Orientamenti per la gestione
del patrimonio immobiliare pubblico
a cura di Luca Gaeta e Paola Savoldi
con il contributo di Emanuela Abis, Massimo Bricocoli, Roberto Busonera,
Francesca Cognetti, Anna Maria Colavitti, Francesco Gastaldi,
Fabio Manfredini, Viola Mordenti, Federico Nurra, Enrico Petruzzi,
Barbara Pizzo, Davide Ponzini, Valeria Saiu, Alessia Usai, Marco Vani
a partire da un’idea di Attilio Belli, manifestata e condivisa in occasione
della conferenza nazionale della Società Italiana degli Urbanisti svoltasi a
Napoli, nel maggio del 2013
Crediti
Il documento è l’esito di un lavoro collettivo. Hanno tuttavia contribuito in
modo specifico alla scrittura di paragrafi e schede Francesco Gastaldi (par.
3, scheda 3b), Federico Nurra ed Enrico Petruzzi (par. 2, sch. 2a). Hanno
elaborato le schede relative alle esperienze: Emanuela Abis e Valeria Saiu
(sch. 4b), Massimo Bricocoli (sch. 5a), Roberto Busonera (sch. 4a), Francesca
Cognetti e Fabio Manfredini (sch. 2b), Anna Maria Colavitti e Alessia Usai
(sch. 3a), Viola Mordenti (sch. 5b), Marco Vani (sch. 4c). Barbara Pizzo ha
condotto alcune delle interviste svolte. Massimo Bricocoli, Francesco
Gastaldi e Davide Ponzini hanno coadiuvato una prima revisione del
documento. Hanno insieme progettato e curato il documento, effettuato
interviste e scritto paragrafi, premessa e sintesi programmatica Luca Gaeta
e Paola Savoldi.
I paper presentati e discussi a Napoli nell’atelier “Gestione, tutela e
valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” sono disponibili tra
gli atti della XVI conferenza SIU sul sito www.planum.net
2
Milano, dicembre 2013
Indice
1.
Premessa
2.
Conoscere il patrimonio pubblico
Orientamenti
Esperienze:
2.a Porto Torres e il sistema informativo territoriale del patrimonio
archeologico
2.b Gli alloggi sottosoglia a Milano: un censimento e uno strumento di
lavoro
3.
Consolidare il quadro normativo
Orientamenti
Esperienze:
3.a San Gimignano e il federalismo demaniale
3.b La Spezia e il piano unitario di valorizzazione
4.
Coniugare tutela e sviluppo locale
Orientamenti
Esperienze:
4.a Il sito di Neapolis ad Oristano, comporre area archeologica e
territorio
4.b Il progetto di recupero del quartiere Castello a Cagliari
4.c Ex caserma Manin a Venezia, tra valorizzazione e nuova offerta
abitativa
5.
Non alienare il patrimonio pubblico
Orientamenti
Esperienze:
5.a Riuso dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano
5.b Decostruzione dell’edilizia residenziale pubblica di Tor Bella
Monaca a Roma
6. Sintesi programmatica
Elenco delle persone intervistate
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
3
4
1. Premessa
Questo documento è dedicato al patrimonio immobiliare pubblico, una
risorsa di straordinaria importanza per la vita del paese ma, troppo spesso,
compromessa dalla storica mancanza di una strategia gestionale coerente
nell’attuazione e realistica negli scopi. In questo senso, il documento mette
in evidenza alcuni principi d’azione intesi come raccomandazioni rivolte
dalla comunità accademica degli urbanisti italiani alle istituzioni
competenti e agli operatori del settore.
Il documento trae origine da una proposta del Prof. Attilio Belli, avanzata
nel corso della XVI conferenza della Società italiana degli urbanisti (Napoli,
9-10 maggio 2013). Il gruppo di ricercatori impegnato in quella sede a
discutere sulla valorizzazione e gestione del patrimonio immobiliare
pubblico si è incaricato della stesura del documento, nei mesi successivi
alla conferenza, mettendo a disposizione competenze e impegno civile.
Abbiamo costruito il documento facendo tesoro delle esperienze
documentate in modo analitico dai partecipanti alla conferenza, casi di
successo e d’insuccesso nella gestione del patrimonio di tipo residenziale,
monumentale, archeologico, militare etc. da parte di molteplici soggetti
pubblici e privati. Dalla riflessione sulle esperienze in atto, parziali ma a
nostro giudizio significative, abbiamo ricavato gli orientamenti strategici
che, successivamente, abbiamo messo alla prova nei colloqui intercorsi con
alcuni interlocutori qualificati che operano a vario titolo nel settore.
Il documento si articola in quattro sezioni, ciascuna dedicata a un tema di
interesse strategico e alle sue implicazioni operative e gestionali: 1)
colmare il deficit conoscitivo del patrimonio pubblico come indispensabile
premessa a qualunque azione; 2) consolidare e rendere organico un quadro
normativo non esente da contraddizioni e ridondanze; 3) coniugare
l’azione di tutela e di valorizzazione dei beni con la promozione dello
sviluppo locale; 4) non alienare il patrimonio pubblico se ciò non è
inevitabile. Ogni sezione tematica a sua volta contiene le argomentazioni a
sostegno degli orientamenti proposti e la documentazione di una o più
esperienze in corso.
Il documento intende anzitutto contribuire a fare ordine in un dibattito
confuso, viziato da prese di posizione fortemente ideologiche sulla
valorizzazione del patrimonio pubblico, che oscillano tra il miraggio di
abbattere il debito pubblico mettendo sul mercato i “gioielli di famiglia” e il
retaggio di una cultura amministrativa che considera il patrimonio
pubblico per sua natura improduttivo. In secondo luogo il documento
intende sollecitare coloro a cui spettano le responsabilità di governo
affinché sfruttino le enormi potenzialità del demanio pubblico per un
progetto di società ospitale.
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
5
Il disegno del frontespizio allude a una favola di Gianni Rodari, «L’uomo
che rubava il Colosseo», bella metafora, a nostro modo di vedere, del
rischio di una progressiva e quasi inavvertita spoliazione del patrimonio
immobiliare pubblico ma, insieme, della speranza di un ravvedimento non
troppo tardivo che ci faccia dire «nostro» anziché «mio».
6
2. Conoscere il patrimonio pubblico
Orientamenti
Presupposti irrinunciabili di qualunque attività gestionale, sia essa
finalizzata a preservare, a utilizzare, a valorizzare oppure a dismettere un
bene immobile, sono la conoscenza del bene e delle sue relazioni con il
territorio al quale appartiene. L’assunto non è affatto banale, soprattutto se
riferito al patrimonio immobiliare pubblico, quanto mai eterogeneo nella
sua origine, consistenza, qualità, uso e distribuzione geografica1. Ancora
meno banale è il fatto che molte pubbliche amministrazioni italiane
ignorano informazioni essenziali sullo stato di fatto e di diritto dei beni in
loro possesso, oppure ne hanno una conoscenza implicita che mal si presta
a essere condivisa e trasmessa. La catalogazione dei beni spesso consiste in
poco più di un elenco, privo dei dati relativi allo stato manutentivo, alla
sussistenza di vincoli e servitù, al classamento catastale, alla destinazione
urbanistica, ai costi gestionali, per non parlare del valore economico2.
Altrettanto problematica è la qualità dei dati disponibili, raccolti con
metodi disparati, conservati in archivi separati, aggiornati in modo
discontinuo e disomogeneo, accessibili con procedure estenuanti.
Con la politica di dismissione patrimoniale avviata dallo Stato e dagli enti
locali nella seconda metà degli anni novanta per forza di cose si è dovuta
constatare la grave insufficienza e arretratezza dei sistemi di catalogazione
allora in uso, mettendo in moto con l’Agenzia del demanio un vasto sforzo
conoscitivo che, per quanto incompleto, può servire oggi da supporto a
strategie gestionali meno rozze e improvvisate della vendita all’asta e della
cartolarizzazione3. Lo Stato progressivamente si accorge di possedere un
1 “Abbiamo scarsa capacità di comunicare il nostro appeal, perché questa meravigliosa
penisola è difficile da leggere e da guardare. C’è dinamicità, ma bisogna concentrarsi su
opportunità in grado di attrarre investimenti interessanti sul Paese. Per mettere in atto questo
processo virtuoso, bisogna rigenerare e riqualificare il patrimonio esistente per offrire una
prospettiva sostenibile a chi dall’estero vuole investire. Come abbiamo potuto verificare in
questi anni, gli investitori internazionali scommettono sull’Italia solo in presenza di prodotti
maturi, con proposte chiare e redditività certe”, (Antonio Intiglietta, Ge.Fi.).
2 La commissione di indagine presieduta da Sabino Cassese ha tentato per la prima volta nel
1987 di stimare la consistenza e il valore economico dei beni immobili di proprietà pubblica,
A. Biagini et al., Il patrimonio degli enti pubblici: i terreni: un'indagine conoscitiva, il Mulino,
Bologna 1990.
3 “Stiamo tentando di dare come supporto agli enti una piattaforma (Valorizzazione on-line,
realizzata da CDP) che recepisce le informazioni, dà la possibilità di archiviare conservando lo
storico, de-materializzando – cosa importantissima per la conservazione documentale. Non è
la classica procedura tipica di una amministrazione, perché porta l’ente proprietario a fare
delle riflessioni, prima ancora di arrivare al tavolo politico che decide cosa fare del bene,
perché l’ente potrebbe arrivare con una proposta di delibera che dica: non c’è bisogno di
vendere il bene, perché può essere messo a reddito, magari ricavando una fiscalità che non
conoscevo prima (…). Sarebbe utile anche all'Agenzia del Demanio che per norma è incaricata ,
per conto dello Stato, della ricognizione del proprio patrimonio immobiliare” (Tiziana
Mazzarocchi, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.)..
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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patrimonio dalla redditività media molto bassa se comparata ai costi della
sua gestione; un patrimonio dalle potenzialità largamente inespresse, che
potrebbe alimentare politiche di sviluppo e di riequilibrio territoriale in
alternativa al prelievo fiscale. Tuttavia oggi ancora succede che siano
attribuiti ai beni valori inventariali e non reali, e la logica conseguenza di
questa errata attribuzione è la svendita, soprattutto dei beni ubicati nelle
zone strategiche e centrali delle maggiori città, quindi con elevati valori
posizionali per gli acquirenti.
Non è possibile in questo paragrafo discutere, per brevità, quale sia lo stato
conoscitivo delle molte categorie di beni in cui si articola il patrimonio
immobiliare pubblico, ciascuna con le sue criticità. Per questa ragione
preferiamo soffermarci su due categorie esemplari: il patrimonio delle
presenze archeologiche e quello dell’edilizia residenziale pubblica.
Nel caso del patrimonio archeologico composto da beni immobili siamo
ancora ben lungi dalla definizione di un quadro conoscitivo completo e
esaustivo su scala nazionale. L'Ufficio per la Carta Archeologica d'Italia fu
istituito, con Regio Decreto, nel 1889. La salvaguardia del patrimonio
archeologico fu certamente il motore propulsore dell'iniziativa, in un
momento storico in cui l'euforia edilizia e una poco lungimirante
prospettiva di progresso (nella nuova capitale e non solo) mettevano a
repentaglio la conservazione delle testimonianze del passato.
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L'Italia vanta uno dei più solidi e allo stesso tempo avanzati apparati
legislativi in materia di tutela del patrimonio archeologico: dalla cosiddetta
legge Bottai (1089/1939) per la tutela delle «cose d'arte», attraverso la
Costituzione repubblicana, che nei suoi principi fondamentali recita «la
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e
tecnica. Tutela e valorizza il patrimonio storico e artistico della nazione»
(art. 9), si è giunti infine alla definizione del Codice dei Beni Culturali e del
Paesaggio (d.lgs. 42/2004 e ss.mm.).
Nonostante ciò, parlare oggi di «Carta Archeologica d'Italia» o di un
'catasto' delle presenze archeologiche, a distanza di quasi centocinquanta
anni dalla sua definizione, può apparire desueto e fuori tempo massimo,
poiché, come già denunciava Antonio Cederna e come recentemente
ricorda Salvatore Settis, il patrimonio è ancora oggi insidiato «dal cinismo»
e «dall'indifferenza».
Dall'idea di una carta tematica che comprendesse il riporto misurato delle
evidenze archeologiche (che non ha mai avuto l'esito sperato) si è passati
infine, con l'istituzione del Ministero per i Beni Culturali (1975), a una
impostazione schedografica e catalografica funzionale alla
patrimonializzazione dei beni, ma spesso priva di riferimenti geografici
puntuali che permettessero il riconoscimento sul terreno dei beni stessi4.
Attualmente gli strumenti di catalogazione predisposti dall'Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali (MiBAC) sono molteplici e spesso non
interoperabili.
Fatte salve le schede di repertorio del patrimonio immobiliare
archeologico (Scheda SI "sito"; Scheda SAS "saggio stratigrafico"; Scheda
MA/CA "monumento archeologico/complesso archeologico"), il MiBAC ha
avviato il processo di «unificazione e ottimizzazione dei processi connessi
alla catalogazione del patrimonio culturale»5 attraverso il Sistema
Informativo Generale del Catalogo (SIGEC), attualmente disponibile nella
sua interfaccia web (SIGECweb). Il sistema web ha permesso di
omogeneizzare e ottimizzare le prestazioni e l'implementazione del
Catalogo. Le necessarie finalità del sistema, volte ad una conoscenza
quanto più ampia perché funzionale alla tutela, hanno imposto la
strutturazione di uno strumento capace di acquisire ed organizzare un
elevatissimo numero di informazioni che si riflettono nella complessa
strutturazione delle schede. Questo approccio garantisce la catalogazione
di un vasto apparato di dati ma implica delle difficoltà nella compilazione
delle schede, nella loro gestione e necessaria condivisione con gli altri Enti
che interagiscono con il MIBAC nella gestione del territorio. Gli Uffici
demandati alla compilazione delle Schede (ossia gli organi periferici del
Ministero, le Soprintendenze Archeologiche), oggetto nel corso degli anni di
tagli alle risorse finanziarie, logistiche e al personale, soltanto con estrema
difficoltà possono raggiungere gli obiettivi indicati dal MiBAC.
Al fine di semplificare le procedure di implementazione del catalogo, è
stato studiato da parte dell'ICCD un Modulo Informativo (MODI)6,
attualmente in fase di sperimentazione presso diverse Direzioni Regionali e
Uffici Periferici. Attraverso il portale web della Carta del Rischio7, è
possibile avere un quadro completo dello stato dell'arte, attualmente non
completo né omogeneo su tutto il territorio nazionale. Alle iniziative e alle
sperimentazioni ministeriali, (soprattutto negli ultimi trent'anni, a seguito
del boom dei Sistemi Informativi Territoriali) si è assistito alla
proliferazione di Sistemi di monitoraggio e gestione del patrimonio, troppo
spesso a carattere "autarchico", realizzati ad opera delle stesse
Soprintendenze per i Beni Archeologici e dei dipartimenti universitari
interessati alla ricerca nel campo archeologico.
4 Suona ancora attuale il monito di Walter Benjamin: «…si inganna sui lati migliori chi fa solo
l’inventario degli oggetti ritrovati e non sa indicare nel terreno attuale esattamente il luogo in
cui si conservava l’antico…» I «passages» di Parigi, 1939.
5 www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/118/sistema-informativo-generale-del-catalogo-sigec
6 www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/211/sperimentazione-normative
7 www.cartadelrischio.it
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
9
Senza entrare nel merito dell'efficacia dei differenti sistemi prodotti, il
problema di fondo è da individuare nella disomogeneità degli obiettivi
perseguiti e, soprattutto, nella mancanza di una codifica nella
strutturazione dei dati che impedisce la condivisione di metodi e
strumenti, elemento imprescindibile per una efficace politica di tutela.
Nel tentativo di superare quest'approccio, si è giunti alla proposta che
viene presentata nella scheda dedicata al caso di Porto Torres.
Il patrimonio costituito dall’edilizia residenziale pubblica è stato oggetto di
un’indagine della Corte dei Conti8, la cui relazione contiene interessanti
elementi di attualità che riprendiamo nelle pagine seguenti, sottolineando
le carenze conoscitive individuate e le proposte avanzate.
Nel condurre l’indagine, è stata percepita con chiarezza dai magistrati “una
situazione di grande difficoltà a fornire i dati richiesti, risultati, in diversi
casi, incoerenti o scarsamente attendibili” (p. 12). Viene rimarcato inoltre
che “l’insieme dei fenomeni presi in considerazione dall’indagine non
risulta organicamente sviluppato in precedenti studi e analisi di così ampio
spettro” (ibid.).
10
Un punto di rottura nella gestione dell’edilizia residenziale pubblica si è
avuto nel 1998, “quando terminano le trattenute sugli stipendi dei
lavoratori (l. 335/1995), lo Stato dismette l’interesse diretto verso il settore
e gli interventi di politica abitativa vengono assunti dalle regioni (d.lgs.
112/1998)”. (p. 16). Nel corso degli ultimi venti anni ha preso avvio inoltre
la vendita degli alloggi (l. 560/1993) al fine di reperire risorse da investire
nel settore e avendo constatato la “difficoltà di finalizzare il patrimonio
abitativo alla domanda espressa dai nuclei familiari socialmente ed
economicamente più deboli per mancata attivazione di una reale mobilità
abitativa correlata alla modifica delle condizioni reddituali” (ibid.).
Il trasferimento dell’ERP alle Regioni fa emergere una pluralità di situazioni
gestionali con “casi in cui gli enti proprietari risultano anche gestori degli
stessi alloggi, casi in cui la gestione è affidata dagli enti proprietari ad enti
gestori (pubblici e anche privati), casi in cui l’ente gestore gestisce
contemporaneamente alloggi di sua proprietà e alloggi di proprietà di terzi
(pubblici e privati)” (p. 4, nota 3). Molteplice è anche il modo in cui le leggi
regionali qualificano l’alloggio di edilizia residenziale pubblica, venendo
così a mancare un comune denominatore nazionale.
In generale, per sopperire alla bassa capacità di spesa degli enti gestori e
allo squilibrio tra costi e ricavi, con alcuni casi di dissesto finanziario, è in
atto nelle regioni “una profonda evoluzione del sistema delle relazioni
autonomie locali/enti gestori, alla ricerca di modelli nuovi improntati ad
8 Relazione sulla gestione dell’edilizia residenziale pubblica, approvata dalla Corte dei Conti,
Sezione delle Autonomie, con la deliberazione n. 9 del 4 giugno 2007
(www.corteconti.it/controllo/opere_pubbliche/edilizia/delibera_10_2007_aut).
una attenzione diversa ed effettiva verso forme di gestione che dovrebbero
rivelarsi efficienti ed economiche” (p. 20). Se questo è vero, molte sono
tuttavia le debolezze che permangono.
In primo luogo manca da parte delle Regioni una chiara individuazione dei
criteri e delle procedure di rilevazione del fabbisogno di alloggi pubblici. La
gestione attuale non può giovarsi di dati certi e attendibili sulla domanda
che, il più delle volte, è quantificata “sulla base delle domande di
assegnazione pervenute” (p. 26). In secondo luogo sono inadeguati gli
strumenti di analisi e di monitoraggio dell’utenza e del patrimonio
immobiliare. Malgrado i provvedimenti di legge (e talvolta i finanziamenti),
“non sembra che alcuna anagrafe sia stata effettivamente creata” (p. 27). In
terzo luogo, l’indagine mette in luce la più o meno marcata mancanza di
strumenti adeguati a verificare l’andamento dei programmi di edilizia
residenziale pubblica: “ridottissime sono risultate le realtà regionali dove
appaiono istituiti archivi informatici idonei a definire i tracciati di sviluppo
degli interventi e delle erogazioni finanziarie”.(p. 39).
La costituzione di anagrafi aggiornate degli assegnatari, di inventari del
patrimonio edilizio e l’effettiva operatività degli osservatori regionali del
sistema abitativo sono obiettivi irrinunciabili. Questo richiede strumenti, se
possibile geo-referenziati, che, “utilizzando adeguati applicativi
informatici, consentano di disporre di un sistema organizzato di
conoscenze in tempo reale, finalizzato ad una politica abitativa organica,
razionale e trasparente” (p. 27). Gli archivi informatizzati di tipo
patrimoniale sono abbastanza diffusi, anche se poco interconnessi. Quasi
ovunque manca il cosiddetto “fascicolo del fabbricato”, cioè l’insieme dei
documenti da cui ricavare le caratteristiche tecniche del fabbricato e in
particolare degli impianti tecnologici esistenti, degli interventi manutentivi
eseguiti e così via.
All’archivio patrimoniale andrebbe associato “un archivio gestionale riferito
all’utenza, che consenta di collegare ogni assegnatario all’alloggio da lui
occupato, ai fini della gestione del rapporto locativo e in particolare ai fini
della quantificazione dei canoni di locazione, della verifica della morosità”
(p. 49) e anche del titolo effettivo di godimento dell’alloggio. Ciò permette
una gestione economicamente più efficiente ma non per questo meno
solidale, consentendo ad esempio di ridurre gli alloggi sfitti e i tempi di
assegnazione, nonché di modulare l’offerta per regime giuridico ed
economico in relazione alle caratteristiche degli utenti, superando anche la
concentrazione del disagio sociale che affligge alcuni quartieri di edilizia
residenziale pubblica.
Gli ostacoli maggiori sono costituiti, secondo la Corte dei Conti, “dallo
stato di salute del bilancio regionale che, in situazioni di emergenza,
utilizza le risorse ERP per altri fini; e dallo stato di salute degli enti gestori
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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i cui disavanzi finanziari assorbono risorse anche ingenti distogliendole
dalle finalità di sviluppo dell’edilizia abitativa” (p. 38).
Da questo punto di vista è condivisibile la proposta di un intervento statale
riequilibratore, qualora fosse accertata una sperequazione territoriale nella
offerta di alloggi, attraverso “strumenti di garanzia dell’omogeneità del
servizio che potrebbero contemplare anche l’istituzione di un fondo
perequativo nazionale che creasse condizioni e opportunità uniformi sul
territorio nazionale” (p. 70).
12
Esperienze
Porto Torres
archeologico
e
il
sistema
informativo
territoriale
del
patrimonio
La vicenda
La "Commissione Paritetica per lo sviluppo e la redazione di un progetto per la
realizzazione del sistema informativo territoriale del patrimonio archeologico
italiano", nominata dal Ministro per i Beni e le attività culturali con DM n. 22 del 22
dicembre 2009, ha approvato un Documento conclusivo che contiene un piano
operativo articolato e dettagliato relativamente ad attività da mettere in atto per la
realizzazione effettiva del Sistema Informativo Territoriale Archeologico Nazionale.
La precedente Commissione paritetica per la "realizzazione del Sistema Informativo
Archeologico delle città italiane e dei loro territori" aveva individuato strumenti
condivisibili e alcune precise linee di intervento per assicurare l’opportuna
conoscenza necessaria alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico.
La nuova Commissione, nominata con il compito di sviluppare e di redigere un
progetto per l’individuazione e la definizione delle concrete modalità operative per
la realizzazione del sistema informativo territoriale del patrimonio archeologico, si
è mossa da un lato recuperando i lavori della precedente Commissione, e dall’altro
facendo precisi passi avanti nella direzione della concreta operatività del progetto e
degli strumenti che servono per metterlo in atto.
La Commissione ha riscontrato una capillare conoscenza del patrimonio
archeologico di diversi ambiti territoriali, già acquisita ma frazionata in numerosi
archivi e sistemi informativi di differente struttura logica e tecnica. La Commissione
ha inoltre riscontrato che esiste una reale possibilità di interoperabilità tra dati
alfanumerici/geografici archeologici prodotti in ambito nazionale a fini scientifici e
di tutela, anche quando strutturati in modo disomogeneo e gestiti mediante
supporti informatici e logici difformi. Ed ha inoltre constatato che la complessità e
la quantità delle informazioni da gestire unita alla pluralità degli Enti/soggetti
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
13
coinvolti costituisce il fattore principale da considerare nella progettazione di un
sistema informativo territoriale del patrimonio archeologico italiano.
La precoce adozione del Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna, il primo in
Italia a conformarsi alle linee-guida della Convenzione Europea per il Paesaggio, ha
fatto del territorio sardo un caso 'sperimentale' per eccellenza sul fronte del
coordinamento e dell’omogeneizzazione del dato archeologico, il 'banco di prova'
della Sardegna ha infatti perfettamente riprodotto quel fenomeno di 'disgregazione
dell’informazione' che sembra essere comune a tutto il contesto nazionale.
14
Gli esiti
Sulla solida base del patrimonio di conoscenze acquisite e delle metodologie
elaborate, Porto Torres si è configurato come ambiente ideale per l'applicazione e la
verifica dei parametri attualmente sperimentati nell'ambito del progetto di ricerca
regionale funzionale alla creazione e all'attivazione del Polo Sardo del SITAN.
Il progetto in atto, parte integrante della costituenda Rete Informatica Nazionale
costituita dalle Università di Padova, Bologna, Siena, Roma, Salerno e Lecce, mira a
collaborare allo sviluppo dello standard nazionale con l'evidenziazione delle
peculiarità storico-archeologiche del contesto sardo; a censire i 'produttori di dati'
nell'isola ed attivare conseguentemente protocolli d'intesa per l'interscambio delle
informazioni; ad applicare sperimentalmente lo standard alla realtà regionale; a
ricognire la bibliografia e la documentazione d'archivio pregressa; a popolare
sperimentalmente la banca-dati; a sperimentare il collegamento alla Rete nazionale
per la costruzione del WEB GIS del patrimonio archeologico italiano.
L'accordo quadro con la Soprintendenza per i Beni archeologici della Sardegna
costituisce il punto di partenza fondamentale per l'avvio di quel processo di
semplificazione ed omologazione capace di garantire la reale acquisizione e
accessibilità dei dati archeologici a tutti i soggetti impegnati nella pianificazione
territoriale.
L'effettiva collaborazione tra enti di ricerca ed istituti di tutela fin dalla fase iniziale
dell'elaborazione e della sperimentazione di strumenti funzionali alla conoscenza,
alla condivisione ed all'interscambio di informazioni costituisce un elemento di
innovazione importante per la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico
e per il definitivo sfondamento di quelle barriere interdisciplinari che ne hanno fino
ad oggi ostacolato lo sviluppo.
Gli insegnamenti
L'acquisizione, la sistematizzazione e la semplificazione di una notevole quantità di
dati provenienti da ricerche bibliografiche, d'archivio e dall'indagine condotta
direttamente sul campo nel territorio urbano di Porto Torres, ed in prospettiva su
tutto il territorio regionale, attraverso la realizzazione del Sistema Informativo,
consente da subito di poter visualizzare, gestire ed interpolare informazioni sul
patrimonio archeologico che fino ad oggi risultavano archiviate ed erano
consultabili soltanto su supporti di differente tipologia, nella maggior parte dei casi
non digitalizzati, e localizzati in diversi archivi e biblioteche. L'applicazione Web
potenzierà queste possibilità consentendo di disporre di uno strumento di gestione
dei contenuti informativi amministrativi e scientifici che potrà essere a
disposizione di tutto il personale interessato.
Le relazioni istituite costituiscono insomma un esempio di sperimentazione pratica
dei principi di condivisione e unificazione delle esperienze attive sul territorio
nazionale, attraverso l’identificazione di requisiti minimi, vocabolari e codici, da
estendersi nel territorio.
Link utili:
Progetto MAPPA (Metodologie applicate alla predittività in archeologia) - Università
di Pisa: http://mappaproject.arch.unipi.it/
Progetto SITAR (Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma) - SSBAR
(Soprintendenza
Speciale
per
i
Beni
Archeologici
di
Roma):
http://193.205.251.242/mapguide2011/fusion/templates/mapguide/slate/index.ht
ml?ApplicationDefinition=Library%3a%2f%2fWEBGIS%2fWGSITAR2011.ApplicationD
efinition
15
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
Esperienze
Gli alloggi sottosoglia a Milano: un censimento e uno strumento di lavoro
16
La vicenda
Nell’ambito del programma di responsabilità sociale del Politecnico di Milano,
denominato Polisocial, è in corso il progetto denominato 'Housing Sottosoglia' che
vede la collaborazione di un gruppo di ricerca del DAStU - Politecnico di Milano con
la Direzione Centrale Casa – Settore Politiche per la Casa e Valorizzazione sociale
spazi, Servizio Valorizzazione sociale quartieri del Comune di Milano. Il progetto ha
tra le sue finalità la costruzione di un quadro conoscitivo aggiornato del patrimonio
sottoutilizzato di proprietà comunale e l’individuazione di uno o più scenari di
valorizzazione di tale patrimonio per la trasformazione urbana.
I dati di base utilizzati nel progetto sono stati quindi acquisiti in seguito ad un
accordo formale che prevede l’accesso ad alcune banche dati riservate sul
patrimonio comunale ERP.
I dati dimostrano che parte di questo patrimonio è spesso non utilizzato. Risulta
quindi oggi vuoto o in via di dismissione. L’attività si può intendere come un
“progetto pilota” sul patrimonio abitativo di proprietà comunale, che potrebbe
quindi essere estesa anche alla dimensione degli alloggi, come a quella di altri tipi
di spazi (non compresi nel patrimonio ERP ma comunque pubblici).
Gli esiti materiali e immateriali
E’ stata messa a punto una procedura di sistematizzazione e di omogeneizzazione
delle informazioni sull’anagrafica degli alloggi, che sono state successivamente
geocodificate grazie all’utilizzo del database dei civici georeferenziati in possesso
del Comune di Milano. Tale operazione ha consentito di localizzare i singoli alloggi
nel punto corrispondente al numero civico di pertinenza e, al contempo, di
mantenere tutte le informazioni associate al singolo alloggio, ricavate
dall’anagrafica comunale tra cui, per i sottosoglia, il piano, la denominazione del
quartiere a cui appartiene, lo stato di occupazione, l’eventuale presenza di un
progetto di recupero, la superficie. L’identificazione univoca di ciascun alloggio
consente l’aggiornamento delle caratteristiche degli alloggi, l’integrazione di altre
informazioni che si dovessero rendere disponibili nel tempo, ad esempio sullo stato
di conservazione o sugli occupanti.
Un sistema come quello realizzato in forma prototipale sul patrimonio
sottoutilizzato, che comprende, oltre ai sottosoglia, le portinerie e gli spazi definiti
come usi diversi, offre la possibilità di interrogare i dati in funzione di criteri
specifici (es. numero di piani, tipo di occupazione, dimensione) e di visualizzare in
mappa i risultati. Si è quindi configurato un nuovo strumento, potenzialmente utile
per la gestione ordinaria del patrimonio e per la costruzione di quadri conoscitivi
pertinenti sugli alloggi di proprietà comunale, attualmente difficili da ottenere.
A partire dall’utilizzo di questo nuovo strumento, attraverso la preoccupazione
relativa ad aspetti di trasferibilità di competenze, la pubblica amministrazione
potrà acquisire nuove capacità di gestione e valorizzazione del proprio patrimonio.
La costruzione e valorizzazione di un “codice minimo di conoscenza” pare un
elemento centrale, ma spesso sottovalutato, per la comprensione di fenomeni
complessi quali quelli legati al patrimonio pubblico, non solo per le pubbliche
amministrazioni, ma anche per l’Università.
Dal punto di vista accademico lavorare a ridosso di una situazione reale ha
permesso di avere una conoscenza diretta del fenomeno, con una preoccupazione
relativa agli elementi di utilizzabilità e trasferibilità della ricerca. Ha anche
permesso di avere accesso a informazioni e dati di difficile reperibilità.
Gli insegnamenti
L’esperienza di costruzione del quadro conoscitivo sul patrimonio sottoutilizzato
di proprietà del Comune di Milano ha consentito di valorizzare al meglio
informazioni già in possesso dell’Amministrazione pubblica, che sono state
riorganizzate in forma più accessibile e con un’attenzione specifica alla loro
componente spaziale. Non è stato quindi necessario procedere a rilievi ad hoc per
giungere ad un’immagine d’insieme aggiornata e completa. Nei comuni molte
informazioni sono già disponibili e potenzialmente già utilizzabili per conoscere la
consistenza e le caratteristiche del patrimonio sottoutilizzato. Spesso però tali dati
sono di difficile accesso e non vengono valorizzati a sufficienza, soprattutto
nell’ottica di una visione di “sistema”. Un’innovazione nelle modalità di
acquisizione e di restituzione di tali dati può rendere più accessibile questo tipo di
informazione che si presta ad essere utilizzata sia per la gestione ordinaria ma
anche per la costruzione di scenari per un uso strategico e sociale del patrimonio.
Per questo motivo, è evidente che un elemento di criticità riguarda il carattere
episodico dell’esperienza che potrà essere effettivamente valorizzata, soltanto nel
caso in cui lo strumento venga acquisito e alimentato nel tempo dal Comune, esito
al momento non prevedibile in quanto richiede una riorganizzazione significativa
dell’attività ordinaria e delle competenze in campo presso gli uffici.
Link utili
www.polisocial.polimi.it/it/what-we-do/projects-teaching-in-the-field
L’immagine in apertura rappresenta la distribuzione spaziale degli alloggi
sottosoglia, delle portinerie e degli usi diversi di proprietà del Comune di Milano
(fonte: elaborazione propria su dati del Comune di Milano)
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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18
3. Consolidare il quadro normativo
Orientamenti
Un esame sommario dei più recenti provvedimenti adottati in materia di
gestione del patrimonio immobiliare pubblico è sufficiente per constatare
una produzione normativa impetuosa, con strumenti e procedimenti
autorizzati, applicati ma ben presto affiancati o sostituiti da altri
apparentemente più efficaci, più snelli o più rapidi secondo un metodo per
prova ed errore.
Nel 1999, all’interno della riorganizzazione del Ministero dell’Economia e
delle Finanze (MEF) si realizza la trasformazione delle direzioni generali in
quattro Agenzie, tra le quali l’Agenzia del Demanio, cui è attribuita
l'amministrazione dei beni immobili dello Stato, demaniali e patrimoniali.
Vengono introdotte modificazioni in materia di dismissioni immobiliari,
con una spinta verso operazioni di valorizzazione alle quali far seguire
un’eventuale alienazione.
La prima parte degli anni 2000 è caratterizzata dalle operazioni di
cartolarizzazione, denominate SCIP 1 e SCIP 2, rivelatesi un ambizioso
progetto rimasto in gran parte incompiuto e che ha conseguito risultati
assai modesti. Con la legge n. 296 del 2006 è stata rilanciata la
valorizzazione dei beni statali mediante vari metodi tra cui i P.U.V. (Piani
Unitari di Valorizzazione), procedure atte a sfruttare le potenzialità di
riconversione economica degli immobili non più utili ai fini istituzionali
della Difesa e che presentano un interesse storico-culturale e possono
essere oggetto di una progressiva messa a reddito. Da qui sono maturate le
condizioni per la formazione e l'implementazione del programma
nazionale denominato “Valore Paese”.
I P.U.V. hanno assunto forme disomogenee, a seconda delle diverse regioni
italiane, e i risultati sono controversi. Nel caso di quelli che costituiscono
una sorta di elenco di immobili ed aree disponibili in concessione, risulta
difficile individuare vere e proprie linee strategiche di natura diversa da
quella finanziaria; quando invece si incrociano le politiche urbane di
sviluppo comunale o intercomunale e vengono messe in campo strategie
comuni, diventa possibile orientare e fornire una vera re-interpretazione
del valore dei beni demaniali più organica e potenzialmente fruttuosa.
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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Con l’emanazione del d.lgs. 85/2010 sul federalismo demaniale, quel
“fenomeno devolutivo, accessorio al federalismo fiscale, che consiste nel
trasferimento agli enti territoriali di beni di proprietà dello Stato”,
sembrava che si fosse messo in moto un processo irreversibile di
attribuzione di beni di proprietà statale a Regioni ed Enti locali.
In primo luogo il decreto prevede che tutte le procedure devolutive siano
imprescindibilmente attivate dall’ente territoriale destinatario della
proprietà del bene, ma le liste contenenti beni non disponibili e disponibili
al trasferimento, le cosiddette black list e white list elaborate dall'Agenzia
del Demanio su direttiva delle Amministrazioni statali, sono state ritenute
sostanzialmente poco utili dagli enti locali poiché. presentano molti errori
di compilazione relativi ad ubicazione, occupazione dell’immobile, ecc.
Inoltre non sono state rispettate le scadenze per la definitiva approvazione
delle operazioni di attribuzione e sono state riscontrate incongruità tra le
richieste pervenute dagli enti locali ed i beni messi a disposizione dalle
varie strutture centrali dello Stato. Ciò ha messo più volte a freno l’operato
dell’Agenzia del Demanio le cui potenziali capacità di esecuzione sono
state ridotte sia dal repentino cambio di norme, sia dalle conseguenti
diatribe di attribuzione delle competenze tra le amministrazioni coinvolte.
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L’istituzione del piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (all’art.
58 del d.lgs. 112/2008) ha costituito per gli Enti territoriali un metodo più
semplice e veloce per “fare cassa e subito” con la vendita del patrimonio
immobiliare9, ma la sentenza del 16 dicembre 2009 della Corte
Costituzionale sulla parziale illegittimità del comma 2 di tale articolo ha
messo in luce ancora una volta l’inadeguatezza della legislazione in
materia di dismissione. Il quadro legislativo attuale non concorre a
delineare strategie unitarie e a chiarire il senso di un processo di
valorizzazione.
Dalla metà del 2011 si è registrata una nuova e intensa attività normativa
in materia di dismissione del patrimonio pubblico. Alle disposizioni del d.
lgs. 98/2011 si è dato atto della futura costituzione «di una società di
gestione del risparmio avente capitale sociale pari a 2 milioni di euro per
l'anno 2012, per l'istituzione di uno o più fondi d'investimento al fine di
9 “Nel corso degli ultimi anni, la normativa a livello di Stato centrale è stata abbondante. Per
Regioni, Comuni e Province c’è il noto art. 58 del d.lgs 112 del 2008 (poi modificato) che dice
che ai fini della redazione dei piani di valorizzazione/dismissione, l’Ente deve fare degli
elenchi di immobili e allegarli al bilancio che va in approvazione. Con questo si crea un piano
di valorizzazione che, de facto, prima di essere allegato al bilancio, dovrebbe aver affrontato
tutte quelle attività che sono necessarie: devo considerare se ho titolo su quel bene, quale è la
consistenza del bene, qual è la destinazione d’uso migliore per quel bene, se posso
conservarlo oppure se lo posso dirottare nella categoria di patrimonio disponibile. Cassa
Depositi e Prestiti ha realizzato un progetto denominato VOL, Valorizzazione on-line, un
applicativo informatizzato, basato su una base già esistente i cui obiettivi principali sono la
completezza di un fascicolo immobiliare, la documentazione, l’integrità del dato (le carenze
possono svilire il bene). Insomma un fascicolo che renda il bene ‘commerciabile’, non solo un
semplice inventario ma una due diligence” (Tiziana Mazzarocchi, Cassa Depositi e Prestiti).
partecipare in fondi d'investimento immobiliari chiusi promossi da regioni,
provincie, comuni […] al fine di valorizzare o dismettere il proprio
patrimonio immobiliare disponibile».
Con il d.lgs. 138/2011, al titolo II “Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre
misure per favorire lo sviluppo”, all’articolo 3 comma 12, si abroga e si
sostituisce la lettera d) del comma 10 dell’articolo 307 del d. lgs. 66/2010.
Il cambio di prescrizione riguarda l’assegnazione dei proventi derivanti
dalle procedure di valorizzazione di un bene militare, ossia:
‐ il 55% deve essere attribuito al fondo ammortamento dei titoli di Stato;
‐ il 35% al Ministero della Difesa e la quota è finalizzata esclusivamente a
spese di investimento, con preclusione all’utilizzo di questa somma per
la copertura di oneri di parte corrente;
‐ il 10% agli enti territoriali interessati da tale processo.
Poco prima della caduta del governo Berlusconi, l’art. 6 “Disposizioni in
materia di dismissione in materia di immobili pubblici” della legge 12
novembre 2011, n. 183 (legge di stabilità) prevede che il Ministero
dell’Economia e delle Finanze conferisca o trasferisca beni immobili a uso
non residenziale, di proprietà dello Stato e degli enti pubblici non
territoriali, a uno o più fondi comuni di investimento immobiliari o a una o
più società, anche di nuova costituzione, in conformità al d. lgs. 98/2011.
Gli immobili da dismettere dovranno essere individuati con uno o più
decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri: secondo tale
provvedimento saranno assegnate in uso alle Forze armate più del 20%
delle carceri inutilizzate e delle caserme dismettibili.
In una situazione di perduranti problemi delle finanze statali, le
disposizioni legislative dell’ultimo anno (inserite nei decreti “Salva-Italia”,
“Mille proroghe”, “Semplifica-Italia”, “Cresci-Italia” e nel decreto legge
87/2012) stanno progressivamente trasformando in obbligo la
valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Questa nuova linea
potrebbe rappresentare un’opportunità di riscatto per molte realtà urbane,
ma si continua ad affrontare la questione in un’ottica prevalentemente
finanziaria10.
10 “Noi stiamo cercando di far passare, nei Comuni, una logica un po’ differente e cioè che
l’aspetto centrale dei processi di valorizzazione e soprattutto di dismissione non è il prezzo.
Il prezzo infatti è una delle variabili che influisce sul buon esito dei processi, ma non è l’unica.
Come struttura tecnica dell’ANCI, e in rappresentanza dei Comuni e dei Sindaci, sappiamo
benissimo che gli amministratori guardano con attenzione alle entrate (e quindi al bilancio) e
devono necessariamente far quadrare i conti. Però, se continuiamo a ragionare così, con una
logica ‘anno per anno’, che guarda solo al prezzo dell’immobile da mettere in asta, non
andiamo da nessuna parte. E infatti i risultati delle attuali alienazioni non sono incoraggianti.
Nei processi di valorizzazione e di dismissione, noi stiamo proponendo di guardare e di
valutare, oltre che alla variabile prezzo, anche ad altri aspetti: l’Irpef locale, l’Imu, la service
tax, l’incremento di occupazione, l’efficienza energetica che sono tutti temi traducibili in
numeri e, come il prezzo, vanno ad impattare sul bilancio degli enti locali” (Michele Lorusso,
Fondazione Patrimonio Comune).
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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Le notevoli difficoltà incontrate in sede di dismissione dei beni pubblici
hanno suggerito di intraprendere un percorso diverso che punta ad una
migliore utilizzazione complessiva del patrimonio immobiliare pubblico,
riducendo gli sprechi e le inefficienze che si determinano a causa della
scarsa capacità dello Stato e degli altri enti territoriali di fare sistema,
ricercando forme di collaborazione nell’uso dei beni pubblici di cui sono
proprietari. In questa direzione pare muoversi il d.lgs n. 87/2012, e
soprattutto il d.lgs n. 95/2012 (“Spending review”). Di particolare interesse
è l’articolo 3 il quale ha previsto un’operazione di ricognizione degli
immobili pubblici e di razionalizzazione degli spazi, finalizzata a
contenere i costi connessi al rinnovo dei contratti di locazioni passive. La
stessa norma ha altresì previsto per lo Stato e gli altri enti territoriali la
possibilità di reciproco utilizzo gratuito per lo svolgimento di funzioni
istituzionali di beni a essi appartenenti.
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Il “Piano città” contenuto nel d.lgs. 83/2012 (“Misure urgenti per la crescita
del Paese”) sembra segnare un’inversione di tendenza e una rinnovata
attenzione dell’esecutivo Monti alle trasformazioni delle città considerate
“motori” di nuovi processi di investimento e sviluppo. Nel decreto si
trovano innovazioni di notevole interesse riguardo le aree militari
dismesse, nuovi strumenti e nuove procedure quali la Cabina di regia
(formata da rappresentanti di ministeri, regioni, Agenzia del Demanio,
Cassa depositi e prestiti) e il Contratto di valorizzazione urbana per
stimolare la progettualità e la competitiva delle città con particolare
riferimento alle zone degradate, che potrebbero essere il punto di arrivo di
iniziative promozionali private, nate in un passato anche lontano.
L’ultimo aggiornamento normativo è costituito dall’articolo 56 bis nel
cosiddetto “decreto del fare” (d.lgs. 69/2013) al fine di far ripartire la
procedura devolutiva del federalismo demaniale, bloccatasi nella sua fase
iniziale nel 2011. Il governo Letta propone agli enti territoriali di formulare
nuovamente le richieste di acquisizione a titolo gratuito di cespiti
all’Agenzia del Demanio in un periodo compreso tra il 1° settembre ed il 30
novembre 2013, corredate questa volta da una proposta di nuova
destinazione d’uso e dalle risorse ad esso destinate11.
L’ immobilismo che caratterizza il tema dei beni pubblici è in netta
contrapposizione con la velocità estrema con cui il mondo politico ha
cambiato e sovrapposto numerose disposizioni legislative, ispirate a scopi
11 “In Italia sul patrimonio pubblico si sono sovrapposte numerose norme, a volte
contraddittorie tra loro. La concessione rimane un tema forte ed è un istituto che è stato
progressivamente aggiornato. Oggi abbiamo la possibilità, fino a qualche tempo fa non
consentita, di sub-concedere a soggetti specializzati porzioni specifiche di attività economiche
o di servizi per i cittadini, agevolando molto la flessibilità di questo strumento. Per gestire, ad
esempio, i servizi culturali aggiuntivi, il concessionario può coinvolgere un consorzio,
affiancandolo a gestori di attività economiche diverse (tipicamente turistico-ricettive,
alberghiere o ricreative)” (Aldo Patruno, Agenzia del Demanio).
e strategie d’intervento spesso poco coerenti. Il quadro normativo risulta
così eterogeneo e variabile: molti provvedimenti si sono succeduti negli
anni con procedure parziali sovrapposte a processi di dismissione già in
corso, contribuendo a restituire un quadro estremamente frammentato e
incerto.
Il continuo cambiamento di obiettivi e strumenti, introdotto dalle norme
statali, rende il tema così complesso che nella maggior parte dei casi le
amministrazioni locali non sono in condizione di tenere sotto controllo gli
iter procedurali, generando perciò illusioni e frustrazioni negli attori sociali
ed economici e causando uno stato di perenne indeterminazione. Non
esiste una riflessione adeguata sulle difficoltà che le amministrazioni locali
si sono trovate ad affrontare nella costruzione di processi virtuosi di
recupero dei patrimoni pubblici.
Le vicende della dismissione e della valorizzazione degli immobili pubblici
nel corso degli ultimi anni sono una “spia” delle difficoltà del quadro
normativo italiano a conciliare obiettivi statali e potenzialità locali.
Un’occasione persa, almeno per ora. La crisi economica ha accentuato
tendenze già in atto evidenziando l’inefficacia dell’azione istituzionale in
questo campo12. Si sono riscontrati in primo luogo la mancanza di
finanziamenti per la messa in opera dei procedimenti e, in secondo luogo,
la lentezza degli iter burocratici, come per l’aggiudicazione della gara
pubblica e per le procedure urbanistiche.
Una buona gestione del patrimonio immobiliare pubblico può avere luogo
solo se a monte vi è l’attenta regia degli enti pubblici che individuino le
reali prospettive di trasformazione e sviluppo economico dei loro territori,
previa una rassegna dei potenziali interessi pubblici e privati, sociali ed
economici mobilitabili13. Decisioni trasparenti e partecipate
12 Pare che tutti vogliano alienare, ma poi ci si rende conto che poco si muove, non solo per
una questione legata al mercato, attualmente depresso, ma anche perché non è così semplice
vendere degli immobili di proprietà comunale, che magari hanno delle dimensioni notevoli
(…). Quello che noi cerchiamo di diffondere come cultura è di non alienare tout-court ma di
fare un piano di razionalizzazione e capire effettivamente come il patrimonio immobiliare
possa supportare le linee strategiche che una amministrazione comunale ha scelto e condiviso
con il territorio per avviare processi di sviluppo locale. (…) Nelle nostre interlocuzioni con i
Comuni proviamo a fare appello a questo tipo di ragionamento, ponendo una fortissima
attenzione sulla conoscenza del proprio patrimonio e sui diversi scenari di trasformazione o
di valorizzazione (Gloria Cerliani, Fondazione Patrimonio Comune).
13 “Abbiamo sottoscritto un accordo con l'Agenzia del Demanio che ha il fine di supportare
concretamente i Comuni nei processi di valorizzazione e di favorire le interlocuzioni con i
soggetti pubblici come, ad esempio, l'Agenzia stessa, le Regioni e il MiBAC. In questo accordo
prevediamo di utilizzare i numerosi strumenti amministrativi previsti dal nostro ordinamento.
Tra questi, interessante é il PUVaT ( Programma Unitario di Valorizzazione Territoriale), atto a
costruire e sostenere la valorizzazione, la razionalizzazione e l’ottimizzazione degli immobili
pubblici individuati dai firmatari, in coerenza con le scelte di pianificazione urbanistica e con
lo scopo di incentivare lo sviluppo sociale ed economico del territorio: questi piani
interessano anche, e direi soprattutto, beni con vincolo storico artistico. Il Programma si
bilancia fra interesse dello Stato ad ottenere fluidamente la miglior destinazione dei beni
statali che desidera immettere sul mercato in coerenza con le decisionalità strategiche del
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
23
consentirebbero di realizzare quelle mediazioni rispetto ai conflitti che
generalmente si verificano attorno a processi di trasformazione urbana e di
governo del territorio. Se venisse mantenuta una linea normativa stabile su
un arco di tempo di almeno dieci anni, molti processi potrebbero essere
sviluppati in modo più virtuoso, anche in rapporto alle politiche urbane e
agli impatti sulle economie locali.
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territorio ed interesse del Comune a orientare coerentemente le operazioni di valorizzazione
di beni pubblici non appartenenti al suo patrimonio e al contempo a sviluppare azioni di
razionalizzazione e dismissione mettendo in gioco anche beni propri. Queste sono operazioni
che funzionano con Comuni dinamici; almeno stanno funzionando sulla carta, perché poi si
fatica a trovare gli investitori, nonostante le operazioni siano costruite per creare la massima
appetibilità. Riteniamo tuttavia che questo quantomeno sia un tentativo da parte delle
amministrazioni per trovare il miglior utilizzo possibile di parti importanti di patrimonio
pubblico. Si comincia a regolarizzare, a “progettare” augurandoci una reale ripresa” (Roberto
Reggi, Fondazione Patrimonio Comune).
Esperienze
San Gimignano e il federalismo demaniale
La vicenda
L’accordo di valorizzazione del complesso immobiliare di San Domenico e della
Chiesa di S. Lorenzo in Ponte si inserisce nel programma d'interventi previsti dal
Piano di Gestione UNESCO per il centro storico di San Gimignano, patrimonio
dell’umanità dal 1990. Esso costituisce il primo esempio di trasferimento
nell’ambito del federalismo demaniale culturale, le cui fasi sono riassunte di
seguito.
2/3 novembre 2010. Il Comune di San Gimignano presenta alla Direzione Regionale
MiBAC e alla Filiale Toscana e Umbria dell’Agenzia del Demanio le richieste di
trasferimento per l’ex convento ed ex carcere di San Domenico e per la Chiesa di S.
Lorenzo in Ponte ai sensi del d.lgs. 85/2010 art. 5 comma 5, allegando gli “schemi
degli accordi di valorizzazione”.
novembre 2010–febbraio 2011. Incontri preliminari finalizzati all’approvazione
degli schemi a cui partecipano il Comune, la Provincia di Siena, la Regione Toscana
e le rappresentanze locali del MiBAC e dell’Agenzia del Demanio.
23 marzo 2011. Comune, Provincia e Regione firmano un protocollo d’intesa con
cui si impegnano a chiedere ed acquisire in quota indivisa l’ex convento e l’ex
carcere di San Domenico al fine di realizzare un progetto unitario di recupero e
valorizzazione.
5 aprile 2011. Comune, Provincia e Regione presentano in forma congiunta una
nuova domanda di trasferimento al MiBAC e all’Agenzia del Demanio includendo
nella stessa anche la Chiesa di S. Lorenzo in Ponte, unificando così i due
procedimenti.
21 aprile 2011. La Direzione Regionale Toscana del MiBAC convoca il Tavolo
Tecnico Operativo per la valutazione della domanda.
9 giugno 2011. Lo “schema di accordo di valorizzazione” ottiene il parere
favorevole del Tavolo Tecnico Operativo.
luglio 2011. Comune, Provincia e Regione approvano schema di accordo con proprie
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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delibere.
4 agosto 2011. Comune, Provincia e Regione firmano l’accordo di valorizzazione
insieme ai rappresentanti del MiBAC e dell’Agenzia del Demanio.
29 novembre 2011. Gli stessi enti sottoscrivono l’atto di trasferimento del
complesso immobiliare di San Domenico e della Chiesa di S. Lorenzo in Ponte dal
demanio alle amministrazioni locali.
Dal punto di vista urbanistico, l’accordo stabilisce che gli interventi previsti nel
programma di valorizzazione siano realizzati attraverso un Piano di Recupero e/o
Programma Integrato d'Intervento e che la loro definizione in dettaglio avvenga
solamente in seguito all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti al
programma stesso. Stabilisce, inoltre, che la progettazione e la realizzazione degli
interventi di recupero possano essere affidati dalle tre amministrazioni anche ad un
soggetto giuridico specifico tramite un'intesa successiva all’accordo di
valorizzazione (art. 5 comma 5 d.lgs. 85/2010, art.112 comma 4 e art. 54 comma 3
d.lgs.42/2004).
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Gli esiti
Esito inedito e innovativo rispetto agli altri casi di trasferimento è lo “schema di
accordo di governance” adottato tra il novembre e il dicembre 2012 da Regione
Toscana, Provincia di Siena e Comune di San Gimignano in attuazione dell’accordo
di valorizzazione. Tale schema, infatti, stabilisce: le modalità di gestione,
conservazione e fruizione pubblica del bene sino al completamento dei lavori di
recupero dell’immobile previsti nel Programma di valorizzazione; gli impegni dei
tre enti proprietari relativamente alle azioni necessarie al recupero e alla
valorizzazione del bene trasferito; l’affidamento della gestione al Comune di San
Gimignano (in forma diretta o esternalizzata). Infine, esprimendo i contenuti
specifici delle modifiche da attuare in sede di variante urbanistica14, lo schema di
accordo di governance mette in campo un modello gestionale flessibile, di tipo
contrattuale, aperto al settore privato.
Gli insegnamenti
La procedura istituita dalla Circolare MiBAC n. 18/2011, criticata per la sua rigidità,
è l’unica ad avere dato un’effettiva attuazione al d.lgs. 85/2010. Essa sembra
confermare come la definizione di nuove strategie di valorizzazione, ispirate ai
principi del Project Cycle Management e delineate con precisione dal punto di vista
procedurale e metodologico, costituisca l’elemento chiave per il successo nella
dismissione del patrimonio pubblico, specie per gli immobili del demanio culturale.
La definizione dell’iter step by step sembra essere considerata dalle
amministrazioni locali un passo in avanti, dal punto di vista della trasparenza e
della partecipazione, anche in rapporto agli interlocutori privati che assumono un
ruolo nuovo e strategico tutto da approfondire. In tal senso, va letta l’istituzione da
parte del MiBAC di tavoli operativi regionali per il confronto infra-istituzionale che,
nel caso di San Gimignano, hanno portato a un inedito accordo di governance. Uno
14 Cfr. Art. 33 commi 6 e 7 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 convertito dalla legge 15
luglio 2011, n. 111 “Disposizioni in materia di valorizzazione del patrimonio immobiliare”. Si
v., inoltre, la scheda illustrativa dell’articolo 58 del decreto legge 25 giugno 2008 e
LEGAUTONOMIE, “Dal federalismo demaniale alla valorizzazione del patrimonio pubblico,
Rapporto della ricerca sul federalismo demaniale e l’attuazione del decreto legislativo n.
85/2010”, 2012, disponibile a: http://federalismo.sspa.it/pp. 88-95.
strumento che, come presupposto all’atto di trasferimento, esprime i contenuti
specifici delle modifiche da attuare in sede di variante urbanistica e mette in campo
un modello gestionale flessibile legato alla disponibilità ed alla “fantasia” del
settore privato nel contesto di riferimento.
Link utili
www.comune.sangimignano.si.it/guida-ai-servizi/urbanistica/acquisto-complessosan-domenico [ultimo accesso: 16 giugno 2013]
Regione Toscana (2012). DELIBERAZIONE 17 dicembre 2012, n. 1167:
http://www.regione.toscana.it/documents/10180/265341/PARTE+II+n.+1+del+02.0
1.2013.pdf/d32e9fed-4028-4d60-a1f7-161547dc2537
[ultimo accesso: 16 giugno 2013]
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SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
Esperienze
La Spezia e il piano unitario di valorizzazione
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La vicenda
Nel 1869 è inaugurato ufficialmente l’Arsenale della Spezia, si tratta dell’atto di
fondazione di una nuova realtà urbana- Nel giro di vent’anni la popolazione triplica
passando dagli 11.556 abitanti del 1861 ai 31.565 del 1881. Tre piani urbanistici, in
rapida successione (1865, 1871, 1884) imprimono un nuovo sviluppo alla città, a
partire dal recinto dell’Arsenale, vero e proprio elemento primario di valore
morfogenetico del nuovo impianto urbano.
Oggi La Spezia, metabolizzata la crisi dell’industria, dalla fine degli anni Ottanta, è
attraversata da due “scommesse” decisive per il suo futuro. La prima è la
realizzazione del nuovo fronte a mare, nella Calata Paita, area portuale nel cuore
della città. La seconda riguarda la riconversione delle aree militari maggiori e la
riorganizzazione dell’Arsenale (che comprende una superficie di 85 ha) in modo da
conservare un ruolo nel settore militare e della difesa, ma impegnando parte
dell’area per destinazioni diverse. Se la transizione dalla città industriale alla città
postindustriale, può dirsi in parte avviata e in un certo senso anche assimilata dalla
città, che ha lentamente scoperto un modello di sviluppo a più vocazioni, assai
diverso e per certi versi più complesso è il discorso concernente la transizione dalla
città militare alla città postmilitare. Per ora si parla di forme di collaborazione
nell’uso di spazi, non di vere e proprie dismissioni, ma si intravedono i primi
sintomi di una chiara inversione di tendenza e cadono, per la prima volta, mura e
barriere.
Gli esiti
Il 4 aprile 2008 è stato firmato il Protocollo d’intesa che pone il “caso La Spezia” al
di fuori delle normali procedure di dismissione, accelerandone i tempi e
individuando autonomi strumenti di scambio e valorizzazione degli insediamenti
militari sul territorio. Il protocollo prevede un tavolo tecnico composto da tecnici
della Marina Militare e del Comune della Spezia impegnato su singoli temi per
arrivare alla stipulazione di una serie di accordi di programma con l’obiettivo di
rafforzare e riorganizzare la presenza della Marina Militare alla Spezia.
L’amministrazione comunale ha individuato la logica della permuta come strategia
di raccordo con la Marina militare (il Comune si impegna a realizzare opere e
manutenzioni su immobili militari in cambio dell’acquisizione di alcune aree); il
Protocollo d’intesa delinea un quadro complessivo di necessità e di obiettivi comuni
tra le parti che dovrebbero trovare progressiva attuazione attraverso singoli accordi
di programma.
Le forme di raccordo e collaborazione hanno come esiti accordi definitivi che
prevedono la piena disponibilità dei beni, come nel caso dell’area verde di Marola o
del parcheggio di via XV giugno, che il Comune ha già in gestione da qualche
tempo. L’ospedale militare “Bruno Falcomatà” (per cui è stata siglata una
convenzione tra Marina, Comune e ASL) potrebbe mettere a disposizione della
popolazione civile apparecchiature, ambulatori e attrezzature specialistiche e
servizi sanitari, in cambio di opere di manutenzione.
Il Piano Unitario di Valorizzazione (PUV-LIG) della Regione Liguria (sottoscritto
nell’agosto 2009 dall’Agenzia del Demanio), per quanto riguarda La Spezia
comprende solo due aree ex logistiche militari ed ha quindi un ruolo marginale nel
più generale processo di dismissione del patrimonio militare, oltre a non avere
alcuna relazione con il Piano Urbanistico Comunale e il Piano strategico. L’Agenzia
del Demanio e la Regione Liguria si sono impegnate, ciascuna per le proprie
competenze, ad attuare il programma, attraverso la sottoscrizione degli accordi con
i singoli Comuni e il coordinamento delle attività amministrative necessarie a
rendere realizzabili le trasformazioni urbanistiche indicate dal PUV. A tal fine sono
stati costituiti dei Tavoli Tecnici Operativi (TTO) composti da rappresentanti
dell’Agenzia del Demanio, della Regione Liguria (e aperti alla partecipazione degli
Enti territoriali e di altri soggetti pubblici interessati) in cui sviluppare la
concertazione tra Stato e Regione, al fine di individuare obiettivi, azioni e strumenti
operativi.
Gli insegnamenti
La città della Spezia sta cercando di guidare un processo di ridefinizione della
propria base economica e produttiva verso un’economia diversificata, dove il
turismo e la cultura giocano un ruolo importante accanto a settori più tradizionali
(porto e industria). Il dialogo intrapreso, tra Comune della Spezia e Marina Militare,
apre le porte a un delicato percorso in cui sembra ancora prevalere la difesa di
rendite di posizione che fino a qualche anno fa sembravano illimitate. In città, per
molti anni, non è esistito un vero e proprio dibattito sul tema delle dismissioni
militari, la radicalizzazione di alcune posizioni ha spesso prodotto immobilismo,
veti incrociati, paralisi e ha precluso opportunità e nuovi scenari di sviluppo.
Link utili:
http://pianostrategico.spezianet.it/Documenti/attuazione_difesa.pdf
www.regione.liguria.it/argomenti/ente/nucleo-di-valutazioneregionale/attivita/valutazione-unitaria-programmazione-regionale.html
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4. Coniugare tutela e sviluppo locale
Orientamenti
La natura del patrimonio dei beni immobili pubblici in Italia è tale da
rappresentare, in potenza, il capitale fisso sociale di un promettente
modello di sviluppo. Così è stato assunto, dalla fine degli anni novanta
nelle politiche e nella programmazione di matrice comunitaria, in
concomitanza con il declino di un’economia fondata prevalentemente sulla
produzione industriale. Ad essere in gioco è stata un’idea di sviluppo che,
nelle sue interpretazioni più coerenti avrebbe implicato: radicamento locale
dei processi di trasformazione del territorio, caratteri di integrazione e
sostenibilità delle singole azioni tese a migliorare la dotazione di beni
pubblici e collettivi, forme di governo e di regolazione improntate non solo
a processi di mercato, ma pure a processi di autorganizzazione sociale. Nel
trarre un bilancio delle esperienze condotte nel quadro della
programmazione comunitaria emergono tratti di distanza rispetto a questi
principi. È vero che sono stati avviati progetti che hanno prodotto qualche
effetto di apprendimento e di innovazione (amministrativa e culturale),
come nel caso dei programmi Urban, ad esempio, proprio in relazione a
interventi di riuso e messa in valore di beni immobili di proprietà pubblica
(manufatti di interesse storico e architettonico, spazi aperti e brani del
tessuto urbano). Tuttavia è vero anche che tali iniziative hanno sofferto
dell’assenza di un sistema di politiche ordinarie che, anzitutto alla scala
locale, sapessero garantire tenuta e continuità ai processi di valorizzazione
avviati, una volta esaurite le risorse rese straordinariamente disponibili da
uno specifico programma.
Il trattamento del patrimonio dei beni immobili pubblici, così come è stato
praticato al di fuori di programmi e progetti di quest’ordine, accusa in
molti casi problemi e limiti analoghi, con un’aggravante però: nella maggior
parte dei casi il progetto di valorizzazione del bene sembra contraddire i
principi fondamentali del modello dello sviluppo locale15. Porsi l’obiettivo
di coniugare tutela e sviluppo, come suggeriamo qui, presuppone dunque
una postura che assume una accezione rigorosa e radicale dell’idea di
sviluppo, tanto da escludere alcune delle operazioni di valorizzazione dei
15 “C’è una tale competizione nel mercato immobiliare che l’immobile pubblico è penalizzato,
per le sue caratteristiche, per le complessità e le lungaggini procedurali. Oppure ci si limita ad
alcuni asset particolari, ottimamente collocati, con contratti in essere con la pubblica
amministrazione, che rischiano però di essere svenduti, accanto a tutta la parte puntiforme
sul territorio che ha una appetibilità per l’investitore nazionale e internazionale decisamente
inferiore. Bisogna riportare il processo in una logica di gradualità, è una parte imprescindibile
del processo di valorizzazione” (Luca Dondi, Nomisma).
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
31
beni immobili pubblici avviate in passato (si pensi alla stagione delle
cartolarizzazioni). Abbiamo dunque alle spalle esperienze di
valorizzazione che potremmo assimilare a processi di sola alienazione,
estranei all’ipotesi di centrare parte delle politiche economiche nazionali
attorno a un’idea di sviluppo in contrapposizione all’idea di mera crescita,
misurata attraverso indicatori quali il PIL, senza cura per la distribuzione
della ricchezza nazionale rispetto a territori e comunità insediate. È bene
fare il più possibile chiarezza attorno a questa questione perché, a seconda
che la politica decida di prediligere il sentiero dello sviluppo o quello della
crescita, le strategie di trattamento del patrimonio dei beni immobili
pubblici saranno di segno diverso. O viceversa, il modo in cui si prende in
conto l’insieme dei beni pubblici svela ed è la prova di una scelta di più
ampio respiro sul futuro del paese16.
32
Se nel caso di programmi preordinati come quelli comunitari, rispetto a
requisiti di sostenibilità sociale si è dato corso a qualche tentativo di
sperimentazione (pena la revoca all’accesso delle risorse finanziarie), il
quadro dei processi di valorizzazione intrapresi nel corso degli ultimi anni,
spesso entro una logica emergenziale rispetto allo stato dei conti pubblici,
non si misura con altre dimensioni se non quella strettamente legata alla
necessità di fare cassa. In questi casi la valorizzazione corrisponde a
interventi puntuali e non costituisce il tassello di una visione al futuro del
territorio entro il quale altre politiche e altri strumenti garantiscano effetti
di sistema e requisiti capaci di rafforzare il valore materiale e immateriale,
sia culturale e che simbolico, del bene. Conseguentemente tali iniziative
prefigurano progetti poco radicati nel contesto in cui agiscono e
privilegiano la logica della razionalità economica di breve periodo senza
verificarne la capacità di tenuta nel tempo rispetto a variabili legate al
tessuto sociale ed economico locale.
Da questo punto di vista, il rischio è tanto più elevato in ambiti a forte
fragilità istituzionale e civica dove la messa in valore di un bene pubblico
materiale deve fare leva sulla possibilità di innescare processi di
riconoscimento e legittimazione collettiva e sull’opportunità di inscenare
pubblicamente nuove e diverse strade di cambiamento e di sviluppo. Il caso
dei beni confiscati alle mafie né è un esempio mirabile poiché permette di
cogliere da un lato la forza dimostrativa dell’azione pubblica su un bene
concreto che, divenendo proprietà pubblica, viene convertito ad uso sociale
16 “Il Piano città, il Programma 6000 campanili sono progetti che l’attuale governo sta
attivando nella prospettiva di investire un po’ di risorse per far da miccia, piccoli progetti per
rimettersi in movimento. L’ipotesi di partire dalle città è la più efficace, bastano pochi mesi tra
quando l’amministrazione decide e quando partono i lavori, a differenza delle grandi opere
per cui si decide e non partono mai: spendi tutti i soldi in un preliminare (come è accaduto
per il ponte di Messina) e perdi 600 milioni di euro in operazioni che non si traducono in
nulla. In questa logica di ripartire dai territori, dalle piccole opere, la messa in sicurezza delle
scuole del territorio, l’efficienza energetica potrebbe essere la strategia da seguire. I Comuni
dovranno inventare soluzioni di questo tipo” (Roberto Reggi, Fondazione Patrimonio Comune).
(ciò che non esclude attività improntate ad iniziative di carattere
imprenditoriale, a forme di impresa sociale appunto); dall’altro mostra il
grado di complessità che la gestione di tali beni implica, entro un intreccio
di competenze e responsabilità che fanno capo a soggetti e istituzioni
diverse (la magistratura, il demanio, l’amministrazione comunale, il
soggetto concessionario). Seppur come fattispecie del più ampio
patrimonio dei beni immobili pubblici, l’esperienza del riuso dei beni
confiscati ha motivi di interesse non solo rispetto all’obiettivo prioritario di
combattere le mafie e la cultura mafiosa, ma anche per gli effetti indiretti
che è capace di produrre sul funzionamento dell’organizzazione spaziale e
sociale. Anche se residuali, quei beni rappresentano inoltre un terreno di
sperimentazione da parte delle istituzioni a vario titolo coinvolte e
sembrano produrre, in alcuni casi, effetti altrimenti impensabili di
integrazione delle diverse matrici dell’azione pubblica, effetti che hanno
molto da dire rispetto alla possibilità di mettere alla prova il modello dello
sviluppo locale attraverso processi di valorizzazione dei beni immobili
pubblici: la messa a punto di una governance sia verticale (diversi i livelli
istituzionali di governo coinvolti) che orizzontale (diversi i settori della
medesima amministrazione coinvolti sul medesimo progetto) con tanto di
intelligenza delle istituzioni applicata alla costruzione di accordi e al
disegno di processi effettivamente influenti (formulazione di accordi
operativi).
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Il coordinamento istituzionale ai fini di predisporre istruttorie procedurali
adeguate entro tempi relativamente brevi -la fase definita regolarizzazione
del bene- rappresenta, attualmente, uno dei fronti sui quali i corpi
dell’amministrazione centrale stanno tentando di lavorare17. È questo un
passaggio centrale e tutt’altro che codificato che influisce sensibilmente sul
processo di valorizzazione del bene: non solo i beni necessitano di essere
censiti in modo compiuto e secondo categorie condivise tra livelli e settori
amministrativi, ma per qualsiasi intervento di riconversione essi devono
essere stati oggetto di una sequenza compiuta di atti pubblici ad opera di
tutti i soggetti competenti che ne rendano legittimo e possibile un nuovo
uso, tanto più nel caso il bene venga ceduto o concesso a un operatore del
17 “Uno degli obbiettivi prioritari che l’Agenzia del Demanio si è data, in particolare
attraverso il Progetto Valore Paese-Dimore, è quello di mettere intorno al tavolo, in una cabina
di regia nazionale denominata Comitato tecnico istituzionale, i principali attori pubblici
coinvolti: il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, il Ministero dello
Sviluppo Economico, il Ministero della Coesione territoriale (per tutto il filone della nuova
programmazione comunitaria 2014-2020 che vorremmo in parte canalizzare su questo
progetto), la Conferenza delle Regioni, Anci con la Fondazione Patrimonio Comune, Invitalia,
Cassa Depositi e Prestiti. Questi sono gli i principali attori istituzionali impegnati a fare
“fronte comune” per l’attuazione di un progetto ‘paese’ a cui si affiancano tavoli di lavoro
operativi con il coinvolgimento di altri partner pubblici e privati (ad oggi: Istituto per il
Credito Sportivo, Società Geografica Italiana, Turespaňa,Confindustria, AICA, Confcultura,
Assoimmobiliare, FAI, Italia Nostra, Fondazioni PROMO P.A., Italiadecide, Respublica,
Univerde, Banca Prossima, SINLOC, etc.) e di tanti operatori ed investitori di mercato
interessati ad interagire per la gestione di singole operazioni di sviluppo” (Aldo Patruno,
Agenzia del Demanio).
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mercato. Rispetto alla varietà dei beni in gioco ciò vale per tutte le
categorie di beni immobili pubblici che possiamo distinguere
sinteticamente in tre insiemi: beni vincolati, beni immobili demaniali, beni
immobili appartenenti agli enti locali.
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Il trattamento dei beni vincolati pone la necessità di temperare le ragioni
della tutela, garantita dai vincoli, e quelle dello sviluppo, secondo
l’accezione che ne abbiamo proposto qui. Due orientamenti ci paiono
auspicabili: lo slittamento da una visione che pone al centro il singolo bene
(monumento) a una prospettiva in cui emergano relazioni possibili ed
interazioni virtuose con altri beni e risorse del contesto, come nodo di una
rete tematica e territoriale; lo spostamento da una condizione in cui il
singolo bene tutelato da vincoli è dismesso o niente affatto fruibile alla
predisposizione di condizioni entro le quali sia possibile valorizzarlo
attraverso un progetto che ne contempli usi compatibili. In entrambi i casi
di tratta di rompere una sorta di isolamento del bene, quand’anche, nei casi
più felici, avesse già il potere di suscitare interesse e creare un indotto
nella filiera turistica e culturale. Si tratta di produrre effetti moltiplicatori
che attengono a una maggiore visibilità e ‘lettura’ del bene, all’interno di
circuiti accreditati e riconoscibili, ma anche a un posizionamento del bene
entro una visione territorializzata dello sviluppo, entro una cornice che
contempli politiche e azioni coerenti con i caratteri e le vocazioni di uno
specifico territorio18.
Riguardo ai beni demaniali e ai beni che fanno capo agli enti locali è da
prendere in maggior considerazione, rispetto a quanto non sia accaduto
fino ad ora, il tema della gestione del bene. Gli investimenti maggiori sono
stati fatti, fino ad ora, sulla conoscenza e sulla regolarizzazione del bene.
Tuttavia la qualità della valorizzazione del bene in un’ottica di sviluppo
localmente orientato dipende, oltre che dal modo in cui si interviene
materialmente sul bene stesso (gli interventi di trasformazione fisica dei
manufatti), anche dagli usi che se ne fanno. Influiscono sugli usi due
variabili: la destinazione funzionale, la cui regolazione sta in capo
all’amministrazione comunale attraverso i più classici strumenti della
pianificazione urbanistica; i vincoli connessi agli accordi di concessione e
di gestione del bene che possono determinare una maggiore o minore
garanzia di tutela della funzione pubblica del bene stesso19. La definizione
18 “È importante che l’amministrazione locale abbia pensato alla strategia di sviluppo
complessiva in cui beni dimensionalmente rilevanti si inseriscono: una valorizzazione di della
città, la riscoperta di vocazioni, un affiancamento del processo di valorizzazione che il solo
soggetto privato non può fare. È necessaria una mano pubblica che aumenti l’attrattività
dell’immobile perché l’elemento territoriale concorre a massimizzare il valore che se ne può
ricavare. Altrimenti la potenzialità economica è limitata oppure addirittura non si ha nessuna
potenzialità perché non si riesce ad attirare l’interesse degli investitori su un asset che non sia
inserito in un piano di valorizzazione” (Luca Dondi, Nomisma).
19 “Il problema è trovare prima le attività e poi gli spazi altrimenti si verifica quel che è
accaduto in certi casi con il programma Urban. Ma questo non è un tema che riguarda la sola
urbanistica, è un tema intersettoriale per eccellenza. Il terzo settore non può fare grandi
di requisiti che riguardino il profilo del soggetto gestore e la sua missione,
l’individuazione dei destinatari delle attività o dei servizi che il bene è
destinato ad ospitare, la selezione di condizioni relative alla garanzia di
alcune posizioni lavorative che attingano a categorie definite dal soggetto
pubblico sulla base della valutazione del mercato locale del lavoro,
l’impostazione di un sistema di monitoraggio in itinere che permetta nel
corso del periodo di concessione il rispetto di alcune condizioni ritenute
prioritarie: sono alcuni esempi delle leve attraverso le quali sia possibile
praticare forme di concessione del bene che non ne inibiscano alcuni
vantaggi di portata collettiva.
I meccanismi di concessione dei beni seguono generalmente procedure di
bando ad evidenza pubblica. In questi casi il bando è un vero e proprio
dispositivo capace di costruire (o meno) le condizioni necessarie, anche se
non sufficienti, perché un progetto di valorizzazione aderisca a criteri che
non hanno a che vedere in via esclusiva con la variabile della fattibilità
economica20. Soluzioni alternative al bando, laddove sia consentito rispetto
all’ammontare delle opere previste, potrebbero essere prese in
considerazione, nei casi in cui il decisore pubblico abbia proceduto a una
valutazione preliminare e approfondita delle condizioni di contesto e alla
selezione di soggetti che ritiene competenti e strategici rispetto a un
progetto complessivo di sviluppo (di un ambito territoriale, di una città). A
patto che ciò non lasci spazio ad alleanze e poteri locali il cui interesse
collide con il rispetto dello Stato, ciò che potrebbe accadere: la
valorizzazione dei beni pubblici come la costruzione di buone condizioni
di sviluppo passa attraverso una conoscenza accurata della realtà sociale e
culturale in cui agisce. A meno di non volersi limitare alla sua
monetizzazione, ciò che attualmente non possiamo più permetterci.
investimenti sui manufatti e dunque, su questo, serve un promotore che abbia prospettive di
reddito. C’è poi un insieme di questioni che riguardano il rapporto pubblico/privato e la
contrattualistica di concessione; i margini di definizione degli accordi su tempi d’uso e opere
a carico del concessionario.” (Paola Casavola, Nuval, Ministero Coesione Territoriale)
20 “Per ogni bene che viene candidato e va in bando di concessione facciamo uno studio di
fattibilità con Agenzia del Demanio e Invitalia prova proprio a curare la relazione tra il bene e
il territorio, studiando le potenzialità del territorio; oltre all’offerta e alla domanda studiamo
anche la coerenza del futuro del bene con la programmazione locale e territoriale” (Donata
Salghetti Drioli, Invitalia).
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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Esperienze
Il sito di Neapolis a Oristano: ricomporre area archeologica e territorio
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La vicenda
Nel coniugare tutela e sviluppo è necessario affrontare un problema generalmente
trascurato come quello del ‘significato’ che le preesistenze possono rivestire
nell’immaginario dei cittadini e delle comunità di appartenenza. Ma ancora più
importante è il ‘ruolo’ che l’area archeologica ricopre nei processi di sviluppo del
territorio.
Nella Sardegna medio-orientale, a sud-est del golfo di Oristano e alla radice di una
antica insenatura corrispondente alle lagune di Marceddì e San Giovanni ed agli
stagni di Santa Maria, è situata Santa Maria di Neapolis, documentata in vari testi
classici e medievali e localizzata all’interno di un contesto ambientale di grande
interesse naturalistico. Di origine punica, la città venne fondata dai Cartaginesi
negli ultimi anni del VI sec. a.C., e in età romana (a partire dal 238 a.C.) si espande
con la costruzione di opere, come le Grandi terme, trasformate in chiesa durante
l’alto Medioevo (Santa Maria di Nabui).
Le ricerche e le campagne di scavo e ricerca sull’area si susseguono da diversi anni
e il ruolo di centralità ricoperto dal centro antico nel sistema territoriale del golfo
di Oristano appare evidente.
Si potrebbe però affermare che la sfortuna più grande per l’area archeologica sia la
localizzazione in un territorio col tempo rivelatosi destrutturato. Nonostante sia
inserita in un contesto ambientale di rilievo, soprattutto dal punto di vista
naturalistico, l’area archeologica non riesce ad imporsi all’attenzione di possibili
fruitori, diventando un ospite ingombrante tenuto in vita esclusivamente
dall’applicazione dei vincoli di tutela, fruibile solo dal ‘personale autorizzato’ o da
un’utenza occasionale di carattere turistico e comunque con un impiego ‘usa e
getta’, cioè di consumo piuttosto che di fruizione. In questo senso Neapolis
rispecchia molte delle problematiche riscontrabili nel processo di tutela e
valorizzazione di aree a carattere storico-archeologico, dove oramai si riconosce il
carattere ‘storico’ di un sito solo dalla presenza fisica di ‘oggetti’ non più in uso.
Per valorizzare il sito diventa necessario trovare una soluzione che preveda
l’attuazione di una strategia mirata all’attuazione di un processo di tutela che non
si limiti ad una visione sito-centrica, ma possa avviare un processo di recupero dei
beni archeologici attraverso nuove finalità di fruizione e apertura al pubblico. Si
tratta di trovare la chiave per una conservazione non basata su presupposti
autoriproduttivi, ma che riesca a connettere concretamente il futuro dei luoghi alle
strutture ambientali, economiche e storiche, e che contenga in sé un concetto di
tutela che garantisca nella fruizione dei luoghi più il metodo che il fine ultimo.
Gli esiti
I luoghi sono sempre dotati di una propria ‘individualità’, che non può che
mantenersi attraverso ‘atti territorializzanti’, cioè comportamenti e scelte che
incrementano la loro specificità. In altri termini, un luogo è tale se le sue ‘invarianti
strutturali’ rimangono invariate, ovvero solo se gli elementi che strutturano il
territorio sono riconosciuti e valorizzati nella loro natura di ‘patrimonio
territoriale’.
Ma le aree archeologiche, proprio a causa del loro stato residuale, non hanno il
potere di porsi al centro di un progetto territoriale quanto le grandi risorse naturali
come fiumi o tratti costieri, spesso fulcro di progetti di recupero perché
riconosciuti di particolare pregio. Si tratta di contesti immersi in ambiti di grande
rilevanza ambientale, che però risentono della perifericità e dell’isolamento che li
rendono esterni alle dinamiche dei centri urbani e più in generale della
contemporaneità. Sviluppare un processo di valorizzazione esclusivamente
attraverso interventi mirati all’interno dell’area vincolata implica un progressivo e
continuo estraniamento dell’area rispetto al contesto circostante, verso una
persistente e settoriale interpretazione dell’archeologia che distoglie dall’idea che il
bene da tutelare possa rimandare ad un modello economico locale, artigianale e
culturale a cui è necessario rivolgere l’attenzione e dal quale non si può prescindere
nei processi di manutenzione ambientale e gestione-valorizzazione del patrimonio
territoriale.
Diventa dunque necessario porre le basi per una ‘rete territoriale’ che aiuti la
valorizzazione dei luoghi senza limitarsi esclusivamente ad una loro fissazione
museale e vincolistica.
Gli insegnamenti
Aumentare la scala di analisi e di intervento in un progetto di valorizzazione per
l’area archeologica dell’area di Neapolis può condurre a valutare possibili strategie
di coinvolgimento e inserimento del bene archeologico nelle dinamiche
contemporanee e a livello non solo locale, ma anche sovra-locale.
Il territorio rappresenta, dunque, il potenziale palinsesto per l’implementazione e
lo sviluppo di nuove realtà, che offrono al progetto nuove opportunità. In esso la
realtà archeologica di Neapolis ha la possibilità di porsi come spazio interagente
con il contesto.
Questo approccio richiama una concezione interattiva e costruttiva di paesaggio in
cui l’osservatore assume un ruolo determinante nella sua definizione. Diventa
necessario ed imprescindibile volgere l’attenzione e privilegiare, dove possibile, la
riprogettazione e riorganizzazione dei sistemi di accesso, sosta e transito in uso,
anche distanti ed apparentemente estranei ai beni: sono questi i veri ‘conduttori’ di
percezione del valore di un’area archeologica. Conduttori soprattutto casuali,
inaspettati e magari meno focalizzati sull’oggetto e più sensibili al contesto.
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Esperienze
Il progetto di recupero del quartiere Castello a Cagliari
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La vicenda
Il progetto del paesaggio storico urbano rappresenta uno dei temi al centro del
dibattito scientifico e didattico della Scuola di Architettura di Cagliari. Tra questi
assume oggi particolare rilievo lo studio relativo al quartiere Castello, esempio
straordinario di città murata che rappresenta un ambito di particolare interesse per
indagare sul recupero della città storica e sulla definizione di un suo nuovo ruolo
all'interno delle dinamiche urbane contemporanee.
La ricerca in corso di svolgimento interpreta il paesaggio storico urbano della città
di Cagliari secondo la visione innovativa della Raccomandazione UNESCO del 2011
e propone una visione condivisa del futuro del quartiere, costruita a partire dalla
consapevolezza dei valori e delle criticità attualmente presenti e del suo potenziale
ruolo all'interno delle dinamiche urbane.
L'obiettivo di preservare la qualità dell'ambiente urbano ha condotto a considerare i
grandi complessi e gli spazi pubblici di Castello come un importante sistema, da
riconoscere e valorizzare.
Nei venti ettari di edificato racchiusi dalle sue mura, Castello comprende edifici
pubblici di grande valore storico culturale che nonostante rappresentino, per i loro
caratteri e la posizione centrale, potenziali poli urbani oggi sono luoghi soggetti a
degrado perché in corso di dismissione e, a causa dei complicati meccanismi di
gestione, a rischio di abbandono.
Si ritiene che questa condizione debba essere affrontata incrementando la
consapevolezza dei valori patrimoniali e culturali in gioco ed elaborando una
strategia in grado di valorizzare e mettere in rete questo ricco insieme di spazi ed
edifici pubblici. In quest'ottica anche la recente II Scuola estiva internazionale di
Architettura ha sviluppato in forma di workshop progettuale il problema delle
relazioni tra Castello e il suo contesto proponendo una visione strategica di
"cittadella culturale" da attuarsi attraverso il riuso e la rifunzionalizzazione degli
spazi aperti e del patrimonio costruito da riconnettere in un sistema integrato.
Gli esiti
In questo senso è stata avviata la ricognizione dello stato dei luoghi, dei valori e
delle criticità presenti, in termini di conservazione e d'uso, attraverso lo studio del
sistema delle proprietà, dei vincoli e delle tutele, di cui fanno parte oltre 50 unità,
edifici e complessi architettonici, per la maggior parte oggi sede di funzioni
collettive.
In linea con l'obiettivo suggerito dall'UNESCO di «incoraggiare l’uso di tecnologia
informatica e della comunicazione per documentare, capire e presentare la
complessa stratificazione delle aree urbane e dei loro componenti costitutivi», la
ricerca sta portando avanti l'elaborazione di un data base accessibile alla
cittadinanza e agli utenti esperti, uno strumento per l'implementazione e la
condivisione della conoscenza ma anche piattaforma di confronto per stimolare la
riflessione critica intorno ai “futuri” possibili e condivisi per questi beni.
Gli insegnamenti
Le sfide future richiedono la definizione di una nuova generazione di politiche
pubbliche in grado di valorizzare il sistema delle relazioni e delle stratificazioni del
paesaggio urbano storico, salvaguardando i valori culturali, comprendendo il
significato che rivestono per le comunità locali e offrendo ai fruitori esterni una
visione più chiaramente definita e percepibile.
L'elaborazione del sistema della conoscenza rappresenta, pertanto, un passo
ineludibile per poter proporre politiche e azioni efficaci per la conservazione di
questi paesaggi, per conseguire l'integrazione tra la fabbrica urbana storica e gli
interventi necessari alla costruzione di una città che non rinunci ad essere
pienamente ‘contemporanea’.
Nel disegno di Cagliari, che si candida a 'Capitale europea della cultura' per il 2019,
occorre partire dal riconoscimento del grande 'parco urbano storico-culturale e
della conoscenza' che trova importante presenza nel centro storico. Seguendo le
indicazioni della Raccomandazione UNESCO, il passo successivo sarà quello di
definire un 'piano di gestione' che, considerando il Sito come 'luogo attivo di
produzione di cultura contemporanea', riesca ad ampliare il tradizionale concetto
di luogo di conservazione della cultura storica, fornendo un contributo originale
allo sviluppo del sistema economico locale, con particolare riferimento alla crescita
del turismo culturale.
Link utili:
UNESCO (2011), Recommendation on the Historic Urban Landscape, risoluzione
adottata nel report della CLT Commission durante la 17° conferenza plenaria, 10
Novembre 2011; disponibile al sito: http://portal.unesco.org/en/ev.phpURL_ID=48857&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html
MiBAC (2005), Progetto di definizione di un modello per la realizzazione dei Piani
di Gestione dei siti UNESCO, p. 3,
disponibile al sito: www.unesco.beniculturali.it/getFile.php?id=45
Città, Università, Architettura, Università degli Studi di Cagliari, Prolusione del Prof.
Antonello Sanna in occasione dell'inaugurazione dell'Anno Accademico 2010-11, 12
gennaio 2011; disponibile al sito:
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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www.unica.it/UserFiles/File/Utenti/Francesca/generale/2011/05/UNIVERCITY%20_
1_.pdf
Scuola estiva internazionale di Architettura. "Sardegna. Il territorio dei luoghi. Verso
la città murata". Cagliari 2-14 settembre 2013.
http://sites.unica.it/architettura/category/2a-scuola-estiva-internazionale-diarchitettura/
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Esperienze
Ex caserma Manin a Venezia, tra valorizzazione e nuova offerta abitativa
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La vicenda
Il riuso dell’ex caserma Manin riguarda un compendio di eccezionale rilevanza
urbanistica, ubicato nel centro storico di Venezia, le cui caratteristiche tipologiche
si riflettono nell’originaria funzione dell’immobile che costituiva una tra le più
imponenti strutture conventuali della città. L’immobile è costituito da circa 10.000
metri quadri di superficie coperta, disposti su quattro piani e rappresenta uno dei
più rilevanti manufatti del centro storico, situato lungo il suo margine nord (le
Fondamenta Nuove) di fronte all'Isola di San Michele (sede del cimitero) e nei pressi
dell’area dell'Ospedale, in un ambito urbano significativamente caratterizzato da
flussi pendolari, da e verso la terraferma, sia dei dipendenti delle numerose
strutture pubbliche adiacenti che degli utenti dei servizi. Dopo la conversione in
caserma l’immobile, seppur proiettato in una nuova funzione, ha continuato a
porsi, anche grazie alla presenza di alcuni caratteri morfologici distintivi (i chiostri,
la scala monumentale e le “maniche” dei dormitori) quale elemento ordinatore per
l’area in oggetto, la cui unitarietà ha rappresentato un ostacolo significativo per la
fattibilità tecnico – economica dei progetti di riuso dell’immobile. Il convento è
stato ceduto al Comune per effetto delle disposizioni contenute nelle due leggi
Speciali (1973, 1984) che hanno attenuato i vincoli di riuso ed ammesso la
possibilità di insediarvi funzioni collettive di interesse pubblico senza limitare il
campo delle opzioni alla sola funzione residenziale. Per oltre un ventennio un
lungo elenco di proposte progettuali è però rimasto inattuato: la logica
programmatoria dell’amministrazione comunale interessata a localizzarvi servizi
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
pubblici (scuole o uffici decentrati) è inadeguata ed inefficace sul piano
dell'implementazione dei processi, limitandosi alla sola verifica di compatibilità
urbanistica dell’immobile sulla base di quadri di riferimento generici e già contenuti
nei piani particolareggiati del 1973. Il progressivo venir meno delle risorse
finanziarie a disposizione dell’ente locale consente soltanto interventi puntuali di
manutenzione straordinaria, e riduce ulteriormente la capacità di elaborazione
progettuale del Comune, al punto che le successive proposte di riuso sono l’esito di
elaborazioni esterne all’amministrazione ed ai suoi uffici. Nel 2007 il decreto
ministeriale di rifinanziamento della legge 388/2000 apre una possibilità di
intervento alla Fondazione Universitaria Iuav che si fa promotrice di un progetto di
riuso e valorizzazione basato sull’offerta di un mix di soluzioni abitative integrate
tra studenti, ricercatori e, recependo una richiesta dell'amministrazione comunale,
residenti in social housing.
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Gli esiti
Muovendosi nel perimetro disegnato dalla propria missione istituzionale, la
Fondazione ha concentrato competenze tecniche (ISP 21 ) ed aggregato attorno al
proprio progetto soggetti istituzionali ed interessi differenziati (Comune/IVE;
Fondazione di Venezia; ESU/Regione). Ottiene su queste basi un’ampia copertura
finanziaria 22 e dà avvio alla progettazione esecutiva. Nell’arco di due anni dalla
presentazione della documentazione necessaria per la domanda di finanziamento
(2007) viene predisposto il progetto definitivo (2009) nel rispetto dei vincoli del
piano economico finanziario riportato nell’accordo per l'ottenimento da parte del
Comune del diritto di superficie sull'immobile. Tra il 2010 ed il 2013 Fondazione
Iuav gestisce la gara per la realizzazione di tutti gli interventi e si impegna
all’individuazione del futuro gestore delle residenze. L’intervento sulla fabbrica
conventuale, ormai in fase avanzata di completamento, fa ampio ricorso all'impiego
di tecnologie avanzate e soluzioni reversibili, da cui discende l'allestimento di
moderne aree funzionali (servizi culturali, didattici e ricreativi) che saranno aperte
al pubblico ed integrate con le unità residenziali localizzate ai piani superiori.
Gli insegnamenti
Resta più complessa la valutazione degli esiti sul piano della capacità del progetto
di costituire un tassello di una strategia articolata di innovazione dell’offerta
abitativa in termini di qualità dei servizi, capacità inclusiva e creazione nuova
residenzialità attiva: oltre ad essere saltata la realizzazione delle unità in social
housing per i limiti di capacità finanziaria dell'amministrazione locale, il modello
21 Iuav è Università nella cui principale vocazione rientra l’attività di progettazione e al
momento della stipula del Protocollo di Intesa con il Comune si rende disponibile a
provvedere direttamente e per tramite delle proprie articolazioni organizzative alla
progettazione degli interventi. In particolare tramite ISP “Iuav studi e progetti” società di
servizi di ingegneria e progettazione che intendono caratterizzarsi per il livello di ricerca e
sperimentazione resa possibile dalla presenza e dal coordinamento dei docenti dell’ateneo.
22 A fronte di un costo complessivo stimato intorno ai 22ML di euro, la Fondazione Iuav ha
ottenuto circa 18 ML di euro di co-finanziamento così ripartiti: 13,5 ML dal Miur; 2,5 ML dalla
Regione Veneto; 1 ML dalla Fondazione di Venezia per le attività di progettazione. I restanti 5
ML rappresentano la quota di fabbisogno finanziario verso la quale la Fondazione Iuav è
ricorsa ad indebitamento diretto tramite mutuo. A fronte di un ulteriore decreto ministeriale
di rifinanziamento della legge 388/2000 la Fondazione Iuav ha inoltre deciso di concorrere nel
2011 all’assegnazione di ulteriori risorse, ciò per consentire, trascorso il tempo necessario alla
selezione e alla conseguente assegnazione dei contributi, di estinguere anticipatamente il
mutuo contratto.
gestionale prefigurato rivolto esclusivamente alla residenzialità studentesca ed
universitaria risulta difficilmente replicabile in assenza di quote consistenti di
risorse pubbliche a ciò dedicate, e sottoposto ad una pressione costante da parte
del mercato legato turismo del centro storico.
Link utili:
www.immobiliareveneziana.it/index.php?option=com_content&task=view&id=41&It
emid=78
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5. Non alienare il patrimonio pubblico
Orientamenti
Il dibattito corrente sulla gestione del patrimonio immobiliare pubblico è
inquinato dal pregiudizio che quel patrimonio sia una “gallina dalle uova
d’oro”, capace di ridurre in breve tempo il debito dello Stato con una
massiccia immissione di beni sul mercato. Il pregiudizio è del tutto
infondato, perché l’esperienza condotta negli anni recenti dimostra
inequivocabilmente che solo una minima porzione del patrimonio pubblico
è immediatamente alienabile. Le ragioni sono molte e in parte sono state
anticipate dai capitoli precedenti del nostro documento. Nemmeno in
condizioni di normalità il mercato immobiliare italiano, oggi in grave crisi,
sarebbe in grado di assorbire uno stock del valore ipotizzato di alcuni
miliardi23. L’offerta pubblica sarebbe talmente inflazionata da rendere
incerta qualsiasi stima del suo valore di mercato24. L’alienazione di ciascun
bene immobile presuppone una ricognizione il più possibile analitica del
mercato di riferimento con procedure che non è possibile standardizzare
né accelerare oltre un certo limite; lo stato di fatto e di diritto degli
immobili pubblici, quand’anche sia conosciuto a sufficienza, è
generalmente lontano dalle esigenze degli investitori privati, né può essere
adeguato senza il concorso e la cooperazione di più soggetti istituzionali,
ciascuno dei quali è il portatore di competenze indispensabili e di giudizi
autonomi25. Il pregiudizio è infine dannoso, perché impedisce di
riconoscere, di accrescere e di sfruttare le reali potenzialità del patrimonio
pubblico, anche di tipo reddituale, ai fini di una ripresa non effimera dello
sviluppo del paese.
Non proponiamo di issare stendardi a favore o contro la vendita degli
immobili pubblici. La vendita dei beni disponibili è legittima e sensata in
alcune circostanze, tuttavia sarebbe sbagliato praticarla in modo
indiscriminato come se fosse a priori la soluzione gestionale più
remunerativa e più vicina all’interesse generale. Talvolta loro malgrado,
23 Nell’ottobre 1012 il ministro dell’Economia Vittorio Grilli dichiarava al Senato che lo Stato
può procedere in tempi rapidi alla dismissione di beni immobili per 3-5 miliardi di euro, ma
che l'obiettivo del governo era quello di attivare un programma pluriennale di valorizzazioni e
vendite che, a regime, assicurasse risorse per 15-20 miliardi annui.
24 È cresciuta nel tempo l’aspettativa di immettere nel mercato dell’affitto spazi pubblici a
canoni sovrastimati, con effetti perversi. È questo il caso di spazi situati in ambiti urbani
remoti o comunque poco accessibili, o degli spazi ai piani terra dislocati in quartieri pubblici
in cui non esiste alcuna domanda da parte di imprenditori del commercio.
25 Nella polarizzazione tra stato e mercato sfuma fino quasi a scomparire la percezione dei
diversi “pubblici” che sono in campo nell’arena in cui si determinano le sorti del patrimonio
immobiliare pubblico.
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governi nazionali e locali ricercano nel termine del mandato elettorale il
riscatto di situazioni debitorie o di forti criticità del bilancio.
Prendendo atto che la vendita all’ingrosso del patrimonio pubblico è una
politica impossibile, perciò priva di effetti rilevanti sul debito pubblico, si
sgombra il campo da una serie di equivoci e di retoriche che occultano la
perdurante assenza di una strategia gestionale, di decisioni sull’uso che
intendiamo fare del patrimonio e sui vantaggi che intendiamo ricavarne.
Vendere il patrimonio pubblico è di rado la soluzione migliore per lo Stato
e per gli Enti locali che, in quanto istituzioni permanenti, sono vocati a una
gestione patrimoniale di lungo periodo. I beni immobili che essi
posseggono svolgono una serie di funzioni insostituibili: 1) sono un
presidio del territorio, in quanto condizioni per la stabilità e la capillarità
dei servizi forniti alla cittadinanza e al sistema delle imprese; 2) sono un
fattore di organizzazione del mercato immobiliare, in quanto
contribuiscono a proteggere la domanda non solvibile; 3) sono
testimonianza e memoria culturale della nazione; 4) sono una garanzia
ipotecaria e infine 5) possono costituire una fonte di reddito se gestiti
efficacemente oppure sostituire altre forme di spesa sociale26.
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Noi proponiamo che qualsiasi ipotesi di alienazione passi attraverso
l’attenta ponderazione della sussistenza di un interesse pubblico alla
conservazione del bene, per utilizzarlo a vantaggio della collettività. La
dismissione dovrebbe essere considerata la soluzione opportuna solo dopo
avere valutato tutte le altre alternative possibili. Gli atti amministrativi coi
quali si dispone dei beni pubblici dovrebbero sempre argomentare le
ragioni della scelta e considerare tutte le soluzioni alternative
all’alienazione.
La strategia gestionale che auspichiamo opta decisamente per l’intervento
sistematico di lungo periodo anziché per l’intervento puntuale e rapsodico.
L’alienazione di singoli cespiti appetibili dal mercato limita fortemente gli
effetti sistemici di sviluppo alla scala locale e impoverisce il valore
cumulativo del portafoglio pubblico. Diversamente, una gestione rivolta a
selezionare di volta in volta forme sinergiche di valorizzazione in relazione
alla tipologia dei beni e dei contesti in cui essi risiedono, nonché alle
finalità d’interesse generale perseguite, può generare risorse da investire a
beneficio della collettività.
Dovrebbe essere ovvio che alienare un bene senza averlo preventivamente
valorizzato equivale alla svendita di quel bene, ammesso che si riesca a
26 La messa a disposizione di spazi pubblici in comodato d’uso gratuito o con canoni molto
contenuti costituisce una forma di sostegno a soggetti del terzo settore/imprese sociali che
per definizione sono privi di un capitale iniziale da investire per l’acquisizione di uno spazio
in cui esercitare la propria attività e/o che faticherebbero a sostenere i canoni di mercato.
individuare un compratore. Questo genere di consapevolezza ci sembra che
sia maturato presso alcune agenzie statali e presso gli enti locali più
virtuosi, ma nella pubblica amministrazione italiana è ancora presente, a
detta di molti, un deficit di capacità gestionali che porta talora a preferire
alcuni tipi di azioni semplicemente perché ritenute più semplici da
eseguire oppure perché sperimentate nel passato.
La valorizzazione copre tuttavia un ventaglio ampio di azioni, non
necessariamente propedeutiche alla vendita, che comprende la
razionalizzazione degli spazi e la ricerca del loro migliore utilizzo, la
manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, l’efficientamento
energetico, la rinegoziazione dei canoni locativi, il cambio di destinazione
urbanistica, l’esecuzione di opere di urbanizzazione, la bonifica dei suoli
contaminati e via elencando.
Una parte non secondaria di queste azioni, anche quando riguardino i beni
del demanio statale, chiama in causa le competenze in materia di governo
del territorio affidate agli enti locali, in modo particolare ai Comuni dove i
beni risiedono. Dapprima la normativa sul programma unitario di
valorizzazione, poi quella sul federalismo demaniale, incentivano la
cooperazione tra lo Stato e gli enti locali riconoscendo nella pianificazione
urbanistica una leva essenziale della valorizzazione. Se e quando un
immobile è destinato all’alienazione, ci sembra scontato sottolineare che la
domanda e il valore di quel bene dipendono dalle attività che in esso si
potranno svolgere. Se alla definizione di queste attività non si può giungere
prima delle procedure di alienazione, per l’assenza di un accordo tra lo
Stato proprietario del bene ed il Comune gestore del territorio, oppure vi si
giunge in tempi così lunghi da essere inaccettabili per qualsiasi investitore
privato, non vi è dubbio che le probabilità di successo dell’alienazione si
riducano drasticamente . A maggior ragione viene da domandarsi se sia
sempre preferibile, nei piani urbanistici, assegnare gli usi meno
remunerativi ai suoli di proprietà pubblica27, quando è possibile recuperare
dai suoli di proprietà privata lo standard necessario, ad esempio mediante
il procedimento perequativo che oggi diverse leggi urbanistiche regionali
disciplinano e che numerosi pronunciamenti giurisprudenziali hanno
legittimato.
La valorizzazione degli immobili pubblici è per sua stessa natura un gioco
cooperativo che implica la partecipazione di molteplici attori pubblici e di
27 “Solo nel periodo più recente si sta cominciando a capire che non c’è ragione di
penalizzare i propri beni nelle scelte di governo del territorio. Purtroppo le cose non stanno
ancora andando in questo senso, da una parte è ancora molto profondo il convincimento che
l'amministrazione pubblica non debba fare l’imprenditore, che è un convincimento corretto se
si ritiene che essa non debba fare lo speculatore nel senso italiano del termine, però deve fare
in modo che i propri beni siano una risorsa autentica: se posseggo una risorsa, non è naturale
che io penalizzi proprio la mia risorsa. Almeno la metto al pari delle altre (Giovanni Verga, ex
Assessore all’Urbanistica del Comune di Milano).
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molteplici attori privati, siano questi orientati al profitto, portatori di
competenze professionali, oppure interessati all’uso diretto di un
immobile. L’interazione tra questi attori, che perseguono finalità differenti
e non di rado conflittuali, può essere agevolata da un uso strategico della
pianificazione urbanistica per dare impulso a progetti di scala territoriale.
È il territorio la sola dimensione nella quale i conflitti tra usi alternativi
dello spazio possono essere mediati e avviati a soluzione. Per questa
ragione noi riteniamo importante legare la strategia di gestione del
patrimonio immobiliare pubblico, oggetto di questo documento, alla
riforma del sistema di pianificazione italiano, ormai ridotto a un mosaico
incomprensibile di ordinamenti regionali sul quale si abbattono
provvedimenti derogatori di ogni sorta. In ambo i casi la ratio non può che
essere l’abbandono dello stile di governo emergenziale, divenuto col
passare del tempo e in modo paradossale una prassi ordinaria, per
costruire invece un impianto di governo lungimirante, perseverante,
rendicontabile e, dunque, meglio controllabile da parte dei cittadini e dei
portatori di interessi legittimi.
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Un intervento sistematico e di lungo periodo sul patrimonio pubblico, in
alternativa alla frettolosa alienazione, riconosce anzitutto in quel
patrimonio una risorsa da utilizzare e non un fardello costoso e
improduttivo. Lo stato di abbandono, dismissione e inaccessibilità di un
bene pubblico è un oltraggio morale poiché nega la stessa sua ragion
d’essere. L’utilizzo del bene in una forma che sia il più possibile
appropriata alle sue caratteristiche è un obiettivo anteriore e prevalente
rispetto alle modalità della disposizione.
Se e quando gli immobili pubblici non sono strumentali ai fini istituzionali
delle amministrazioni pubbliche, le forme concessorie e locative previste
dalla normativa vigente, andate moltiplicandosi negli ultimi quindici anni,
consentono di ricercare combinazioni efficienti tra garanzia di utilizzo del
bene, reperimento di risorse per la riqualificazione e gestione,
soddisfacimento di bisogni collettivi e individuali, materiali e simbolici, dei
quali non è il mercato a farsi interamente carico28. Tanto più ciò è vero
negli ambienti urbani disagiati dove, non di rado, un patrimonio pubblico
in condizioni di sottoutilizzo potrebbe essere affidato agli attori che
promuovono attività di integrazione sociale e di sviluppo locale anziché
restare desolatamente vuoto. Lo stesso può dirsi del patrimonio
residenziale che, pure a fronte della domanda in forte crescita, è sfitto in
misura non irrilevante per i costi elevati della manutenzione. Questi costi
28 “Un bene comunale, che viene utilizzato per realizzare un servizio, viene rilevato dal
privato che mette le risorse, gestito per un certo numero di anni e restituito al termine del
periodo di concessione. Questo funziona molto bene, quando ero Sindaco a Piacenza abbiamo
avuto con il meccanismo della concessione e gestione realizzazioni di ogni tipo: dall’asilo nido
al forno crematorio, passando attraverso i parcheggi, il parco enogastronomico, la piscina”
(Roberto Reggi, Fondazione Patrimonio Comune).
sono maggiori dove si è praticata la vendita parziale degli alloggi, pur
senza dimenticare che la vendita del patrimonio residenziale in quartieri
un tempo periferici è stata anche un trasferimento di rendita urbana a quei
ceti sociali che sono stati in grado di pagare allo Stato un prezzo di riscatto
modesto.
La concessione pluridecennale a fronte di un progetto credibile di
valorizzazione, la costituzione di diritti di superficie29 come di altri diritti
reali, il conferimento in un fondo immobiliare, la permuta, la locazione, il
comodato d’uso e altro ancora sono atti dispositivi in parte reversibili
attraverso cui il proprietario pubblico può perseguire un ventaglio di scopi:
ottenere una redditività patrimoniale dignitosa; recuperare la funzionalità
di un bene altrimenti inutilizzato; ottimizzare la distribuzione territoriale
di sedi e presidi istituzionali; dare spazio ad attività di animazione
territoriale senza fini di lucro; fare insomma l’interesse di una collettività
che ha diritto a uno spazio ospitale, che non sia continuamente oggetto di
competizione economica, da usare insieme con altri, che costruisca e
tramandi un’immagine forte, riconoscibile ed emotivamente connotata del
nostro territorio.
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29 “Si sta lavorando anche sul tema del diritto di superficie, applicato agli immobili
appartenenti al patrimonio culturale, un tema che favorirebbe la bancabilità di iniziative di
sviluppo degli immobili pubblici. Oggi una concessione su un bene demaniale, dal punto di
vista delle garanzie bancarie e, dunque, della bancabilità stessa dell’iniziativa economica
sottostante, risulta molto debole. Su una concessione demaniale, tanto per intendersi, non è
possibile accendere un’ipoteca. Viceversa il diritto di superficie è un diritto reale vero e
proprio” (Aldo Patruno, Agenzia del demanio).
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Esperienze
Riuso dell’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano
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La vicenda
Le mura di cinta dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano perimetrano
un’area di circa 270 mila metri quadrati interamente di proprietà pubblica situata ai
confini settentrionali della città di Milano, adiacente ad un antico nucleo storico Affori - e ad un grande quartiere popolare - Comasina - realizzato negli anni '50. Un
insediamento, articolato in trenta padiglioni simmetricamente distribuiti in un
parco e costruiti a partire dagli anni ‘20, che troviamo diffusamente replicato nei
manicomi realizzati all’inizio del secolo scorso in Italia e in molte città europee.
Un’apertura principale e monumentale presso la quale avevano sede gli uffici di
accettazione e l'amministrazione introduce ad una sequenza di padiglioni
residenziali. Altri edifici erano destinati a funzioni complementari: la mensa, le
cucine, la fattoria e gli orti, un laboratorio di falegnameria, una chiesa, la camera
mortuaria.
La chiusura del manicomio in attuazione della Legge Basaglia (n. 180/1978) e la
separazione in comparti produce la fine del governo comune dell’area e si afferma
un regime di rapporti bilaterali fra gli enti proprietari (ad oggi: Azienda Sanitaria e
due diverse Aziende ospedaliere). L'amministrazione comunale non risulta titolare
di alcuna proprietà e per questo nel corso del tempo si sottrae a qualsiasi ruolo di
regia o di presenza attiva nell’orientare il destino dell’area. Una lenta
trasformazione del patrimonio immobiliare si dispiega per mezzo di trasformazioni
incrementali di piccola scala messe in atto sia dalle amministrazioni sia dai progetti
sociali. La distrazione delle istituzioni proprietarie è una sorta di basso continuo
che dopo la chiusura del manicomio segna l’introduzione di nuove funzioni sociosanitarie secondo una trasformazione che avanza per una sorta di saturazione
progressiva.
Marcatamente diversa è la filosofia progettuale di Olinda, una
cooperativa di tipo B, che è invece una strategia proattiva, che mette in gioco una
concezione di impresa sociale che intraprende progetti di welfare in campo
culturale e che proprio sul diverso uso dello spazio fanno leva.
Gli esiti
Il riuso dell’ex ospedale psichiatrico è oggi per lo più concluso. La quasi totalità dei
fabbricati che la chiusura dell’ospedale psichiatrico ha liberato sono oggi
diversamente utilizzati. Un circolo ricreativo, un museo d’arte, una chiesa di rito
copto e un centro di accoglienza per senza fissa dimora sono dislocati nel parco.
Una serie di strutture pubbliche offrono servizi in campo sanitario, sportelli e
ambulatori, un hospice per malati terminali e comunità residenziali assistite.
Insieme a queste funzioni: un teatro che gode di fama crescente, un ristorante slow
food ed un ostello assai apprezzato sono gestiti da una cooperativa, Olinda, che
impiega per il 50% di personale svantaggiato in progetti di economia ed inclusione
sociale. Il grande parco alberato è sede di manifestazioni pubbliche di grande
rilievo e di un festival che in estate rappresenta uno degli eventi di punta della città.
Gli orti, nel manicomio parte del ciclo di attività circolari e concluse che si
svolgevano entro le mura e al servizio degli internati, sono oggi luogo dell'attività di
un’associazione che coinvolge, nella coltivazione di aromi e di un numero crescente
di orti comunitari, gli abitanti dei quartieri circostanti.
Sono queste le attività che contraddistinguono l’area dell’ex Paolo Pini come luogo
di eccellenza, in cui una costellazione di diverse attività produce effetti urbani alla
periferia della città, in un sito che è stato tra i principali emblemi della
segregazione nella città del novecento. Le strutture e i servizi più ordinari
costituiscono nell’insieme un sistema di rilievo locale per gli abitanti del nord
Milano. L’elevata qualità ambientale di uno spazio verde che ha pochi paragoni in
una città densamente urbanizzata si combina con un sistema integrato di servizi la cultura, il cibo, l’accoglienza, il lavoro - che ha rilievo metropolitano.
Gli insegnamenti
Il caso mette in evidenza la rilevanza di una dimensione di valorizzazione sociale
degli immobili tanto più laddove la valorizzazione economica è poco probabile e di
scarso rilievo in termini di benefici all’intorno.
Riuso e valorizzazione delle proprietà immobiliari pubbliche emergono come esito
di pratiche e funzioni che si sono andate stratificando in modo autonomo
cogliendo l’occasione di una fase turbolenta di trasformazione del welfare e della
disponibilità di beni immobili inutilizzati. Il vincolo urbanistico che nel corso del
tempo ha confermato una destinazione a servizi alla persona, ha certamente
giocato un peso assai rilevante nell’inibire possibili ipotesi di cessione e/o
valorizzazione e nel definire condizioni emblematiche che mettono in rilievo un
nesso tra disponibilità di un patrimonio immobiliare pubblico e produzione di
politiche sociali e welfare in tempi di crisi.
Nello specifico, la filosofia di azione della cooperativa Olinda mette in rilievo come
la disponibilità di uno spazio possa costituire una misura straordinaria di
finanziamento pubblico (corrente) per molti soggetti ed imprese sociali impegnate
nella produzione di servizi di welfare ma privi di un capitale iniziale; altre fonti e
canali di finanziamento vengono fatti convergere in modo incrementale per poter
riattare, trasformare lo spazio e farlo corrispondere all`attività. È il caso, ad
esempio, di finanziamenti per l’inclusione sociale che vengono impegnati per
realizzare il progetto di allestimento del bancone del bar, sotto la supervisione di
un noto designer, e per convertire l’ex obitorio in ristorante, o dei finanziamenti
destinati alla formazione professionale che vengono impiegati per formare
muratori e al contempo per ripristinare e mettere a norma la struttura dell’ex
convitto che diventa ostello. È in questo spirito d’intrapresa che Olinda articola in
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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modo incrementale il proprio profilo di impresa sociale e la ri-significazione,
nonché valorizzazione, del luogo.
Link utili:
www.olinda.org
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Esperienze
Decostruzione dell’edilizia residenziale pubblica di Tor Bella Monaca a Roma
La vicenda
Il caso del quartiere di Tor Bella Monaca è legato all’omonimo Piano di Zona (PdZ), il
ventiduesimo in attuazione del primo Piano di Edilizia Economica e Popolare di
Roma (legge 167/62), che copre una vasta superficie di 188 ettari. Tale PdZ si trova
nell’attuale Municipio VI, tra la Casilina e la Prenestina, oltre il Grande raccordo
anulare, prossimo all’Università di Tor Vergata. Ottenuta la delibera comunale di
concessione edilizia nel luglio 1980, in tre anni il Consorzio di Tor Bella Monaca ha
costruito più di 3300 alloggi comunali, 13 scuole di vario livello e infrastrutture per
il carico urbanistico preventivato di 30 mila abitanti. Per la sua costruzione si è
fatto ricorso alla prefabbricazione; la varietà tipologica si è prodotta attraverso la
composizione di varia edilizia intensiva (torri, stecche, edifici in linea con corti
aperte) disposta su una vasta superficie fondiaria in un rapporto tra costruito e
spazio aperto molto diversificato; la cura del verde è in alcuni casi notevole, in altri
manca di definizione: sono le aree dei servizi mai realizzati. Come per gli altri
insediamenti residenziali pubblici della città, Tor Bella Monaca ha faticosamente
gestito nel tempo le difficoltà legate ad un alto tasso di disagio sociale, sollecitando
i propri presidi scolastici, sociali e sanitari ad un grande e particolare lavoro. Il
quartiere negli anni si è aperto anche all’attraversamento di strutture associative,
religiose e non, di centri sociali e di numerose organizzazioni di abitanti che si sono
affiancate alle insufficienti e stressate strutture pubbliche esistenti, supportandole
in maniera corposa.
Nonostante questo sforzo, i problemi legati alla concentrazione del disagio
sembrano costituirsi come stigma indelebile derivante, sembra, proprio dal
contesto urbano in cui insistono, ghetto sempre degno della cronaca nera. In
assenza di un investimento adeguato da parte pubblica, i problemi si sono
radicalizzati. Anzi, i continui tagli di questi ultimi anni ai servizi sociali di Roma
Capitale, ispirati dal più generale clima di austerity, hanno prodotto ulteriore
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
53
danno.
Alcuni tentativi verso una riqualificazione urbana che utilizzasse strumenti
sensibili al contesto sociale e ambientale sono agiti verso la fine degli anni ’90: il
programma Urban Italia “La città muove le Torri” e il Programma di recupero
urbano (PRU) Tor Bella Monaca (art. 11 legge 493/93), non del tutto attuati, ma dagli
esiti interessanti. A questi importanti strumenti si aggiungano le varianti al PdZ con
cui, ad esempio, si è realizzato il Teatro e alcune residenze studentesche della
vicina Università. In ultimo, il Programma integrato di riqualificazione urbana
(PRINT) promosso attraverso la decisione della giunta Alemanno del 16 febbraio
2011 in cui di fatto, dopo una rapida analisi contestuale, si propongono come
variante al PdZ la demolizione dei “comparti residenziali di edilizia pubblica” e la
ricostruzione di un diverso tessuto urbano con il supporto dei privati. Supporto che
viene sostenuto dal passaggio di proprietà: il suolo, liberato dall’edilizia attuale e
del tutto ridisegnato, sarebbe in gran parte occupato dall’edilizia privata.
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A parte la grave e irrisolta questione di non aver pensato al coordinamento dei
diversi strumenti già presenti sul territorio (laddove ad esempio si demolirebbero
luoghi di intervento del PRU) questo PRINT concentra la sua proposta sullo spazio
fisico, da demolire, riconfigurare e ricostruire, continuando a sottovalutare le
problematiche sociali, che non affronta. La soluzione capitolina, arricchita dal
masterplan dell’architetto Leon Krier, consiste nella sostituzione dell’attuale
edificato con un tessuto urbano ispirato ai criteri del new urbanism. Più volte dalla
prima presentazione del progetto nel 2010, appartenente al Progetto strategico
Millennium 2010-2020, si è fatto riferimento alle misure e ai rapporti di prossimità
del quartiere Garbatella, sebbene tra i due casi ci sia un salto di scala che li rende
imparagonabili. Infatti per Tor Bella Monaca, il progetto prevede l’ampliamento
delle aree edificate da 77,7 ettari a 96,7 ettari, con un incremento previsto della
popolazione, già in forze di circa 28 mila abitanti, di altri 16 mila per un totale di
44 mila abitanti. Nella descrizione del progetto si nominano le aree investite dal
nuovo tessuto edilizio come: «piccole aree libere esterne al quartiere» (Roma
Capitale, 2010). Sono le aree di proprietà Vaselli che costituiscono i numerosi ettari
mancanti: in cambio, il costruttore parteciperebbe alla costruzione del nuovo
quartiere, consumando per lo più le aree pubbliche a standard non realizzati e
accumulando nuovo patrimonio immobiliare da vendere.
Gli insegnamenti
Ciò che sembra un’abile contrattazione tra interesse pubblico e privato, capace di
restituire alla città il rinnovamento del patrimonio pubblico senza rischio di sfratto
per gli abitanti, nasconde il fatto che per la prima volta il patrimonio che viene
definitivamente consegnato in mano privata è il suolo pubblico, attraverso una
grande operazione di dismissione. Realizzare questa ipotesi significa ottenere la
sostituzione edilizia dello stesso numero di case popolari già esistenti - senza alcun
incremento di servizi e infrastrutture necessarie a sostenere il carico urbanistico
aggravato che non siano già state previste dal piano regolatore vigente - in cambio
della perdita definitiva del suolo pubblico, sia dal punto di vista della proprietà, che
dal punto di vista del suo uso. Il progetto inoltre, sovrapposto alle preesistenze,
comprenderebbe con i suoi perimetri, per demolirli e delocalizzarli altrove, anche
quegli spazi che oggi costituiscono riferimenti aggregativi per il quartiere non solo
per le funzioni che contengono, ma per le qualità ambientali (per esempio, la
pineta, i campi sportivi comunali, le sedi dell’associazionismo). L’impossibilità da
parte pubblica di poter avviare un processo selettivo, cauto, capace di scegliere la
migliore delle soluzioni tra recupero, sostituzione e trasformazione dello spazio
esistente, sembra parlare di una rimozione, di un desiderio di rinunciare al
protagonismo dell’intervento e dell’indirizzo pubblico nell’agire urbano. Con il
passaggio alla nuova amministrazione comunale il progetto è stato accantonato, in
virtù di una maggiore consapevolezza dell’amministratore pubblico nei processi di
trasformazione della città. Rimane però significativo il caso, poiché rappresenta un
tentativo, anche molto concreto, di cosa rischi la risorsa più preziosa della città,
ovvero il suolo pubblico, se barattato per poco e senza la forza di alcuna strategia
complessiva: un principio che potrebbe portare Roma, come ammonisce il nuovo
assessore all’urbanistica della città Giovanni Caudo, a demolire e svendere altri 113
quartieri di edilizia residenziale pubblica.
Link utili:
www.urbanistica.comune.roma.it/pru-tbm.html
www.urbanistica.comune.roma.it/programma-tor-bella-monaca.html
www.urbanistica.comune.roma.it/partec-torbellamonaca.html
www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/Mun_viii_2010_12_17_patto_
alemanno_tbm.pdf
www.risorse-spa.it/it/component/content/article/9-video/98-video-prutorbellamonaca.html
www.inarchlazio.it/TorBellaMonaca.PDF
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SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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6. Sintesi programmatica
La sintesi che proponiamo ai nostri lettori procede da una convinzione: i
beni immobili pubblici non costituiscono un “patrimonio” finché lo Stato,
in tutte le sue articolazioni, non adotti una strategia gestionale coerente,
perseverante e lungimirante. Decidere qual essa sia non è nostro compito,
benché la comunità scientifica cui apparteniamo ― questo documento ne è
la riprova ― abbia argomenti da avanzare e competenze da impegnare.
L’ampiezza e la rilevanza del tema sono pari alla mole del Colosseo che
abbiamo riprodotto in copertina. Un ampio dibattito, che parta dal
Parlamento e dalle assemblee regionali, dovrebbe impegnare il maggior
numero possibile di interlocutori e dar voce ai valori che la nazione
attribuisce alla res publica.
Nel costruire questo documento abbiamo isolato alcuni orientamenti, che
sono il nucleo di una possibile strategia gestionale. Li richiamiamo adesso
per connetterli più strettamente all’idea di patrimonio pubblico e di società
civile che implicano. Li richiamiamo in ordine inverso sia per dare risalto al
costrutto strategico sia per mostrare che i nessi logici tra gli orientamenti
non dipendono dalla sequenza e costruiscono una combinazione inclusiva
e simultanea. Il documento nel suo insieme pone le premesse per un lavoro
più approfondito di progettazione e scrittura di vere e proprie linee guida,
anche con forme di assistenza permanente da parte delle competenze che
sono presenti nel mondo universitario.
Non alienare il patrimonio significa ricercare attivamente i modi e le azioni
che mantengano integra nei beni la capacità di assolvere gli scopi ai quali il
mercato non provvede adeguatamente. Il patrimonio pubblico è la tangibile
testimonianza dell’esistenza di una comunità previdente nei confronti del
rischio sociale, economico e ambientale. Impoverire il patrimonio pubblico
con una politica di alienazione frettolosa e occasionale è il sintomo di un
impoverimento civile. Questo esito potrebbe essere scongiurato iniziando a
considerare il patrimonio una risorsa strategica da preservare anziché un
fardello. Non ci scoraggia la resistenza a ogni serio sforzo innovatore della
gestione patrimoniale: non è una giustificazione per vendere a casaccio, né
lo è un’effimera riduzione del rapporto deficit/PIL. Altra cosa, legittima e
talvolta opportuna, è la vendita ai privati di beni disponibili, selezionati e
valorizzati, dopo aver escluso la sussistenza di un interesse pubblico e la
praticabilità di forme concessorie e di partenariato remunerative. Questa
via rinuncia al miraggio di alienare il patrimonio per ridurre in breve tempo
il debito pubblico.
Coniugare tutela e sviluppo locale significa pensare la valorizzazione delle
proprietà pubbliche come un mezzo, oltre che come un fine. Se il fine è il
solo pareggio di bilancio o il contenimento del debito, stiamo ricorrendo ad
armi spuntate. Si tratta di allargare la posta e diversificarla: la
SOCIETÀ ITALIANA degli URBANISTI
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valorizzazione allora non è una strategia efficace di per sé ma lo diventa
nella misura in cui è capace di produrre esternalità positive. Quelli che
potrebbero apparire come effetti indiretti della valorizzazione, in questa
prospettiva, diventano variabili influenti. Così entro una tensione, spesso
tragica, tra tutela e sviluppo è necessario sperimentare approcci progettuali
avanzati capaci di contemplare: la cura del patrimonio esistente senza
ridurlo a monumento puntuale e isolato rispetto al territori cui appartiene;
ipotesi di interventi sia materiali che immateriali capaci di prefigurare
nuovi usi compatibili tanto attraverso le forme classiche di regolazione
urbanistica (destinazioni funzionali) quanto attraverso dispositivi di
incentivo e di vincolo entro gli accordi di concessione e gestione dei beni
(destinatari, ricadute occupazionali attese, azioni di monitoraggio); il
riconoscimento e il coinvolgimento pieno degli enti locali in processi di
valorizzazione che intercettino reali vocazioni territoriali.
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Consolidare il quadro normativo significa mettere alla prova il sistema delle
regole vigenti, sospendendo la ricerca compulsiva di nuovi provvedimenti e
dispositivi inediti, istituiti nel migliore dei casi nella convinzione di stare al
passo con mutamenti in atto o, altrimenti, nel tentativo di interpretare le
diverse strategie di governo che si sono succedute nel corso degli ultimi
anni. Apprendere dall’esperienza è quanto mai urgente. Sedimentare buone
e cattive pratiche per disegnare alla luce di evidenze empiriche, con
cognizione di causa, integrazioni e aggiustamenti del quadro normativo:
sono queste condizioni necessarie (anche se forse non sufficienti) per
rendere il più attuale e pertinente possibile l’insieme delle regole che
governerà il trattamento dei beni immobili pubblici. La sfida
dell’apprendimento coinvolge anzitutto le istituzioni pubbliche, nazionali e
locali, nella messa a punto di responsabilità e competenze chiaramente
definite che riducano contese e inerzie sulla titolarità dei progetti e delle
azioni da intraprendere (dai sistemi di censimento alle forme di
concessione), garantendo un rapporto ben temperato tra ragioni municipali
e razionalità centrali e una mediazione efficace e pertinente tra interesse
generale e attese particolari. Gli operatori privati, a fronte di una fase
critica del mercato urbano, potranno attendersi politiche e incentivi volti a
collocare le operazioni di valorizzazione entro uno scenario (selettivo) di
strategie territoriali di iniziativa pubblica, ma saranno a loro volta tenuti a
prendere atto che effetti di valorizzazione economica degli immobili si
danno oggi solo congiuntamente a un insieme più articolato di interventi e
di investimenti (non solo pubblici) che chiamano in causa la dimensione
urbanistica, le implicazioni sociali e ambientali delle nuove operazioni di
trasformazione.
Conoscere il patrimonio pubblico significa essere nelle condizioni di
progettarne il futuro a ragion veduta; significa poter compiere ‘una
valutazione di insieme ordinando su criteri di rilevanza e di urgenza i
diversi interventi in una dimensione di medio-lungo periodo’ come sostiene
Cammelli; significa poter socializzare l’entità e il valore del patrimonio
stesso entro arene di dibattito pubblico che da un lato mettano più
radicalmente a tema l’incongruenza finora considerata pressoché
intrattabile tra valori inventariali e valori reali e dall’altro sollevino
attenzione e interesse più diffuso entro la società civile. Un sistema di
monitoraggio e gestione del patrimonio, condiviso e legittimato da soggetti
che ne sono a vario titolo responsabili, innescherebbe forme di cura e
valorizzazione più efficaci e diffonderebbe maggiore sensibilità e interesse
per i beni culturali, architettonici, ambientali e paesistici che oggi animano
invece gruppi ristretti di cittadini. Nella prospettiva di catalogare beni
immobili pubblici da mettere in valore, il programma Valore Paese, che
vede confederate diverse istituzioni centrali, sta operando in una direzione
promettente, combinando dati quantitativi a informazioni contestuali sia
territoriali che amministrative. Ma si tratta di un’operazione parziale che
richiederebbe di essere estesa, opportunamente declinata anche su quei
tipi di beni immobili pubblici che sono meno vocati a concessioni e
cessioni, e combinata infine con esplorazioni progettuali anche attraverso
la collaborazione con le università locali e le società scientifiche.
Ci preoccupa che l’incuria degli immobili pubblici da parte delle istituzioni
sia il riflesso di una società civile disaffezionata, poco sensibile al degrado
più complessivo della vita pubblica. Una riflessione strategica deve tenere
in conto il deficit di attenzione dei cittadini avviando percorsi di vera e
propria riappropriazione materiale e simbolica dei beni attraverso l’uso e la
libera fruizione. L’appello in difesa del patrimonio suscita scarso interesse
nelle persone, scrive Anna Detheridge, ‘perché non accende alcuna
immaginazione, non si collega ad alcun vissuto che le coinvolga’. Aprano i
cancelli che chiudono monumenti, siti archeologici, caserme inutilizzate,
bacini portuali, ogni genere di beni sottratti per decenni anche alla innocua
percezione visiva, e si favoriscano tutte le forme di fruizione collettiva
compatibili con la sicurezza delle persone e delle cose.
In questo senso e in termini più generali, è la categoria di pubblico che
andrebbe sottratta alla dicotomia pubblico/privato e affidata alla
triangolazione tra pubblico, privato e comune, orientandoci verso quello
che Rodotà chiama uno spazio di comunanza tra individuo e Stato. Questo
va fatto resistendo però alla tentazione di concepire il ‘comune’ come una
polarità che trascende e che supera le altre due. Occorre invece considerare
la triangolazione di pubblico, privato e comune facendo in modo che la
rilevanza cruciale del pubblico non si annulli nella mistica indifferenziata
dei beni comuni e nelle retoriche della sussidiarietà; è infatti determinante
nella triangolazione la permanente importanza di uno Stato capace di
interventi regolativi, e anche di azioni dirette e incisive per favorire crescita
e sviluppo.
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Ancora non disponiamo tuttavia di una esperienza soddisfacente di
ridisegno istituzionale che permetta di passare da un sistema duale e
dicotomico (pubblico/privato) alla triangolazione di cui abbiamo detto, che
consenta alle comunità di essere riscoperte, coinvolte e valorizzate. Questo
può avvenire se evitiamo, specialmente in una situazione di crisi, che il
patrimonio pubblico sia considerato una mera risorsa economica e non un
legante culturale e sociale: “sapiens nihil magis suum iudicat quam cuius
illi cum humano genere consortium est” (Seneca, Ep. ad Luc., 8, 73).
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Elenco delle persone intervistate
Paola Casavola e
Oriana Cuccu
Ministero Coesione Territoriale
Dipartimento Politiche di
Sviluppo e Coesione
Unità valutazione investimenti
pubblici
Roma, 9 luglio 2013
Aldo Patruno
Agenzia del Demanio, Direzione
centrale strategie, progetti di
valorizzazione e partecipazioni,
sviluppo progetti di
valorizzazione
Roma, 11 luglio 2013
Roberto Reggi
Fondazione Patrimonio Comune
Presidente
Milano, 24 luglio 2013
Guglielmo Pelliccioli
Il quotidiano immobiliare
Direttore
Milano, 29 luglio 2013
Giovanni Verga
Ex assessore regionale e
comunale all’urbanistica e alla
casa (Lombardia), ora
Assoimmobiliare
Milano, 6 settembre
2013
Antonio Intiglietta
Ge.Fi, Gestione Fiere Spa
EIRE (expo italia real estate)
Milano, 9 settembre
2013
Presidente
Luca Dondi
Nomisma
Direttore generale
Milano, 10 settembre
2013
Donata Salghetti
Drioli
Invitalia
Project Manager
Roma, 7 ottobre 2013
Michele Lorusso
Fondazione Patrimonio Comune
Direttore operativo
Roma, 4 ottobre 2013
Gloria Cerliani
Fondazione Patrimonio Comune
Project Manager
Roma, 4 ottobre 2013
Tiziana Mazzarocchi
Cassa Depositi e Prestiti
Roma, 15 ottobre 2013
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