo nel 1926 ammontarono rispettivamente a 56,5 milioni e 142,1 milioni di lire. La Germania assorbì rispettivamente l’8,5% e il 12,1%. 233 Cfr. CONFINDUSTRIA, Annuario 1925, cit. Ricerca del consenso 187 venne siglato il 31 ottobre, un mese dopo l’entrata in vigore della nuova tariffa tedesca. L’accordo chiudeva di fatto la stagione dei grandi trattati. Le enormi difficoltà, gli scontri, il malcontento che anche dopo la firma erano rimasti, per diverse ragioni, fra le varie parti produttive consigliavano una pausa. Di lì a poco, la politica monetaria, sfociata nella scelta di “quota 90” avrebbe fornito un’altra importante ragione per imporre l’arresto dei trattati ed anzi una revisione in senso più protezionista della politica commerciale italiana. L’aumento dei dazi avrebbe potuto apparire come la scelta più ovvia. Andava in questa direzione la facoltà di poter variare d’autorità i dazi doganali concessa al Ministro delle Finanze,234 le cui decisioni divenivano immediatamente esecutive senza alcuna necessità di comunicazioni al Parlamento, come pure era specificatamente previsto dall’articolo 4 del decreto 11 luglio 1923, col quale era stata approvata la nuova tariffa. Tuttavia, data la de licata posizione italiana nella rete di scambi internazionali e la necessità di ottenere capitali dall’estero, una politica troppo decisa di aumenti sarebbe stata estremamente rischiosa. 235 Di fatto i numerosi aumenti daziari condotti fra 1925 e 1928 interessarono solo il 4,14% delle importazioni (valori 1926, grano escluso). 236 Il provvedimento più eclatante fu senz’altro la reintroduzione del dazio sul grano, che appariva tutto sommato la scelta meno rischiosa sotto molti punti di vista. 237 Laddove invece le necessità italiane di riduzione delle importazioni si incontrarono con analoghe necessità di altri paesi, fu più facile arrivare ad accordi. Fu il caso della Francia, con la quale venne ridiscusso il trattato del 1922, riducendo in maniera drastica il numero delle voci convenzionate. In aggiunta, vennero presi provvedimenti legislativi per facilitare l’acquisto di prodotti nazionali nei contratti pubblici e, con lo stesso scopo, iniziative di moral suasion presso i privati. Comunque, più che di una decisa sterzata protezionista, la nuova politica italiana appariva piuttosto come l’adattamento alla nuova situazione economica scaturita da «quota 90» ed anche, in qualche misura, ad un trend che si andava manifestando a livello internazionale. L’Italia mostrava ancora una volta di muoversi con quella prudenza che era peraltro resa quasi indispensabile dalla «vulnerabilità» della sua struttura di scambi. Le prime avvisaglie della crisi non fecero che rafforzare questo atteggiamento guardingo, chiuso fra i timori di rappresaglie e la necessità di far fronte sia alle richieste dei produttori che alle nuove, delicate realtà frutto della crisi. Esemplare sotto questo punto di vista è il comportamento tenuto in occasione della conferenza per la tregua doganale di Ginevra. 234 R.D.L. 9 agosto 1926, n. 1.482. Cfr. le difficoltà di rivedere alcuni dazi convenzionati con Svizzera e Cecoslovacchia (ACS, Pcm, (1926), 3.8.2543). La stessa FIAT, allora grande esportatrice, era preoccupata delle possibili ripercussioni che un troppo deciso cambio di rotta nella politica commerciale avrebbe potuto causare, cfr. ACS, Pcm, 9.2.4.491. 236 Calcoli dell’autore. In alcuni casi l’Italia riuscì anche a togliere il vincolo su alcune voci conven zionate con Austria, Cecoslovacchia e Svizzera. Il valore delle voci non superava però lo 0,74% delle importazioni (valori 1.926). 237 Appariva improbabile una decisa reazione da parte dei paesi esportatori. Inoltre la domanda di grano p oteva essere compressa senza compromettere la produzione industriale, come sarebbe a ccaduto per altre materie prime, che pure pesavano sulla bilancia dei pagamenti italiana. Inoltre l’introduzione del dazio avrebbe favorito la mezzadria (preferita dal regime al bracciantato) e consentito il varo di una campagna propagandistica (“la battaglia del grano”) secondo i canoni trionfalistici cari al regime. Sui vari aspetti, cfr. Giuseppe Tattara, La battaglia del grano in L’economia italiana 1861-1940, a cura di Gianni Toniolo, Bari, Laterza, 1978, pp. 337-380. 235 188 Fabrizio Bientinesi Le decisioni statunitensi in materia tariffaria e la scelta di numerosi paesi, fra i quali gli stessi Stati Uniti, di non partecipare alla conferenza ne avevano di fatto minato la riuscita prima ancora dell’inizio dei lavori. Lo scopo della conferenza, le cui radici andavano alla precedente conferenza di Ginevra del 1927, era la firma di un documento che impegnasse il maggior numero possibile di paesi a rinunciare ad aumenti tariffari per un periodo da stabilirsi e, soprattutto, all’adozione di pratiche discriminatorie. Nell’ottobre 1929, a quattro mesi dall’inizio previsto della conferenza, il ministero delle Finanze in un memorandum chiedeva istruzioni sulla posizione che l’Italia avrebbe assunto per coordinare e sviluppare i progetti di aumenti tariffari.238 Due mesi più tardi, alle soglie della scadenza del 31 dicembre posta per l’adesione ufficiale alla conferenza, un nuovo memorandum, opera stavolta del neonato ministero delle Corporazioni, così riassumeva le possibili posizioni per l’Italia: a) rifiutare l’adesione alla Conferenza; b) dare l’adesione sia alla Conferenza sia alla tregua proposta; c) dare l’adesione alla Conferenza con il deliberato proposito d’impedirne il succes239 so e continuava: L’economia del nostro Paese, in via di progressivo sviluppo, potrebbe forse tollerare per un breve periodo di due o tre anni la stabilizzazione del regime doganale in vigore, ma non potrebbe in alcun modo sopportare una diminuzione che - come già si è rilevato - costituisce la logica ed inevitabile del principio della tregua doganale. D’altra parte, è bensì vero che i nostri maggiori interessi sono in Europa, ma è anche vero che con la maggior parte degli Stati, d isposti a fare la Convenzione, noi siamo legati da trattati di commercio a tariffa e che l’Italia rappresenta per essi, come essi per noi, un importante mercato di sbocco da non doversi trascurare con troppa leggerezza. La terza soluzione sembra la più logica e rispondente ai reali interessi del nostro Paese, perché, mentre in apparenza si seconderebbe l’azione che la Società delle Nazioni svolge nel campo economico, si tutelerebbero insieme efficacemente gli interessi dell’economia nazionale [corsivo mio].240 Aderire e sabotare: era questa dunque la scelta che veniva prospettata per la tregua doganale. Non solo, ma il ministero suggeriva anche attraverso quali strade si sarebbe potuto giungere all’obiettivo finale: il fallimento della conferenza. D’altra parte il progetto contiene in sé elementi di debolezza i quali fanno ritenere ch’esso sia destinato ad un sicuro insuccesso. Fondamentale è la riserva già ammessa dallo schema compilato dal Comitato Economico [della Società delle Nazioni, nota mia] in ordine ai dazi fiscali. Tale riserva è già per sé stessa destinata a ridurre notevolmente quella che dovrebbe essere la portata dell’Accordo da stipulare oltre a contenere una grave difficoltà circa la definizione dei dazi fiscali ... Ora, se alla questione dei dazi fiscali si aggiungono quella relativa al regime pre238 ACS, Pcm, (1928-1930), 14.3.8.705; memorandum del 3 ottobre 1929, prot. 3.516 D. Il ministro delle Finanze Mosconi scriveva a Mussolini: «Presso questo Ministero e presso l’ex-Ministero dell’Economia Nazionale era già in corso di esame una serie di provvedimenti intesi, in relazione anche al programma del miglioramento della nostra bilancia commerciale propostosi dal Comitato Economico nominato da S. E. il Capo del Governo, ad inasprire alcuni dazi della tariffa doganale in vigore. Trattasi di provvedimenti di d uplice ordine: perché alcuni rappresentano veri e propri ritocchi di carattere tecnico e sono intesi a correggere errori e incongruenze tarif farie, altri si propongono invece uno scopo prettamente economico in quanto mirano ad adeguare le aliquote dei dazi alle condizioni di taluni rami della produzione nazionale più gravemente minacciati e compromessi dalla concorrenza straniera». 239 ACS, Pcm, (1928-1930), 14.3.8705; memorandum del 27 dicembre 1929, prot. 37.682. 240 ACS, Pcm, (1928-1930), 14.3.8.705; memorandum del 27 dicembre 1929, prot. 37.682, p. 3. Ricerca del consenso 189 ferenziale e coloniale e quella della limitazione degli Stati partecipanti ed altre che lo svolg imento dei lavori potrà far rilevare, è chiaro che si avrà un complesso di difficoltà tale da far 241 naufragare a Ginevra il progetto di Convenzi one [corsivo mio]. Né più favorevoli erano le posizioni della Confindustria nei riguardi della prossima conferenza ginevrina. In una circolare riservata inviata alle Federazioni settoriali, la Confindustria paventava come la tregua doganale potesse risultare assai dannosa alle industrie nostre ... In vista di ciò sarebbe opportuno richiedere - e il progetto in lavorazione internazionale lo consente - che fosse riservata all’Italia libertà di azione per quei prodotti per i quali appaia più evidente la necessità di modificazioni di tariffa in 242 un prossimo avvenire. Per evitare una corsa alla richiesta di aumenti tariffari, la Confindustria invitava le Federazioni a non dare pubblicità alla circolare. Ancora una volta, quindi, come si è visto per la revisione della tariffa del 1921, le Federazioni fungevano da filtro (o, se si vuole, da sbarramento) fra la base ed i vertici. Le previsioni del ministero delle Corporazioni si rivelarono esatte. La conferenza si svolse in un clima di sospetto reciproco: nessuno degli Stati che vi parteciparono aveva un reale 243 interesse alla messa in atto di una tregua doganale effettiva. Tanto meno vi era la possibilità di imporre un’eventuale tregua su una scala internazionale adeguata a farla divenire realmente efficace. La responsabilità per l’insuccesso della conferenza che il funzionario italiano addetto alle trattative si attribuiva orgogliosamente andava quindi verosimilmente 244 condivisa con i delegati degli altri paesi. La politica commerciale italiana di questo periodo sembrava così muoversi in una posizione di attesa, dosando attentamente protezione del mercato interno ed attenzione ai mercati di sbocco. Numerosi sono gli esempi di questa tendenza. È interessante ad esempio notare come la chiusura verso ogni ipotesi di tregua doganale coincidesse con un atto di apertura notevole come la completa liberalizzazione del mercato dei cambi. Con il R.D.L. 12 marzo 1930, n. 125 vennero infatti aboliti i controlli sui cambi reintrodotti nel 1925 a causa delle difficoltà della lira. Si trattò di un gesto in larga misura intempestivo, tanto che di lì a poco, senza troppa pubblicità,245 venne sconfessato da un provvedimento di segno contrario 241 ACS, Pcm, (1928-1930), 14.3.8.705; memorandum del 27 dicembre 1929, prot. 37.682, p. 4. ASCI, Fondo circolari, circolare riservata del 25 gennaio 1930, prot. n. 1.071. Cfr. anche l’espressione semi-ufficiale della posizione confindustriale in F. Guarnieri, Contro la tregua doga nale, «Rivista di politica economica», febbraio 1930, pp. 113-117 (orig. “Critica fascista”, 15 febbraio 1930). 243 Una delle poche voci italiane a sostegno della tregua doganale in Jacopo Mazzei, I progetti di unione doganale europea e l’Italia, Firenze, Carnesecchi, 1930. Per una visione più particolareggiata della vicenda, cfr. anche Francesco Coppola D’Anna, Il fallimento della tregua doganale, «Economia», n. 5, maggio 1930, pp. 447-464. 244 In un telegramma del 25 marzo 1930, il capo delegazione effettivo della missione italiana De Michelis (il capo delegazione ufficiale era Bottai) scriveva a Mussolini: «Mercè nostre proposte, nostri interventi, nostre insistenze ispirateci a gelosa custodia interessi e prestigio Paese, siamo riusciti a far mettere da parte progetto tregua doganale e in un secondo tempo a svuotare di ogni contenuto impegnativo i due strumenti deliberati da conferenza. La parte pratica di tali strumenti se sarà applicata gioverà nostra politica commerciale colla proroga trattati commercio in vigore lasciando sostanzialmente inalterati poteri Regio Governo per quanto concerne rimaneggiamento tariffe doganali», ACS, Pcm, (1928-1930), 14.3.8705; telegramma prot. n. 12.700 (4) (La). 245 Cfr. F. Guarnieri, Battaglie economiche, cit., pp. 353-354. 242 190 Fabrizio Bientinesi (R.D.L. 29 settembre 1931, n. 1.680), la cui applicazione fu comunque assai blanda.246 Allo stesso modo, con il R.D.L. 31 dicembre 1929 n. 2.697 vennero aumentati i dazi su alcuni prodotti (si tra ttava del provvedimento di cui parlava il ministero delle Finanze nel memorandum dell’ottobre 1929 citato poco sopra). In realtà il provvedimento, preso sotto l’urgenza dell’adesione alla conferenza di Ginevra, ebbe una portata tutto sommato limitata. I cauti aumenti tariffari andavano di pari passo con le preoccupazioni per possibili rappre saglie in caso di una politica di protezione troppo decisa. Nell’aprile del 1930, ad un mese di distanza dal fallimento della conferenza sulla tregua doganale che avrebbe dovuto lasciare mano libera ad una decisa revisione tariffaria, il Ministro delle Corporazioni comunicava a Mussolini la sua preoccupazione sulle conseguenze di eccessivi aumenti tariffari. Richiamando un rapporto del Comitato economico247 da poco preparato, il Ministro soste neva come con il decreto del 31 dicembre il ricorso a misure di carattere doganale debba ormai essere escluso come metodo normale per restringere le importazioni di prodotti esteri. 248 Ancora una volta in testa alle preoccupazioni vi era il timore di misure di ritorsione tariffarie e non (boicottaggi etc.) che avrebbero potuto produrre pesanti effetti negativi sui conti con l’estero dell’Italia, i quali erano tutt’altro che floridi. L’atteggiamento del governo sulla questione doganale trovava un riflesso nella varietà di posizioni espresse sullo stesso tema nel mondo industriale. Nella Relazione pubblicata nel 1930 di concerto dalla Confindustria e dall’Assonime si trova ad esempio una precisa esortazione a non contare troppo sui provvedimenti tariffari: abbiamo giudicato nostro dovere mettere gli industriali in guardia contro il miracolismo delle barriere doganali, esortandoli a trovare soprattutto in sé stessi ... i mezzi per superare le difficoltà presenti 249 . Nello stesso anno la Confindustria scriveva nel proprio Annuario: abbiamo nuovamente insistito - con ampi e documentati memoriali - frutto di ripetute indagini e di dirette discussioni coi vari gruppi interessati - perché vengano apportati alla vigente tariffa, gli emendamenti atti a correggere taluni errori e talune deficienze che tuttora si lamentano e che arrecano danni a importanti rami di produzione250 . L’apparente contraddizione fra le due affermazioni è in realtà una spia delle preoccupazioni e dei mutamenti che attraversavano il panorama dell’industria italiana nel passaggio della crisi. Indubbiamente esistevano, all’interno della Confindustria, dubbi sulla necessità 246 Cfr. G. Tattara, La persistenza dello squilibrio dei conti con l'est ero dell'Italia negli anni '30, in Finanza internazionale, vincolo estero e cambi 1919-1939, Bari, Laterza, 1993, pp. 38, 405. 247 Si tratta del Comitato economico o dei Sette. Il Comitato era stato pesantemente richiamato ad un mag giore impegno da Mussolini con una lettera del 23 febbraio 1930 allo stesso Ministro delle Corporazioni, ACS, Pcm, (1928-1930), 9.6.10.360. 248 Lettera del Ministro delle Corporazioni a Mussolini, 4 marzo 1930, ACS, Pcm, (1928-1930), 9.6.10.360. 249 ASSONIME - CONFINDUSTRIA, Relazione sull’attività svolta dai nostri Uffici economici nel 1930, Roma, Castaldi, 1931, p. 75. 250 CONFINDUSTRIA, Annuario 1930, Roma, Castaldi, 1930, p. 699. Ricerca del consenso 191 di una decisa svolta protezionistica nella politica commerciale italiana. Soprattutto i settori più legati alla dinamica delle esportazioni, sembravano preoccupati delle possibili conseguenze di una simile scelta. Ma proprio in questo periodo alcuni importanti settori, che fino a quel momento avevano raccolto notevoli successi nell’esportazione, cominciarono ad incontrare crescenti difficoltà sui mercati esteri, mentre la minaccia della concorrenza si faceva sentire sul mercato interno. Il rapido peggioramento della situazione internazionale all’inizio degli anni Trenta rese evidente la necessità di scelte più radicali per affrontare la situazione. Ancora una volta le ricette proposte da agricoltori ed industriali erano completamente diverse. Mentre i primi propugnavano l’adozione di scambi bilanciati, i secondo mantenevano ferma la fiducia nel sistema dei trattati a tariffa con l’applicazione (di massima) della clausola della nazione più favorita. Lo scontro divenne aperto in occasione del Consiglio delle Corporazioni svoltosi nel novembre 1931. 251 Il consiglio si concluse con la vittoria delle posizioni degli industriali. Ma tale vittoria fu di breve durata. Di lì a poco, l’Italia fu costretta a ricorrere ad i primi accordi di clearing per cercare di recuperare i crediti arretrati in diversi paesi. Così come, peraltro, aveva chiesto Valletta. 252 § 4. LA SPECIFICITÀ DEL CASO ITALIANO Negli ultimi anni hanno avuto una certa diffusione nella storiografia economica ricerche di tipo modellizzante, sull’esempio di quanto avviene nelle scienze economiche “pure”. Molti sono stati gli aspetti toccati e fra questi non poteva mancare la politica commerciale. Un esempio particolarmente interessante è costituito dal volume di Balbín, Industrialización y grupos de presión .253 L’autore coniuga un esame puntuale della politica commerciale spagnola nella prima metà del Novecento con la proposta di un modello interpretativo sulla genesi della politica commerciale, analizzando quattro variabili fondamentali. Queste ultime sono individuate da Balbín in: l’arretratezza del settore agricolo, la concentrazione geografica del settore industriale, la modernità del settore fiscale e il grado di indipendenza pa rlamentare. L’arretratezza del settore agricolo è supposta avere un impatto negativo sul livello salariale, costringendo gli industriali a compensare i maggiori costi salariali con l’aumento della protezione. Balbín mette così in relazione il livello di protezione 254 con la produzione per addetto nel settore agricolo per diversi paesi europei e poi con la concentrazione geografica, dal momento che si suppone che tale elemento favorisca l’azione di pressione sulle istituzioni, riducendo al contempo il numero e l’importanza dei free-riders. Analogamente l’analisi di Balbín presuppone che un sistema fiscale moderno si avvalga in 251 Cfr. Gianni Battista, La politica commerciale nel dopoguerra, Roma, Stamperia Reale, 1932, pp. 59-63; F. Guarnieri, La politica degli scambi con l'estero, Roma, s.d., 1932 (si tratta del discorso tenuto da Guarneri al Consiglio delle Corporazioni). 252 «Non c’è dubbio che la creazione di stanze singole di compensazione tra crediti e debiti rispettivi in modo da tutelare non solo il normale svolgimento degli scambi ma anche l’esposizione creditizia precedente dell’Italia, è l’unico mezzo pratico per impedire un arresto dei nostri commerci di esportazione», lettera di Valletta ad Azzolini, datata 9 novembre 1931, ASBI, Fondo Esteri, bobina 69, anche in Marcello De Cecco (a cura di), L’Italia e il sistema finanziario internazionale 1919-1936, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp.1014-1016, doc. 218]. 253 Pedro Fraile Balbìn, Industrialización y grupos de presión: la economia política de la prote cción en España, 1900-1950, Madrid, Alianza Editorial, 1991. 254 Si tratta del livello di protezione nominale ottenuto dal lavoro di Heinrich Liepman, Tariff Levels and Economic Unity of Europe, London, 1938, ristampato Philadelphia, Porcupine Press, 1980. 192 Fabrizio Bientinesi misura relativamente maggiore di entrate dirette rispetto a sistemi più arretrati, rapportando la percentuale di entrate indirette sul totale. Infine, l’ultima correlazione riguarda il tipo di regime politico. L’ipotesi che Balbín avanza sulla base della letteratura esistente e sullo studio ormai consolidato dei meccanismi di funzionamento dei sistemi burocratici è che in un sistema autoritario la gestione della politica commerciale (così come per altri aspetti) venga affidata a funzionari sui quali i meccanismi di controllo tipici delle democrazie siano assenti o non funzionanti. In un tale contesto, privo di reali contrappesi, l’efficacia dei gruppi di pressione è destinata a crescere notevolmente. Così l’autore ha messo in relazione sia la percentuale di votanti sul totale della popolazione adulta ed il tipo di regime presente. 255 In tutti i casi l’esistenza di una correlazione significativa fra le variabili e il livello di protezione è stata accertata, dando vita ad un modello endogeno di creazione della tariffa, nel quale al passaggio ad un regime autoritario corrisponde una crescita della protezione doganale. Il caso italiano non si attaglia però al modello proposto da Balbín. Al di là delle riserva su alcuni singoli punti,256 l’ascesa al potere del fascismo coincide, come si è visto, con una riduzione dei dazi. In questo caso sembrano così giocare un ruolo fondamentale i mutamenti nei rapporti di forza all’interno del sistema produttivo, così come nel 1931 ebbero un ruolo fondamentale nell’orientare la politica commerciale i vincoli della bilancia dei pagamenti. 257 La realtà italiana appare così più vicina al modello di pressure politics descritto da Verdier,258 ma dagli esiti assolutamente non scontati. 255 Naturalmente trattandosi di una indicazione «qualitativa» in questo caso Balbín si è servito di una correlazione di Spearmann. 256 Nel caso della correlazione (tramite indice di Spearmann) fra livello di protezione e sistema polit ico, Balbín include l’Italia fra i paesi a regime autoritario. Ma la tariffa italiana era stata varata da Giolitti (e mai s ostanzialmente modificata) e quindi in un regime sostanzialmente democratico (o “competitivo”). La modifica non provoca variazioni di rilievo nell’indice, ma ancora una volta funge da monito sulla inevitabile complessità delle specifiche realtà. 257 Rimangono d’altronde numerosi altri elementi da valutare nell’orientamento delle politiche commerciali di un paese: necessità di politica internazionale, modalità della rappresentanza politica (diversa da paese a paese, anche nei regimi autoritari), formazione e ruolo della burocrazia (un aspetto questo particolarmente difficile da studiare per il caso italiano, data la mancanza assoluta di fonti primarie). 258 Una realtà nella quale il problema della politica commerciale non è al centro dell'attenzione polit ica e le varie decisioni vengono prese su pressioni derivanti dai produttori interessati, cfr. Daniel Verdier, Democracy and International Trade. Britain, France and United States 1860-1990, Princeton, Princ. University Press, 1994. Alessandro Polsi Casse di risparmio, elite locali e politiche assistenziali durante il fascismo. Considerazioni preliminari. Scopo di queste note è porre in rilievo alcuni punti per una ricostruzione dell’intervento delle casse di risparmio all’interno della costruzione delle prime forme di welfare che vedono la luce durante il periodo fascista, in particolare per quanto riguarda l’assistenza. Il tema si intreccia inevitabilmente con il problema del rapporto fra elite locali e governo centrale sia in quanto una buona parte della spesa assistenziale fu delegata dal regime agli enti locali, sia in quanto l’ente locale ed i suoi organi dirigenti hanno una posizione centrale nella scelta delle politiche assistenziali su scala locale e nella nomina degli amministratori delle casse di risparmio almeno fino al 1938. 1. Non sono più le saltuarie elargizioni di un tempo, a carattere quasi sempre elemosiniere, deliberate a solennizzare determinate ricorrenze patriottiche o dinastiche, ma trattasi ora di un complesso imponente di erogazioni precedute e giustificate da indagini esaurienti sulle necessità cui urge sovvenire 259 e sempre poste in atto armonicamente con l’opera dei pubblici poteri. Così il presidente della Cassa di risparmio delle Province Lombarde (Cariplo), e recente presidente dell’Associazione fra le casse di risparmio sintetizzava il nuovo ruolo delle erogazioni assistenziali delle casse di risparmio all’inizio degli anni ’30. Era l’esposizione della svolta maturata alla metà degli anni ’20, e in particolare dopo il decreto del 10 febbraio 1927, che aveva imposto l’accorpamento delle casse di risparmio di minori dimensioni. Tradizionalmente le Casse avevano elargito in attività di tipo assistenziale una parte dei loro utili annuali. Con la riforma crispina del 1888 il fenomeno era stato sottoposto a norme specifiche, che probabilmente ne avevano limitato la portata rispetto alle dimensioni assunte in precedenza. La storia delle più antiche casse di risparmio riporta episodi di istituti che, in momenti molto difficili per la popolazione locale, non esitarono a impegnare parte del loro stesso patrimonio in attività assistenziali. 260 Con l’accentuarsi della vocazione bancaria degli istituti questi episodi si erano ridimensionati, ma ad ogni modo la riforma del 1888 intendeva porre su 261 solide basi l’assetto di bilancio delle casse. La legge infatti si preoccupava di costituire forti riserve patrimoniali agli istituti, in vista della accentuata conversione bancaria delle casse, e li obbligava ad accantonare a riserva i 9/10 degli utili annuali fino a raggiungere un rapporto di 1 a 10 fra patrimonio e massa dei depositi amministrata. La misura aveva, nel suo automatismo, un che di paradossale, per259 G. De Capitani D’Arzago, Le Casse di risparmio e l’assistenza sociale, in “Rivista delle casse di risparmio”, marzo 1932 p. 225. 260 Caso estremo sembra essere stato quello della Cassa di Lugo, che nel 1854 intaccò il proprio fondo di dotazione per soccorrere le popolazioni locali. Cfr. P. Gualandi, Le casse di risparmio e il corporativ ismo, Bologna 1935, p. 73. 261 Sulla riforma crispina cfr. M. Clarich, La portata innovatrice della legge 15 luglio 1888 n. 5.546, in ISAP, Archivio 6, Le riforme crispine , vol. IV, pp.401-429. 194 Alessandro Polsi ché proprio nei momenti di crisi economica, quando i depositi affluivano più numerosi agli sportelli delle casse, scattava la necessità di adeguare gli indici patrimoniali e quindi diminuire le erogazioni assistenziali. Tale situazione si manifestò appieno durante la prima guerra mondiale, aggravata oltremodo dal processo inflazionistico, che contribuiva ad alzare il valore nominale dei depositi. Ad ovviare al problema venne nel 1917 un decreto che permetteva di scorporare dal computo dei depositi la parte investita in buoni del Tesoro e titoli di stato. 262 Tale norma fu reiterata nel 1926 (RD 3 gennaio 1926). All’epoca esistevano poco più di 200 casse di risparmio, e il loro numero continuava lentamente ad aumentare per una tendenza, sviluppatasi in età giolittiana, di promu overe la fondazione di piccole casse di risparmio nell’Italia centrale e meridionale. In particolare nel meridione si ovviava alla quasi totale mancanza di organismi di risparmio che non fossero la palermitana Cassa di risparmio Vittorio Emanuele e le casse di risparmio annesse al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. Non esistono dati uniformi sulle erogazioni benefiche, ma la sensazione, in base a elementi frammentari raccolti, è che le constatazioni di De Capitani fossero sosta nzialmente giuste e che le erogazioni si disperdessero in molti piccoli rivoli, oltre a essere confinate alle decisioni e ai progetti delle elite locali, molto gelose delle proprie prerogative. I primi anni ’20 segnano un momento di svolta: a livello di governo e nella coscienza dei dirigenti delle casse si pone il problema di considerare le casse, per la prima volta dalla riforma del 1888, e dieci anni dopo la costituzione dell’Associazione, non come tante entità autonome, ma come un sistema da governare e indirizzare secondo prospettive che superassero il ristretto ambito locale. 2. Nel 1911 le casse di risparmio avevano dato vita alla Associazione fra le casse di risparmio. Non comprendeva tutte le casse del paese, e fra gli esclusi vi era la Cariplo, il maggiore istituto del settore.263 La guerra aveva congelato la vita associativa e fino all’inizio degli anni ’20 non vi erano stati congressi dell’associazione e tutta la vita dell’organizzazione si limitava nell’attività del comitato direttivo eletto nel 1911. Un importante salto fu dato dalla vasta discussione che si ebbe in seno all’Associazione in seguito alla presentazione di un progetto di legge Alessio di riordino delle casse di rispa rmio nel 1921. 264 Era un progetto molto radicale che, se approvato, avrebbe segnato la fine delle casse come istituzioni fortemente indipendenti. Prevedeva, in una prima stesura, che 2/3 dei membri dei consigli di amministrazione venissero nominati da enti e istituzioni locali in rappresentanza di varie categorie sociali. Il progetto nasceva da una preoccupazione, legata ad un preciso episodio. Nel 1920 l’avvento di una amministrazione di sinistra a Modena, e la nomina di nuovi consiglieri nella locale cassa di risparmio, provocò un panico nei depositanti e massicci ritiri di depositi. Era la prima volta, nella storia ormai secolare delle casse, che il pubblico manifestava una così forte sfiducia nei confronti degli amministratori di una cassa, non valutati sui risultati della loro amministrazione, ma solo in base 262 D Lgt. 31 dicembre 1917. La Cariplo aderì all’inizio del 1926, ma aveva già partecipato ad alcuni momenti associativi importanti, come il congresso del 1922. 264 Il disegno di legge era stato presentato alla Camera dal Ministro di agricoltura Alessio il 20 giugno 1921. Sui suoi contenuti e sulla discussione che suscitò cfr. Atti del III congresso delle casse di risparmio italiane. Tenutosi a Trieste il 21-22-23 maggio 1922 . Bologna, 1923. 263 Casse di risparmio 195 all’appartenenza partitica. Si rompeva quel meccanismo di cooptazione all’interno di una elite sociale, generalmente sancito negli statuti degli istituti, e nella prassi di nomina. L’ormai non più postulabile coincidenza di elite ammin istrativa e elite sociale creava pericolose infiltrazioni delle divisione partitiche nei meccanismi di nomina dei dirigenti delle casse. Pericolo forse più paventato che reale, come ebbe modo di ribadire Benvenuto Gr iziotti, a nome della Cariplo, la massima istituzione di risparmio, e ben avvezza a convivere con amministrazioni comunali di diverso colore politico. Ma probabilmente per le casse minori il discorso era diverso e i timori più reali. La novità del progetto è che considerava tutte le casse come un settore omogeneo, da sottoporre a regole e statuti uniformi. L’Associazione si oppose radicalmente al progetto, in particolare difendendo il diritto delle casse azionarie 265 di nominare i propri amministratori, e rifiutò decisamente il principio della rappresentanza corporativa nei propri consigli di amministrazione, pur accettando di buon grado l’idea di una più stretta tutela statale, a difesa di pericolosi rivolgimenti. Il primo fascismo accolse queste richieste e il decreto del 21 ottobre 1923 (RDL n. 2.413), che possiamo considerare come ultima ricaduta del progetto Alessio, affrontava soltanto l’aspetto della concorrenza fra le casse, che veniva limitata, tema delicato e principio già sostanzialmente fatto proprio dalle casse. Il vero tornante dei rapporti fra casse e regime si situa fra 1926 e 27. Con la riforma dell’ente locale e l’introduzione del podestà viene sostanzialmente modificato il meccanismo di nomina degli amministratori delle casse, almeno per quelle nate da istituzioni pubbliche. Nel febbraio 1927, dopo una lunga e a volte accesa discussione si giunse all’emanazione del decreto che obbligava alla fusione le casse minori (RDL 10 febbraio 1927 n. 269). Nel giro di poco più di un anno il settore si ridusse della metà, con la soppressione di istituti a volte antichi e l’esautoramento delle piccole oligarchie locali, a favore di più solidi organismi provinciali. 3. La riforma degli enti locali si legava ad un progetto amministrativo complessivo: contenere e in prospettiva ridurre le spese degli enti locali, ampliando contemporaneamente gli interventi assistenziali. In due campi principalmente: nell’assistenza all’infanzia e nella campagna antitubercolare. Entrambe le campagne, secondo un tipico rapporto centralistico centro periferia, partono da forti impulsi del centro, trasmessi per via gerarchica oltreché attraverso il canale politico, e sono in buona misura implementate in periferia. Implicano un coordinamento fra enti locali, congregazioni di carità e Opere Pie esistenti sul territorio, Omni e altri enti assistenziali, infine le casse di risparmio, con le loro erogazioni. Allo stesso modo attraverso la riforma delle casse si mira a incrementare la quantità e qualità delle erogazioni, in primo luogo aumentando gli utili con una diminuzione delle spese di amministrazione e una maggiore razionalità di gestione. Nel 1929 viene emanato il testo unico sulle casse (RD 25 aprile 1929 n. 967). è un testo fortemente rispettoso dell’autonomia delle casse, che vengono garantite nei meccanismi di nomina e, nonostante il criterio corporativo dell’epoca, non vengono investite dalla rappresentanza di altri enti, come era stato pensato all’inizio degli anni ’20, ma invece diventano 265 Com’è noto le casse di risparmio avevano avuto una duplice origine, come associazioni di azionisti privati oppure come corpi morali costituiti dalle amministrazioni lo cali. 196 Alessandro Polsi membri designanti in altri organismi, come i consigli provinciali dell’economia. Posizione rovesciata rispetto ai progetti dei primi anni ’20. Il testo riconosce sostanzialmente una loro forte autonomia, consona con i nuovi compiti di stabilizzazione del mercato finanziario che le casse stanno guadagnando (si pensi all’ingresso nel 1928 nel capitale della Banca d’Italia). Il regolamento del 1931, che meglio precisa alcuni aspetti del testo unico, si limita, per quanto riguarda gli amministratori, a confermare le regole previste negli statuti, stabilendo l’incompatibilità fra amministratori degli enti locali e amministratori delle casse.266 L’unica revisione degli statuti può avvenire per via locale, cioè attraverso una decisione autonoma delle casse, ratificata poi dal governo. Nel caso di casse formate da soci, le possibilità di influire da parte del potere politico locale e nazionale erano praticamente nulle. Un punto importante del nuovo Testo Unico riguarda la destinazione degli utili. Si stabilisce che in via ordinaria la parte degli utili da destinare ad erogazioni benefiche sia del 30%, (si diceva correntemente che negli anni ’20 il rapporto fosse all’incirca del 25%) e possa essere superata quando la massa di rispetto dell’istituto abbia raggiunto il rapporto 1 a 10 con i depositi, che era pur sempre il doppio di quanto prescriveva la legge bancaria vigente per tutte le società di credito. Dal 1929 cresce quindi in maniera sensibile l’erogazione delle casse, in concomitanza con lo scoppiare della grande crisi. 266 La coincidenza fra sindaci e presidenti o amministratori delle casse era stato un dato abbastanza frequente nell’Italia liberale, ma anche in seguito, si pensi alla posizione di De Capitani, presidente della Cariplo, e podestà di Milano nel 1927. Proprio l’accumulo di cariche a Milano aveva provocato critiche per l’eccessivo accentramento di potere in una sola persona. Al limite proprio la riforma podestarile av eva accentuato il problema della incompatib ilità, ora portato a soluzione. Casse di risparmio 197 ________________________________________ Casse di risparmio. Utili netti ed erogazioni assistenziali (milioni di lire) Erogazioni Utile netto a) Stime b) Dati ufficiali 1890 8,5 2,04 1919 55 13,2 1920 51 12,24 1921 77,1 18,504 1922 98,9 23,736 1923 107,2 25,728 1924 125,5 30,12 1925 100,3 24,072 1926 162,1 32,7 1927 155,8 41,3 1928 102,2 49,4 1929 175,3 46 1930 160,9 50 1931 163,3 58,1 1932 163,7 60,5 1933 172,3 70,8 1934 177,7 60,3 1935 161,9 53,427 1936 172,7 56,991 Fonte: mie elaborazioni sui conti dei bilanci ufficiali. I dati ufficiali sulle erogazioni tratti da Le casse di risparmio italiane nel venticinquennale della loro associazione (19121937), Roma 1937 _________________________________________________ Il salto che si verifica fra 1927 e 1931 è evidente. In media negli anni ’30 le erogazioni benefiche sono raddoppiate rispetto al decennio precedente. Sembra, anche se i dati sono molto pochi e ci dobbiamo riferire soprattutto ai discorsi ufficiali, che alla fine degli anni ‘20 prenda corpo una filosofia di dare grandi “spallate” ai problemi assistenziali del paese, piuttosto che disperdere le erogazioni in troppi rivoli. Finanziare nuove infrastrutture, e ridurre il più possibile le erogazioni ordinarie. Cliniche per la tubercolosi e colonie per l’infanzia sembrano essere stati i due principali obiettivi, scelti in linea con la politica sanitaria del regime volta a favorire la realizzazione di grandi struttu267 re. Questi obiettivi mutano la filosofia di fondo della gestione degli enti maggiori: non più l’erogazione annuale condizionata strettamente al volume degli utili, ma la costituzione di un fondo per le erogazioni che permetta di far fronte alle contingenze annuali e di accumulare riserve con cui finanziare progetti particolarmente rilevanti. Ancora una volta è la Ca- 267 Sulla politica sanitaria del regime, cfr. G. Vicarelli, Alle origini della politica sanitaria in Italia , Bologna 1997. 198 Alessandro Polsi riplo a farsi portavoce di questa nuova tendenza, finanziando in maniera massiccia nel 1926 e soprattutto 1929 un complesso e moderno piano di riorganizzazione dell’assistenza ospedaliera a Milano e nei comuni dell’hinterland.268 Sempre la Cariplo nel corso degli anni ’20 riduce le erogazioni a pioggia verso i comuni egli enti assistenziali dove ha una propria sede. Nel 1923 sovvenzioni erano state erogate a 1.697 congregazioni di carità, o simili, mentre nel 1930 il loro numero era sceso a 970. 269 Con l’assunzione della presidenza dell’Associazione nel 1932 da parte del De Capitani, la linea seguita dalla Cariplo diventa in gran parte quella dell’Associazione stessa. Ma anche riscontri presso casse minori confermano questa tendenza, degli ultimi anni ’20, al finanziamento di grandi progetti assistenziali (colonie, ricoveri per anziani, manic omi)270 4. Le casse non sono naturalmente le uniche finanziatrici di questi grandi progetti. Gli altri interlocutori sono gli enti locali e gli enti pubblici. Queste istituzioni utiliz zano con una certa regolarità i mutui concessi dalle casse di risparmio e qui sorge un curioso conflitto. Il regime nei primi anni ’30 cerca di conciliare riduzione dei bilanci degli enti locali ed estensione delle politiche di welfare. Sono in realtà gli enti locali i protagonisti delle prime politiche di welfare nell’Italia fascista, con un sensibile incremento delle spese dalla fine degli anni ’20 alla metà degli anni ’30. Proprio in coincidenza con una brusco congelamento imposto ai bilanci degli enti locali dal regime, aumenta in valore assoluto la spesa degli enti locali per polit iche di assistenza e beneficenza. E’ quanto emerge da un confronto fra le spese del 1928 e del 1935, pur tenendo conto che una riclassificazione delle spese nei bilanci degli enti locali, attuata nel 1931 può aver falsato in parte questo confronto. Comunque in base a dati forniti dal Ministero delle Finanze, secondo criteri dichiarati omogenei, le spese per assistenza e beneficenza (obbligatorie e straordinarie) furono le seguenti. Spese per assistenza e beneficenza degli enti locali e delle Casse di risparmio (milioni di lire). 1928 1935 Comuni 260 589 Province 296 351 Casse di R. 49 60 Totale 605 1.000 Fonte: Ministero delle Finanze, Bilanci comunali e provinciali per l’anno 1935, Roma 1937. Mie elaborazioni. Per la casse v. la tabella precedente. 268 Cfr. B. Rossignoli, La beneficenza, in La Cassa di risparmio delle province lombarde nel cinquantennio 1923-1972, Milano 1973, vol. III, in particolare le pp. 2996-2997. Nel 1926 16 milioni e nel 1929 addirittura 36 milioni, ricavati da una riserva speciale, vengono erogati in favore dell’attuazione del piano ospedaliero approvato con RDL 6 novembre 1924 n. 2086. E’ evidente che queste erogazioni straordinarie non vengano computate nel calcolo che l’Associazione farà alcuni anni dopo sulle erogazioni annuali in assistenza e beneficenza da parte di tutte le casse italiane. 269 Alla base della diminuzione la decisione, a partire dal 1923, di concedere erogazioni solo dietro presentazione di domanda da parte dell’ente interessato e valutazione della stessa da parte della Cariplo. V. Rossignoli, La beneficenza…cit. 270 Cfr. ad es. La Cassa di risparmio di Lucca nel suo primo centenario, Lucca, 1935. Casse di risparmio 199 _______________________________________________ Abbiamo aggiunto le Casse per misurare l’impatto delle erogazioni sul totale complessivo. Vediamo che, al di là di certe forzature di discorso, il ruolo delle istituzioni di risparmio si ridimensiona proprio per l’imponente crescita dell’impegno degli enti locali, che, in alcuni casi, sostituiscono esplicitamente la carità privata (e le casse) in attività di tipo assistenziale, come l’assistenza agli inabili, attribuita alle province dal T.U. sulla finanza lo cale del 1931. L’impatto della grande crisi non è estraneo a questo aumento: crescono evidenteme nte i sussidi, e forme di assistenza indiretta. Per esempio si denuncia nei primi anni ’30 un anormale aumento dei ricoveri nei manicomi, frutto, con ogni probabilità, dell’esigenza delle famiglie di scaricarsi di pesi non più sostenibili, con conseguenze non indifferenti per i bilanci degli enti locali. Ma anche le casse vengono caricate di impegni più minuti e la loro politica erogativa è costretta a ripiegare, almeno in parte, verso più tradizionali fini assistenziali rispetto alle ambizioni del decennio precedente. La Cariplo, per cui disponiamo dei dati più completi, si trova a erogare alla metà degli anni ’30 un terzo del totale all’assistenza ai bisognosi, dopo che tale quota era discesa al 3,2% nel 1929, contraendo tutte le altre categorie, con l’eccezione dei sussidi per l’istruzione e la cultura. Più in generale ci sembra che la politica di erogazione delle casse perda quella funzione di “massa critica” che si invocava pochi anni prima. A questo esito non è estranea una scelta di fondo del regime a favore dell’assistenza organizzata. Gli enti locali erano i primi mutuatari delle casse, ed erano i mutui concessi dalla casse – a metà degli anni ’30 pari a circa il doppio di quanto concesso dalla Cassa Depositi e Prestiti – a sostenere gli oneri delle politiche di welfare. Il problema per gli enti è quello dei tassi a cui i mutui vengono concessi. Gli sconvolgimenti monetari del 1931 provoca no un aumento dei tassi pagati sui mutui, da qui la decisione del regime di intervenire sugli istituti per invitarli a moderare i tassi, fino ad un provvedimento del 1934 che impone un limite ai ta ssi attivi dei mutui e permette agli enti locali di rinegoziare le condizioni dei prestiti già contratti. Questo provocò nel breve periodo una contrazione degli utili delle casse e il rischio di una forte riduzione delle erogazioni, per cui dopo meno di un anno si giunse ad una forma di compromesso basata sull’automoderazione dei tassi da parte delle casse, che permetteva di recuperare in parte una certa libertà di bila ncio. Comunque l’evoluzione degli anni ’30 segna la fine definitiva della concezione liberale dell’assistenza, ancorata alla carità e alle erogazioni private, a favore di una più sistematica azione statale, mediata dagli enti locali. Bisogna sottolineare un altro grosso limite della concezione privatistica dell’assistenza, ed era quello territoriale. Pur in mancanza di dati completi, risulta evidente come negli anni ’20 e ’30 l’attività erogativa delle casse si concentri nel Nord e Centro Italia, lasciando soltanto quote marginali alle province meridionali. In base ai dati resi noti dall’Associazione nell’occasione del suo venticinquennale 271 possibile confrontare alcuni casi. La Cassa di risparmio del Banco di Napoli e la Cassa di risparmio Vittorio Emanuele di Palermo, le due maggiori istituzioni di risparmio del meridione, erogarono dal 1922 al 1935 una somma totale di poco inferiore ai 60 milioni di lire, non molto se raffrontato 387 milioni erogati dalla Cariplo nello stesso periodo, ai 64,7 della cassa di Torino, e poco in proporzione ai 6,4 mi- 271 Le casse di risparmio italiane nel venticinquennale…cit. 200 Alessandro Polsi lioni erogati da una cassa provinciale quale quella di Parma e alla cifra analoga della cassa di Lucca.272 272 Cfr. La Cassa di risparmio di Lucca... cit. Paul Corner Il ruolo della previdenza e dell'assistenzialismo sotto il fascismo Le tensioni che esistono fra la tutela dello Stato per i cittadini - l’assistenza e il welfare, nelle sue varie forme - e la necessità di un controllo, da parte dello Stato, degli stessi cittadini sono state evidenti fin dall’inizio dei primi programmi di previdenza sociale. L’ostilità del socialismo tedesco verso i primi provvedimenti bismarckiani nel campo della legislazione sociale - legislazione giudicata (giustamente) antisocialista nei suoi scopi - coglieva esattamente l’ambiguità delle misure proposte, da una parte di apparente tutela degli interessi della classe operaia, dall’altra miranti in modo fin troppo chiaro allo smorzare della protesta e al conseguente consolidamento del controllo dello Stato sui gruppi più inquieti della società tedesca. Gli stessi contrasti tra le interpretazioni da dare a una legislazione riformista sono riscontrabili, ovviamente, all’interno del socialismo italiano prima della prima guerra mondiale, quando il tentativo di Giolitti di arrivare a una ma ggiore legittimazione dello Stato italiano attraverso una parziale integrazione politica ed economica della classe operaia nei meccanismi dello Stato liberale provocò aspri divisioni fra socialisti riformisti e l’ala rivoluzionaria del partito. Come vedevano bene i socialisti massimalisti, gli obiettivi dell’assicurazione sociale - la previdenza - erano duplici; il primo era quello di garantire la riproduzione di una mano d’opera in grado di portare avanti il processo di produzione capitalista, mentre il secondo era quello di realizzare un consenso popolare, una legittimazione politica, per lo Stato e pertanto di rendere lo Stato più efficiente, più stabile, e più forte. Il nesso fra la previdenza sociale, il consenso, e il controllo sociale non sfuggiva a nessuno. Allo stesso tempo le possibilità che sembravano essersi offerte dall’interventismo sociale dello Stato incoraggiavano anche una visione meno scettica del riformismo. Le idee, stimolate dal positivismo e dalle nuove scienze sociali, di una società quasi perfezionabile attraverso un uso intelligente della ‘ingegneria sociale’, ormai apparentemente ‘scientifica’, portavano il discorso su welfare molto lontano dalle proposte, in fondo conservatrici, di un Bismarck o di un Giolitti. Nella Repubblica di Weimar, molti riformatori sociali credevano, almeno all’inizio, nella forza dello Stato ‘terapeutico’, capace di eliminare alle loro radici le 273 cause di povertà, deprivazioni, malattie e criminalità. L’obiettivo era un “brave new world”, costruito con l’uso della ragione scientifica. La crisi, e poi il fallimento, della Repubblica era dovuta in parte ad una mancanza di mezzi per la realizzazione dei progetti ma anche, e forse soprattutto, alla resistenza opposta dalla classe operaia alla sempre crescente regolamentazione burocratica imposta dalle autorità nel tentativo di effettuare le riforme. La tensione fra l’emancipazione della classe operaia - l’utopia socialdemocratica - e la disciplina sociale necessaria per la realizzazione di quell’emancipazione si è dimostrata alla fine troppo forte e il risultato fu uno spaventoso crollo nei consensi per la Repubblica, manifestato in una profonda delusione con la democrazia e nella disponibilità da parte di molti di cercare altrove le risposte a problemi sociali ed economici.274 273 In generale, cfr. A. J. Polsky, The Rise of the Therapeutic State, Princeton, 1991. Cfr. D. J. K .Peukert, La repubblica di Weimar, Torino, 1996; anche Young - Sun Hong, Welfare, Modernity, and the Weimar State, 1919-1933, Princeton 1998. Sia Peukert che Hong si ispirano mo lto ai lavori sulla società e la famiglia di Michel Foucault e di Jacques Donzelot. 274 202 Paul Corner Il caso di Weimar è particolarmente illuminante perché dimostra in modo clamoroso il rapporto che esiste fra welfare, controllo sociale e consenso politico e i pericoli che si corre - in democrazia - per una mancata realizzazione delle aspettative. La Germania Nazista risolveva il problema lavorando su ambedue i lati dell’equazione - cioè, attuando delle riforme che portavano un effettivo benessere, ma aumentando, allo stesso tempo, i livelli di controllo sociale. Nella bella definizione di Tim Mason, la Germania Nazista era una combinazione di supermercato, che offriva parecchio, e di workhouse, che disciplinava e regolamentava tutto. 275 Nell’Italia fascista, come è evidente, il supermercato offriva molto poco. Ma, in altri termini, lo Stato prometteva molto, ai fini di promuovere un consenso per il regime. L’estensione della previdenza sociale sotto il fascismo è da collegare alla ricerca, da parte del regime, del consenso ed era indubbiamente in questo campo che il fascismo fu in grado di dimostrare la sua faccia più apparentemente filantropica e paternalistica. Ma - alla luce dei discorsi odierni che sembrano accettare come indiscutibile un vero e convinto consenso popolare per il fascismo - è opportuno ricordare l’altro aspetto della previdenza sociale, sempre presente, quello del controllo e della disciplina sociale. E’ bene rammentare che quell’opzione aperta all’operaio di Weimar, disgustato e deluso dai servizi sociali troppo inefficienti o fastidiosamente invadenti, di cercare altrove le sue soluzioni, o a sinistra o a destra, non era aperta all’operaio it aliano dopo il 1922. In altre parole, per molti italiani accettare il fascismo era una strada obbligata - obbligata non necessariamente dal manganello o dall’olio di ricino ma da una semplice mancanza di alternative. In tali circostanze l’aspetto di controllo sociale implicito nella previdenza diventa predominante; più si estende la penetrazione dello Stato nella vita quotidiana, più lo Stato ha la possibilità di esercitare il suo controllo. In ciò che segue, si cercherà di illustrare l’enorme potere di controllo sociale che la previdenza permetteva al fascismo - un controllo sociale che dovrebbe mettere in dubbio l’esattezza del termine ‘consenso’, come viene spesso applicato al regime. Dall’analisi emerge l’immagine di una camicia di forza che permetteva poche scelte. In effetti, è forse utile andare oltre la semplice domanda, ‘chi era consenziente?’, per chiedersi piuttosto ‘che cosa succedeva al cittadino comune che non accettava le regole del gioco imposte dal fascismo?’. In questo modo è più facile capire quanto era difficile non fare parte del grande ‘consenso’ per il fascismo. L'ambito della previdenza e dell'assistenza sociale fasciste è forse una delle aree più adatte per cercare una risposta a questa domanda. 276 Il fascismo si vantò di aver sviluppato un sistema di servizi sociali tra i più avanzati d'Europa; una rivendicazione spesso ripetuta, piuttosto acriticamente, in una parte della successiva letteratura sull'argomento.277 Sicura275 T. W. Mason, ‘The Containment of the Working Class in Nazi Germany’ in ID. Nazism, Fascism and the Working Class (ed. J. Kaplan), Cambridge 1995, p. 367. 276 È forse opportuno chiarire che qui il mio interesse va essenzialmente agli aspetti di controllo sociale dell'assistenzialismo fascista, piuttosto che alla questione del buon o cattivo funzionamento del sistema. Su questo aspetto, cfr. i diversi lavori di Domenico Preti, in particolare, ‘Per una storia sociale dell’Italia fascista: la tutela della salute nell’organizzazione dello stato corporativo (19221940), in M. L. Betri e A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, Milano 1982. 277 Cfr., per un esempio recente, la biografia di P. Milza, Mussolini, Parigi 1999, p. 887. Il ruolo della previdenza 203 mente, i diversi programmi di assicurazione sociale contro le malattie (in particolare la malaria e la tubercolosi), la disoccupazione, gli incidenti sul lavoro e la vecchiaia attirarono un enorme numero di persone nell'orbita dello Stato - più precisamente, in questo caso, nell’orbita delle svariate organizzazioni o enti fascisti incaricati di dirigere queste attività. Salvo alcune notevoli eccezioni (che vedremo), quasi tutti i lavoratori dipendenti erano coinvolti nel sistema: da un lato pagavano contributi obbligatori, e dall'altro avevano, almeno in teoria, il diritto di godere dei relativi benefici. Esigendo la partecipazione di una gran parte della popolazione, il sistema messo in piedi dal regime aveva profonde implicazioni mobilitatrici. Vale la pena notare, a questo punto, che il diritto al beneficio era in genere definito come tale che discendeva dal lavoro, dalla partecipazione alla produzione, e non dalla cittadinanza; la sic urezza sociale era nell'interesse del lavoratore, ma senza mai dimenticare le superiori esigenze della Nazione … al cittadino lavoratore [incombe il] più elevato dovere sociale dopo quello di portare le armi: il 278 dovere sociale del lavoro. I criteri dell'inclusione poggiavano sul concetto di efficienza nazionale, e in ultima analisi di forza nazionale, piuttosto che su quello di una giustizia sociale basata sulla reazione alla povertà o al bisogno. 279 E invero quando veniva in ballo la questione della povertà, era sempre alla «solidarietà nazionale» che si faceva appello per aiutare i meno fortunati, e non a una più ovvia e diretta solidarietà sociale (sia pur variamente ispirata). 280 Se si deve giudicare dalle loro pubblicazioni interne, i vari enti sembrano esser stati instancabilmente attivi, soprattutto durante gli anni della crisi, quando l'assistenza ai disoccupati conobbe il suo culmine, ponendo le organizzazioni fasciste al centro della scena sociale. E se, dopo la crisi, il livello di questo specifico tipo di assistenza scemò, in molte aree della vita quotidiana l'intervento pubblico crebbe ininterrottamente per buona parte degli anni Trenta. I funzionari locali, a quanto sembra afflitti da una cronica ossessione per le statistiche, erano infaticabili nell'elencare le cifre delle persone assistite e delle somme spese 278 Una sintesi della giustificazione della previdenza fascista può essere trovata in Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale [INFPS], Al di là del lavoro e al di là del salario, Roma 1942, p.10 279 A differenza della SPD in Germania, dove la concorrenza fra l’assistenza laica e quella religiosa fu molto aspra, il fascismo non aveva nessuna difficoltà nell’affidare il soccorso dei poveri alla chiesa catt olica; anzi, in alcune pubblicazioni viene specificato che i contributi dati ai poveri dal fascio (di solito in forma di generi alimentari o di vestiario) andavano consegnati solo dopo che i poveri avessero esaurito le possibilità di ass istenza offerte da altri istituti caritatevoli. Tale posizione la dice lunga sulla sostanziale identità di veduta fra chiesa e fascismo per quanto riguarda l’assistenza. Vedi, per la Germania, Hong, Welfare, pp. 54-65; per l’Italia, l’esempio di Bologna, in Guida dell’assistenza per la città e provincia di Bologna , Bologna 1937, p. 9. In questo contesto va notato che uno dei compiti del fascio locale era quello di compilare, una volta all’anno, a dicembre, un elenco dei poveri bisognosi - elenco che poi veniva pubblicato. Chi compariva sull’elenco aveva il diritto di ricorso contro la sua inclusione (presumibilmente per evitare la vergogna), ma - se fosse poi tolto - non aveva più nessun diritto all’assistenza. Nella guida citata qui sopra, viene specificato che le persone che cercano l’assistenza devono presentare il l ibretto di assistenza corredato dallo stato di povertà (p. 15). 280 Per un rifiuto esplicito del concetto di solidarietà sociale (e, en passant , dei princìpi della Rivoluzione fran cese), cfr. Al di là, cit., p. 7, dove si sostiene che il concetto si risolse «in un beneficio riservato al privilegio di pochi e sottratto in pratica alle capacità acquisitive della generalità dei lavoratori»: un giudizio che molti troveranno più appropriato al caso del fascismo. 204 Paul Corner nel corso dell'anno. I rapporti provinciali documentavano meticolosamente il numero dei disoccupati che avevano ricevuto sussidi in denaro o in natura, delle donne incinte che avevano goduto di controlli sanitari pre -parto, dei tubercolotici che erano stati inviati in sanatorio, dei bambini che avevano beneficiato di vacanze «gratuite» nelle colonie fasciste al mare o in montagna,281 e delle vedove e vedovi cui la generosità delle loro pensioni statali permetteva di vivere una ve cchiaia dignitosa. Le «realizzazioni» fasciste venivano massicciamente propagandate, spesso mediante libri fotografici su carta patinata che mettevano in risalto l'efficienza, la modernità, e soprattutto il debito dell'Italia verso il fascismo. 282 Per il regime, l'assistenzialismo era un meraviglioso veicolo di propaganda, e furono senza dubbio in molti ad avere l'impressione che per la prima volta lo Stato italiano s'interessasse concretamente di loro. E, siccome una quota enorme della popolazione era forzata a partecipare ai programmi previdenziali (obbligatori), la penetrazione di questa propaganda era straordinariamente capillare e verosimilmente molto efficace, coinvolgendo gruppi sociali che in precedenza erano rimasti relativamente fuori della portata dello Stato. La partecipazione era naturalmente una delle parole d'ordine del regime. Attraverso la partecipazione personale, gli italiani si trovavano direttamente coinvolti nei vari programmi, divenendo così gli attori sulla scena; non solo, ma, essendo il bersaglio della propaganda, costituivano altresì il pubblico. Si trattava in effetti dell'area in cui i più o meno reali benefici del fascismo potevano «smussare le armi» dell'opposizione: persone che magari su altri terreni erano avversari convinti del fascismo potevano ve nir tentate di prendere ciò che il regime offriva in termini di assistenza, e di accettare una qualche parziale riconciliazione con esso. Nelle difficili circostanze degli anni Trenta, è molto probabile che la tentazione fosse particolarmente forte. Il contatto con i servizi offerti dallo Stato e gli impegni da esso assunti poterono così efficacemente «neutralizzare» l'opposizione, giacché in questo campo accadeva facilmente che a determinare gli atteggiamenti fosse non tanto la convinzione politica quanto l'opportunismo della necessità immediata. Da un semplice calcolo dei costi e dei benefici risultava che l' omaggio formale al regime comportava tutt’al più un costo morale, mentre i benefici erano qualcosa di molto tangibile. Un esame più approfondito dei meccanismi dell'assistenzialismo suggerisce tuttavia che le attrattive della filantropia fascista, o il potere «neutralizzante» dei servizi offerti, erano soltanto una parte del quadro. Certo, poteva accadere che gli italiani trovassero molti aspetti dei programmi attraenti e utili (ancora oggi, non è difficile trovare dei vecchi la cui memoria del fascismo è legata, per esempio, all'esperienza delle vacanze o delle gite fatte sotto l'egida del partito fascista). Si trattò indubbiamente di esperienze nuove, che coinvolsero vasti settori della popolazione.283 Ma nell'assistenza sociale bisogna vedere anche uno dei meccanismi del controllo sociale. Qui la questione è non tanto ciò che gli italiani riceveva no dai vari aspetti del sistema, quanto ciò che dovevano fare per aver diritto ai servizi e 281 Le colonie erano naturalmente finanziate attraverso gli enti fascisti, a loro volta finanziati dai contributi dei lavoratori, prelevati direttamente sulle buste paga. 282 Per un ottimo esempio, cfr. M. Casalini, Le realizzazioni del regime nel campo sociale , Roma, 1938 283 Da non sottovalutare, in questo contesto, il livello di partecipazione sociale e di collaborazione di gruppo già esistente prima del fascismo attraverso le iniziative private di fabbrica oppure tramite le società di mutuo soccorso. Come in tanti altri campi, il fascismo si vantava di aver inventato l’attività sociale; in realtà la novità del fascismo consisteva nel tentativo di legare questo tipo di attività allo Stato. Il ruolo della previdenza 205 all'assistenza. Come si è già accennato, il primo titolo per partecipare alla maggior parte dei programmi era il lavoro; esso era anzi il fattore essenziale, visto che i contributi venivano prelevati direttamente sui salari. E tuttavia questo titolo non valeva per tutti i lavoratori. I braccianti, per esempio, erano tra le categorie che per la maggior parte del vente nnio si trovarono escluse dalla partecipazione o dai benefici. La cosa veniva giustificata con l'argomento che essi costituivano, come i domestici, una manodopera occupata in modo saltuario e occasionale, cui riusciva per questa ragione difficile versare stabilmente i contributi. In realtà, come dimostrarono gli eventi del 1919 e 1920, i proprietari terrieri semplicemente si rifiutavano di pagare la loro parte dei contributi per i braccianti che assumevano; nel 1922 lo Stato decise che era vano insistere, e lasciò cadere questo requisito.284 Anche quando, a metà degli anni Trenta, i braccianti furono finalmente ammessi a partecipare ai programmi, altri fattori intervennero a limitare i loro diritti al godimento di numerosi benefici. Si rifiutò l'indennità di disoccupazione a quei bra ccianti che avevano altre fonti di reddito o di lavoro, col risultato che anche il possesso di un minuscolo orto o particella (che permetteva agli statistici fascisti di contare queste persone tra i piccoli proprietari) veniva considerato una fonte di reddito aggiuntiva, ed escludeva i braccianti dal beneficio.285 Questo tipo di esclusione la dice lunga sulle sedi del potere nel fascismo: può darsi che negli anni del regime i proprietari terrieri padani fossero diventati politicamente meno importanti, ma rimanevano una lobby abbastanza potente da conservare il controllo della legisla zione riguardante la loro specifica manodopera. Più significativo è il modo in cui i programmi di assistenza operavano nel senso di mettere in riga coloro che erano ammessi a parteciparvi. Qui giocava una varietà di fattori. Ma il punto chiave è che era impossibile accedere ai servizi o ai benefici senza passare attraverso una delle organizzazioni fasciste, e talvolta più di una. La partecipazione nel senso del coinvolgimento negli ingranaggi del regime era a tutti gli effetti e in ogni senso obbligatoria. Occorreva riempire moduli di richiesta che bisognava procurarsi presso l'organizzazione fascista in questione. 286 E di solito era necessario presentare, insieme con la domanda, il libretto di lavoro: la prova che si possedeva un'occupazione, o che la si era posseduta in passato. Il libretto era custodito dal datore di lavoro, e per poterne disporre bisognava richiederlo.287 Gli interessati dovevano esibire un certificato attestante il loro status di disoccupati, rilasciato dall'ufficio di collocamento, e magari anche un certificato medico; dovevano inoltre presentare un resoconto particolareggiato delle condizioni finanziarie e sanitarie di tutti i membri della famiglia. Ne segue che anche le richieste di assistenza dovevano passare innanzitutto attraverso le autorità e i datori di lavoro - di per sé, nulla di sorprendente: si tratta di qualcosa che si ritro284 Cfr. E. Campese, L’assicurazione contro la disoccupazione in Italia, Roma 1927, p.46-8 Quei braccianti che possedevano un piccolo orto erano i più colpiti. Se censiti come piccoli proprietari (cosa che permetteva al fascismo di vantare il successo della politica di sbracciantizzazione), i braccianti non venivano più classificati come lavoro dipendente, e quindi non rientravano nelle categorie con diritto ai benefici della previdenza. Se non censiti come piccoli proprietari (ma solo come braccianti), venivano comun que esclusi dagli schemi in quanto godevano di un secondo reddito (l’orto). Le famiglie dei mezzadri subivano una beffa analoga. La propaganda del fascismo ins isteva sempre sui valori della famiglia mezzadrile – ro busta, autonoma, unita, ecc. - ma la politica previdenziale negava per molti anni qualsiasi sussidio ai familiari di un mezzadro malato di tubercolosi - precisamente perché la famiglia era robusta, autonoma, unita, ecc. e poteva quindi benissimo arrangiarsi da sola. Cfr. INFPS, Al di là del lavoro, p.51 286 INFPS, Al di là del lavoro , p. 31-2 287 INFPS, Al di là del lavoro, p. 29 285 206 Paul Corner va nella maggior parte dei sistemi. Più interessante è il fatto che di solito le domande venivano vagliate da commissioni formate dai funzionari di volta in volta specificamente competenti e da dignitari del posto, inclusi i rappresentanti del PNF locale e dell'amministrazione municipale. Ad esempio, i regolamenti del 1937 per la formazione di certi comitati di assistenza stipulavano la presenza nel comitato del podestà fascista, del capo del Fascio locale, della direttrice del Fascio femminile, del presidente locale dell’Opera Nazionale Balilla, del Presidente locale dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, del Presidente locale della ANC, del capo dei medici locali.288 E il controllo non finiva lì. Se un sussidio di qualche tipo fosse concesso, il beneficiario doveva presentarsi alle autorità regolarmente per il ritiro del sussidio. I disoccupati, ad esempio, dovevano firmare all’ufficio di collocamento tutti i giorni. Nel tardo fascismo, queste commissioni si sarebbero avvalse, oltre che delle informazioni accluse alla domanda, di un rapporto scritto sulla persona o la famiglia interessata, preparato dalla visitatrice fascista. A queste figure, per certi versi analoghe a coloro che nella Germania di Weimar suscitavano tanto risentimento nelle file della classe operaia, perché accusati di ‘ficcare il naso’ in faccende di carattere privato, le autorità assegnavano una vigorosa funzione morale. Il loro compito era di estirpare lavativi e sfaticati, e avevano istruzioni di usare le maniere forti con gli apatici, ipocondriaci morali che si adagiano nella loro miseria come in un letto divenuto comodo col lungo uso ...289 Le visitatrici erano pertanto incoraggiate a menzionare nei loro rapporti il disordine, il sudiciume, la pigrizia e i segni di un eccessivo consumo di alcolici (per esempio bottiglie vuote): tutti fattori che potevano pesare nel decidere se accordare oppure no alle famiglie gli assegni familiari o sussidi in natura, se ammettere i bambini alle vacanze nelle colonie, e così via. Accadeva talvolta che sulla base di questi rapporti venissero adottate contro la famiglia misure disciplinari più drastiche. In virtù della politica demografica del regime, un ruolo speciale spettava all'ONMI, che aveva il potere di sottrarre i figli ai genitori, richiedendone il ricovero in istituzione di educazione e istruzione», «ricovero temporaneo per motivi si pubblica sicurezza (da 9 a 18 anni), ricovero in istituti di rieducazione e di emenda (anormali educabili e traviati da 9 a 18 anni).290 La richiesta di assistenza pubblica rischiava dunque di provocare una dura reazione repressiva da parte delle autorità. Tutte queste procedure significavano naturalmente che sull'accesso ai benefici decidevano autorità vicine al fascismo, quando non specificamente fasciste. E il processo decisionale era articolato in varie tappe: il datore di lavoro, forse il medico, la visitatrice fascista, la commissione. Una situazione del genere non era necessariamente anomala: dopo tutto, i 288 U. Uovo, L’ente opere assistenziali, Padova 1937, pp. 4-5. Partito Nazionale Fascista, Federazioni dei Fasci Femminili, Corso preparatorio per visitatrici fasciste, Novara 1940, p. 12. 290 Ibidem, pp.19 e 22. Il numero di persone sotto i 18 anni tenuti in istituti speciali era salito da 975 nel 1927 al 8.966 nel 1939. Il significato di una tale crescita non è chiaro, ma certamente testimonia a un maggior controllo della condizione dei giovani all’interno della famiglia. Cfr. ISTAT, Sommario di stat istiche storiche italiane 1861-1955, Roma 1958, p. 103. 289 Il ruolo della previdenza 207 benefici statali sono generalmente amministrati da autorità statali. Ma nell'Italia fascista la rigida identificazione dello Stato con il fascismo significava che il sistema era scope rta mente gestito in modo da rafforzare il controllo fascista. In parte, come si è già detto, ciò voleva dire mettere in risalto che l'assistenza era una cosa concreta, e che gli italiani dovevano essere grati per essa allo Stato fascista; e non c'è dubbio che la propaganda fosse estremamente importante. Ma in parte il diritto all'accesso ai benefici del sistema dipendeva dall'approvazione fascista, e questo metteva nelle mani del regime una leva di enorme potenza nei confronti della popolazione. In buona sostanza, era il gioco del bastone e della carota: i benefici c'erano, ma palesemente poteva goderne soltanto chi si conformava alle regole dettate dal fascismo. Gli indocili sarebbero stati puniti, e privati dei benefici. Da un lato il fascismo proclamava le meraviglie del sistema, dall'altro minacciava di escluderne coloro che non ne erano degni, adducendo che danneggiavano la causa nazionale. Si trattava per molti versi di regole non scritte, che potevano soltanto essere indovinate: qualcosa che dava alle autorità un vasto potere discrezionale. Il fascismo costruì un siste ma di benefici che coinvolgeva in teoria il grosso della popolazione e quindi si riservò il diritto di dire chi vi era ammesso e chi no. L'inclusione e l’esclusione erano dunque politicamente determinate. E’ qui che tocchiamo da vicino le questioni del consenso e dell'opposizione sotto il fascismo. L'esplicita repressione poliziesca del dissenso è una cosa, l'esclusione da quelli che appaiono essere i benefici di un sistema assistenziale un'altra. Il secondo strumento è assai più sottile nella sua modalità operativa (si tratta palesemente di una minaccia implicita, che solo di rado occorre rendere esplicita), ma per una gran parte della popolazione, che non sogna un'opposizione aperta e intrepida, è anche verosimilmente il più efficace. L'opposizione aperta è in grado di individuare il suo nemico e di agire in conseguenza; la reazione all'uso discrezionale del potere è molto più difficile, proprio perché i criteri che guidano l'esercizio di un potere discrezionale sono più ardui da individuare con un minimo di certezza. Senza imporre l'ordine mediante draconiane misure repressive, il fascismo poté assicurare la sua presa grazie al controllo della distrib uzione di risorse rela tivamente scarse. Dopo il 1925, è probabile che la maggioranza degli italiani non si sia trovata a compiere la scelta riguardo al fascismo in quanto movimento politico; ma dovette compiere scelte in materia di case, scuole, pensioni, provvidenze sociali: tutte sfere controllate dalle autorità fasciste. In altre parole, lontano dai fascisti che “andavano verso il popolo”, furono gli italiani costretti ad «andare verso il fascismo». Poteva dunque accadere che la scelta del conformismo avesse assai poco il carattere di una scelta: l' esclusione dai sussidi o da altri benefici rischiava di danneggiare la famiglia più che il singolo. Per dirla altrimenti, agli occhi dei più la necessità di adattarsi al sistema fascista appariva così ovvia, che le scelte, in qualunque campo, ne discendevano in maniera quasi automatica. Naturalmente, il potere discrezionale poteva non solo togliere, ma anche dare. Era il rovescio della medaglia. Controllando ogni cosa, le autorità fasciste erano in grado di ricompensare la collaborazione - in effetti, in certi casi, di «comprare» un qualche tipo di consenso. Quando in gioco c’era l’assegnazione di case popolari, la “corrette zza” politica faceva verosimilmente premio sulla realtà dei bisogni. 291 L’attesa di un alloggio, che tende a durare degli anni, è un’eccellente garanzia di buon comportamento. Ma è nell’ambito della 291 A volte le prime case venivano assegnate a quelli che ne avevano effettivamente bisogno, quelle s uccessive a persone meno bisognose. Cfr. P. Corner, Il fascismo a Ferrara 1915-25, Roma -Bari 1974, p. 314. Le stesse priorità sono descritte da G. Salvemini in Under the Axe of Fascism, London 1936, p. 335. 208 Paul Corner concessione di pensioni che la possibilità di usare il potere dello Stato a fini di partito è particolarmente evidente. Secondo l’Annuario statistico italiano - una fonte ufficiale - più della metà delle domande di pensione presentate tra il 1931 e il 1935 furono respinte.292 I motivi non lo conosciamo, ma sembra legittimo presumere la presenza nel comportamento della autorità di un elemento discrezionale. Quest’impressione trova conferma nel fatto che se tra il 1929 e il 1939 il totale generale delle pensioni di invalidità e di vecchiaia salì da 174.588 a 572.515, la quota delle pensioni di invalidità passò dal 31 al 56 per cento. Inoltre, in quest'ult imo ambito la presenza del Mezzogiorno crebbe dal 14 al 21 per cento. In te rmini assoluti, il Mezzogiorno vide dunque il numero dei suoi pensionati d'invalidità passare, in dieci anni, da 7.680 a 6.662.153. 293 Naturalmente il fenomeno può essere letto come un'estensione della rete previdenziale dello Stato a misura che questo allarga il suo controllo; ma lo sproporzionato aumento dei pensionati meridionali fa sospettare (a dire il meno) che il fascismo impiegasse il sistema pensionistico per ampliare il suo controllo politico attraverso un tipico rapporto clientelare. Ciò presupponeva burocrati e medici compiacenti, ma, dato che queste categorie erano generalmente favorevoli al fascismo, è probabile che la cosa non costituis se un problema. Com'è ben noto, conclusioni identiche sono state raggiunte riguardo al rapporto tra pensioni d’invalidità, la Democrazia Cristiana e il Mezzogiorno negli anni Cinquanta e Sessanta. Benché il contesto politico sia diverso nel caso del fascis mo (non c'era la necessità di comperare voti) il regime aveva tuttavia bisogno di un controllo politico della regione capace di assicurare la stabilità politica. L'uso discrezionale del potere poteva operare anche in un altro modo, rafforzando il fascismo secondo il classico schema del divide et impera. È chiarissimo che i complicati meccanismi dell'assistenzialismo e della previdenza, i quali crearono un gran numero di categorie diverse tra i lavoratori, assegnando a ciascuna categoria uno specifico livello di benefici, miravano a distruggere quel poco che restava della solidarietà operaia, perché i singoli lottavano per conservare le differenze che li avvantaggiavano o per innalzarsi al livello di chi aveva privilegi maggiori. Alla frammentazione delle aspettative individuali corrispondeva pertanto anche la frammentazione delle richieste. Ciò permise al fascismo di insediare una serie di gerarchie e di orientare il flusso dei benefici a vantaggio di certi gruppi e a spese di altri. Ciò era vero tra gli operai, dove a mansioni diverse corrispondevano trattamenti diversi, ma era ancor più vero nel caso della divisione tra operai e impiegati. La classe che è stata generalmente considerata la spina dorsale del fascismo (in parte creata, e comunque grandemente rafforzata dal regime) fu compensata con un trattamento vantaggioso a paragone di quello riservato agli addetti a mansioni non d'ufficio. Ciò risulta chiaramente dalla differenza nel valore delle pensioni pagate, a partire dallo stesso livello di contributi, rispettivamente agli impiegati e agli operai. I primi ebbero un trattamento de cisamente preferenziale rispetto ai secondi, se si considera che per il grosso degli operai la quota dei contributi sul reddito totale era sistematicamente più elevata di quella versata dagli impiegati (all'incirca il 15-20 per cento di contro al 10-15 per cento; e dunque più si 292 Citato in G. Gaddi, La misère des travailleurs en Italie fasciste, Parigi 1938, p. 148. Cifre, ma non le conclusioni, tratte da L. Beltrametti e R. Soliani, ‘Alcuni aspetti macroeconomici e redistributivi della gestione del principale ente pensionistico italiano (1919-39)’, in Rivista di storia economica, 2, 16, 2000, tabelle 5 e 6. Un’altra spiegazione dell’aumento nelle pensioni di invalidità potreb be essere che, con il rialzarsi del livello della pensione, persone che prima avevano preferito lavorare ora sceglievano la pensione. Ma una spiegazione economicista e ‘spontanea’ di questo tipo non può risolvere l’enigma dell’enorme discrepanza fra Nord e Sud. 293 Il ruolo della previdenza 209 guadagnava, meno si pagava: i contributi erano in ogni senso regressivi). 294 Di nuovo, la posizione assegnata a ciascuno nella gerarchia era estremamente importante nella determinazione dei trattamenti individuali, ed essa dipendeva dall'uso discrezionale del potere da parte delle autorità fasciste. Non solo, ma all'interno di queste diverse gerarchie il fascismo conservò la divisione tradizionale tra uomini e donne. Non di rado, nelle decisioni contavano sia il genere che la classe, con il genere che invariabilmente seguiva e rafforzava le distinzioni stabilite su una base di classe. Era ciò che il fascismo chiamava la «disciplina delle differenze», che evit ava «l'assurda eguaglianza livellatrice» e imponeva «il rispetto della graduazione gerarchica».295 Ovviamente, nonostante tutto che si è detto finora, non si vuole negare un certo consenso per il fascismo. Alcuni gruppi sociali, per motivi spesso molto diversi fra di loro, vedevano nel fascismo un movimento che meritava il loro pieno e spontaneo appoggio. Va riconosciuto, poi, che un grande pregio della previdenza, come strumento politico, fu il fatto che il controllo sociale veniva realizzato attraverso l’implementazione di politiche di segno di per se molto positivo (salute, natalità, longevità, famiglia). Volendo, non era difficile trovare dei motivi per abbracciare il regime. Il punto è, piuttosto, che un’analisi di alcuni meccanismi della previdenza fascista fa capire quanto era difficile non seguire la linea dettata dal fascismo. In effetti, il sistema fascista richiedeva ed imponeva la partecipazione, almeno formale, del cittadino. Più determinante, il cittadino - per entrare in contatto con i benefici offerti dallo Stato - doveva collaborare con il fascismo, sapendo bene che i poteri discrezionali della burocrazia del regime erano spesso molto ampi e che il comportamento del cittadino poteva incidere molto sulle decisioni delle autorità. In questo senso la previdenza rappresentava una formidabile arma di pressione sul cittadino, spesso togliendo una qualsiasi possibilità di scelta. Se pertanto la parola ‘consenso’ implichi qualche componente di libera scelta, si potrebbe obbiettare che è una parola usata nel modo scorretto per quanto riguarda molti italiani, costretti a venire a patti con il fascismo per normali motivi di sopravvivenza nella vita quotidiana. Piuttosto sarebbe più preciso parlare di una collaborazione obbligata, il che, indubbiamente, significava l’accettazione di un tacito compromesso con il regime. Ma l’importante è riconoscere che le scelte fatte, per arrivare a questo tipo di collaborazione o di compromesso, non hanno lo stesso valore delle scelte fatte in democrazia. Il punto di partenza è diverso - da una situazione di libertà di scelta nel caso della democrazia, da una condizione di scelta obbligata nel caso del fascismo. I criteri di giudizio sul valore di quella scelta devono pertanto essere diversi. In sintesi, il consenso in democrazia è una cosa, il consenso in un regime totalitario è una cosa molto diverso, ed è un errore confondere le due (come sembra che si faccia oggigiorno). Il che non dovrebbe sorprendere. Nessun fascista serio avrebbe mai negato che la ‘libertà fascista’ fosse tutt’altra cosa rispetto alla libertà democratica. Il controllo sociale, realizzato in parte attraverso i meccanismi della previdenza, faceva parte di quell’operazione di irregimentazione della società che era la precondizione di una mobilitazione della nazione. Ma - e la conclusione più importante sta qui - la disciplina e la irregimentazione avevano più importanza rispetto ai possibili benefici portati alla popolazione dalle politiche di we lfare, nel senso che un popolo sano e numeroso non era fine a se stesso ma uno strumento per la realizzazione degli scopi nazionalisti e nazionalizzanti del regime. Il pronatalismo fa 294 L’informazione sulla diversità di trattamento pensionistico fra operai e impiegati è tratta da U. Be lloni, La previdenza sociale a favore dei lavoratori, Novara 1940, pp. 77-96 295 INFPS, Al di là del lavoro, p. 8. 210 Paul Corner scista - politica certamente non limitata all’Italia in questi anni - era strettamente legato nel contesto italiano al discorso degli otto milioni di baionette; le guerre di massa richiedevano popolazioni di massa - e per il fascismo la vera priorità era la capacità di poter minacciare la guerra ed affrontare la possibilità della guerra. Ancora una volta il confronto con Weimar è illuminante. Nella repubblica tedesca, come risposta ad una crescente frustrazioni degli operatori dei servizi sociali, si era verificato un progressivo aumento dei controlli e della disciplina sociale nel tentativo di arriv are ad una maggiore giustizia sociale e un sistema di welfare più efficiente (provocando le resistenze e le defezioni che abbiamo già notato). Nell’Italia fascista, invece, le priorità erano rovesciate, le due facce della previdenza invertite. Era il sistema di welfare e di previdenza a permettere l’imposizione di un rigido controllo sociale, che era il vero obbiettivo della politica sociale. E’ una differenza di non poco conto, anzi, fondamentale - una differenza un po’ sintetizzata nelle fotografie d’epoca di bambine nelle rispettive colonie tedesche e italiane. Le ba mbine di Weimar si limitano a sorridere alla macchina fotografica; le bambine italiane sorridono nella stessa maniera, ma devono anche alzare il braccio nel saluto fascista. Leonardo Paggi Dallo stato di popolazione alla «nazionalizzazione del consumo» La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. ............ La storia non si fa strada, si os tina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell'orario. ....................... (E. Montale, La storia, da Satura I ) Il dibattito sulle origini dell'welfare state segna sicuramente un ritardo rispetto alle descrizioni accurate dei suoi modi di funzionamento, di cui disponiamo per i diversi paesi. E' visibilmente assente da questa ricerca una considerazione storica più complessiva sulle grandi scansioni del XX secolo, nonostante che lo stato sociale rappresenti una peculiarità di eccezionale importanza della esperienza europea, rispetto a quella di altre grandi aree del mondo. 1. Schematizzando, sono sul tappeto tre interpretazioni. La prima, di tipo funzionalista, o machiavellico (ma in senso deteriore), enfatizza la manipolazione che le elités tradizionali esercitano ai danni delle classi popolari, per riconfermare con modeste concessioni la sostanza del loro potere nel processo di industrializzazione. La seconda, di tipo operaista, o socialdemocratico, riconduce lo sviluppo delle politiche sociali alla capacità di contrattazione della classe operaia saldamente organizzata nei singoli contesti nazionali. Questa impostazione, volta a ricondurre la politica di solidarietà sociale alla struttura di classe e ai sistemi di interessi costituiti, non viene nella sostanza modificata quando si fa giustamente notare come in alcuni casi (ad es. l' Olanda) le classi medie svolgano un ruolo importante nella determinazione del sistema di compromessi da cui scaturisce sempre la legislazione sociale. E' questa, mi sembra, la interpretazione dominante, che nel corso degli ultimi 20 anni ha suscitato una mole imponente di studi. 296 C'è infine una terza interpretazione evo296 Per limitarsi ad alcuni lavori più rappresentativi cfr. Walter Korpi, The Working Class in Welfare Capita lism: Work, Unions and Politics in Sweden, London 1978, Gosta Esping Andersen e Walter Korpi, Social Policy as Class Politics in Post -War Capitalism: Scandinavia, Austria and Germany, in John H. Goldtorpe (ed.), Order and Conflict in Contemporary Capitalism, Oxford 1984, Gosta Esping Andersen, The Three World of Welfare Capitalism, Princenton, Princeton University Press, 1990, e per l'accentuazione del ruolo svolto dalle classi medie, Peter Baldwin, The Politics of Social Solidarity. Class Bases of the European Welfare State 1875-1975, Cambridge, Cambridge University Press, 1990. 212 Leonardo Paggi luzionista, o gradualista, che può essere fatta risalire ad un testo del 1950 del sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall, in cui lo stato sociale è presentato come fase terminale di una lunga evoluzione storica della cittadinanza. La cittadinanza civile, anzitutto, configuratasi nel corso del XVIII secolo e definitasi per l'esercizio di alcuni diritti fondamentali di libertà: della persona, della proprietà, dell'espressione, garantiti da uno stato di diritto. La cittadinanza politica, in secondo luogo, conseguita nel corso del secolo successivo, caratterizzatasi invece per i diritti di voto, di informazione, di partecipazione alla vita politica, garantiti dal suffragio universale e dal ruolo preponderante del parlamento. La cittadinanza sociale, infine, ela borata nel corso del XX secolo sulla base dei diritti alla salute, all'educazione, al lavoro, alla pensione, ad un livello di vita minimo, garantiti dalle istituzioni dello stato sociale.297 C'era in questa ricostruzione d'insieme, divenuta poi in qualche modo classica, una impostazione fortemente storicistica, quasi provvidenzialistica, della storia della democrazia europea, difficilmente conciliabile con i suoi percorsi reali, assai più dra mmatici, accidentati e frastagliati. Prime obiezioni a questa vis ione incrementale dello stato sociale sorgono immediatamente, già a prima vista. Elementi di stato sociale si accumulano, come è noto, nella Germania bismarckiana al di fuori e anzi in contrasto con ogni reale parlamentarizzazione dello stato. Ma ancora: negli stessi anni in cui Marshall tracciava il suo quadro storico massicci programmi di stato sociale cominciavano ad essere implementati nelle democrazie popolari dell'Europa orientale, aldifuori e anzi in alternativa a qualsiasi ipotesi di riorganizzazione garantista e partecipativa della vita politica. Ancora prima, negli anni trenta, le dittature fasciste e naziste si erano caratterizzate per aver incluso il tema della protezione sociale nelle loro proposizioni programmatiche e in qualche modo- complesso e dibattuto - anche nelle loro realizzazioni politiche. Insomma, il nesso tra stato sociale e democrazia appare per molti aspetti tutt'altro che lineare. La versione che l'welfare state assume nell'Europa occidentale dopo il 1945, sulla base della inclusione nella democrazia politica di quella che è stata la critica marxista all'idea di cittadinanza uscita dalla rivoluzione francese, è il prodotto di una grande svolta storica, impensabile senza la catastrofe della seconda guerra mondiale. Certo non si può sottovalutare il ruolo che esercita prima l'attrazione, poi, con la guerra fredda, la competizione aperta con la esperienza comunista. Ma l'ipotesi che vogliamo affacciare in questa relazione, come eventuale alternativa alle tre interpretazioni sopra ricordate, è che lo stato sociale possa, e forse debba, essere visto come approdo tutt'altro che lineare di un drammatico rapporto tra stato e vita, che affonda le sue radici nel XIX secolo. Si delinea in questo modo uno spazio di riflessione dai contorni non facilmente definibili, ma di cui si può dire anzitutto, in negativo, che non è riconducibile né alle categorie e al lessico della politica, intesa, quest'ultima, come luogo di definizione della rappresentanza, né alla stratificazione sociale e di classe in quanto tale. Nella sua forma più elementare un nesso tra stato e vita comincia già a definirsi nelle politiche volte a contenere e controllare gli effetti devastanti delle epidemie e delle malattie contagiose. Colera, vaiolo, sifilide, sono in successione storica le grandi sfide che provocano il delinearsi, già a partire dalla fine del XVIII secolo, di una politica della salute pubblica. Le diverse strategie di prevenzione delle malattie contagiose delineano un rapporto tra 297 Thomas Humphrey M arshall, Class, Citizenship and Social Development , New York, Anchor Books, 1965. Per` una ricostruzione del dibattito sulla cittadinanza cfr. Dominique Schnapper avec la collaboration de Christian Bachelier, Qu'est-ce que la citoynnete?, Paris, Gallimard, 2000. Dallo stato di popolazione 213 profilassi e politica che trova una larga varietà di applicazione nei diversi stati europei. Dall'obbligo di quarantena e di vaccinazione, alla sollecit azione di diverse forme di collaborazione volontarie, si determina una molteplicità di risposte non riconducibili tuttavia, in quanto tali, a diversi modelli o inflessioni di democrazia politica. 298 Sicuramente dentro questo ambito cominciano a prendere corpo anche le prime connessioni tra malattia e povertà con possibili effetti di prefigurazione dello stato sociale. E tuttavia proprio ricollocando le politiche sociali dentro lo spazio della biopolitica è facile scoprire come esse rimangano fino al 1945 prigioniere di una oscillazione pendolare tra protezione e repressione che scoraggia l'adozione di qualsiasi forma di teleologismo democratico. Per rimanere al periodo tra le due guerre le significative innovazioni che si determinano con Weimar negli anni venti e con il fronte popolare francese negli anni trenta sono rapidamente riassorbite dentro i quadri di un discorso sulla razza. Significativo anche in Inghilterra il movimento di rinculo, nonostante l'assenza di una deriva fascista. Alle prime innovazioni del periodo edoardiano, succede dopo la guerra, il lungo gelo deflazionista delle politiche di rivalutazione della sterlina. Poi con il decennio successivo, dopo la drammatica sconfitta ele ttorale del Labor del 1931, una incontrastata egemonia conservatrice da cui il paese si sveglierà solo con la rotta di Dunquerque. Unica vera eccezione che conferma la regola di una ininterrotta continuità di sviluppi il caso svedese di cui parleremo più avanti. La menzione che abbiamo fatto del termine biopolitica rende tuttavia necessaria un'ultima considerazione di metodo nella forma di una precisazione importante rispetto all'uso che del termine si trova in corsi, ora in gran parte editi, tenuti da Foucault al College de France nella seconda metà degli anni settanta. Con grande nettezza Foucault coglie qui come quanto meno alla fine del XIX secolo si sia costituito con lo stato di popolazione un nuovo tipo di potere non più deducibile dalla categoria giuridico-politica di sovranità, ed essenzialmente orientato, invece, ad una «statizzazione del biologico». Dal diritto di morte si passa ad un potere sulla vita, un «potere sull'uomo in quanto essere vivente», ossia «un potere di 'fare vivere' e 'lasciare morire'», o ancora di stabilire la cesura tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire». E' la nascita di un razzismo nuovo, rispetto a quello che segna la storia di tutte le culture umane, un razzismo di stato, non confinabile nella sfera delle ideologie, che fa intravedere modific azioni strutturali nella forma stessa del politico. In Foucault la biopolitica si caratterizza così interamente sotto il profilo della dominazione e della repressione. Nazismo e comunismo sono solo prime incarnazioni di questo nuovo tipo di potere, intimamente segnato da una spinta colonizzatrice, nei confronti della quale, egli dice, la società si deve difendere, anche con la rivolta. 299 Sprovvisto concettualmente della categoria di bisogno (quella che fonda la teoria economica di A. Smith e poi la teoria politica di Hegel) Foucault non vede l'ambivalenza continua che caratterizza la storia dello stato di popolazione europeo dal 1870 al 1945, ossia come la politica possa configurarsi, alternativamente o anche simultaneamente, come ma- 298 Peter Baldwin, Contagion and State in Europe 1830 -1930 , Cambridge, Cambridge University Press, 1999. «Chi è venuto prima - si domanda Baldwin al termine della sua lunga indagine, senza pretendere di fornire risposte univoche - la tendenza politica o l'agenda profilattica? E' la politica che determina le strategie di prevenzione, o è il bisogno di profilassi che informa i regimi politici e influenza le tradizioni ideologiche?». Limitatamente al caso francese, ma con una grande dovizia di analisi empiriche, cfr. Louis Mourard - Paul Zylbermann, L'Hygiene de la Republique, Paris 1996. 299 Michel Foucault, «Il faut defendre la societe». Course au College de France.1976, Paris, Gallimard, 1997. 214 Leonardo Paggi nipolazione o accoglimento della vita. E’ solo a partire da una sua ininterrotta e ineliminabile permanenza che il sistema dei bisogni può essere soddisfatto o negato, accolto dentro una logica di riconoscimento o ignorato dentro una logica che vede nel momento comunit ario (il rapporto con l'altro) il fondamento della inautenticità. Con una visione sostanzialmente analoga del moderno come immodificabile gabbia d'acciaio, Heidegger - in un testo del 1949 che nelle controversie degli ultimi dieci anni circa i suoi rapporti con il nazismo non ha cessato di suscitare scalpore - equiparava la meccanizzazione dell'agricoltura, alle camere a gas, e alla bomba all'idrogeno. 300 Meccanizzare per aumentare la disponibilità di cibo e meccanizzare per attuare il genocidio sono ad egual titolo espressioni di un crescente dominio della tecnologia. Ricordo questa visione catastrofica del moderno perché essa è certo decisiva per il Foucault degli anni settanta, come lo è stata, in fondo, nei grandi testi, non meno influenti, del Marcuse degli anni sessanta, ossia in autori che hanno fortemente influenzato una lettura della storia del capitalismo europeo in cui è divenuta sostanzialmente irrilevante la cesura del 1945. La riflessione sulle origini dello stato sociale, o meglio sulle modalità della sua definitiva costituzione, rappresenta un punto di osservazione utile per collocarsi in una prospettiva completamente diversa. Ossia per capire come la storia del XX secolo abbia invece dentro di sé una radicale riformulazione del moderno borghese, o di quello che è stato chiamato anche il «moderno classico»,301 che ha le sue origini proprio nel grande mutamento che si determina nel destino riservato alla vita. La traiettoria con cui la riflessione storica deve confrontarsi è quella per cui la biopolitica dello stato europeo, passando attraverso la catastrofe di due guerre mondiali, si rovescia, alla fine, in consumo di massa. E' in gran parte su questo passaggio che si gioca a mio parere la possibilità di afferrare alcuni importanti tempi di scansione del XX secolo.302 2. Il movimento pendolare tra repressione e protezione dello stato di popolazione trova forse la sua più impressionante esemplificazione in due eventi contemporanei della seconda guerra mondiale, che in qualche modo rappresentano la massima amplific azione di una ambivalenza da sempre esistente. Con il naufragio del Blietzkrieg dinanzi alle porte di Mosca la soluzione finale entra nell'inverno 1941-42 nella sua ultima fase di realizzazio- 300 Riporto una traduzione inglese di Thomas Sheehan comparasa nel suo Heidegger and the Nazis , «New York Review of Books», June 16, 1988». Agriculture is now a mechanized food industry. As for its essence, it is the same thing as the manufacture of corpses in the gas chambers and the death camps, the same thing as the blokades and reduction of countries to famine, the same thing as the manufacture of hydrogen bombs». Per come il tema ritorna nel dibattito cfr. Richard Wolin (ed.), The Heidegger Controversy, Cambridge Ma, The Mit Press, 1992. Ma anche Alan Milchman and Alan Rosenberg (ed.), Martin Heidegger and the Holocaust , Humanity Press, 1997 e Tom Rockmore and Joseph Margolis, The Heidegger Case, Philadelphia, Temple University Press, 1992. 301 Detlev Peukert, Die Weimarer Republik: Krisenjhare der klassischen Moderne, Frankfurt?Main, Surkampf 1987. Ma anche , Zivilisation und Barbarei: die widerspruchliche Potentiale der M oderne: Detlev Peukert zu Gedenken. Herausgegeben von Frank Bajahr, Werner Johe und Uwe Lohaln, Hamburg, Christians, 1991. 302 Riprendo qui temi che ho già cercato di suggerire in L. P., Un secolo spezzato. La politica e le guerre, «Parolechiave», n.12, 1996. Dallo stato di popolazione 215 ne.303Dopo la conferenza di Wansee del gennaio 1942, entra in esecuzione nella primavera la politica di annientamento. In pochi mesi il campo di concentramento si è attrezzato per diventare campo di sterminio. Baumann, appoggiandosi alla interpretazione weberiana che della soluzione finale ha dato la grande ricerca di Raul Hilberg, ha parlato del campo come dimensione del moderno,304 come manifestazione estrema di una volontà di controllo della vita, che si attua attraverso la sospensione di qualsiasi forma di rispetto e di garanzia per la sussistenza del singolo prevista dal diritto nazionale e internazionale. Le vittime sono designate, dice Bauman, non per quello che fanno ma per quello che sono, in ragione di una classificazione che il potere ha fatto indipendentemente dai loro comportamenti. In effetti il campo, ben lungi dal rappresentare una apparizione improvvisa, rappresenta una costellazione radicata nella storia dello stato europeo. Dopo la sua prima apparizione ad opera dell' esercito inglese nella guerra dei Boeri305 esso si riproduce ovunque, in Ge rmania, Austria, Francia, Italia nel corso della prima guerra mondiale. 306 Sono destinati al campo non solo i prigionieri di guerra, ma anche gli stranieri che si trovano sul territorio nazionale all'inizio del conflitto, e gli «indesiderabili», ossia tutti coloro che, a diverso titolo, si pensa che possano intralciare la difesa nazionale. Il campo conosce tuttavia i suoi sviluppi decisivi nel periodo tra le due guerre. Esso ricompare prima che in ogni altro paese all'inizio degli anni venti in Unione sovietica, come strumento di repressione di massa dell'opposizione politica. Ma è solo nel quadro della industrializzazione e della collettivizzazione che il sistema sovietico dei campi di lavoro forzato comincia a conoscere una prodigiosa espansione, fino a diventare dopo il 1941 un supporto di non secondaria importanza per tutto il sistema dell'economia di guerra. Lavoro forzato ed economia di comando entrano in una stretta simbiosi.307 Diversa la traiettoria del campo nazista, che nato anch'esso come luogo di detenzione degli avversari politici conosce a partire dal 1936 una metamorfosi sostanziale con l'adozione del linguaggio dell'igiene razziale e della sociobiologia. 308 L'obbiettivo del campo è da ora in poi quello di preservare la purezza della Volksgemeinschaft. E' solo a partire da questa nuova prospettiva che il numero degli internati comincia a crescere vorticosamente. La guerra non farà che portare alle conseguenze estreme la dimensio303 Su questa connessione, anche se con sfumature e accentuazioni diverse, è ormai concorde la storiografia internazionale. Per tutti cfr. Ph lippe Burrin, Hitler et les Juifs. Genese d'un genocide, Paris, Editions du Seuil, 1989. 304 Zygmunt Bauman, Die Lager-Oestliche, Westliche, Moderne, in Lager, Zwangsarbeit, Vertreibung und Deportation. Dimensionen der Massenverbrechen in der Sowietunion und in Deutschland 1933 bis 1945. Herausgegeben von Dittmar Dohlmann und Gerhard Hirschfeld, Essen, Kla rtext Verlag, 1999, pp. 53-65. Ma di Z. Bauman, cfr. anche Modernity and the Holocaust, Ithaca, Cornell University Press, 1989. 305 Andrzej J. Kaminski, Konzentrationslager 1896 bis heute: eine Analyse, Stuttgart, W. Kohlhammer, 1982. 306 Cfr. adesso la ricerca di Giovanna Procacci sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale uscita da Bollati Boringhieri. Per la Francia Jean Claude Farcy, Les camps de concentration francais de la premiere guerre mondiale (1914-1920), Paris, Anthropos, 1995. 307 Edwin Bacon, The Gulag at War. Stalin's Forced Labour System in the Light of the Archives, London MacMillan, 1994. 308 Cfr. Karin Orth, Das System der nationalsozialistischen Konzentrationlager. Eine politische organizat ionsgeschichte, Hamburg, Hamburger Edition, 1999. Ma anche la ricerca collettiva in due volumi, forte di 40 contributi, Nationalsozialistischen Konzentrationlager. Entwiklung und Struktur, Herausgegeben von Ulrich Herbert, Karin Orth und Christian Dieckman, Goettingen, Wallstein Verlag, 1998. 216 Leonardo Paggi ne catastrofica implicita in questa visione del campo. In una logica di comparazione, che è importante tenere rigorosamente distinta dalla logica di omologazione, è forse possibile dire che in entrambi casi l'esercizio della violenza di massa si inscrive in una visione utopica di sviluppo e di miglioramento della vita. 309 Di quella che potremmo definire l'ontologia esistenziale del campo Primo Levi che ci ha lasciato la caratterizzazione teoricamente più penetrante in un passaggio che chiarisce il fondamento di tutta la sua interpretazione umanistica di Auschwitz : Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta, ecco perché è non-umana l'esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli occhi dell'uomo. La sporgenza fondamentale del campo non è dunque, per Levi, quella di togliere la vita, ma di negare sistematicamente l'essenza dell'umanità quale può estrinsecarsi solo attraverso rapporti di riconoscimento. Il campo non finisce, ad Auschwitz, con la partenza delle SS, il 10 gennaio del 1945, ma solo quando tra gli internati superstiti, abbandonati a se stessi, si riattivano, nello sforzo per la sussistenza fisica, rapporti di gratuità.310 Nello stesso momento in cui la relazione tra stato e vita approda nell'esperienza dello stato razziale al «primato dello stato sul terreno della vita»(Primat des Staates in der Gebiet des Lebens), ossia alla totale inclusione della politica sociale nei quadri della politica razziale311 la storia europea esibisce nell'inverno 1941-42 un approdo radicalmente opposto. La biopolitica diventa riconoscimento e gratuità, nel senso del testo di Primo Levi, ossia disinteressata risposta al pullulare dei bisogni radicati e rimasti storicamente insoddisfatti. Se si vuole, «economia morale». Nel giugno del 1941 Arthur Greenwood, ministro senza portafoglio per i problemi della ricostruzione del gabinetto Churchill, nomina un comitato interdipartimentale sui problemi della sicurezza sociale e i servizi connessi. Un anno dopo nel giugno del 1942 il segretario del comitato William Beveridge ha terminato la stesura del rapporto che sarà pubblicato con eccezionale rilievo il primo dicembre dello stesso anno. L'intreccio tra guerra e politiche sociali, che comincia a delinearsi alla fine del secolo scorso,312 subisce ora una svolta nettissima, uno spostamento di binario, per tornare al linguaggio della visione montaliana della storia, che abbiamo ricordato all'inizio. Nella storia europea fino al 1945 l'interesse dello Stato per le caratteristiche biologiche del popolo è parte integrante del suo sforzo bellico.313 La preoccupazione e la cura per la 309 Il regime sovietico giustifica il Gulag facendo riferimento alla costituzione del 1936 che stabilisce per tutti i cittadini, quindi anche per quelli deportati, l'obbligo di svolgere un lavoro socialmente utile. 310 Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi. Ancora in una logica di comparazione forse potrebbe essere utile un esercizio di lettura parallela di Levi e Solgenitzin. 311 E' questa la tesi s ostenuta da Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann, The Racial State: Germany 1933-1945 , Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Ma per gli svolgimenti complessivi della politica razziale del nazismo cfr. Robert N. Proctor, Racial Hygiene. Medicine, u nder the Nazis, Cambridge Ma, Harvard University Press, 1988 e Gisela Bock, Zwangssterilization im Nationalsozialismus: Studien zur Rassen politik und Frauenpolitik, Westdeutscher Verlag, Opladen 1986. 312 Su questo tema è ancora da leggere Richard M. Titmuss, Essays on the Welfare State, Boston, Beacon Press, 1969, in particolare pp.75-87. 313 Tutta la storia dello stato europeo, dalle sue origini nell'assolutismo, può essere compresa nella varietà delle sue forme di dominio- sostiene Perry Andreson - qualora si parta dalla consapevolezza che esso nasce essenzialmente come una macchina per la conduzione della guerra. Cfr. P. A. , Pas- Dallo stato di popolazione 217 quantità e la qualità della popolazione cresce con il crescere della dimensione di massa della guerra. La guerra dei Boeri ha fatto scoprire con preoccupazione il «deterioramento fisico» della classe operaia inglese da cui proviene la massa del reclutamento.314 Non risulta per questo minimamente intaccato l'assunto fondamentale che lo Stato possa e debba chiedere a suo piacimento la vita dei cittadini. Il primo luglio del 1916 il generale Haig, a partire da valutazioni del tutto soggettive sulla capacità di tenuta delle fortificazioni tedesche, da il via sulla Somme ad una gigantesca offensiva. Dei 100.000 uomini che si lancia no over the top, nella terra di nessuno, 20.000 non faranno ritorno, altri 40.000 rimarranno feriti. Un ulteriore massiccia perdita di vite umane si determinerà così nei giorni successivi per la impossibilità delle strutture di soccorso a fare fronte ad una emergenza di queste proporzioni. E' l'episodio più tragico della storia militare inglese nel XX secolo. E' stato scritto che «la Somme segna la fine di un vitale ottimismo nella vita britannica, che non sarà mai più riconquistato». 315 E forse una considerazione analoga potrebbe essere fatta per la Francia de lla quasi coeva battaglia di Verdun. 316 Ma nel vivo di questa matanza ancora una volta si determina un paradossale intreccio tra guerra e politiche sociali. Nello stesso momento in cui promuove attivamente il sacrificio della sua gioventù migliore, lo stato britannico avvia l'implementazione di politiche di protezione sanitaria e sociale destinate ad innalzare sensibilmente la qualità della vita materiale dei sudditi di sua Maestà.317 La subordinazione della biopolitica alle superiori ragioni della guerra non viene per questo messa in alcun modo in discussione. Il rapporto Beveridge credo possa essere assunto nella storia d'Europa del XX secolo come l'incunabolo di una rottura irreversibile con la logica dello stato di popolazione. Esso si presenta infatti, esplicitamente, come un progetto di nuova società egualitaria da costruire al termine della guerra. Il suo universalismo, ossia il coinvolgimento dell'insieme della popolazione britannica- e non di sue singole sezioni più direttamente connesse allo sforzo bellico- nasce dalla convinzione che la guerra può essere vinta solo se si apre la strada ad una ridefinizione complessiva dei contenuti su cui si basa il nesso tra cittadinanza e identità nazionale. Del resto questa è la tesi che George Orwell ha sostenuto con grande incisività letteraria in The Lion and the Unicorn, scritto e pubblicato nel 1941, quando è ancora presente lo spettro di una possibile invasione tedesca. Accanto a quelli che sono stati identificati come distinti modelli di cittadinanza, rispettivamente quello tedesco e quello francese,318 prende ora corpo un distinto modello inglese in cui la cittadinanza è intesa appunto, nelle parole del Ma rshall del 1950, come «full membership of a community», ossia come accettabile e dignitoso standard of living da cui nessuno può e deve rimanere escluso. E' sages from Antiquity to Feudalism, London, Verso, 1978, e Lineages of the Absolutist State, Lo ndon, Verso, 1979. 314 A questo proposito, cfr. Michael Teitelbaum - Jay Winter, The Fear of Population Decline, Orlando, Academic Press, 1985, pp.13-43. In Francia è la sconfitta di Sedan che determina spinte pro nataliste, nella convinzione che solo una popolazione crescente avrebbe consent ito il riequilibrio dei rapporti di forza con la Germania. 315 John Keegan, The First World War, New York, Vintage Books, 1998, p.299. 316 Per una riconsiderazione della prima guerra mondiale in Francia nell'ottica dell'enorme tributo di vite umane che essa determinò cfr. ora Stephane Audoin - Rouzeau e Annette Becker, 1 4-18, Retrouver la guerre, Paris, Gallimard, 2000. 317 Jay Winter, The Great War and and The British People, London 1986. 318 Rogers Brubaker, Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge MA, Harvard University Press, 1992. 218 Leonardo Paggi questo il modello di cittadinanza destinato a dominare la storia d'Europa dopo il 1945 e a sovrammettersi e a surdeterminare tutti gli altri. La guerra - afferma testualmente il rapporto Beveridge - ha aperto una fase di rivoluzione nella storia del mondo che chiede provvedimenti rivoluzionari e non rattoppi. 319 L'obiettivo del piano è quello di mettere finalmente in essere la «libertà dal bisogno», inteso quest'ult imo non tanto come need, ma, nella sua accezione più assoluta, come want. Pubblicato all'indomani della battaglia di El-Alamein - il primo significativo segnale della controffensiva inglese -320 il piano si rivelerà un grandioso strumento di costruzione del consenso, proprio in quanto impegno ad un mutamento dei contenuti della cittadinanza e, contestualmente, della legittimazione dello stato, con uno spostamento inequivocabile dell'asse della biopolit ica dalla morte alla vita. Al popolo inglese si chiede ormai di combattere in nome della pace e del benessere. La democrazia inglese, inabissatasi con i calcoli non lungimiranti degli appeasers, rinasce ora come sforzo di un popolo che lega la lotta per la sopravvivenza ad un nuovo modello di società. Mi sembra ci sia qui un dato generale da sottolineare. Quanto meno nella sua fase di statu nascenti lo stato sociale implica un mutamento di quello che in gergo hegeliano potremmo chiamare il sistema dell'eticità (Sittlichkeit). La ricostruzione del sistema degli interessi, ovviamente indispensabile per descrivere le diverse dinamiche interne dello stato sociale, non può rendere ragione, da sola, della sua origine. Solo allorché si consuma traumaticamente la morte generalizzata della patria- intesa come forma di legittimazione dello stato europeo fondata sulla guerra- la intima ambiguità della biopolitica, in perenne oscillazione tra protezione e repressione, può finalmente sciogliersi nella direzione del primo termine. 3. E' utile ricordare alla luce di queste considerazioni come le politiche pronataliste - asse portante di tutta la biopolitica europea - che si intensificano negli anni trenta con la prospettiva della guerra (nel 1936 anche la Russia di Stalin mette fuori legge l'aborto),321 vadano incontro ad un fallimento generalizzato. Non sfuggono a questo destino anche paesi come la Francia e il Belgio, in cui si punta soprattutto ad un miglioramento dello standard of living sulla scorta di una politica di assegni familiari. Quello che la cultura dello stato nazione europeo non capisce è la profondità e la complessità di quel fenomeno della caduta della fertilità che esso vuole combattere. Robert Kuczynski, figura di grande rilievo nella demografia europea di quegli anni, è a questo proposito assai esplicito. Si è determinato nell'opinione pubblica europea quello che egli chiama un «cambiamento radicale». Una popolazione crescente cessa di essere considerata un vantaggio, per configurarsi come un peso economico. Secondo il nuovo senso comune che avanza già alla fine del XIX secolo, disoccupazione, povertà, e guerre sono più facilmente evitabili nel filo di politiche malthusiane.322 319 «A revolutionary moment in the world's history is a time for revolution, not for patching», Social Insurance and Allied Services. Report by Sir William Beveridge, New York, Mac Millan, 1942, p. 6. 320 Sulla contestualizzazione storica del documento, cfr. la biografia di Jose Harris, William Beveridge: a Bi ography, Oxford, Clarendon Press, 1997. 321 La migliore analisi comparata delle politiche demografiche adottate in Europa nel periodo tra le due guerre è quella di David G. Glass, The Struggle for Population, Oxford, Clarendon Press, 1936. 322 Robert Kuczynski, Population Movements , Oxford, Clarendon Press, 1936, p. 61. Dallo stato di popolazione 219 Insomma, la caduta dei tassi di fertilità che tutti gli stati nazione europei combattono fino al 1945 (indipendentemente dal credo politico in ciascuno di essi dominante) si configura come il portato di un cambiamento strutturale della società nel suo complesso che si orienta ora a mettere la propria riproduzione fisica sotto controllo consapevole e razionale. Il processo, che parte dalle classi più elevate, per diffondersi rapidamente verso gli strati più bassi della piramide sociale, implica l'adozione di un «voluntary small family system». 323 Di contro a credenze tradizionali di ordine morale e religioso si fa strada una considerazione del benessere materiale come criterio fondamentale della riproduzione. Del resto, il produzionismo demografico sa bene che esso potrà affermarsi solo in un clima di contenimento dei consumi popolari. Il nostro Corrado Gini - ben prima di diventare la personalità più influente nella politica demografica del fascismo - sostiene che la diffusione del benessere determina un rallentamento nella riproduzione degli strati popolari più bassi e quindi anche una attenuazione nel ricambio dell'elite. Una forte polarizzazione sociale è insomma a suo avviso indispensabile per avere un vitalità demografica e conseguentemente una forte presenza polit ica della nazione.324 Accanto alle difficoltà strutturali su cui si scontra il fondamento pronatalista della biopolitica europea, non meno significative sono le tensioni cui viene sottoposta negli stessi anni l'eugenetica, - ossia il costrutto ideologico e culturale che dalla fine del XIX secolo fornisce fino al 1945 la principale legittimazione scientifica alla idea stessa di una politica della vita. Nata in Inghilterra con Francis Dalton, cugino di Darwin, all'ombra del principio che l'eredità e non l'ambiente è responsabile delle qualità fisiche e intellettuali dei singoli, essa sosterrà nei diversi paesi l'idea che una direzione scientifica del processo di riproduzione consente un miglioramento progressivo della specie. Negli Usa dove l'integrazione dei flussi migratori è affidata ad una scala di consumi sempre crescenti, il progetto eugenetico mette in primo piano il volto punit ivo. I tests introdotti nella scuola e nell'esercito vogliono dimostrare «scientificamente» la superiorità razziale dei protestanti anglo -sassoni bianchi e il loro diritto al monopolio del potere. Il movimento per la sterilizzazione obbligatoria, intesa non solo come metodo idoneo al miglioramento della razza, ma anche come punizione per crimini sessuali efferati, raggiunge proporzioni di rilievo. Nel 1931 sono trenta gli Stati che hanno approvato leggi di questo tipo. Solo in California dal 1909 al 1921 vengono emesse 2.558 sentenze di sterilizzazione. 325 La lotta per bloccare il flusso migratorio è l'altro gran- 323 Cfr. A. M. Car - Saunders, World Population. Past Growth and Present Trends, Oxford, Clarendon Press, 1936, pp.106-116. 324 Corrado Gini, I fattori demografici dell'evoluzione delle nazioni , Torino, Fratelli Bocca, 1912. 325 Philip R. Reilly, The Surgical Solution. A History of Voluntary Sterilization in the United States, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1991. L'eugenetica gioca dunque un ruolo non secondario nel clima di restaurazione politica che domina in Usa negli anni venti. Sacco e Vanzetti sono prima di tutto «rossi», ma anche - nelle testimonianze oculari che li conda nnano - inconfondibilmente neri (black), ossia di capelli e di carnagione scura, secondo lo stereotipo razzista dell'immigrante italiano. Gli anni trenta segnano invece una brusca svolta. La grande depressione ha colpito in primo luogo proprio le fortune di quella razza «nordica» che si è voluto esaltare contro le altre, distruggendo nei fatti la pretesa di interpretare la ricchezza e lo status in termini di «genetic fitness». L'affermazione del nazismo costituisce l'altro fattore di crisi dell'eugenetica americana. Rapporti anche livello culturale continueranno, tuttavia, anche dopo il 1933.In particolare Henry H. Laughlin, il principale animatore del movimento americano per la sterilizzazione obbligatoria, non si dimostrerà insensibile ai corteggiamenti nazisti. Cfr. Stefan Kuehl, The Nazi Connection. Eugenics, American racism, and German National Socialism, Oxford/New York: Oxford University 220 Leonardo Paggi de terreno di battaglia dell'eugenetica americana, che raggiunge un successo importante nel 1924 con l'approvazione dell'Immigration Restriction Act. Là dove i problemi della vita non trovano ancora soluzione sul terreno del consumo di massa, l'eugenetica si politicizza. Attorno all'idea di una Lebensreform si cristallizzano in Germania progetti tendenzialmente utopici di riforma sociale. Ad un progetto di riforma sociale guarda esplicitamente Wilhelm Schallmeyer, uno dei padri fondatori dell'eugenetica tedesca. Ma nella stessa prospettiva è coinvolta apertamente la Spd nelle sue diverse correnti politiche, da Kautsky a David.326 Il fenomeno è ancora più pronunciato nella socia ldemocrazia austriaca in ragione dello spiccato impegno riformista sui problemi della salute della classe operaia caratteristico di questo partito. Per Max Adler che sposa con entusia smo la prospettiva della creazione di «uomini nuovi», di contro alle «degenerazioni» indotte dal capitalismo, la scienza delinea con sempre maggiore precisione «un ideale eugenetico di vita bella, sana, tendente al miglioramento della razza umana».327 Attorno al concetto di Rassenhygiene l'eugenetica tedesca mostra, di contro, fin dall'inizio una esplicita contaminazione con il nazionalismo ed il razzismo. Eugenetica e igiene razziale, salute e razza, natura e ambiente,328 si configurano come due sistemi culturali e politici inizialmente contigui, che conoscono poi una progressiva separazione. E' ormai abbondante la letteratura sugli sviluppi che lo stato sociale conosce nella repubblica di Weimar. Ci interessa qui solo ricordare le forti conquiste che si determinano nell' area del riformismo sessuale, quale si sviluppa in particolar modo sul terreno del controllo delle nascite, dell'educazione sessuale, della prevenzione delle mala ttie infettive.329 Alla fine degli anni venti il Sexualreformbewegung si presenta come una coalizione vasta che si avvantaggia della collaborazione di numerose competenze e strutture tecniche e scientiPresgg. Sulla eugenetica americana esiste ormai una letteratura consistente, quanto meno a partire dagli anni sessanta. 326 Peter Weingart, Jurgen Kroll, Kurt Bayertz, Rasse, Blut und Gene. Geschichte der Eugenik und Rassenhygiene in Deutschland, Frankfurt am Main, Surkampf Verlag, 1988. Ma anche Sheila F. Weiss, Race, Hygiene and National Efficiency : the Eugenics o f Wilhelm Schallmayer, Berkeley, University of California Press, 1987. 327 Max Adler, Der Sozialismus und die Intellektuellen, Wien, 1910. Negli stessi anni la difesa della salute e la lotta contro le malattie professionali diventa parte organica della politica del socialismo riformista anche in un paese come l'Italia, dove pure un movimento per l'eugenetica non troverà mai sviluppi di rilievo, certo anche per il peso determinante della Chiesa cattolica. Cfr. Tommaso Detti, Salute, Società e Stato nell'Itali a Liberale, Milano, Franco Angeli Storia, 1993. Anche in Italia il complesso delle politiche sociali esistenti subiranno con il fascismo una riformulazione in termini di razza. Cfr. Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Padova, Marsilio, 1993. 328 E' interessante in questo senso rileggere la insistente polemica di Richard Titmuss contro Galton, nei termini di una contrapposizione dell'ambiente rispetto alla natura (Cfr. Poverty and Population. A Factual Study of Co ntemporary Social Waste , London, Mac Millan, 1938 , e soprattutto Birth, Poverty and Wealth. A Study of Infant Mortality, London, Hamish Hamilton Medical Books, 1943), come luogo culturale in cui è possibile cogliere in modo sintetico il trapasso dall'eugenetica dello stato di popolazione alla nuova cultura dello stato sociale. E' significativo che ancora nel 1943, quando si è aperto ai Comuni il dibattito sul suo rapporto, Beveridge esponga i contenuti del piano in una Galton Lecture dal titolo «Eugenic Aspects of Children's Allowen ces». Cfr. Richard A. S oloway, Demography and Degeneration. Eugenics and the Declining Birthrate in Twentieth Cen tury Britain, Chapell Hill, London, The University of North Caroline Press, 1990, pp. 330 e sgg. 329 Atina Grossmann, Reforming Sex. The German Movement for Birth Control and Abortion Reform.1920-1950, New York, Oxford University Press, 1995. Dallo stato di popolazione 221 fiche e di una larga e attiva presenza della sinistra comunista e socialdemocratica. La crisi finanziaria segnerà un duro colpo per il movimento, diminuendo drasticamente le risorse disponibili. Ma è soprattutto la Gleichschaltung nazionalista, che pone fine all' esperimento. Ciò non toglie tuttavia che in nome della Volksgesundheit il nazionalismo si riappropri esplicitamente di molti obbiettivi del movimento, di un linguaggio e di una tradizione già esistenti, per metterli al servizio di un programma di igiene razziali. Il 14 luglio del 1933 il governo nazista dichiara illegali i partiti politici e insieme approva la legge sulla sterilizzazione. La politica del corpo comincia subito ad affermarsi come tratto fondante dello stato nazista, in un crescendo che porta alla soluzione finale. Sulla genesi di quest'ultima gli studi più recenti della storiografia tedesca tendono a relativizzare il ruolo svolto dell'ideologia razzista in quanto tale, per enfatizzare invece il contesto di esigenze entro cui essa si determina, nella conduzione di una guerra che assume tratti crescentemente catastrofici. 330 Il contesto della soluzione finale è il Generalplan Ost, ossia un grandioso progetto di modificazione della composizione demografica dell'Europa orientale, che prevede la soppressione di circa 30 milioni di vite. Auschwitz sta al centro di questo gigantesco, paradossale, processo di modernizzazione, teso a ridefinire i tratti di una «nuova Europa», a partire da una politica della popolazione, che in una logica rigorosamente maltusiana diventa l'unica variabile a disposizione del potere nazista per attuare i propri progetti di trasformazione dell'Europa. Ed è particolare significativo che le carestie e le deportazioni di massa delle popolazioni agricole che hanno accompagnato in Unione sovietica la collettivizzazione forzata abbiano suscitato una attenzione tutta particolare nei vertici del nazismo .331 In effetti la politica dello sterminio di massa torna incessanteme nte sullo sfondo dei problemi di approvvigionamento, ossia di una scarsità sempre più assoluta di cibo, che il potere nazista cerca di trasformare, in una logica di onnipotenza, da limite in risorsa utile per il compimento del proprio progetto di un «ordine nuovo». 4. L'alimentazione rappresenta un tema di estrema importanza per comprendere quella paradossale doppia dinamica dello stato di popolazione europeo verso il campo e lo stato sociale che ho cercato di mettere in luce. Bisognerà arrivare alla fine degli anni cinquanta perché il cibo cessi di essere in Europa il punto di riferimento essenziale, se non esclusivo, nella determinazione dello standard of living su scala di massa.332 Esso svolge quindi fino al 1945 un ruolo assolutamente centrale nella determinazione degli equilibri mondiali. Ed è fin troppo noto, perché vi si debba insistere, il ruolo dirimente, e imperiale, che svolge nelle due guerre mondiali l'agricoltura americana per quanto riguarda la determinazione de ll'esito finale del conflitto. 330 Gotz Aly - Susanne Heim, Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und die deutsche Plaene fuer eine neue europaeische Ordnung , Hamburg, Hoffmann und Campe, 1991. Goetz Aly, Endloesung: Volkerverschiebung und der Mord an den europaeischen Juden, Frankfurrt am Main, S. Fischer Verlag, 1995. Christian Gerlach, Krieg, Ernaehrung, Volkermord. Forschungen zur deutschen Vernichtungspolitik im Zweiten Wel tkrieg , Hamburg, Hamburger Edition, 1998. 331 Susanne Heim, Bevoelkerungsoekonomie, Deportation und Vernichtung, in Lager, Zwangsarbeiter, Vertreibung, cit., pp. 511-13. 332 Per una visione d'insieme sullo stato degli studi di storia dell'alimentazione, che però si arresta al 1992, cfr. Hans F. Teuteburg (ed.), European Food History. A Research Review, Leicester/London/New York, Leicester University Press. 222 Leonardo Paggi La seconda guerra mondiale rappresenta per le strutture agricole dell'Europa uno stress da cui non si riprenderanno. Antichi equilibri entrano ora definitivamente in crisi, dando poi luogo ad un processo di rapidissima trasformazione che all'inizio degli anni sessanta porta, sul continente, al collasso generalizzato di una plurisecolare civiltà contadina. 333 Rappresenta in questo contesto una singolare eccezione l'esperienza dell'Inghilterra la quale per due guerre mondiali, smentendo ogni aspettativa contraria connessa alla posizione geografica e alla dipendenza dalle importazioni consolidatasi con una lunga pratica di liberoscambio, riuscirà a risolvere in modo estremamente brillante i grandi problemi di approvvigionamento alimentare strutturalmente connessi ad uno stato di bellig eranza.334E' sicuramente qui che bisogna cogliere uno dei più importanti fattori permissivi nel decollo precoce di uno stato sociale compiuto. Nella prima guerra mondiale il governo Lloyd George intraprende nel 1917-1918 una duplice politica di intervento sul terreno della produzione 335 e della distribuzione,336 andando ad una soluzione del problema del cibo che si rivelerà essere componente essenziale della vittoria. Mentre la «politica dell'aratro» (plough policy) estende la superficie coltivata ai terreni meno produttivi, un rigido controllo della distribuzione punta risolutamente ad eliminare la formazione di grandi disparità nella dieta dei ricchi e dei poveri. Tutto il sistema dell'economia agricola conosce ora una ristrutturazione a partire dai bisogni del consumatore. Alla fine della guerra il Ministero del cibo verrà immediatamente smantellato, nel quadro di una cultura che guarda ancora alla presenza dello stato solo in termini di emergenza. Ma ciononostante, ancora nel 1928, William Beveridge, vestendo i pani dello storico, poteva descrivere e commentare quella esperienza come una grande occasione che era stata colta per migliorare l'alimentazione del popolo inglese.337 Gli anni trenta sono segnati dal punto di vista della ricerca scientifica da un grande dibattito sulla nutrizione e sul «protective food», ossia il cibo che in virtù del suo contenuto proteico e vitaminico consente, oltre la sopravvivenza garantita dai carboidrati, una crescita sana dell'organismo umano. Un grande rapporto della Lega delle Nazioni pone il problema all'a ttenzione della classe dirigente mondiale. 338 Il tema trova una eco particolarmente viva in Inghilterra. 339 Le ricerche di John Boyd Orr da un lato, e William Crawford e Herbert Broadley dall'altro,340 indagano il rapporto tra cibo, salute e reddito, portando alla luce una profonda segmentazione e polarizzazione di classe della dieta alimentare del popolo ingle333 Cfr. Bernard Martin and Alan S. Milward (ed.), Agricuture and food supply in the Second World War/Landwirtschaft und Versorgung im Zweiten Weltkrieg, Ostfildern, Scripta Mercaturae, 1985. 334 Mancur Olson, The Economics of Wartime Shortage: A History of British Food Supplies in the Napol eonic Wars and in World Wars I and II, Durham, NC, Duke University Press, 1963. 335 Peter E. Dewey, British Agriculture in the First World War, London, Routledge, 1989. 336 Margaret L. Barnett, Government Food Policies in Britain during World War One, Boston, Allen & Unwin, 1985. 337 William H. Beveridge, British Food Control, London, Oxford University Press, 1928. 338 The Relation of Nutrition to Health, Agriculture and Economic Policy. Final Report of the mixed Committee of the League of Nations, Geneve, 1936. 339 Madaleine Mayhew, The 1930s Nutrition Controversy , «Journal of Contemporary History», Vol. 23, n. 3, July 1988. 340 John Boyd Orr, Food, Health and Income; Report on a Survey of Adequacy on Diet in Relation to Income, London, MacMillan, 1936. William Crawford and Herbert Broadley, The People's Food, London/Toronto, W. Heinemann, 1938. Per una visione d'insieme cfr. John Burnett, Plenty and Want. A Social History of Food in England from 1815 to the Present , London, Scolar Press, 1989. Dallo stato di popolazione 223 se, che provoca sensazione e accesi dibattiti nell'opinione pubblica del paese. La seconda guerra mondiale vede una nuova e ancor più netta fase di modernizzazione dell'agricoltura inglese. La meccanizzazione passa dal 1939 al 1946 da due a cinque milioni di cavalli vapore, mentre raddoppia e in certi casi triplica l'uso dei fertilizzanti. Tra il 1939 e il 1943 la produzione raddoppia in termini di calorie, mentre i sistemi di intervento razionale nella distribuzione sperimentati nella prima guerra mondiale vengono ripresi con non minore successo. 341 L'esperienza tedesca è in qualche modo simmetricamente opposta. Nella prima guerra mondiale la penuria di cibo esplode già nel 1915 per aggravarsi poi ininterrottamente negli anni successivi.342 La crisi dell'approvvigionamento non solo introduce tensioni sociali sempre più forti nel fronte interno, destinate poi ad esplodere nel novembre 1918, ma svolge un ruolo decisivo anche nella determinazione del collasso militare. La memoria della fame di quegli anni rimarrà viva nel popolo tedesco. Nel corso della seconda guerra mondiale si trasformerà quasi in un incubo per il nazismo. Già nello Zweites Buch del 1928, una continuazione del Mein Kampf pubblicata postuma, Hitler si misura a fondo con il problema, cercando di definire contestualmente la posizione della Germania nel quadro delle relazioni di potere mondiali. L'analisi parte dall'affermazione perentoria che sulla base del suo territorio nazionale la Germania non è in grado di garantirsi cibo a sufficienza. A maggior ragione nel momento in cui lo standard of living americano finisce per indurre la richiesta di sempre più alti livelli di consumo anche negli altri paesi. Correttamente Hitler individuava nella ampiezza del mercato interno la ragione essenziale della ininterrotta cre scita della influenza economica politica degli Usa. La corrispettiva tendenza al declino economico della Germania poteva essere arrestata e rovesciata solo con la forza delle armi, ossia attraverso la conquista di spazi più ampi. La spada prima dell'aratro - come egli diceva - le armi prima dell'economia. 343 In questa perentoria affermazione del primato della politica,344 sono già impliciti tutti i successivi sviluppi catastrofici del nazismo e le ragioni del suo fallimento. La politica di Darré volta a stabilizzare il consenso al nazismo del tradizionale blocco contadino sulla base di ideologie conservatrice e di assai tradizionali dispositivi protezionistici, con un impasto che si ritrova, ad es. anche nel fascismo rurale francese di quegli anni, blocca evidentemente qualsiasi trasformazione produttiva dell'agricoltura tedesca, né tanto meno può offrire sostegno ai progetti espansivi di Hitler. Il passaggio anche terminologicamente significativo dalla Agrarpolitik alla Ernaerungspolitik che si compie alla vigilia della guerra, rappresenta l'assunzione di una prospettiva europea dei problemi dell'alimentazione che sarà progressivamente basata sui metodi della espropriazione violenta delle risorse e soprattutto su 341 A questo proposito anche Eric Hobsbawm, Industry and Empire, Penguin, 1968, pp. 204-206, che sottolinea a più riprese le peculiarità dell'agricoltura britannica rispetto ai paesi continentali. 342 Belinda Davis, Home Fires Burning: Food, Politics, and Everiday Life in World War Berlin, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2000. Jurgen Rund, Ernahrungswirtschaft und Zwangsarbeit in Raum Hannover 1914 bis 1923, Hannover, 1992. Anne Roerkohl, Hungerblokade und Heimatfront: die kommunale Lebensmittelversorgung in Westfalen wahrend des Ersten Wel tkrieges, Dtuttgart, F. Steiner, 1991. 343 Hitler Secret Book , New York, Grove Press, 1962. In particolare il capitolo IX, pp. 100 e sgg. 344 Si ricordi ancora il saggio di Tim Mason, The Primacy of Politics. Politics and Economics in National Socialist Germany, in Stuart J. Woolf (ed.), The Nature of Fascism, New York, Vintage Books, 1969, pp.165 e sgg. 224 Leonardo Paggi di una politica di annientamento per fame dei «surplus» di popolazione.345 Nel linguaggio impeccabilmente economico e persino tecnocratico del libro di Herbert Backe sulla «libertà di alimentazione» dell'Europa 346 è possibile ancora leggere, in trasparenza, tutti gli orrori che si produrranno, soprattutto in Europa orientale, nel quadro di una politica di Grossraum e di «Fortezza Europa». Mi sembra si ponga qui un grosso tema di riflessione relativo al ruolo fondamentale che svolgono le stratificazioni sociali e i rapporti economici nelle campagne nell'incoraggiare o nell'ostacolare politiche di riforma e di stato sociale. Se infatti è e vero che l'industrializzazione avanza comunque attraverso l'introduzione di sempre nuovi prerequisiti, secondo il noto modello interpretativo di Gerschenkron, è altrettanto vero che la persistenza di blocchi agrari nel continente (Germania, Francia e Italia) determinerà strozzature produttive, destinate soprattutto negli anni trenta a inasprire tutta la politica della vita dello stato di popolazione, accentuando, nello stesso tempo, quella continua ambivalenza dei processi di modernizzazione che contrassegna tutta la storia d'Europa fino al 1945. 5. La nuova cultura dei diritti umani, quale si annuncia già nel preambolo della Carta delle Nazioni unite, per poi esplicitarsi pienamente nella Dichiarazione universale del 1948, registra ed enfatizza anche la costituzione dello stato sociale . E' forse questo l'ultimo momento in cui la storia del vecchio continente produce significati e valori di portata mo ndiale. L'ortodossia liberale, a partire da Hajek, interpreterà la riproposizione dell'universalismo che viene fatta in questi testi come pura e semplice riaffermazione della tradizione illuminista dei diritti naturali (Hobbes, Locke, Paine, Jefferson), contestando simultaneamente la possibilità di includere tra i diritti dell'uomo - come avviene nella seconda parte della Dichiarazione - il complesso di nuovi diritti che definiscono il contenuto dello stato sociale (diritto al lavoro, all'educazione, alla sicurezza sociale, ad un salario decente, alla libertà di associazione sindacale). 347 In realtà la contestualizzazione storica di questo doc umento, quale è oggi resa possibile anche da prime esegesi storiche del dibattito che portò alla formulazione dei singoli articoli,348 sta a testimoniare il ruolo centrale che nella riproposizione dei diritti di garanzia svolge la consapevolezza della assoluta peculiarità storica della violenza nazista, peraltro nel 1948 ormai conosciuta e documentata in tutti i suoi aspetti, attraverso la lunga serie dei processi di Norimberga. Tutta la riaffermazione del ruolo del governo della legge e del valore vincolante della norma presente nel primo gruppo di articoli della Dichiarazione si spiega proprio alla luce dell'esperimento nazista di uno stato della prerogativa approdato ad un incontrollato potere sulla vita. La Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, approvata dal consiglio d'Europa a Roma il 4 novembre del 1950, si aprirà non certo casualmente con l'affermazione, contenuta nel suo primo articolo, secondo cui «il diritto di ciascuno alla vita 345 Gustavo Corni, La politica agraria del nazionalsocialismo 1930-1939 e Gustavo Corni - Horst Gies, Brot, Butter, Kanonen: die Ernaehrungswirtschaft in Deutschland unter der Diktatur Hitlers, Berlin, Akademie Verlag, 1997. 346 Herbert Backe, Um die Nahrungsfreiheit Europas: Weltwirtschaft oder Grossraum, Leipzig, W. Goldmann, 1943. 347 Per la ricostruzione dei passaggi fondamentali del dibattito teorico sui diritti umani, cfr. D. D. Raphael (ed.), Political Theory an d the Rights of Man, London, Macmillan, 1967. 348 Cfr. Johannes Morsink, The Universal Declaration of Human Rights: Origins, Drafting, and Intent, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999. Dallo stato di popolazione 225 è protetto per legge». In effetti tutta la nuova cultura dei diritti umani ruota attorno a questa assoluta centralità del diritto alla vita, nel quale la condanna storica e la stigmatizzazione del nazismo si salda strettamente con la proposizione solenne di nuovi contenuti di civiltà, secondo un andamento che in qualche misura riflette fedelmente quell'intreccio paradossale di morte e vita che ha segnato negli anni della guerra la fine dello stato di popolazione europeo. E' proprio in questo rinnovato concetto di vita che si determina la saldatura storica e concettuale tra diritti civili e diritti sociali. Del resto lo stesso progetto rooseveltiano di Nazioni unite si lega strettamente fin dal 1943 - ed è questo il tratto che lo distingue dalla precedente Lega delle Nazioni - all'idea di un grande sviluppo economico generalizzato visto come premessa indispensabile di una convivenza pacifica tra i paesi ed i popoli. 349 Intervenendo nel dibattito che si apre sulla Dichiarazione universale C. C. Macpherson - lo studioso della filosofia politica inglese del '600 - ha sostenuto che l'individualismo possessivo dei diritti naturali sia da ricollegarsi storicamente ad una situazione in cui l'ordine si configura come superamento di un conflitto causato da una molteplicità di desideri, in situazione di scarsità. Dietro la nozione di diritti umani occorre vedere, a suo avviso, la possibilità di una abbondanza capace di disinnescare il conflitto .350 Insomma è possibile dire nel linguaggio della teoria politica che lo Stato sociale rovescia in qualche modo i termini costitutivi del problema dell'ordine così come questo si configura nel classico modello hobbesiano di stato. Contestualmente alla morte della patria, l'ordine, invece che sulla repressione dei desideri, tende ad instaurarsi su di una loro progressiva soddisfazione. Pa ce e sviluppo si presentano non a caso nella esperienza storica dello stato sociale europeo dopo la seconda guerra mondiale, come nozioni tra di loro strettamente interrelate. «Non più guerra tra noi» è la parola d'ordine che, contestualmente, apre alla conferenza dell'Aja del 1948, il processo di unif icazione europea. La saldatura tra cittadinanza e standard of living, quale viene mediata in Europa da un rigetto quasi fisiologico della esperienza di guerra, indica dunque una peculiarità importante del vecchio continente, rispetto al modo in cui tema del consumo è riproposto, a partire dalla guerra fredda, sull'altra sponda dell'Atlantico. Non è un caso, in questo senso, che la più precoce e in fondo più nitida presentazione dei contorni dello stato sociale si determini in un paese come la Svezia storicamente defilato, in tutto il XX secolo, rispetto alle logiche della politica di potenza. 351 6. I rapporti della Lega delle nazioni sulla ricostruzione postbellica sottolineano a più riprese l'«assenza della voce del consumatore» nella organizzazione delle economie europee precedenti alla II guerra mondiale.«Poiché il consumatore era così largamente inespresso 349 Su come la gestazione del progetto delle Nazioni unite si intrecci nella strategia rooseveltiana ad una grande ipotesi di crescita dell'economia mondiale per cui pace e sviluppo tendono a fondersi strettamente, cfr. Ruth B. Russel, A History of the United Nations Charter. The Role of the United States 1940-1945, Washington, Brooking Istitution, 1958. In una prospettiva più storiografica, cfr. Robert Hilderbrand, Dumbarton Oaks: The Origins of the United Nations and the Search for Postwar Security , Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1990. 350 C. B. Macpherson, Natural Rights in Hobbes and Locke, in D. D. Raphael (ed.), Political Th eory and the Rights of man, cit., pp. 1-15. 351 Il recente studio di Piero S. Colla, Per la nazione e per la razza. Cittadini e esclusi nel «modello svedese», Roma, Carocci, 2000, mi sembra offra una documentazione di estremo interesse per quanto riguarda quella faticosa enucleazione dello stato sociale dallo stato di popolazione che qui cerchiamo di argomentare. Non mi pare contenga prove sufficienti per andare ad una revisione di un giudizio consolidato sull'esperienza svedese. 226 Leonardo Paggi - si affermava testualmente - esso fu in larga misura ignorato politic amente». 352 In effetti la figura del consumatore non compare ancora nemmeno nel rapporto Beveridge. Merita quindi attenzione il fatto che Bert Ohlin già nel 1938 usi la formula icastica di «nazionalizzazione del consumo» per caratterizzare il programma della socialdemocrazia svedese, in contrasto con il tradizionale orientamento del socialismo marxista volto alla nazionalizzazione della produzione. 353 In effetti proprio nel contesto svedese è possibile cogliere con particolare chiarezza la compiuta metamorfosi della vecchia politica di popolazione dello stato neomercantilista in politica sociale. Rompendo con la tradizione di un riformismo liberale di tipo neo-malthusiano (che ha annoverato anche Keynes tra le sue file), secondo cui una fertilità decrescente può rappresentare un modo idoneo per realizzare miglioramenti nello standard of living, la socialdemocrazia svedese adotta una polit ica pronatalista. Il capovolgimento del modo in cui negli stessi anni le dittature fasciste perseguono un obiettivo analogo scaturisce dal fatto che non gli interessi della nazione e dello stato, ma quelli della famiglia e dell'individuo devono essere assunti come punto di partenza. Le famiglie devono avere figli - scrive Myrdal - non in obbedienza allo stato, ma per loro pro pria felicità ... almeno in Svezia nessuno alleva figli per gli interessi dello stato.354 La politica di popolazione viene così riletta in termini di consumi, decomponendosi in una serie di obiettivi di tipo essenzialmente qualitativo: casa, alimentazione, salute, educazione, istruzione. La rilettura del problema della vita in termini di consumo approda anche ad una grande valorizzazione del ruolo sociale della donna. L'intervento dello stato è sentito anche come forma di controllo della cultura antifemminista e patriarcale ereditata dal passato. Nella spiegazione della precocità del compiuto riformismo svedese si è fatto riferimento ad una struttura delle campagne caratterizzata da una piccola proprietà contadina, che non contrasta, come avviene nei più grandi paesi del continente, una graduale evoluzione del liberalismo in socialdemocrazia. Ma oltre che di una spontanea cooperazione tra riformismo agrario e riformismo operaio il superamento dello stato di popolazione si avvantaggia in Svezia di una tradizione neutralista che ha teso a prospettare lo sviluppo del paese in uno spazio estraneo alla logica di schieramento. Si anticipa insomma in Svezia quella sorta di smilitarizzazione dello stato che accompagna dopo il 1945 le politiche di welfare nei maggiori paesi europei. In questo senso lo stato sociale si distingue nettamente dalla consumer democracy che prende corpo negli Stati uniti nel fuoco della guerra fredda. Nel marzo del 1951 la prestigiosa rivista «Harvard Businness Review» pubblica una sorta di pubblicità/vignetta costruita sulla contrapposizione di due Joes: Joe Stalin e Joe Doekes, prototipo dell'uomo d'affari americano. Il messaggio forte contenuto nel testo e nelle immagini (vedi fotocopia acclusa in appendice) si precisa in questa affermazione centrale: «A Joe Stalin fa più paura la nostra economia competitiva che i nostri cannoni. Egli finirà 352 Series of League of Nations Publications, Economica and Financial, Commercial Policy in the Post-War World. Geneva, 1945, p. 24. Ma cfr. anche, nella stessa serie, The Transition from War to the Peace Economy, Geneva, 1943, che afferma perentoriamente la necessità di sostituire la economia del consumo alla economia della produzione, a partire da una considerazione nuova dei bisogni determinati dei singoli individui. 353 Berth Ohlin, Economic Progress in Sweden in «Annals of American Academy and Political Science», 1938, n. , p.5. Si tratta di un numero unico interamente dedicato alla presentazione dell'esperimento svedese. 354 Gunnar Myrdal, Population Problems and Policies, «Annals of the American A cademy», cit., p. 205. Dallo stato di popolazione 227 per vincere se noi perdiamo quello standard of living che ha reso Joe Doakes, non Joe Stalin, l'uomo più forte del mondo». 355 La vera scommessa della guerra fredda, insomma, sta nella capacità di mantenere l'economia in espansione anche in situazione di riarmo. Si tratta di una volgarizzazione dei concetti propri del documento n. 68 del National Security Council del marzo 1950 in cui Paul Nitze, il grande architetto americano della politica di guerra fredda, argomenta per la prima volta i principi del keynesismo militare, secondo cui la produzione di armi è destinata ad avere positivi effetti di ricaduta sui livelli dei consumi privati.356 Nello stesso periodo il sociologo David Riesmann, futuro autore del noto libro The Lonley Crowd, pubblica un breve racconto in cui si fantastica di una «operazione abbondanza» in virtù della quale Mosca e le maggiori città dell'Unione sovietica sono sottoposte quotidianamente ad intensi bombardamenti di beni di consumo (calze di naylon, sigarette, orologi) che sconvolgono e disarticolano, molto meglio che le bombe, tutta la vita sociale del paese. 357 Paradossalmente si ritrova in questi testi che riflettono il senso comune dell'epoca una percezione dei grandi mutamenti allora in corso più forte e sicura di quella rintracciabile nel pensiero neoliberale della guerra fredda. Per Hanna Arendt di The Human Condition, del 1957, il fatto che il discorso sul sistema dei bisogni, o, come ella dice, su «il processo vitale inteso nel suo senso biologico più elementare», emerga prepotentemente nello spazio pubblico, uscendo dalla sfera del privato in cui era stato precedentemente sempre confinato, rappresenta un elemento di crisi della politica come luogo di affermazione della libertà. Nel suo primo e forse più importante libro del 1958 Habermas parla della democrazia come dialogo di un opinione pubblica critica. Mentre tutta la vasta letteratura americana sul pluralismo (Hart, Almond, Verba Kornhauser), quale si articola a partire sulla riscoperta di Tocqueville, inteso come guida alla lettura del cosiddetto «eccezionalismo americano», sostiene la tesi, ormai dimostrata del tutto infondata dallo stato degli studi, che fascismo e nazismo si affermano in Europa per la mancanza o la povertà del tessuto associativo. Abbiamo cercato di suggerire in questi appunti che la considerazione del nesso tra guerra, consumo e democrazia rappresenti un approccio più realistico per comprendere come i sistemi politici dell'Occid ente si riarticolano dopo il 1945. Ma quale occidente? Questa categoria che ha dominato per tutta la guerra fredda ha forse perso molto della sua antica pregnanza. Non a caso i tentativi di riaccreditarla vanno di pari passo con sempre nuove riproposizioni di quella logica amico/nemico che ha informato per cinquant'anni tutti i modi di pensare il mondo. La riflessione storica sulla democrazia può forse oggi procedere più speditamente mettendo invece l'accento proprio sulle differenze con cui essa si sviluppa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulle due sponde de ll'Atlantico. 355 A couple of Joes to see you , sir, «Harvard Businness Review», a. XXIX, n. 2, marzo 1951, p. 23. Per il testo del documento, cfr. Thomas Etzold and John Lewis Gaddis (Ed.), Containment: Documents on American Policy and Strategy 1945-1950, New York, Columbia University Press, 1978. 357 Davi Riesman, Abundance for What? And Other Essays, New York, Doubleday, 1964, pp.67-79. 356 228 Leonardo Paggi INDICE PAUL CORNER, Introduzione......................................................................................................................3 GIOVANNA PROCACCI, Welfare-warfare. Controllo sociale, assistenza e sicurezza 1880-1 919................................................................................................................................... 5 1. DUE TIPOLOGIE A CONFRONTO. ...........................................................................................................5 2. DALLA FINE SECOLO ALLA GUERRA MONDIALE. GERMANIA E GRAN BRETAGNA......................7 3. L'ITALIA DALL'UNITÀ ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ..............................................................10 4. QUADRO DELLE RIFORME IN EUROPA ALLA VIGILIA DELLA GUERRA.........................................19 5. W ARFARE -WELFARE . CONTROLLO SOCIALE , GESTIONE DEI «BISOGNI », E INTERVENTI NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E NEL MERCATO DEL LAVORO...................................................................20 6. L'INTERVENTO DELLO STATO IN ITALIA, TRA ASSISTENZA, CONTROLLO SOCIALE E REGOLAMENTAZIONE DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI (1915-1918)...............................................30 7. LA LEGISLAZIONE SOCIALE TRA GUERRA E DOPOGUERRA. ...........................................................41 LUIGI TOMASSINI, Il mutualismo in Italia.............................................................................................51 LA LEGGE BERTI .......................................................................................................................................52 IL MUTUALISMO ITALIANO 1848-1922...................................................................................................53 IL DIBATTITO SUL MUTUO SOCCORSO E LA LEGGE DEL 1886............................................................57 IL PROBLEMA DELLE PENSIONI E LA LEGGE SUL RICONOSCIMENTO GIURIDICO..........................58 L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE DEL 1886............................................................................................61 GEOGRAFIA E SVILUPPO DELL ’APPLICAZIONE DEL RICONOSCIMENTO GIURIDICO SECONDO LE STATISTICHE MINISTERIALI DEL 1895 E DEL 1904..............................................................................65 LE SOCIETÀ AGRICOLE ..............................................................................................................................68 LE SOCIETA’ “OPERAIE”...........................................................................................................................69 LE SOCIETÀ “ ARTIGIANE”........................................................................................................................71 LE SOCIETÀ “ PROFESSIONALI” ................................................................................................................72 LE SOCIETÀ “MILITARI ”..........................................................................................................................75 LE SOCIETA’ “MISTE” O “ GENERALI ”.....................................................................................................76 NICOLA LABANCA, Militari, politica e militarizzazione in Italia..................................................137 PREMESSA METODOLOGICA E IMPOSTAZIONE DELLA RICERCA.....................................................137 UNA FONTE...............................................................................................................................................140 IL MAGGIO 1898 ........................................................................................................................................141 IL REGICIDIO E I RAPPORTI FRA MILITARI E POLITICA (1900) ........................................................143 LINEE DI RICERCA ....................................................................................................................................149 GIANCARLO FALCO, Crisi bancarie e trasformazione del sistema finanziario italiano fra prima guerra mondiale e restaurazione monetaria. Il Banco di Roma. ........................................................151 1. PREMESSA : L ’IMPORTANZA DEL SALVA TAGGIO DEL BANCO DI ROMA NEGLI ANNI VENTI ..151 2. IL BANCO DI ROMA AGLI INIZI DEL NOVECENTO: IL FALLIMENTO DI UN TENTATIVO DI TRASFORMAZIONE. ..................................................................................................................................154 3. IL RINNOVAMENTO DEL BANCO DI ROMA DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE: LA CREAZIONE DI UN GRUP PO INTEGRATO. .............................................................................................158 4. LA CRISI DEL BANCO E LA LUNGA AGONIA: 1922-1923..................................................................169 5. GLI OSTACOLI ALLA RIPRESA . ...........................................................................................................174 FABRIZIO BIENTINESI, Ricerca del consenso e gruppi di pressione: la riforma tariffaria e la politica commerciale dell’Italia, 1903-1930...........................................................................................177 1. LE PREMESSE .........................................................................................................................................177 2. DALLA PREVALENZA DEGL I INTERESSI AGRICOLI ALL’AFFERMAZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI INDUSTRIALI , 1903-1918.........................................................................................178 3. DALLA FINE DELLA GUERRA ALLA GRANDE CRISI: UNA POLITICA DI COMPROMESSI............181 4. LA SPECIFICITÀ DEL CASO ITALIANO ..............................................................................................191 ALESSANDRO POLSI, Casse di risparmio, elite locali e politiche assistenziali durante il fascismo. considerazioni preliminari......................................................................................................193 PAUL CORNER, Il ruolo della previdenza e dell'assistenzialismo sotto il fascismo.....................201 LEONARDO PAGGI, Dallo stato di popolazione alla «nazionalizzazione del consumo»..............211