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Bollettino n. 88

2017

2017 ANNO XLVI BOLLETTINO STORICO VERCELLESE 88 SOCIETÀ STORICA VERCELLESE 2017 BOLLETTINO STORICO VERCELLESE ISSN 0391-4550 Autorizzazione del Tribunale di Vercelli, n. 152 del 20 settembre 1972. Gli autori sono i soli responsabili dei contenuti e delle opinioni espresse nei rispettivi saggi. Proprietà riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, del contenuto senza autorizzazione. 2 SOMMARIO Giorgio Dell'Oro Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma. La biblioteca Gromo-Berzetti (secc. XVI-XVIII) .............................. pag. 5 Matteo Tacca Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna: due casi dell’Alto Vercellese ............................................................ pag. 43 Michela Ferrara Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” ...... pag. 79 Gilles André Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues, employé des postes françaises a Verceil de 1804 a 1814 ................. pag. 105 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano. Recenti aggiornamenti sul fronte documentario .............................. pag. 135 Anna Rosso Storia di una collezione. Il museo Camillo Leone dal 1907 alla direzione di Vittorio Viale .......................................................... pag. 181 RECENSIONI E SEGNALAZIONI ............................................... pag. 245 VITA DELLA SOCIETÀ STORICA Presentazione del volume "Romanico Piemontese - Europa Romanica .................................... pag. 279 Convegno su Paolo Verzone (Vercelli 1902 - Torino 1986) .............. pag. 281 Presentato il Bollettino Storico n. 87 e un prezioso volume d'arte vercellese ............................................. pag. 285 Ricordato il prof. Giovanni Rosso all'Università della Terza Età ........................................................... pag. 288 Un giorno memorabile per Rovasenda ............................................ pag. 289 La Società Storica all'evento "Dialoghi sulla mia città" ................. pag. 291 "I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia" ................ pag. 294 Il libro "I paesaggi fluviali della Sesia" presentato a Stroppiana.................................................................... pag. 296 Presentato a San Germano il nuovo "Quaderno" della Società Storica Vercellese........................................................ pag. 298 Presentato il libro "Carta e potere" ................................................. pag. 301 Ricordo di Giacomo Fioramonti ...................................................... pag. 303 3 Giorgio Dell’Oro LIBRI E BIBLIOTECHE TRA BIELLA, VERCELLI, TORINO E ROMA. LA BIBLIOTECA GROMO-BERZETTI (SECC. XVI-XVIII). 1. Premessa Il sapere senza l’uso Rende gli huomini confusi E l’uso senza il sapere Genera ne’ la mente delle persone Una instabile et vaga incertitudine1 Il presente studio prende le mosse da un documento fornitomi gentilmente, qualche tempo dopo la conclusione del lavoro sull’abate Gromo2, dal direttore della “Rivista Biellese” dott. Mauro Lampo3, ritenendo che potesse essere di stimolo a un approfondimento di indagine sia sulle modalità con cui si venne a costituire un importante patrimonio librario4, in parte Sigle ABI = ASB = ASCB = ASM = AST = ASMO = ASV = ARMO = BAM = BCJ = BSBS = DBI = HCMA = Archivio Biografico degli Italiani in microfiches presso tutte le Biblioteche Nazionali Archivio di Stato di Biella (fondo G.d.T.= Gromo di Ternengo). Archivio storico civico di Biella. Archivio di Stato di Milano. Archivio di Stato di Torino. Archivio del Sacro Monte di Oropa. Archivio Segreto Vaticano. Acta Reginae Montis Oropae, 2 voll. Unione biellese, Bugellae 1945-48. Biblioteca Ambrosiana di Milano. C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Paris 1891. “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”. Dizionario Biografico degli Italiani. Hierarchia catholica medii aevi, voll. III-V, Monasterii Patavii 1923-1935. Pietro Andrea Canonhiero, Dell’introdutione alla Politica, alla Ragion di Stato et alla pratica del buon governo libri diece, appresso Ioachimo Trognesio, in Anversa 1614: cap. VI, Che per mezo della lezzione de libri, l’huomo non può questa spezie di prudenza acquistare, citazione a p. 160. Sul testo e l’autore si veda D’Alessio 2014. 2 Dell’Oro 2001. 3 ASMO, inv. 4, doc. 4056: Inventario della biblioteca Gromo Berzetti. 4 La storia delle biblioteche dalla fine del XVI secolo fino al XVIII secolo è un settore fortemente sviluppatosi negli ultimi decenni; tralasciando i repertori bibliografici, si possono ricordare: Dell’Oro 2014; Fratini 2006; Cascetta 1999; Ceriotti 1998; Montanari 1997; Peyronel 1997; Garavaglia 1992; Raponi 1992; Zardin 1992; Allegra 1978. 1 5 Giorgio Dell’Oro confluito nella biblioteca del Sacro Monte di Oropa, sia sugli interessi di alcuni rappresentanti di rilievo della nobiltà provinciale sabauda. Tali aspetti risultano in effetti particolarmente intriganti, poiché riguardo al Piemonte dell’età moderna -tra il XVI e il XVIII secolo- si è soliti porre in risalto la diffusa mancanza di cultura sia in ambito secolare sia in quello ecclesiastico, situazione che risultava ancor più evidente nelle province periferiche degli stati sabaudi, peculiarità che venne ben descritta da Montesquieu nel corso del suo viaggio in Italia5. In questo desolante panorama non mancavano però eccezioni di rilievo e tra queste vi erano i due nuclei familiari qui considerati: i Gromo di Ternengo e i Berzetti di Buronzo, che si trovarono nella condizione di poter seguire degli itinerari formativi abbastanza singolari per la nobiltà feudale provinciale piemontese6. L’amore per la cultura dimostrata dai personaggi qui esaminati si rispecchiava non solo nella lettura e nella ricerca libraria, che spinse all’acquisto ininterrotto di libri, ma anche nella passione per la scrittura, nella costante raccolta di documentazione familiare, politica e diplomatica. Tale poliedricità rifletteva appieno la curiosità per gli eventi del tempo da parte dei proprietari della biblioteca, specie da parte dell’abate Gromo, il quale coltivando questa passione ha prodotto una copiosa documentazione, pervenutaci quasi per intero, rendendo così possibile ricostruire, almeno in parte, il percorso culturale delle due famiglie appartenenti alla nobiltà biellese e vercellese, le modalità di acquisizione libraria e, come vedremo, alcune dinamiche commerciali dei librai-tipografi piemontesi. La formazione intellettuale di parte dei membri delle due casate seguì un iter abbastanza singolare e questo trova giustificazione nell’avere abbandonato la patria per intraprendere gli studi universitari a Roma Questa situazione è stata posta in evidenza da Donati 1988, pp. 317-319; Allegra 1978; Quazza 1957, II, pp. 381-385. Per una visione d’insieme sull’evoluzione culturale in Piemonte: Cognasso 1969. 6 I Gromo in realtà avevano già avuto nella seconda metà del XVI secolo una figura di discreto spessore culturale, Giacomo Antonio Gromo, che scrisse un’opera intitolata Gromida. Cioè cose de Jacomo Antonio Gromo tra le quali dechiara il modo da ordinare un Exercito prestamente e facilmente co’l modo de sanar le ferite prestissimo senza spesa ne dolore del ferito in varij modi, stagnandone subito il sangue et co’l modo da sanare gl’amalati extraordinariamente con diverse singolarità utilissime, e che era un vero e proprio catalogo di ricette mediche e consigli sanitari per soldati, marinai e feriti. Bona Quaglia 1994. 5 6 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma e nell’essere entrati nella Compagnia di Gesù. La consistenza culturale di certuni, in particolare monsignor Ercole Berzetti e suo nipote l’abate Giovanni Ercole Gromo, risulta evidente dagli incarichi svolti o dalle loro frequentazioni: il primo ricoprì importanti uffici presso la corte torinese ed ebbe un ruolo non indifferente nella storia religiosa e politica del tempo, mentre il secondo, pur rimanendo legato all’ambiente provinciale, conobbe e frequentò alcune delle persone più rappresentative del tempo, come gli appartenenti all’Arcadia, il primo nunzio apostolico in Cina7 e l’internunzio Codebò: la nutrita corrispondenza con questo ultimo dopo la chiusura della Nunziatura Apostolica di Torino e la presenza di cifrari nelle sue carte, fa presumere che avesse pure un incarico informativo a favore della corte romana, cosa che trova ulteriore conferma nella diffidenza verso i canali di posta ufficiali. Il punto di partenza dell’indagine sul loro mondo culturale è stato fornito proprio dall’elenco della biblioteca familiare e dalla ricostruzione della sua costituzione, il che è stato facilitato dalla ragguardevole mole di documenti, tra cui gli ancora oggi inediti Diari manoscritti dell’abate in dieci volumi e i numerosi Copialettere, che consentono di ripercorrere minuziosamente ogni aspetto della storia personale, comprese le relazioni familiari, amicali e clientelari8, come ad esempio -per il presente saggio- le modalità di acquisizione delle opere, le piazze librarie ritenute più fornite e le ragioni degli interessi prevalenti. 2. Vincoli familiari e scelte educative. Il più sicuro di tutti i partiti è il più dubbioso9 2.1 I Berzetti e i Gesuiti Tra il Quattrocento e il Cinquecento vennero contratte varie unioni matrimoniali tra casate del patriziato di Vercelli e quello di Biella, dando vita ad alleanze e clientele sopravvissute fino alla fine del XVIII secolo e tra esse vi fu quella tra i Gromo e i Berzetti, le cui casate ebbero origine dal- Dell’Oro 1998. Sui Diari e i Copialettere dell’abate Gromo e sulla loro partizione, rinvio a Dell’Oro 2001. 9 Maffei 1689: aforisma n. 202. 7 8 7 Giorgio Dell’Oro lo scioglimento di due consorzi nobiliari10. Nel XVII secolo entrambe facevano parte della oligarchia cittadina che sedeva nei Consigli comunali, tuttavia entro le due comunità si perpetuavano secolari conflitti e faide tra fazioni: a Biella cinque famiglie si contesero il primato fino alla prima metà del Seicento, mentre a Vercelli nel consiglio vi erano dodici casate, spesso in lotta tra loro e, nel caso dei Berzetti, in disaccordo pure all’interno della propria. All’inizio del Seicento le due famiglie, che avevano molteplici interessi economici comuni legati alle rendite terriere e al commercio dei debiti delle comunità nelle due provincie11, strinsero uno strettissimo vincolo con il matrimonio tra Gentilbona (1620-1650), figlia del conte di Buronzo Ottavio Berzetti12, e il conte Vittorio Gromo di Ternengo (1606-1684), colonnello della milizia di Biella13. Ottavio aveva anche due figli maschi, Ercole e Lorenzo, ma questo ultimo, essendo figlio naturale, venne escluso da ogni attività rilevante per l’economia della famiglia e di conseguenza la morte prematura del conte di Buronzo e la carriera ecclesiastica intrapresa dall’unico figlio legittimo, condussero all’estinzione del ramo14. Il conte, prima di passare a miglior vita, nel testamento sottoscritto il 3 novembre 1629, dispose che la tutela dell’ancora giovane figlio Ercole fosse affidata ai cugini Nicola, Germano 10 I Berzetti discendevano da un consortile nobiliare costituitosi intorno al 1039 e che nel 1373 giurò fedeltà ad Amedeo VI di Savoia; nel secolo successivo si sciolse dando vita a più rami con nomi molto diversi (Agacia, Berzetti, Bucino, delle Donne, Gottofredo, Plebano, Presbitero e Signoris). I Gromo, invece, erano parte del consorzio dei Collocapra, da cui emersero i cognomi Capra, Capris, Gromo, Gromis. ASB, fondo G.d.T., m. 28: Divisione dei beni comuni tra i nobili Collocapra e ASCB, fondo Privati, Liti e processi, cart. 45, 15891724: Giovan Battista Bonino, Pro antiquissima et Illustrissima Familia antiquitus dicta de Collocapra, s.d., di questa esiste una seconda copia non firmata in ASB, fondo G.d.T., mazzo 19. Dell’Oro 2001. 11 Sul tema delle comunità e della politica fiscale nel Piemonte sabaudo: Borioli 1985, pp.131-211. 12 Ottavio, figlio di Ercole e di Ginevra Bucino Buronzo, sposò Maria Cacherano d’Envie. 13 Gentilbona, portò in dote, oltre a tremila doppie e la signoria su Buronzo, Balocco e Bastia. Narrazione delle primogeniture e loro titoli, anche di estere: ms. s.d. in ASB, fondo G.d.T., mazzo 73. 14 ASB, Fondo G.d.T, cart. 132: carte Berzetti, Albero genealogico con descrizione dei testamenti. Lorenzo venne indicato nell’albero genealogico della casata, ma senza alcuna notizia sulla sua vita. 8 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Arbore genealogico delle famiglie Gromo di Biella principiante dall’anno 1300, in cui si divisero le famiglie Capris di Ciglié e Gromis di Trana ambedue stabilitesi in Torino (Archivio di Stato di Biella, Gromo di Ternengo, m. 18). Riproduzione autorizzata. 9 Giorgio Dell’Oro e Giovan Battista, ma di fatto venne affidato alle cure esclusive del primo, che impresse una impronta indelebile sul futuro del nipote15. Nicola Berzetti (Vercelli 1574-Roma 1644) prese i voti nel 1595 e poco dopo si trasferì a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù dove ottenne un preciso indirizzo culturale16; al termine degli studi intraprese una carriera carica di successi, tanto che per ben due volte fu eletto rettore per il noviziato di Roma e successivamente ricoprì l’ufficio di rettore del Collegio Romano e di quello di Napoli, durante la sua attività in questa sede ottenne anche la carica di provinciale; infine, un ulteriore riconoscimento delle sue spiccate doti e capacità, fu l’attribuzione di vari incarichi diplomatici per conto dell’Ordine17. Nicola, quando gli venne affidato il nipote, ritenne opportuno che Ercole seguisse le sue orme in modo da fissare una tradizione familiare in accordo alla moda nobiliare, molto diffusa tra il XVII e il XVIII secolo nel mondo cattolico, che imponeva di mandare i parenti più stretti sempre negli stessi collegi, usanza che i Gesuiti favorirono in ogni modo al fine di rafforzare il rapporto tra la Compagnia e i ceti dirigenti presenti nelle varie entità politiche italiane18. Ercole Berzetti, dopo avere completato gli studi presso il Collegio romano, tornò in Piemonte, dove ricoprì diversi incarichi per i duchi sabaudi, in particolare per le due Madame Reali e per Carlo Emanuele II. La sua fortuna fu dovuta alla decisione di abbracciare il partito madamista durante la guerra civile del 1638-41, il che però comportò una ulteriore disgregazione della famiglia, in quanto altri rami dei Berzetti, come la maggior parte delle oligarchie delle province orientali sabaude, appoggiarono apertamente il partito principista e il vescovo Goria: sia Vercelli che Biella infatti caddero in mano spagnola già nelle primissime fasi del conflitto. La fedeltà verso Cristina di Borbone venne compensata nel 1658 quando, su esplicita richiesta della reggente, venne nominato vescovo di San Giovanni di Moriana in Savoia a condizione che non si occupasse più di ASB, Fondo G.d.T, cart. 132: carte Berzetti, Albero genealogico…, cit. Sulla cultura libraria nel collegio dei gesuiti di Vercelli: Tibaldeschi 1995. 17 Nicola Berzetti, ABI, fott. 45-47; Mazzuchelli 1753, II vol., II parte, p. 1075 sg. 18 Rurale 1998; Brizzi 1976, pp. 149-159. Sul modello educativo e culturale gesuitico in Piemonte: Signorelli 1995. 15 16 10 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma attività secolari; ciononostante il prelato non interruppe mai le attività a favore della corte ducale e per questo venne richiamato più volte dalla curia pontificia, che gli intimò di abbandonare la vita di corte per recarsi presso la sede episcopale assegnatagli nel pieno rispetto dell’obbligo di residenza imposto dai decreti del Concilio di Trento19. Nicola ed Ercole Berzetti furono gli iniziatori della raccolta libraria analizzata e che negli anni a venire sarebbe divenuta una consistente biblioteca; tuttavia per questi due personaggi non abbiamo la possibilità di individuare in modo certo i loro acquisti, anche se dai documenti pervenutici è indubbio che diedero particolare importanza alla letteratura prodotta dai loro confratelli. Notizie più sicure le possediamo per il loro principale erede, Giovanni Ercole Gromo (1645-1706), che ci ha lasciato numerose testimonianze sulla sua formazione culturale e sulle acquisizioni fatte per arricchire la biblioteca. 2.2 Ercole Berzetti e l’abate Giovanni Ercole Gromo Giovanni Ercole per volontà della madre fu affidato alle cure dello zio Ercole, il quale decise che in mancanza di eredi diretti sarebbe spettato a lui proseguire la tradizione gesuitica20. Dalle citazioni nei manoscritti emerge chiaramente la forte influenza culturale dei Gesuiti subita durante la permanenza presso il Collegio romano, ma ancor più profonda risulta essere stata la fascinazione che ebbe su di lui la capitale della Chiesa cattolica e i dibattiti che vi fervevano, oltre che gli stridenti contrasti che la caratterizzavano: Quella è una scuola Universale di tutte le Nationi non solamente ne’ puri dogmi della Cattolica Fede, ma ancora nei più fini insegnamenti d’ogni Politica azione. In essa si racchiudono li più famosi parti dell’Architettura, li più ingegnosi colpi de’ pennelli, l’opere più riverite de’ scultori; è un arario di reliquie, un’asilo di letterati, una sorgente di nobili novità, una miniera di grandezze, ma non v’è rosa senza spine, non mare senza tempeste, non sole senza macchia, in quel teatro di virtù trionfa parimente alle volte il vitio e questi in gran maniera, perché in tutte le cose vaste nulla v’è di piccolo. S’oppon- 19 20 Su Ercole Berzetti: Dell’Oro 2001, pp. 59-64. Sui collegi gesuitici in Piemonte orientale: Signorelli 1995. 11 Giorgio Dell’Oro gono alla cultura de’templi l’irriverenze che ne medesimi si commettono a segno che sembrano cangiati in spelonche di ladri; ai Seminari di castità li ricettacoli dell’impudicizia; alla fragranza degl’oratori l’accademie di critici; ad un numero innumerabile d’esemplari religiosi ugual quantità di scandalosi scialaquatori; all’elemosina li furti, all’orationi le bestemmie, alla carità gl’odii; insomma egl’è un cielo ricamato di stella, ma non esente dalle comete21. Nell’introduzione dei Diari dichiarò chiaramente, in mezzo a un profluvio di parole in stile baroccheggiante e a volte contorto, la speranza che questi manoscritti fossero conosciuti e diffusi dopo la sua morte: Dò principio a questi diari solo l’anno ventesimo sesto della mia età et alli giorni venti del mese di marzo milleseicentosettanta, nulladimeno premetterò una breve narratione della vita passata per dare una piena notitia di me stesso; troverassi alle volte qualche digressione che non parrà confacente al fine proposto dall’opera, di questo ne è cagione il non sapere di certo in mani di chi debba la divina bontà far capitare questi fogli, perciò mi stenderò in molte narrative che non si converranno a tutti, ma pure per qualch’un non sarebbero superflue: prendi o lettore quel che fa a tuo pro’ e lascia il rimanente agl’altri. Buona parte delle affermazioni riportate vennero rafforzate da ripetuti richiami a opere letterarie classiche e religiose, che ci permettono di ricostruire, anche se approssimativamente, le letture su cui l’autore basava la propria personalità culturale: tra i classici i più citati vi erano Aristotele, Cicerone, Claudiano, Giovenale, Laerzio, Orazio, Ovidio, Procopio, Properzio, Seneca, Stazio, Tacito, Valerio Massimo22, a questi si affiancavano poi le opere di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino e, logicamente, la Bibbia. Questo elenco risulta ricalcare quasi pedissequamente il programma di studi dei corsi di grammatica, di retorica, di umanità e di filosofia nei collegi gesuitici23, dove era ben presente, come in tutto il mondo della cultura euDiarii: introduzione posta nel I volume del manoscritto. Sulle stampe dei classici e sulla loro volgarizzazione tra XV e XVII secolo: Quondam 1981, pp. 59-71. 23 Hinz 2004; Donati 1998, pp.170-171; Hinz 1996; Gil, 1992; Quondam, 1981, in particolare pp. 20-21, 56-64; Brizzi 1976, pp. 213-256. 21 22 12 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma ropea del XVII secolo, l’influenza del neoaccademismo, del neostoicismo e dello scetticismo24. Tali citazioni nelle intenzioni del Gromo servivano a sostenere le sue affermazioni, specie quando esprimevano critiche o giudizi su persone o su situazioni in cui ricopriva un ruolo ben preciso, e simile modo di agire lo apprese a Roma, dove al fine di ben regolarmi pigliai per massima fondamentale di politica il non parlare di me stesso né delle cose mie familiari il procurare di scoprire la natura e i costumi di quelli co’quali dovevo praticare, il rintracciare le intentioni de Gesuiti e secondo tali conoscimenti governarmi il che mi riuscì di gran vantaggio. Nonostante sia chiara la derivazione gesuita di tali richiami, è da notare che il Gromo non vestì mai l’abito nero, in quanto non poté completare il suo apprendistato a causa di gravi problemi di salute che gli impedirono di terminare i corsi e lo costrinsero ad “habilitarmi alla meglio che fosse possibile all’addottoramento nelle Leggi”25; infatti, dopo una lunga convalescenza, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza della Sapienza, dove conseguì la laurea senza particolari difficoltà grazie alle raccomandazioni e all’aiuto finanziario dello zio Ercole Berzetti26 che, senza tenere conto dei richiami pontifici, continuava a fare la spola tra Torino e Roma e per questo presso la curia romana era visto come uno dei più fedeli servitori della reggente Cristina di Borbone, nonostante il suo ufficio episcopale. Anche questa seconda fase di studi ebbe un peso ragguardevole nella vita dell’abate e si palesa nella lista dei titoli presenti nella biblioteca, dove si nota una sistematica raccolta dei testi di diritto più utilizzati a quei tempi. Oestreich 1982. Diari. 26 Questa università, fondata nel 1244, all’inizio del Cinquecento era reputata poco seria per via delle continue frodi e corruttele per ottenere l’addottoramento, dell’impreparazione e assenteismo dei docenti, del rilascio di titoli senza avere sostenuto esami. Nel 1552 venne varata una politica di risanamento e nel Seicento la situazione era in parte migliorata. Il tutore del Gromo fu Bartolomeo Bitozzi, lettore in utroque iure ed esperto di Ius Civile e del Decreto di Graziano. Renazzi 1803, I vol., pp. 25-42; III vol., pp. 15-22, 63-77, 153-158, 179-176, 186-187; IV vol., pp. 1-21. 24 25 13 Giorgio Dell’Oro 3. L’abate Gromo e i libri Li fiumi portano per tributo al mare l’acque dolci, ma questi infetta tutte le medesime co’ la sua amarezza. Così accade spessissimo ai scritti … se questi inciampano in un intelletto maligno avvegna che essi siano innocenti, vengano però tenuti per avvelenati e maledici. Il vizio è di chi legge non di chi scrive27. 3.1 Acquisizione e reperibilità dei testi La passione dell’abate per la lettura non venne mai meno e dopo il rientro in patria nel 1668 i suoi interessi si rivolsero principalmente ad autori contemporanei e quindi appena giunto in Piemonte una delle prime preoccupazioni fu quella di trovare un libraio dove comprare le opere desiderate e al quale ordinare l’acquisto di testi non disponibili sul mercato interno strettamente vigilato dagli ufficiali ducali, che imponevano una rigida censura: ciò si rispecchiava nella modalità di stampa a cadenza triennale delle sole opere approvate dall’autorità principesca e che rendeva poco stimolante il mercato editoriale sabaudo28. Nonostante i vari contatti nella capitale, la ricerca andò per le lunghe e per appagare la sua fame libraria si vide costretto a chiedere ad alcuni corrispondenti di spedirgli per posta i tomi desiderati e tra i vari conoscenti cui diede simile incarico, vi erano alcuni mercanti biellesi residenti a Parigi e che avevano frequenti contatti anche con le Fiandre, mentre per procurarsi i libri provenienti dall’area protestante e vietati nei paesi cattolici, si rivolse a un ecclesiastico di Pinerolo, padre Butticanis, il quale aveva maggiori possibilità di ottenerli perché “mezzo ginevrino”29, mentre per le edizioni romane non aveva problemi a farsele inviare dai suoi numerosi amici abitanti nell’Urbe e da questi ultimi, spesso gesuiti, si faceva inviare anche prodotti quasi irreperibili nel ducato sabaudo, come la cioccolata e la gomma. I libri richiesti e provenienti da Vienna, Anversa, Roma e Parigi, non Diari. Dell’Oro 2017, in particolare il capitolo conclusivo. 29 Copialettere, Missiva del 27 settembre 1670, da Biella a Pinerolo. Tra le varie richieste al Butticanis vi fu l’acquisto del libro intitolato Prima parte della vita di Alessandro VI, stampato a Ginevra e posto all’indice. 27 28 14 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma gli erano consegnati a Biella, in quanto le strade tra Torino e il Biellese non avevano un servizio di posta affidabile, ma venivano depositati presso un oste nella capitale, che li custodiva fino a quando l’abate non li ritirava personalmente o per mezzo di suoi incaricati, per lo più mercanti locali che facevano la spola con la capitale per affari30. Questo modo di acquisto aveva però vari difetti, in quanto gli capitò più volte che i volumi richiesti andassero perduti o giungessero a destinazione rovinati; per sua fortuna nella seconda metà del 1671 un biellese, Giovanni Battista Fontana, aprì una cartoleria-libreria a Torino e finalmente l’abate poté cominciare a raccogliere sistematicamente, senza timore di perdite o danni, numerose opere provenienti da oltralpe. Grazie alla corrispondenza del Gromo, sappiamo che il Fontana all’attività commerciale libraria e cartaria, affiancava quella di factotum per alcuni biellesi per i quali seguiva i loro affari a Torino, come intrattenere rapporti con le magistrature e gli avvocati, stipulare contratti per delega, smistare o conservare la posta, acquistare beni introvabili in Piemonte e così via: per l’abate in particolare si preoccupava di fargli pervenire da Roma o da Venezia, dove era possibile reperire la migliore, la teriaca di cui era un abituale consumatore e che usava per lenire i cronici dolori che lo assillavano dai tempi della malattia che gli aveva impedito di entrare nei gesuiti31. Nel corso degli anni successivi l’abate effettuò numerosi ordini per procurarsi sia edizioni estere, per lo più stampate a Lione, sicuramente la piazza libraria più battuta dal libraio torinese, ma anche provenienti da Parigi, Ginevra, Amsterdam e Lovanio, sia nazionali difficilmente reperibili a Torino: infatti, come accennato, il panorama librario sabaudo era estremamente limitato e poco stimolante e di conseguenza buona parte dei testi in italiano erano ordinati presso altri mercati come Milano, Venezia e, soprattutto, Roma. Pochissimi libri della biblioteca risultano invece essere di provenienza biellese o vercellese, e tale particolarità non fu a causa del poco interesse personale o al disprezzo per l’ambiente di provincia, ma più probabilmente fu per la mancanza di edizioni locali, poiché le stamperie in queste due zone erano entrate in un periodo di profonda decadenza e 30 Diari. Il 21 luglio 1671 pagò 25 lire all’oste della taverna dell’Angelo di Torino “per l’accompro di certi libri da me ordinatogli”. 31 Seefelder 1990, in particolare pp. 123-133. 15 Giorgio Dell’Oro proprio in questi anni vennero abbandonate da un consistente numero di librai-stampatori32: in particolare Biella nella seconda metà del Seicento, dopo avere subito due saccheggi nel corso delle guerre tra Spagna e Francia, si trovò ai margini dei flussi economici con gravi ripercussioni anche sulla vita culturale33. I testi acquistati erano oggetto di particolari cure da parte dell’abate e, quando non poteva recuperare gli acquisti fatti personalmente, dava disposizioni minuziose affinché non si rovinassero e quindi si assicurava che i libri fossero ben disposti nelle casse “con qualche cosa molle sotto, sopra, et attorno, acciocché li cartoni non si guastino incontro le tavole in occasione delle molte scosse, che prenderanno per viaggio, indi far cuoprire la cassetta chiodata con tela incerata, et aggiustarla in maniera, che non possino guastarsi, né bagnarsi”34. 3. 2 Il libraio Fontana I documenti dell’abate consentono di ricostruire l’attività svolta dal libraio Fontana, il quale operava spesso come suo intermediario per diverse faccende. Come commerciante di prodotti cartari uno dei generi più richiesti erano i mazzi di carte, che però erano poco prodotte in Piemonte e pertanto le importava dal vicino Stato di Milano o dai domini francesi, come Pinerolo: in almeno una occasione l’abate ebbe la premura di metterlo in contatto con il conoscente lì residente35. A lui il Gromo si rivolgeva anche per ordinare capi e indumenti alla moda, in particolare un suo costante cruccio era avere un’ampia disponibilità di collari, per la fattura dei quali forniva precise istruzioni: vorrei che fosse due dita per traverso più stretto, e cuorto del presente con l’orlo però dell’istessa larghezza, et la misura del collo si puol prendere da quello, che le mando […] Le rimando il collaro, qual Su questo tema Ferraris 1991. Dell’Oro 2000. 34 ASB, Copialettere, al signor canonico Pietr’Antonio Regis, 30 di maggio 1693, da Roma a Vercelli. 35 ASB, Copialettere, al Sig. Butticanis, 29 maggio 1676, da Biella a Pinerolo: “Vorrei che mi mandaste mezza dozzina di mazzi di Tarocchi. Potete farli tenere al signor Fontana, qual me gl’invierà, et scrivetemi il costo, acciocché io possa rimborsarvi delle spese”. 32 33 16 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma vorrei che V.S. facesse tagliare in maniera che con l’orlo non restasse più lungo che sin’al luogo, nel quale ho piantato due aghi per segno. Dopo ch’ella l’havrà fatto accorciare in tal forma, si compiacerà di farmene fare sin al compimento d’una dozzina36. Come accennato, il libraio agiva pure come procuratore per i suoi concittadini e a lui il Gromo diede un importante incarico nel 1689: il 7 febbraio di quell’anno la reggente diede ordine che le imposte riscosse dai feudatari fossero riscattate e incamerate e ai possessori fu quindi imposto di retrovendere i loro diritti alla Camera ducale e l’abate dovette cedere a malincuore la riscossione del Tasso sulla comunità di Ternengo per 200 scudi d’oro37. A parte questi episodi l’attività principale del Fontana per l’abate fu quella di acquistare o procurare i libri cercati, specie se erano posti all’indice o irreperibili sul mercato interno o italiano, come quando gli fu ordinato il testo Fatum Mundi, che era possibile trovare solo a Ginevra, o le opere del De Dominis, acquistabili sul mercato di Amsterdam38. In altri casi era lo stesso abate a prendere contatto con i librai di altri stati, ai quali dava istruzione di far recapitare i libri presso la bottega del libraio torinese; tale modalità di acquisto fu una costante nel corso degli anni Novanta del Seicento, quanto il Gromo si trasferì a Roma per un lungo periodo39; allo stesso tempo si faceva inviare i libri stampati nel ducato a Roma presso la sua residenza condivisa con monsignor de Tournon “nella casa del sig. abate Giovanni Morelli vicino alla Chiesa dell’Anima”40. In particolare il Fontana faceva giungere all’abate le gazzette Mercure galant e Mercure historique, di cui il Gromo era accanito lettore perché desiderava tenersi costantemente aggiornato sulle mode e sui principali eventi culturali e politici europei. La 36 Copialettere. Al Signor Fontana, 4 di luglio 1677, da Biella a Torino, e 18 luglio 1677, da Biella a Torino. 37 Diari, pp. 5-6, “ho creato mio procuratore il sig. Gio. Batta Fontana libraro abitante in Torino a retrovendere, ceder ragioni, e quittar [...] per la somma di scudi 200 d’oro di capitale di tasso, che ho sopra la comunità di Ternengo, e questo perché S.A.R. per mezzo d’un rescritto della sua Camera delli 7 febbraio 1689 eseguitomi per copia il giorno suddetto 11 aprile 1689 protestò voler riscattar il tasso”. 38 Copialettere. Al signor Fontana, 21 aprile 1691, da Roma a Biella e 3 agosto 1694, da Roma a Torino. 39 Copialettere. Al signor Fontana, 26 dicembre 1693, da Roma a Torino. 40 Copialettere. Al signor Fontana, 26 luglio 1695, da Roma a Torino. 17 Giorgio Dell’Oro passione per le due riviste lo spinse, ogni volta che si metteva in viaggio, a comandare al fidato libraio di conservargliele o di recapitargliele nel luogo dove aveva deciso di soggiornare quando l’assenza si prolungava. Nel 1695 il Fontana ampliò la sua attività grazie all’apertura di una tipografia e acquisendo un magazzino. Negli anni in cui fu in contatto con il Gromo, dal 1695 al 1706, pubblicò circa 40 titoli41, gran parte dei quali, 15, erano opere di religiosi e in particolare di gesuiti, mentre gli altri argomenti delle sue edizioni erano riferiti o a membri o ad attività belliche e diplomatiche della casa Savoia, infine, in minima percentuale, stampò opere teatrali, di astrologia e di agricoltura42: nella biblioteca dell’abate tuttavia ve ne entrarono solo tre; dallo scavo archivistico dei manoscritti appartenuti al Gromo, si potrebbe poi dedurre che alcune delle opere stampate dal Fontana gli vennero fornite proprio da Giovanni Ercole; inoltre, dei testi ordinati al libraio solo alcuni vennero posti nell’elenco della donazione al Sacro Monte di Oropa. Benché nell’ottobre del 1697 il deposito fosse stato distrutto da un incendio, il tipografo-libraio biellese non ebbe troppe difficoltà a riparare i danni sofferti e già a fine novembre fu in grado di riprendere appieno l’attività43. Il Gromo per ringraziarlo di tutti i servizi ricevuti, gli inviava ogni anno gli auguri natalizi e, visto il lavoro svolto, era sua premura fargli avere delle candele in dono “per fine della presente augurandole felice principio, e continuatione del cominciato anno”44. Dopo avere intrapreso l’attività tipografica il Fontana si interessò della raccolta di documentazione di stato e in particolare nel 1698 riuscì ad ottenere il permesso di stampare le lettere scritte dal fu marchese Pianezza all’ambasciatore sabaudo a Roma marchese del Borgo durante la reggenza di Cristina di Borbone; tale opera ebbe un discreto successo e fu ampiamente A Torino operava un altro stampatore Fontana, Domenico Amedeo, che non risulta avere alcuna parentela con il nostro biellese. 42 Dati estrapolati dal catalogo del Sistema Bibliotecario Nazionale. 43 Diari. Figlio di Ludovico, fu battezzato in San Giacomo a Biella il 16 maggio 1645. Il 29 agosto 1679 egli ottenne con patenti ducali l’arma gentilizia. Morì a Torino il 14 agosto 1722. Borello 1929, voce “Fontana”. 44 Copialettere. Al Sig. Fontana, 1 gennaio 1679, da Biella a Torino. 41 18 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Il settimanale Mercure Galant, fondato nel 1672. 19 Giorgio Dell’Oro usata nel corso dei conflitti giurisdizionali settecenteschi45 con il titolo modificato in Dieci lettere del signor N. N. ad un cavaliere suo amico della Corte di Savoja sopra le concessioni fatte da’ papi a i Duchi di Savoia intorno a’beneficii de’ loro Stati in cui si esaminano le varie difficoltà eccitate dalla Datieria per la spiegazione, estensione, e perpetuità de’ sudetti Indulti, cominciando dalle promesse di Papa Nicolò quinto fatte al duca Luigi sino al breve del Nostro Santissimo Padre Innocenzo duodecimo, che ha finalmente terminate per sempre le sudette controversie, e stampato nel 1700. Tale aspetto risulta assai singolare, poiché questa raccolta documentaria a stampa risultò essere un’importante arma nella “guerra di carte” tra le due corti, in quanto aveva toni estremamente critici verso l’atteggiamento pontificio. Grazie alla fortuna di questo stampato il Fontana entrò nelle grazie delle autorità e nel 1702 ottenne l’incarico di stampatore del comune di Torino, il che è interessante se si pensa che allo stesso tempo il libraio risulta essere anche stato, tra il 1701 e il 1706, il collettore della corrispondenza tra l’internunzio Codebò e l’abate Gromo, i quali intrattennero un intenso scambio epistolare in cui si denunciavano gli abusi contro gli ecclesiastici e i beni pontifici da parte degli ufficiali ducali. I primi scambi di lettere tra i due ecclesiastici avvennero attraverso la posta ducale, tuttavia vista la delicatezza dei temi trattati e la “scomparsa” di alcune missive cifrate, l’abate consigliò al suo corrispondente “di non valersi della posta, ma di compiacersi di farle tenere al signor Fontana” in modo da evitare che fossero intercettate; simili timori trovavano conferma anche dalla corrispondenza romana e in particolare da monsignor di Tournon, il quale gli scriveva di non osare per iscritto “parlare più chiaro per timore dell’infedeltà della posta di Torino”46: in effetti fin dal 1641, per volontà di Cristina di Borbone, la posta fu assoggettata a uno stretto controllo e venne vietato a chiunque svolgere servizio di posta o di magazzino, compresi “pedoni, vitturini, messaggieri, carrozzieri et altri”, ciononostante il libraio non ebbe mai alcuna remora a rendersi sempre disponibile47. La libreria e stamperia Fontana continuò la sua attività fino al 1821. AST, Materie ecclesiastiche, cat. II, m. 1, fasc. 4: Responsum comitis Ioannis Pauli Peyraniniciensis pro observantia Indulti Pontificis Nicolai V, tip. Joannis Baptistae Fontanae, Augusta Taurinorum 1698. 46 Copialettere. A monsignor Codebò, 8 febbraio 1701, da Biella a Torino. 47 AST, Materie Economiche, Posta, m. 1. Grida del 11 dicembre 1641 e 23 marzo 1649. 45 20 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma 4. La confluenza dei patrimoni librari Amico di tutti e familiare con pochi… Le vespe sole non possono fare il miele, ma con le api s’aiutano a farlo48. Dopo la morte dello zio materno Ercole nel 1692, Giovanni Ercole Gromo dovette affrontare una lunga causa per recuperarne l’eredità e nella quale fu aiutato da monsignor Vincenzo Bichi, da monsignor Sperello Sperelli e da Carlo Tommaso Maillard de Tournon. La causa durò quattro anni e quando i Gromo riuscirono ad entrare in possesso di tutti i beni la decadenza dei Berzetti di Buronzo fu segnata, in quanto la casata, oltre ad essere già fortemente indebolita da scandali e omicidi, non aveva più risorse economiche degne di nota. Negli anni seguenti tutti i rapporti tra le due famiglie si interruppero e uno dei principali contendenti, Camillo Berzetti, preferì abbandonare l’Italia per mettersi a servizio dell’esercito imperiale e nei Balcani costituì la propria famiglia49. Questo processo ci fornisce ulteriori preziose indicazioni sulle frequentazioni romane dell’abate, in quanto ben due uomini di curia che lo favorivano, Sperelli e de Tournon, erano membri dell’Accademia dell’Arcadia e il secondo, oltre ad avere legato indissolubilmente il suo nome alla questione dei “Riti cinesi”, era pure il principale confidente del Gromo oltre che suo convivente per un certo periodo50. Al termine dello scontro giudiziario alle opere acquistate nel corso degli anni dal Fontana si aggiunsero quindi i testi conservati dal prozio Nicola e dallo zio materno Ercole Berzetti, che essendo uomo di corte oltre che gesuita, prestò molta attenzione a raccogliere i testi che illustravano l’etichetta e le norme di comportamento. Purtroppo l’elenco a noi giunto non presenta nessuna suddivisione tra i volumi appartenuti all’uno o all’altro e una parziale ricostruzione dei libri comperati dal Gromo è resa possibile solo dai Diari e dai Copialettere, dove furono riportate le richieste di acquisto e di prestito -alcune nell’elenco risultano essere testi presi a prestito e al quanto Sales 1668, pp. 57-58. Sulle vicissitudini di questo ramo dei Berzetti: Poma 1918; Anonimo 1923. 50 Su queste figure e in particolare sul de Tournon, rinvio a Dell’Oro 1998 e Rouleau 1962. 48 49 21 Giorgio Dell’Oro pare mai restituiti- di varie opere, e solo in rari casi è stato possibile identificare con certezza la data di stampa che avrebbe fornito una indicazione quasi certa sull’acquirente. Nei Diari l’abate accompagna spesso le sue affermazioni con citazioni e a margine trascrisse puntualmente l’autore e, a volte, l’opera da cui era stata estrapolata, mentre dai Copialettere si ricava che frequentemente si interessava all’acquisto di opere poste all’indice, come ad esempio quelle del valdese Léger51; in simili occasioni Giovanni Ercole si affrettava a chiedere la dispensa per la lettura dei medesimi in modo da non incorrere in alcuna censura e a tal fine interessò sia il vicariato di Vercelli sia gli amici residenti a Roma. I libri gli venivano recapitati spesso in fogli sciolti o con rilegature da lui ritenute indegne del suo stato sociale: in entrambi i casi non era raro che spedisse i testi al solito Fontana perché li rilegasse in marocchino colorato, disponendo che i titoli fossero incisi sulla copertina in oro52. Durante il suo secondo soggiorno romano dal 1691 al 1697, Giovanni Ercole prese contatto con dei librai napoletani, di cui purtroppo non ci ha lasciato l’indicazione, per acquistare libri introvabili nel settentrione; questi testi però non vennero ritirati personalmente, poiché l’abate diede disposizioni affinché fossero inviati al libraio di fiducia di Torino, che li avrebbe conservati fino al suo ritorno in patria53. Da ultimo è da notare che la biblioteca, in base ai titoli e alle date riportate, non ebbe quasi aggiunte dopo la morte dell’abate Giovanni Ercole nel 1706. De Lange 1997. Il marocchino in pelle caprina era prodotto con pelli provenienti dalle valli di Lucerna, di Pragelato e di Perosa, ed era usato per confezionare edizioni di lusso destinate per lo più ai nobili. Rilegature meno pregiate erano la “bazana” e il “mottone”, sempre in pelle caprina trattata. Le incisioni in oro sulle copertine erano ottenute con un foglio d’oro applicato sulla copertina con chiara d’uovo e fissato con ferri scaldati. Malaguzzi 1989, pp. 38-64: a pp. 58, 60, 64 vi sono vari accenni sull’attività degli editori Fontana di Torino nel XVIII secolo. 53 ASB, Copialettere, Lettera al signor Fontana, del 26 dicembre 1693, da Roma a Torino. 51 52 22 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma 5. La lista della biblioteca e il Sacro Monte di Oropa tra Sei e Settecento Servitevi del libro quando il vostro Spirito sarà stracco Cioè a dire Leggete un poco e poi meditate E poi rileggete un altro poco e poi di nuovo meditate54. L’elenco dei titoli, in totale 404, contenuti nella biblioteca Gromo-Berzetti è stato rintracciato nell’archivio del Sacro Monte di Oropa55, che in un primo tempo fu sul punto di ricevere quel patrimonio librario in eredità. L’episodio merita di essere almeno in parte ricostruito, perché fornisce indicazioni utili sulla formazione culturale di un intellettuale del Seicento - l’abate Giovanni Ercole Gromo - e sull’importanza attribuita dagli uomini di antico regime alle testimonianze manoscritte; inoltre, l’elenco qui ricordato appare ben più rilevante rispetto a quello identificato da Poma nel 1930 e riferito alla biblioteca biellese dei Bertodano56. L’istituto religioso oropeo possedeva già una considerevole raccolta di libri, che nel 1679 contava 857 volumi, gran parte dei quali erano doni dei fedeli alla biblioteca del Santuario57 e i nipoti dell’abate Giovanni Ercole, in accordo a questa tradizione locale, il 17 maggio 1709 decisero di cedere all’istituto la ricca biblioteca in loro possesso: l’Illustrissimo signor Conte Vittorio Maria Gio. Giacinto Gromo conte di Ternengo e Muzzano […] consapevole del vantaggio che apporta al servigio della Chiesa della Santissima Vergine d’Oropa […] l’abbondanza di libri […] imperocché di colà sono usciti et escono di tempo in tempo sacerdoti egualmente dotti che pii […] Sales 1668, p. 145. ASMO, inv. 4, doc. 4056. 56 Poma 1930. 57 Tale patrimonio librario era stato costituito principalmente grazie alle donazioni del vescovo di Vercelli Michelangelo Broglia, dei vercellesi Giacomo Antonio Centoris e Nicolao Ravasio e di alcuni collegiali e rettori residenti nell’istituto religioso oropeo. Lampo 1998. Gli istituti religiosi facevano affidamento particolare sulle donazioni dei fedeli per costituire e incrementare le proprie biblioteche. Rosa 1990, in particolare p. 181. 54 55 23 Giorgio Dell’Oro habbia perciò determinato contribuire ad un’opera di tanta importanza con l’infradetta donazione58. In questo passo si può rilevare come il Sacro Monte di Oropa ricoprisse, oltre al ruolo di luogo di devozione e di rappresentanza, anche quello di “scuola ecclesiastica” pur non possedendo un vero e proprio seminario: la scuola fu eretta per ordine del vescovo di Vercelli Goria, che nel 1647 ottenne la conferma pontificia dell’opera da lui svolta nella diocesi, tra cui l’istituzione della scuola oropea, nella quale si insegnava “gratis a tutti li figlioli della Città che vorranno imparare a leggere, scrivere l’Aritmetica et anco al Grammatica et i sodi e veri fundamenti oltre la Dottrina Cristiana et buoni costumi”59. La ragione della sua fondazione è facilmente comprensibile: il Biellese era ritenuto una zona soggetta al pericolo di infiltrazioni protestanti, anche a causa della presenza di colonie valdesi: per la stessa ragione nelle provincie di Biella e di Vercelli sorsero vari conventi cappuccini e gesuiti, che costituirono importanti punti di partenza per le missioni dirette verso la Svizzera e la Germania60. Dopo aver preso atto del lascito gli amministratori della congregazione oropea ritennero utile redigere l’elenco di tutte le opere, così da controllare se vi erano testi pericolosi per i buoni cristiani, in quanto l’abate Gromo, come risulta dai suoi copialettere, aveva richiesto continuativamente dispense al Vicario di Vercelli e alla Santa Sede, per poter leggere ed acquistare libri di autori messi all’indice, in particolare egli aveva una vera e propria passione per gli autori di area protestante legati all’eresia valdese; questo interesse nasceva dalla constatazione, condivisa anche dai rettori del Sacro Monte, che in un luogo frequentato da mercanti provenienti dall’Europa protestante come Biella, poteva essere utile avere una conoscenza approfondita delle tesi eretiche per poterle confutare61. ASB, fondo G.d.T., cart. 28. ASV, Archivio della Nunziatura di Torino, cart. 4, Acta occasione spolij Ill.mi et Rev.mi Domini Jacobi Goria Episcopi Vercellensis: a questo documento è allegata una lettera del prelato, in data 20 novembre 1647, indirizzata al Papa. 60 ASM, Fondo Religione, p.a., cart. 6493, Cappuccini, missioni (1615-1630), Storia dei cappuccini, dal … al 1615, manoscritto. 61 ASV, Archivio della Nunziatura di Torino, cart. 136, Lettera del 9 marzo 1680. Nel 1680 fu lo stesso nunzio apostolico di Torino a scrivere alla Camera Apostolica affinché venissero rilasciate ai religiosi e agli ecclesiastici piemontesi, licenze per poter studiare i volumi posti 58 59 24 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Quali fossero le materie trattate nei volumi donati si può desumere da quanto narrato nel documento citato: nella raccolta erano compresi libri, tomi et opere stampate sia di legge Canonica, che Civile, Teologia scolastica e morale, d’Historie Sacre e profane e generalmente d’ogni altra sorta di materie e trattati. Il donatore però espresse anche la volontà di trattenere tutti i libri e le scritture ne’quali si faccia menzione specifica di sua casa e famiglia e ciò era ben comprensibile essendo i Gromo di Ternengo una delle casate più antiche e influenti del Biellese. I libri e i documenti familiari rivestivano somma importanza per la conservazione della “memoria storica” della casata e dell’origine dei titoli e dignità; inoltre, servivano a difendere il proprio onore in caso di liti di precedenza nelle processioni o nelle sedute consiliari, come già era avvenuto tra il Cinque e il Seicento62, oppure per rivendicare la propria posizione all’interno della nobiltà sabauda, come quando monsignor Francesco Agostino della Chiesa nella redazione della Corona Reale di Savoia o sia relatione delle provincie ad essa appartenenti, oltre usare termini impropri e offensivi, omise volontariamente fatti e persone63. Malgrado il documento ufficiale di cessione la biblioteca non fu consegnata né dall’erede dell’abate, il conte Giovanni Giacinto, né da suo figlio, il conte Giovanni Ercole. Quest’ultimo, in un documento senza data, affermò di voler dare esecuzione alla volontà del genitore, ma anche questa promessa rimase inattuata64. Il 6 luglio 1725 il conte Vittorio Maria Giacinto ebbe un ripensamento rispetto alla donazione e versò all’istituto 4.600 lire per riscattare parte dei libri donati65: da questo momento si perdono le tracce della biblioteca che, almeno fino al 1729, si trovava presso l’abitazione dei conti di Ternengo a Pettinengo presso Biella66. Per il Santuario la perdita della consistente donazione dei conti di Ter- all’indice al fine “di introdursi ad udir le loro prediche e confutar gli errori de’medesimi”. 62 Dell’Oro 1998b, pp. 59-78. 63 Claretta 1874. In Piemonte il controllo sulla nobiltà fu applicato rigidamente sotto il regno di Vittorio Amedeo II che, con ordine del 3 ottobre 1701, ingiunse a tutti i governatori provinciali di fargli pervenire “quanto prima uno stato di tutti li Gentilhuomini e Vassalli nostri”: AST, I sez., Lettere di Duchi e Sovrani, mazzo 69 (1700-1719), fasc.2. 64 ASMO, Allegato all’Inv. 4, doc. 4056, Lettera s.d. del conte di Ternengo, Buronzo, Bastia, Ceretto e Quaregna, Giovanni Ercole Gromo. 65 Trompetto 1963, p. 242, n. 53. 66 ASMO, Allegato all’Inv. 4, Nota d’alcune particole insorte nel instromento di transazione. 25 Giorgio Dell’Oro nengo fu sensibile, ciononostante verso la metà del XVIII secolo poteva comunque vantare un cospicuo patrimonio librario, nel quale erano reperibili numerosi libri posti all’Indice67, cosicché gli amministratori di Oropa pensarono utile chiedere al vescovo e alla Sacra Congregazione dell’Indice, un’apposita licenza per conservare tali testi e, in attesa di risposta, fu deciso di riporre i “libri proibiti entro una scansia ben custoditi per altro sotto chiave e dubitando d’altra parte di non poterli in detta libraria senza licenza dell’Eminenza Illustrissima ritenersi”68: in dicembre il tribunale romano rispose affermativamente alla richiesta. Una particolarità riguardante l’istituto oropeo e il problema dei libri posti all’indice, è la mancanza di controllo sui volumi avuti in dono fino alla fine del XVII secolo, mentre a partire dal primo decennio di secolo successivo la congregazione del Sacro Monte mostrò un attivismo inconsueto al riguardo69. Esemplare risulta essere la trasformazione dell’atteggiamento degli ecclesiastici residenti ad Oropa: nel corso del Seicento l’abate Gromo ebbe un considerevole scambio epistolare col rettore del Sacro Monte don Regis, con il quale non aveva remore nello scambiare opinioni e libri, anche su temi scabrosi, quali il giansenismo e la questione valdese70. Nel Settecento il fervore culturale sembra essersi assopito, probabilmente a causa del mutato clima politico. A questo proposito è illuminante un episodio riferito al cardinale delle Lanze71: negli anni giovanili si era interessato alle nuove Sulla storia dell’Indice Infelise 1999; Fragnito 2001, pp. 107-149 e Fragnito 1997. Sul Piemonte: Braida 1990. 68 ASMO, doc. 4742, ms., s.d. Alla domanda degli amministratori di Oropa, la Sacra Congregazione dell’Indice rispose in il 26 dicembre 1755, concedendo di tenere i “libri proibiti”, purché fossero custoditi sotto chiave. 69 ASMO, docc. dal 4735 al 4744. In questo archivio vi sono documenti sui “libri proibiti” solo dal 1709 in poi. 70 Girolamo Regis (1645-1717), canonico e teologo della Collegiata di Santo Stefano di Biella, fu estremamente attivo nel combattere le infiltrazioni moliniste e quietiste nel biellese, appoggiandosi in gran parte alle opere di gesuiti come Velasquez e Vasquez. Negli stessi anni il vescovo di Vercelli Ripa (1680-1691) si allarmò per la presenza a Vercelli del quietista francese La Combe e di Madame Guyon. Bessone 1976, pp. 2-4; Tibaldeschi 2011, p. 216. 71 Carlo Vittorio delle Lanze de Sales ricopriva la carica di giudice ecclesiastico alla corte sabauda. Venturi 1976, a pp. 83-84, osservò che il suo rigorismo ebbe l’effetto di frenare ogni spirito innovativo in ambito culturale. 67 26 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Nella biblioteca dell’abate Giovanni Ercole Gromo vi era la Praxis episcopalis di Tommaso Zerola, stampata a Venezia da Giovanni Varisco, nel 1595. 27 Giorgio Dell’Oro istanze riformiste in campo religioso, come il portorealismo e il giansenismo, successivamente tornò sui suoi passi per non contrastare le direttive del sovrano72 e, in accordo ad esse, inviò al Santuario di Oropa, il 24 gennaio 1767, uno stampato con l’ordine di vigilare sulla lettura dei libri posti all’indice conservati nella biblioteca del sacro luogo e vi allegò l’enciclica di Clemente XIII73 intitolata Ut creditum74 con la traduzione a fronte in italiano volgare in cui era posta in risalto la pericolosità degli autori moderni, recanti “gravissimi danni e le stragi irreparabili, […] non solo ai costumi, ma ancora alla Cristiana Religione la incredulità che sotto nome di nuova singolare filosofia non cessa di spargere libri ripieni di velenose pestifere dottrine”75. L’episodio illustra perfettamente come il controllo sulla circolazione delle idee nel regno sardo fosse divenuto estremamente rigido ed efficiente, tanto da rendere difficoltosa la formazione di una classe intellettuale indipendente dalle direttive imposte dallo Stato76. 6. Analisi quantitativa delle opere È strumento d’uomini saggi la piacevole erudizione cortigiana Una pratica conoscenza di tutto ciò che accade, più incline alla notizia che al volgare pettegolezzo77 Delle 404 opere in lista è stato possibile identificarne la maggior parte e ci consente di fornire alcune analisi statistiche sulle opere, suddividendole in dieci categorie: Venturi 1976, pp. 75-76. Venturi riporta un interessante aneddoto sulla posizione assunta dall’alto prelato nei confronti della cultura del tempo: “profonda era l’impronta lasciata dalla tradizione regalistica in Piemonte. Se una spiegazione può essere data all’erratica condotta del cardinale Delle Lanze, che bruciò negli anni sessanta quei libri portorealisti e giansenisti che aveva dapprima amorevolmente raccolti, questa spiegazione sta nel riflesso d’ubbidienza che istintivamente lo portò a fianco del suo sovrano”. 73 Clemente XIII (1758-1769) aveva una visione estremamente rigorosa riguardo ai diritti e ai privilegi spettanti alla Chiesa e si oppose con tutte le sue forze ad ogni tentativo di riforma, anche se alla fine dovette cedere alle pressioni dei vari Stati. 74 L’enciclica fu emanata il 25 novembre 1766. 75 ASMO, doc. 4723. 76 Tale oppressivo controllo e appiattimento culturale, indusse lo storico Valsecchi a definire il Piemonte degli anni settanta-novanta del Settecento come uno “Stato vecchio”: Valsecchi 1971, pp. 687-701. 77 Gracián 1698, p. 44. 72 28 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma 1 - Religione (trattati di teologia, di patristica e simili, raccolte di prediche e/o sermoni, atti di sinodi e così via) 2 - Scritti di classici e commenti o studi su di essi 3 - Letteratura varia (romanzi, satire, raccolte di prose o poesie) 4 - Trattatistica (manuali di comportamento, di moda, di scrittura e simili) 5 - Storia (generale e locale, biografie, genealogie, trattatistica politica) 6 - Scienze (astronomia, matematica, geometria, fisica, geografia, medicina, agraria) 7 - Giurisprudenza (diritto romano, consuetudinario, canonico e nazionale) 8 - Arte e architettura 9 - Grammatica (dizionari, testi di lingua, vocabolari) 10 - Altro (appartenenza dubbia, testi astrologici, cronache funebri, tariffari, testi non identificati e così via) In ordine a questa ripartizione risulta rientrare nel primo gruppo circa il 40% dei volumi, di cui buona parte riferita ad autori appartenenti alla Compagnia di Gesù. In tale sezione sono stati inseriti anche i testi filosofici e quelli degli autori di trattati sul gallicanesimo e sul protestantesimo -in particolare, dell’eresia valdese-, in quanto essi avevano come fine ultimo la dimostrazione di tesi teologiche o affini, in grado di confutare le tesi contrarie alla dottrina romana. La presenza in questo gruppo di atti di sinodi è assolutamente una scelta soggettiva, e in ogni caso sono relativamente scarsi e non pongono particolari problemi interpretativi, tranne la presenza dei sinodi del vescovado di Conza in Campania: la loro presenza può però essere spiegata dall’amicizia tra l’abate Gromo e il vescovo di Andria Triveri, di origine biellese78. Ben distanziato, con circa il 20%, il secondo posto nell’elenco spetta ai testi giuridici, che vanno dal diritto romano e i suoi interpreti, alle raccolte di leggi principesche coeve, e dal Corpus di diritto canonico alle raccolte di sentenze dei tribunali romani. Seguono quindi i testi storico-biografici con circa il 15% e, assai distanziati, meno del 10%, tutti gli altri gruppi, tra i quali risaltano quelli del quarto e del sesto gruppo con circa il 5 e il 6%. Francesco Antonio Triveri, biellese, fu consacrato vescovo di Andria il 27 gennaio 1692. In precedenza aveva ricoperto l’incarico di inquisitore a Padova (dal 1672) e a Firenze (dal 1674). HCMA, vol. V, p. 85. 78 29 Giorgio Dell’Oro Come accennato, vari volumi appartenenti al primo gruppo e non solo, erano stati redatti da gesuiti ed è probabile che la maggior parte costituisse il nucleo originario del patrimonio librario proveniente dalla biblioteca dei Berzetti e sono quindi riferibili agli acquisiti effettuati da Nicola ed Ercole, anche perché, dalle fonti lasciateci dall’abate di Ternengo, risulta che lui ne acquistò relativamente poche, in quanto Giovanni Ercole preferiva temi decisamente più mondani, come la storia, la politica, le scienze, la giurisprudenza, la letteratura e la moda. In ambito religioso, invece, benché simpatizzasse con le idee più conservatrici e “zelanti” del suo tempo, era mosso da grande curiosità per le dottrine avversarie e ne studiava le ragioni in modo da poterne sottolineare le contraddizioni e porre quindi in essere un dubbio critico, che trovava un chiaro riferimento all’istruzione gesuitica ricevuta in gioventù, quando apprese l’utilizzo del metodo scettico per scardinare le tesi avversarie: difatti nel primo gruppo si può notare una consistente presenza di autori, di ambito sia cattolico che protestante, fortemente legati alla corrente di pensiero neostoica e neoscettica, che vanno da Sant’Agostino a Montaigne -dichiaratamente agnostico- e a Lipsio, vero maestro del pensiero protestante. Questo esercizio intellettuale lo spinse a cercare con continuità gli scritti di precisi personaggi al centro di vivaci controversie, come Paolo Sarpi e Maria Antonio de Dominis. Questo ultimo -ex gesuita approdato alla Riforma- per un certo periodo monopolizzò l’attenzione dell’abate che si diede da fare in ogni modo per procurarsi i testi. Dopo una fitta corrispondenza riuscì ad avere la certezza “ch’in Amsterdam vi sono le opere di Marco Antonio de’Dominis”, e subito scrisse al libraio Fontana “di dare questa notizia al suo corrispondente di Geneva, e d’ordinarli che gliele faccia venire tanto prontamente, come sarà possibile, e subito quelle havute sarà contenta mandarmele” e allo stesso tempo gli raccomandò di fare in modo che non “vadino in dogana, perché sono prohibite, e, bench’io habbia la licenza di leggerle, e tenerle, non voglio imbarazzi, ne contrasti”79. In effetti simili timori non erano infondati, perché la figura e le vicissitudini di tale autore descrivevano perfettamente la confusione, le perplessità e le incertezze che percorrevano internamente il clero cattolico europeo tra Cinque e Seicento. Il de Dominis, o Dominicis, dopo aver terminato gli studi 79 Copialettere. Lettera al Fontana, 3 agosto 1694, da Roma a Torino. 30 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma presso i gesuiti entrò nella Compagnia nel 1579, ma nel 1597 si dimise per mettersi al servizio dell’Imperatore Rodolfo II, che lo designò a vescovo di Segna. Lungi dall’accontentarsi della dignità vescovile, egli continuò ad operare a corte e nel 1598 ricoprì l’incarico di mediatore tra la repubblica di Venezia e gli Asburgo per la questione uscocca. Lasciato il sovrano suo protettore, nel 1600 giurò fedeltà alla Serenissima, ottenendo nel 1603 l’arcidiocesi di Spalato e nel 1606 si schierò apertamente con Paolo Sarpi attaccando duramente la curia pontificia e in breve abbracciò il protestantesimo. Nel 1614, su invito di re Giacomo I Stuart, si trasferì in Inghilterra e durante il viaggio si fermò a Heidelberg, ove pubblicò il manifesto Causae perfectionis suae ex Italia, violento attacco alla Roma pontificia in cui se ne denunciava la corruzione e gli abusi. La reazione della Santa Sede non si fece attendere e nel 1616 la Congregazione dell’Indice lo condannò come eretico. L’anno successivo il de Dominis diede alle stampe i quattro volumi della Repubblica ecclesiastica, riprendendo e sviluppando i temi del manifesto, ma l’opera restò incompleta80. Nel frattempo, a causa degli attacchi al calvinismo si riavvicinò al Papato e nel 1622 fu costretto a lasciare l’Inghilterra. Dopo alcune titubanze, decise di tornare in Italia avendo ricevuto assicurazioni da papa Gregorio XV che non vi sarebbero state ritorsioni o punizioni per la sua attività passata, ma nel 1623, appena morto quel pontefice, venne arrestato e rinchiuso in carcere dove spirò poco dopo. Nel 1624 il suo cadavere fu portato davanti al tribunale del Santo Uffizio e dopo un processo sommario la salma e i suoi testi vennero giudicati eretici dall’Inquisizione e messi al rogo; ciononostante le opere sopravvissero e furono ristampate più volte81 e difatti il Gromo non ebbe alcuna difficoltà a procurarsele e non incontrò ostacoli di sorta pure quando si fece inviare le opere poste all’Indice del valdese Giovanni Lèger, che aveva denunciato le scandalose violenze perpetrate dai soldati sabaudi nei confronti dei suoi confratelli, destando grande scalpore in tutta l’Europa protestante82. I dibattiti di ambito teologico occupano relativamente poco spazio nella corrispondenza dell’abate Gromo, tuttavia riguardo ai temi accennati il suo principale cor- 80 Durante il suo soggiorno londinese curò la stampa dell’Istoria del Sarpi e nella prefazione sottolineò gli abusi commessi dalla Chiesa romana. Peignot 1806, pp. 112-114. 81 Cavazza 1987. 82 Tarantino 2014; Jaymes 2011; De Lange 1997. 31 Giorgio Dell’Oro rispondente fu il teologo biellese Regis che operava presso il santuario di Oropa83, dove vi era un notevole transito di mercanti e di pellegrini provenienti da aree protestanti, tanto che fino al XVIII secolo l’istituto era dotato di confessori poliglotti in grado di operare spiritualmente oltre che in italiano, anche in francese e in tedesco. Riguardo al secondo gruppo, comprendente le opere di autori classici e dei loro commentatori, si può osservare che nella lista della biblioteca donata all’istituto oropeo non compaiono vari testi segnalati dall’abate Giovanni Ercole a margine dei suoi Diari e si potrebbe dedurre che questi libri non vennero compresi nella donazione e rimasero nel patrimonio famigliare, così come parte degli scritti di letteratura. Del resto non bisogna dimenticare che la donazione al Sacro Monte non riguardò la biblioteca nel suo complesso, ma solo parte di essa. Il terzo gruppo riunisce i testi giuridici e rispecchia perfettamente l’educazione universitaria dell’abate; qui sono presenti quasi tutti i più importanti testi di diritto utilizzati nelle aule dei tribunali secenteschi e si va dai principali interpreti del diritto romano, tra cui Bartolo da Sassoferrato e Bartolomeo Cipolla, a quelli di diritto gallicano, come Jaques Cujas e Pierre Rebouf, per finire ai giuristi sabaudi come Antonio e Gaspare Antonio Tesauro, Aimone Cravetta e Antoine Favre. Un interesse particolare suscitano alcuni autori conosciuti per l’applicazione delle massime romanistiche nelle dispute giurisdizionaliste. Questi fornivano precisi riferimenti a difesa dei diritti e dei privilegi della curia romana e degli ecclesiastici, come Enrico di Susa e Agostino Barbosa, e i loro testi consentivano una interpretazione alternativa alle raccolte di leggi del ducato sabaudo, specie alla luce della normativa pontificia contenuta nel Corpus Iuris Canonici e nel Bullarium Magnum, e delle sentenze dei tribunali romani84. In accordo allo spirito curioso dell’abate, negli scaffali trovarono però posto pure autori considerati di grande danno alle prerogative ecclesiastiche, tra i quali il milanese Giulio Claro, definito dall’arcivescovo milanese Carlo Borromeo “un demonio”85. Questo interesse per tutti gli aspetti della giurisprudenza si spiega con la 83 Ad esempio: ASB, Copialettere, al Sig. Teologo Pietro Antonio Regis, 5 gennaio 1679, da Biella al Monte d’Oropa, 12 maggio 1691, 30 maggio e 5 settembre 1693, da Roma a Biella. 84 AST, Materie Ecclesiastiche, cat. X, m. I. Memoriale di Cesare Felice Rova. 85 BAM, F 42 inf, ep. 139: Roma 17 settembre 1569, da Costanzo Tassoni a Carlo Borromeo. 32 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Nella biblioteca dell’abate Gromo vi era anche la pregevole opera di Amedeo di Castellamonte, Venaria Reale. Palazzo di piacere e di caccia, ideato dall’A.R. di Carlo Emanuele II, con le incisioni eseguite nel 1672 e 1674, ma stampata a Torino nel 1679. 33 Giorgio Dell’Oro necessità di difendere sia i propri beni sia il proprio stato ecclesiale, da numerosi “attentati” attuati dai tribunali secolari della capitale e dai consigli delle comunità del Piemonte, poiché dopo la reggenza di Cristina di Borbone le magistrature ducali avevano intrapreso una politica tesa a erodere i privilegi delle aristocrazie provinciali al fine di concentrare il controllo territoriale e fiscale86: nel corso della sua vita l’abate dovette infatti affrontare diversi attacchi all’onore della casata, che era messo in dubbio dalle pretese di famiglie biellesi di recente nobilitazione e in ascesa sia localmente sia presso la corte torinese. Il padre e il fratello di Giovanni Ercole però non erano in grado di seguire adeguatamente simili controversie e di conseguenza appena tornato in patria dopo la laurea, “fu stimato necessario che qualch’uno si portasse a Torino per procurare il buon esito delle suddette liti e cadde l’eletione sopra di me [perché rispetto] agl’altri due […] haver io qualche cognitione delle Leggi di cui essi n’erano privi”: buona parte delle cause in corso erano contro le altre quattro famiglie biellesi che aspiravano ad affermarsi sia entro le istituzioni comunali sia a corte87. Lo scontro tra le cinque principali casate biellesi -Scaglia, Bertodano, Gromo, Ferrero e dal Pozzo-, aveva raggiunto il culmine tra il 1630 e il 1635 e il conflitto armato fu evitato solo grazie all’intervento diretto del duca Vittorio Amedeo I; tuttavia l’inimicizia tra le famiglie fu causa di continui scontri e nel 1662, il fratello Francesco Gerolamo, al quale era stato affidato l’incarico di operare presso la corte nella capitale, venne ucciso in un duello da Vittorio Bernardo Scaglia88: questo fatto, congiunto alla morte del potente ministro di corte Truchi, segnò profondamente il destino dei conti di Ternengo, i quali non riuscirono più ad ottenere un ruolo di primo piano presso la corte. Nell’ultimo gruppo, il decimo, erano comprese alcune opere di carattere commemorativo, tra cui due stampati funerari in onore di duchi sabaudi che però non destano particolare attenzione, a differenza di quella scritta nel 1638 dal gesuita Luigi Giuglaris89 in memoria di Gerolama Margherita del Carretto, moglie del principe di Masserano Paolo Besso Ferrero Fieschi, famiglia imparentata alla lontana coi conti Gromo di Ternengo. Nel testo il religioso pose in grande evidenza il ruolo dei Ferrero nella gerarchia eccle- 86 87 88 89 Dell’Oro 2012. Diari. Dell’Oro 2001. Su questo religioso di origini nizzarde: BCJ, III, coll. 1470-1477. 34 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma siastica, avendo alcuni di essi ricoperto i vescovati di Ivrea, di Vercelli e di Pisa; ma la parte della trattazione di maggiore rilievo era quella riferita al loro sostegno nell’affermazione della Compagnia di Gesù in Italia settentrionale, e alla fedeltà alla Santa Sede dimostrata nell’edificazione di vari istituti religiosi. Lo scritto si avvia quindi alla conclusione, in cui si esalta la figura del “feudatario pontificio”, il cui piccolo Stato era da porsi sullo stesso piano dei principi territoriali maggiori, come i Farnese e i Gonzaga90. Sempre in questa sezione si trovano alcuni libri di astrologia e l’attenzione si appunta in particolare su un testo: l’“Almanacco di Chiaravalle”. Tale libro fu al centro di un’accesa disputa nel vicino ducato milanese: verso il 1645 gli stampatori milanesi Ludovico e Gerolamo Monza pubblicarono il “Thesauri devotionii. Almanacum Magni Piscatoris Clarae Valii”, che riportava una serie di predizioni astrologiche riguardanti gli anni futuri e che i due stampatori avevano acquistato a caro prezzo da un astrologo borgognone. Il trattato però venne tradotto in volgare e rivisitato da un astrologo milanese al fine di rendere le “lunazioni secondo il stile d’Italia” e poi pubblicato annualmente sotto forma di almanacco col titolo“Gran Pescatore di Chiaravalle”. Nel 1675 i due stampatori chiesero al Senato di Milano di impedire ad altri tipografi la stampa dell’opera che aveva ottenuto un immenso successo in tutta la penisola e fatto aumentare in modo esponenziale le vendite. I fratelli Monza si resero ben presto conto che era pressoché impossibile far cessare la vendita delle imitazioni, e allora chiesero alle varie magistrature che i concorrenti fossero almeno costretti a cambiarne marcatamente il titolo o, se anche questa possibilità si fosse resa impercorribile, di fare in modo che le stampe concorrenti avessero “l’aggionta di amico, o sia discepolo di detto Pescatore”91. L’amore per le lettere e lo scrivere da parte dei possessori della biblioteca portò i vari proprietari a procurarsi testi particolari, come l’opera Del segretario, di Panfilo Persico92 o Dell’Arte delle lettere missive93 di Emanuele ASB, fondo Ferrero la Marmora, cass. XXI, cart. 3, fasc. 10: Vittorio Ferrero La Marmora, Genealogia della casa Ferrera sia dell’uno che dell’altro ramo, ms. s.d. Sul tema della feudalità pontificia in Italia settentrionale si veda la rivista “Cheiron” 2017 in corso di pubblicazione. 91 ASM, Studi, p.a., cart. 97/98, fasc. b: Privilegi a stampatori secolo XVII. 92 Panfilo Persico, Del segretario del sig. Panfilo Persico libri quattro, ne’quali si tratta dell’arte, e facoltà del segretario, della istitutione, e vita di lui nelle repubbliche, e nelle corti, tip. Damian Zenaro, in Venetia 1620. 93 Emanuele Tesauro, gesuita, cavaliere di SS. Maurizio e Lazzaro, storico, letterato, diplomatico. Dell’Arte delle lettere missive, Venezia 1620 e 1688. È da rilevare che i manuali 90 35 Giorgio Dell’Oro Tesauro, che fornivano precisi modelli stilistici puntualmente applicati nella redazione di documenti e corrispondenze. Scorrendo l’elenco si nota come le biblioteche del tempo non fossero solo raccolte di stampati, ma vi erano depositati volumi manoscritti e copie di documenti ufficiali. È questa la documentazione che fornisce spesso le indicazioni più veritiere sugli interessi del proprietario e alcune di queste carte, che erano parte integrante del complesso bibliotecario, vennero tolte e poste nell’archivio dei Gromo di Ternengo, dove infatti si possono rintracciare vari manoscritti, in parte redatti dallo stesso abate, che trattavano di argomenti che avevano attratto la sua attenzione, come ad esempio relazioni di ambasciatori, rapporti di ufficiali ducali sabaudi, trattati, opere provenienti da paesi protestanti e così via, e a cui forse il libraio-stampatore Fontana attinse per alcune sue pubblicazioni. Riguardo all’archivio familiare risulta poi esserci un’attenzione spasmodica nella ricerca di documentazione attestante la propria origine patrizia e feudale e gli stessi Diari e Copialettere dell’abate ne sono la più consistente espressione. Tali scritti avevano indubbiamente il fine di dimostrare e difendere la propria posizione sia entro la nobiltà sabauda sia entro l’oligarchia cittadina: la prima venne fortemente sminuita dalla pubblicazione della Corona Reale di monsignor Agostino dalla Chiesa, mentre la seconda venne messa in crisi dall’ascesa delle famiglie della nuova nobiltà legata alla corte torinese94. Queste lotte tra fazioni provinciali e cortigiane portarono alla pubblicazione del Ragionamento apologetico per la nobilissima famiglia Groma95, che però non diede i frutti sperati e la precoce morte del fratello, sposato con la figlia del potente ministro Giovan Battista Truchi -morto anch’egli anzitempo- costrinse questa famiglia ai margini della storia sabauda96. italiani sulla scrittura epistolare furono tradotti in francese e riscossero notevole successo oltralpe. R. Chartier 1991. 94 Su questo tema rinvio a Dell’Oro 2001 e Merlotti 2003. 95 ASB, G.d.T., m.115. Su questa opera: Coda 1986. 96 Nel fondo G.d.T. sono confluiti quindi molteplici documenti secenteschi provenienti da ben tre casate che sono ancora in buona parte sconosciute o conosciute in modo assai parziale: Berzetti, Gromo e Truchi. 36 Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma Bibliografia Anonimo 1923 Il Luogotenente-Maresciallo conte Cesare Berzetti e il suo matrimonio originale, “Rivista biellese”, 3/5 (1923), pp. 12-14. Allegra 1978 Luciano Allegra, Ricerche sulla cultura del clero in Piemonte. Le biblioteche parrocchiali nell’arcidiocesi di Torino sec. XVII-XVIII, Torino 1978. Bessone 1976 Angelo Stefano Bessone, Il giansenismo nel Biellese, Biella 1976. Bona Quaglia 1994 Luciana Bona Quaglia - Sergio Tira, Gromida: alchimia e versificazione latina in un manoscritto torinese del primo Seicento, “Studi Piemontesi”, 23/1 (1994), pp. 23-58. Borello 1929 Luigi Borello-Mario Zucchi, Blasonario biellese, Torino 1929. 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Abstract The essay analyses Berzetti-Gromo library and how it has been constituted and organized from XVIth to XVIIIth century. The study gives some quantitative and historical indications about the books conserved there, showing different unknown features about provincial Piedmont nobility, its cultural development and also Piedmont typography history during the Early modern history. This paper is based on Gromo di Ternengo’s family archive, which is conserved in Biella State Archive, and supported with other manuscripts conserved in Turin, Milan, Vatican, Oropa. ogdellor@tin.it 42 Matteo Tacca PRATICHE DEL POSSESSO E ACCERTAMENTO DEI CONFINI IN ETÀ MODERNA: DUE CASI DELL’ALTO VERCELLESE* 1. Cenni preliminari sui concetti di confine e possesso Il “corale argomentare sui confini” con cui Grendi chiudeva il suo pionieristico saggio sul significato storico e antropologico di confine1, non ha smesso di interessare una moltitudine di storici, i quali hanno tentato di interpretare il tema attraverso diverse sfumature giuridiche e sociologiche. Il confine in particolare non è stato visto semplicemente come la line divisoria immaginaria di due diversi territori; se è vero infatti che alcune branche della storiografia si sono concentrate sul procedimento settecentesco di formazione delle grandi frontiere nazionali europee2, altre hanno invece preferito scandagliare gli aspetti locali delle mentalità e delle culture giuridiche nascosti sotto la nozione di confine. Si è così scoperto che il confine non è solo del territorio, ma è anche, e soprattutto, confine della giurisdizione e del possesso, due elementi che nelle società di antico regime non sempre possono coincidere. Proprio intorno al concetto di possesso si è articolato un lungo e complesso dibattito in cui sono emerse le premesse per una teoria dei confini nelle società di Ancien Régime concretizzata fondamentalmente sul diritto possessorio. Inizialmente postulata da Grendi, l’ipotesi fu sviluppata anche e soprattutto da storici del diritto: alcuni con la chiara intenzione di definire le linee guida del di- * Questo contributo vuole costituire un focus su alcune ricerche condotte durante la stesura della mia tesi di Laurea Magistrale in Metodi per l’analisi storica del patrimonio culturale dal titolo Videntibus et non contradicentibus. Pratiche e forme del possesso nell’alto vercellese in età moderna, discussa nel dicembre 2015 presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, sotto la supervisione dei professori Angelo Torre e Claudio Rosso, ai quali vanno i miei ringraziamenti per la disponibilità dimostrata nel seguirmi e indirizzarmi nel corso delle ricerche. Sigle: AST ASV = Archivio di Stato di Torino. = Archivio di Stato di Vercelli. Grendi 1986, pp. 811-845. In tal senso i casi più autorevoli sono rappresentati dai testi di Sahlins 1991 e Nordman 1998. Per quanto riguarda invece il caso Piemonte di cui mi occupo, Raffestin 1987. 1 2 43 Matteo Tacca ritto confinario a partire dalle nozioni dei giuristi tardomedievali3, altri con tentativo di identificare l’esperienza giuridica medievale e moderna come qualcosa che si costruisce in relativa autonomia, come un brulicare di tante piccole istanze locali che con le loro voci contribuiscono a creare qualcosa di più grande; il più delle volte un intreccio giuridico-culturale difficile da sciogliere persino per i giuristi stessi4. Sul versante storico, il lavoro più recente sui confini e sul possesso, e che in qualche modo definisce la direzione che lo studio di questo ambito storico ha intrapreso nell’ultimo periodo, è quello di Tamar Herzog5. Quest’ultima, nel suo libro Frontiers of possessions, si propone il titanico compito di definire le dinamiche del confine tra due grandi imperi extracontinentali europei di età moderna: Spagna e Portogallo. La peculiarità del suo lavoro consiste nell’iniziare la sua analisi di creazione dei confini partendo dalle colonie sudamericane; per regolamentare e spartire il territorio sudamericano infatti, le due potenze decisero di stipulare una serie di trattati volti a garantire una pacifica coesistenza (almeno nelle intenzioni) delle due entità nazionali nel continente. In particolare Herzog si riferisce al trattato di Tordesillas, stipulato nel 1494 da Spagna e Portogallo che contraddiceva la bolla papale Inter Caetera emanata l’anno precedente da Alessandro VI, spostando il meridiano di riferimento per la spartizione dei territori più a ovest rispetto a quello fissato nella bolla, quest’ultimo situato a circa cento leghe dalle isole di Capo Verde. L’ipotesi avanzata nell’opera tuttavia postula l’oggettivo fallimento del trattato nel dirimere le vertenze territoriali tra le due nazioni; se sulla carta infatti si presupponeva il rispetto di una riga netta di divisione (chiamata dai portoghesi raya, come la scriminatura dei capelli), l’osservazione dei fatti quotidiani che si svolgevano nei forti e negli insediamenti del nuovo mondo suggeriva un panorama ben diverso. Lungi dal rispettare il trattato infatti, gli attori locali si rendevano protagonisti di continui sforamenti territoriali, contese e rappresaglie armate che rendevano il confine reale tra le due entità frastagliato e in continuo movimento. 3 Mi riferisco qui in particolare all’analisi puntuale dei testi di giuristi quali Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi e Cino da Pistoia effettuata da Marchetti 2001. 4 Grossi 1992 e Grossi 1995. 5 Herzog 2015. 44 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna Il pregio di questo tipo di approccio è di lasciare intuire come la costruzione dei confini sia parte di una profonda cultura europea del possesso, radicata in una mentalità che i conquistadores tendono decisamente ad esportare oltreoceano; la seconda parte del libro è infatti dedicata a conflitti territoriali della stessa natura che si svolgevano tra Spagna e Portogallo in madrepatria. È proprio nella vecchia Europa infatti che si deve ricercare il nocciolo di questo fenomeno storico di produzione dei confini che affiora anche in Sudamerica per riflesso. Herzog esamina qui una serie di conflitti di lunga durata che coinvolgono alcune comunità ed i territori da loro sfruttati. L’approccio di Herzog arriva a definire il territorio come “islands of occupation in a sea of land”, rendendo perfettamente l’idea delle discontinuità e delle frammentazioni che lo caratterizzavano; la frammentazione si rispecchiava inoltre sugli individui stessi: alcune di queste zone erano abitate da una popolazione mista di portoghesi e spagnoli che mantenevano la propria giurisdizione personale. Quello che più colpisce tuttavia, è come le dinamiche di attuazione e giustificazione di certe azioni e pratiche trovino riscontri nello studio dei confini di altre zone geografiche dell’Europa (in particolare italiane, e questo è dovuto agli studi della scuola microstorica qui sviluppatasi). In altri termini, che si vadano ad analizzare i conflitti tra le comunità spagnole e portoghesi (anche oltreoceano come si è visto), dell’Appennino ligure6, della Toscana7, delle comunità piemontesi o della contea dello Yorkshire8, i meccanismi di giustificazione del possesso e di creazione dei confini presentano delle caratteristiche di base comuni; tra queste il ricorso alle rappresaglie, la presenza Oltre agli studi di Grendi 1986 e Grendi 1993, si è occupato della Liguria in questa prospettiva anche Raggio 1990. 7 Stopani 2008 nella sua tesi di dottorato, sotto la supervisione di Daniel Nordman, analizza il momento chiave in cui il granducato di Toscana istituisce una commissione per determinare i confini del proprio Stato; sempre a proposito di Toscana, Wickham 2000, pp. 484-485 inquadra il suo lavoro in un’ottica di antropologia legale, ovvero di un sistema sociale (quello delle comunità toscane medievali) “che privilegia il processo di disputa (e di conflitto in generale) rispetto a modelli orientati verso la struttura, che spesso mettono in risalto la stabilità”, un modello di società “che appartiene più al paradigma processuale che a quello basato sulle regole”; di paradigmi processuali e gestione della giustizia si parla anche in Ascheri 1989 e Ascheri 1999. 8 McDonagh 2009; le stesse meccaniche di rappresaglia e lotta di classe sono espresse, anche se non riferite nello specifico a contese sui confini da Thompson 1977; Thompson 1981; Thompson 1991. 6 45 Matteo Tacca costante di attori sociali chiave quali i pastori, principali utilizzatori del sistema agro-silvo-pastorale9, e infine il significato intenso che si dava agli atti possessori da loro compiuti10. Herzog individua degli elementi di cultura giuridica nella mentalità di individui quasi sempre illetterati, abitanti di zone lontane e pericolose del regno, più volte descritti come persone non del tutto civilizzate. Quando questi individui venivano, come spesso e volentieri accadeva, coinvolti in una lite per il possesso territoriale, sembravano utilizzare un codice composto da pratiche ben note e famigliari che mettevano in relazione ad una buona conoscenza del diritto comune. Di questa cultura giuridica popolare condivisa Herzog non riesce a dare una spiegazioni chiara; se alcuni di loro (una minoranza certamente) potevano aver frequentato le università, la stragrande maggioranza deve aver acquisito queste conoscenze per via orale, sentendo da terze parti racconti su queste frequenti liti oppure sperimentandole in prima persona, creandosi una personale conoscenza “of what was right, what was just, what was possible, and what was effective”11. Crediamo dunque che per portare alla luce quello che sembra essere un vero e proprio bagaglio culturale fatto di azioni condivise si debba analizzare queste ultime in relativa indipendenza rispetto ai loro attori, mettendole in relazione al sistema economico sociale in cui erano immersi. Si delineerebbe così un habitus12 sociale, una predisposizione cognitiva che spingeva gli individui a effettuare determinate azioni distinguendo ciò che era giusto da ciò che era sbagliato, creando così i diritti e le prerogative che rinveniamo nella 9 Per il discorso riguardante la definizione di sistema agro-silvo-pastorale e le sue implicazioni sulla gestione del territorio, si veda Moreno 1992. 10 I casi sinora citati di analisi delle pratiche locali in relazione ai confini ed al possesso, sono state condensate da Torre 2011 per elaborare la sua teoria sui processi storici di produzione delle località. 11 Herzog 2015, p. 243. 12 Con il termine distinzione mi riferisco alla teoria della pratica esposta in Bourdieu 1995, preceduta da Bourdieu 1979 e da Bourdieu 1980; secondo il sociologo francese, infatti, le pratiche e i fatti sociali, interpretati a loro volta secondo una linea di lettura del fatto sociale che corre dal Kant 1797 della “Metafisica dei costumi” a Durkheim 1895, sono il risultato di una predisposizione mentale. Le modalità e le vie che si scelgono per intraprendere certe azioni oppure evitarle, oppure considerarle giuste o sbagliate, sono il frutto di quello che Bourdieu definisce habitus, ovvero una predisposizione dell’animo umano ed una inclinazione a certe pratiche che ci viene inculcata tramite l’educazione. In questi termini, anche la violenza della rappresaglia può rappresentare un linguaggio culturale ben codificato in grado di creare dei diritti specifici. 46 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna documentazione d’archivio. Per sistema economico intendiamo quel regime agro-silvo-pastorale citato in precedenza a cui Herzog non sembra dare eccessiva rilevanza, preferendo un’interpretazione convenzionale dell’economia rurale in cui coltivatori, pastori e raccoglitori rappresentano entità distinte e separate. Ignorando la complementarietà di agricoltura, pastorizia e silvicoltura si rischia di perdere per strada il complesso sistema di collaborazione, e quindi conflitto, degli attori locali per le questioni relative all’uso del territorio e delle risorse. Per tentare a nostra volta di giustificare queste esternazioni, esporremo il caso di due comunità dell’alto vercellese tra XVI e XVIII secolo, Cascinale e Gattinara, entrambe facenti parte dello Stato sabaudo e poste al confine con lo Stato di Milano a ridosso del fiume Sesia. Per la loro natura limitrofa le due comunità si trovano in costante conflitto con le due corrispettive comunità dello Stato di Milano e cioè, rispettivamente, S. Nazzaro e Romagnano. Il materiale ricavato per portare alla luce la continua produzione di diritti e confini che avveniva in queste aree è stato tratto rispettivamente dal centro e dalla periferia dello Stato Sabaudo, dove per centro intendiamo gli archivi torinesi e con periferia l’archivio di una famiglia nobile come gli Arborio di Gattinara, il cui feudo si estendeva lungo il corso del Sesia da Oldenico a Gattinara, e senza il quale sarebbe risultato difficile reperire materiale su Cascinale. Nondimeno, la presenza di documentazione riguardante i confini in un archivio famigliare, riporta la signoria locale in prima linea come protagonista nello svolgimento dei processi appena elencati. Vedremo così come i conflitti e le pratiche del territorio servissero esse stesse a definire il confine; in altri termini, il confine di un territorio, di uno stato o di una comunità rappresenta il confine delle azioni praticate dagli attori sociali che vivono quotidianamente certe zone limitrofe. In alcuni casi, quando i resoconti di questi conflitti, sconfinamenti ed atti possessori arrivavano alle orecchie al centro amministrativo, apparivano come una vera e propria richiesta di potere dal basso, suscitando, come nel caso di Gattinara, preoccupazioni per i rapporti con lo Stato limitrofo. Le preoccupazioni del centro amministrativo e il suo punto di vista mettono in luce la netta distinzione centro/ periferia nell’intendere le liti di confine, spostandone in qualche modo il baricentro del potere verso i margini, un potere di cui i veri detentori sono le classi subalterne13. 13 Circa la consistenza numerica delle popolazioni rurali ed il loro effettivo impatto demo47 Matteo Tacca 2. Frammentazioni Prima di procedere all’analisi dei conflitti presi in esame occorre tuttavia chiarire almeno in parte quale fosse il quadro territoriale entro cui si svolgevano i nostri fatti; le diverse strutture organizzative entro cui si collocano le comunità rurali generano infatti una complessa galassia di insediamenti in continua tensione reciproca. Una testimonianza preziosissima del quadro territoriale a cui facciamo riferimento è contenuta in quella monumentale opera che è stata la perequazione generale del Piemonte. L’imponente opera di misurazione fu preparata sin dalla fine del XVII secolo, e il punto più interessante di essa sta nel metodo di lavoro che l’amministrazione sabauda utilizzò per sopperire alla compilazione del catasto14. L’opera di catastazione non fu una vera e propria novità15, già nel corso del Seicento furono avviate diverse iniziative di rilevamento del territorio e di revisione catastale; ogni volta tuttavia le direttive statali vennero in parte o completamente ignorante dalle comunità locali, non riuscendo perciò a raggiungere quell’organicità a cui si sarebbe giunti soltanto sotto il regno di Vittorio Amedeo II. Ogni ripartimento geografico veniva posto sotto la guida di un delegato, ovvero un notaio patentato, ai cui ordini si muoveva una squadra di agrimensori scelti d’alieno territorio per evitare frodi e coinvolgimenti fiscali16. Si procedeva dunque alle misure, senza tuttavia dimenticarsi di ascoltare i pareri forniti dai particolari delle comunità come persone meglio informate dei confini e degli antichi usi del territorio. Tuttavia, ancor prima di inviare i suoi delegati sul territorio, Vittorio Amedeo nel 1688 ingiunse che i sindaci di ogni comunità operassero una prima misurazione e consegna dei territori di loro pertinenza; questa prima iniziativa si perse per strada con le guerre della fine del secolo, ma una volta respinto l’esercito francese, l’opera di catastazione riprese ancor più meticolosamente. I primi esperimenti furono grafico nelle società di antico regime fino alla fine del XVIII secolo si veda Aymard 1995, pp. 529-541. 14 Un importante resoconto del metodo di conduzione della perequazione, inquadrato nel più ampio discorso delle riforme settecentesche piemontesi è contenuto in Quazza 1992, pp. 125-174; ulteriori informazioni e punti di vista si trovano in Symcox 1989, pp. 153-177 e 255-307 e Ricuperati 2001. 15 Symcox 1989, p. 164. 16 Ricuperati 2001, p. 144. 48 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna condotti nelle province di Cuneo e Mondovì, per poi estendere l’opera a tutte le altre province piemontesi. Particolarmente interessante risulta l’attenzione degli intendenti nel calcolare le quantità di beni comuni ed immuni appartenenti ad ogni comunità, i quali a volte venivano addirittura ripartiti secondo il tipo di coltura. Il calcolo dei beni comuni distinti per tipologie si basa sui consegnamenti delle comunità del 1716: Albano Vercellese in quegli anni contava 324.94 giornate di beni comuni, delle quali 47.32 consistenti in campi da terza (ovvero campi di qualità inferiore), 12 di boschi in pianta, 132.41 di boschi da fuoco, 24.18 di pascoli e 109 di gerbidi17; il registro segnalava inoltre l’assenza di beni immuni. Altre comunità non sono munite di una distinzione delle colture, come nel caso di Lenta, nella quale vengono registrate 1493 giornate di beni comuni tra boschi, gerbidi e pascoli. In totale, l’intera provincia di Vercelli contava 42400.95 giornate di beni comuni. Più avanti, nel 1730, l’amministrazione torinese ordinerà alle comunità di dichiarare anche il numero delle cosiddette valbe, ovvero raggruppamenti delle regioni circostanti ad una comunità, le quali possedevano toponimi ben precisi; Lenta ad esempio era composta da tre valbe, ognuna comprendente circa una ventina di regioni, la più estesa Gattinara contava invece nove valbe18. Sfogliando i registri e le tabelle relative alla perequazione tuttavia, si ha l’impressione che gli intendenti sabaudi col procedere del loro lavoro si siano trovati davanti ad una realtà territoriale terribilmente frammentata e complessa, fatta di cantoni, cascinali, luoghi scomparsi ed altri dallo statuto incerto. I punti più emblematici di questa realtà sono sicuramente quelli relativi ai cosiddetti tenimenti separati: riguardo a questi ultimi fu organizzata un’opera di ricognizione di tutti quei luoghi che non formavano un corpo di comunità, sfuggendo quindi il più delle volte alle imposizioni fiscali, nel tentativo di accorparli alle comunità vicine. I registri relativi alla provincia di Vercelli offrono diversi esempi significativi; alcuni luoghi venivano classificati come cantoni di una comunità vicina come nel caso di San Marco19: secondo il commissario Ronco, risultava infatti “esser il territorio AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 95. 18 AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 27. 19 Riguardo San Marco e alla creazione del feudo di Monformoso da parte del conte Provana 17 49 Matteo Tacca di Monformoso diviso in due cantoni, cioè Monformoso e San Marco, parte allodiale et parte preteso immune”20. In base al consegnamento del 1719 effettuato dal conte Provana di Druent, titolare del feudo di Monformoso, l’estimo dei due cantoni viene riportato a 2929.11 giornate, di cui 521.39 possedute come feudali dal conte stesso insieme ad altre giornate che risultano contenziose tra la comunità e il conte. Il commissario conclude che “risulta apertamente esser le sudette cassine di San Marco uno delli due cantoni che compone il territorio di Monformoso, unito nel totale della misura generale del medesimo luogo”. In alcuni luoghi il rilevamento dei cantoni portava alla luce casi di pretesa immunità; Casa del Bosco è una località situata tra Roasio e Sostegno, e che all’epoca veniva registrata come un cantone composto da diciannove particolari capi di casa, “fra quali ve ne sono numero 3 famiglie, cioè Gio. Nobile Franco21, Carlo Nobile Franco et Giacomo Nobile, et hanno soldi 27 di registro in mezzo feudo del signor conte Giuseppe Villa di Buronzo vassallo del luogo”22. Si aggiunge che in assenza di un catasto non si è potuto calcolare la quantità di terre corrispondente ai ventisette soldi, che gli altri diciassette capi di casa possedevano beni allodiali per i quali pagavano regolarmente i carichi, ma soprattutto che “pretendono detti tre particolari nobili di non essere tenuti a verun carigo, si ordinario che straordinario et ciò secondo le notizie che ci è riuscito d’havere da Carlo Urasco et Lorenzo Urasco, come più vecchi informati et pratici dell’affari di detto cantone e famiglie de nobili”. Nel corso del Settecento i territori e i luoghi di nuovo acquisto porteranno ad un considerevole aumento di questi particolari casi; nel caso di Devesio, un cascinale posto sul versante lombardo del Sesia all’altezza di Oldenico, i feudatari del luogo inviano nel 1777 una lettera a Torino, nella quale il cavaliere Fabrizio Cusani ed il conte Giovenone di Robella chiedono l’indipen- di Druent, il lavoro più dettagliato è certamente quello di Adami 2012, pp. 145-190. 20 AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 16, Ricavo dei cantoni delle 12 provincie del Piemonte non facenti corpo di comunità. 21 Difficile non notare la particolare denominazione del cognome “Nobile Franco”, letteralmente interpretabile come “nobile libero”. 22 AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 10, Consegna delle bocche umane, e delle bestie, m. 1. 50 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna 51 Particolare, indicante la tabella delle misure, della Mappa della misura generale del tenimento del Dovesio Vercellese, compresa la cassina de risi posto sotto le coerenze delli territori, cioè a mattina e mezzogiorno la communità della Villata, a sera il fiume Sesia, e di là d’esso la communità di Oldenico e quella di Albano, et a notte S. Nazaro e Casal Vollone; fatta detta misura da noi sottoscritti misuratori Gio. Romero Verolfo e Carlo Antonio Barbero ambi del luogo di Verolengo d’ordine di Sua Maestà et sotto la direzione del molto illustre signor nottaio Gian Tomaso Berardi della città di Chivasso […] (XVIII sec.). ASTO, Sezione Corte, Carte topografiche serie III, Dovesio. Autorizzato alla pubblicazione ai sensi del prot. n. 936/28.28.00-21. Matteo Tacca denza del tenimento poiché “colà non vi sono strade pubbliche, né beni comunali, né vi si pagano in questa tesoreria”23. Nel caso in cui l’accorpamento risultasse inevitabile esprimono inoltre la preferenza di essere accorpati ad Oldenico “il cui territorio è molto più vicino ed immediatamente coerente a Devesio”, evitando cosi il “grave incommodo dell’intersecazione del fiume Sesia” a cui sarebbero sottoposti in caso di accorpamento con Vercelli. La relazione dell’intendente che seguirà questa lagnanza descriverà Devesio come un luogo un tempo parte dello stato di Milano, confinante con Villata, Borgo Vercelli, Casalvolone e Badia di San Nazzaro, rimasto tuttavia in completa autonomia da questi ultimi a causa delle interposizioni dei rami del fiume Sesia. Essendo esente dai carichi fu spesso “asilo di ladri e banditi” e nonostante fosse passato al Piemonte nel 1744 assieme a Novara, rimaneva tuttavia esente dai cotizzi e dall’alloggiamento delle truppe, con un territorio che misurava 861.48 giornate popolate da circa cento abitanti. Al fine di scongiurare eventuali dubbi di appartenenza, l’intendente suggerisce di accorpare Devesio a Vercelli, sopperendo ai disagi causati dalle intersezioni del fiume Sesia con la costruzione di un porto fluviale. Sono infine da menzionare quei casi che riportano insediamenti scomparsi; per il territorio vercellese, all’interno dei registri spiccano i nomi di Giardino24 e San Colombano. A proposito di questi due luoghi il marchese di Gattinara Carlo Antonio Arborio riferisce che “nel suo consegnamento del 1715 ha dichiarato che nonostante sia stato investito nel 1609 di detti feudi di Giardino e di San Colombano come terre unite al detto marchesato di Gattinara non esser più le medesime nel suo essere ne saper dove fossero sitoate ma solo haver sentito a dire che siano stati corosi dal fiume Sesia”. La corrosione e la scomparsa potevano tuttavia aver lasciato alcuni beni ancora intatti, poiché “se ben si dicono corosi ciò si deve maggiormente accertare mentre potrebbero esser corose le case o recinto che portava tal denominazione e non tutti li beni”. 23 AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 16, Stato dei tenimenti ossia cantoni separati esistenti nella provincia di Vercelli per l’aggregazione alle città e comunità come infra il rapporto delle deliberazioni pretesi da rispettivi possessori e coll’aggiunta dei rilievi e sentimento dell’ufficio dell’intendenza. 24 Località scomparsa da secoli, già tra Recetto e Biandrate, dove Sebastiano Vassali ambienta il romanzo storico La Chimera. Per la storia del luogo, Deambrogio 2009, pp. 45-48 e Ferraris 1984, pp. 25, 29-30, 43, 95-96, 113, 114, 377 n. 91, 387 n. 152, 405 n. 252, che lo ritiene “totalmente annientato nei secoli XIV-XV”. 52 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna 3. La periferia vista dal centro La pratica dell’abitare può dunque presupporre diversi livelli di appartenenza e diversi modelli di aggregazione. Prima dei livelli di comunanza ufficiale, come un corpo di comunità organizzato, esistono livelli di collaborazione ed organizzazione di nuclei familiari o di particolari come la parentela e la vicinanza25. Questi sistemi di solidarietà emergono tuttavia in misura minore all’interno delle fonti; essi presuppongono, infatti, un’effettiva collaborazione tra individui che non sempre può avvenire, poiché non regolata in maniera normativa; nondimeno, la collaborazione avviene spesso in occasione di conflittualità con aggregati confinanti. Ciò non significa tuttavia che la collaborazione si verifichi soltanto in occasione di conflitti e difficoltà; l’immagine di un gruppo di abitanti riuniti solo in caso di lite è mediata dalla documentazione, che in questo caso si esprime solo nella misura delle liti; le diverse identità collettive dunque convivono e convergono in modo non necessariamente conflittuale a definire la rete dell’azione sociale dell’individuo26. Resta in ogni caso molto evidente il nesso tra l’azione collettiva, il conflitto e il riconoscimento di immagini e confini comunitari le cui identità sono in continua e costante costruzione. Il caso che andremo ora ad analizzare si basa principalmente proprio su azioni collettive, alle quali cercheremo di dare un’interpretazione il più possibile analitica; parleremo di Cascinale, un piccolissimo insediamento posto sul versante novarese del fiume Sesia oggi denominato Cascinale del Bosco, frazione di Recetto. Con Recetto, Cascinale costituiva l’unico luogo del marchesato di Gattinara oltre il Sesia; questa sorta di protrusione ad est dei possedimenti sabaudi era il risultato della donazione dei territori vercellesi effettuata da Filippo Maria Visconti ai Savoia nel 142727, tra i quali erano compresi anche Recetto e Cascinale, a loro volta infeudati ai Gattinara a partire dall’inizio del Cinquecento. Riguardo al ruolo delle pratiche famigliari Dérouet - Lorenzetti - Mathieu 2010. Queste precisazioni sulle relazioni non sempre e necessariamente conflittuali sono esposte in Adami 2012, p. 23. 27 AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo stato di Milano, m. 7, fasc. 5, Testimoniali di visita, ed Informazioni prese dal Commendatore Petiti intendente generale di Vercelli sulle differenze vertenti tra Albano, e St. Nazaro per La Regione denominata l’Isolone posseduta da Albano, 1714. 25 26 53 Matteo Tacca Le prime informazioni concrete riguardanti Cascinale giungono a noi tuttavia soltanto a partire dal Seicento; in qualità di territorio di confine estremo con lo stato di Milano, alcune informazioni su Cascinale sono contenute nel fondo Confini antichi con lo stato di Milano dell’Archivio di Stato di Torino. Una documentazione esigua, costituita da due sole relazioni di alcuni referendari sabaudi per la provincia di Vercelli, dalle quali si evincono tuttavia alcuni interessanti particolari. La prima relazione risale al 1627 ed è redatta dal commissario delle ricognizioni del vercellese Gio. Francesco Avogadro di Casanova, inviato dalla camera dei conti ad indagare circa alcune presunte asportazioni dei termini ad opera degli uomini di San Nazzaro; durante la ricognizione l’Avogadro riferisce di: “haver inteso da huomini particolari di Cassinale dal bosco oltra il fiume Sesia che gli huomini della badia di San Nazaro del Stato di Milano hanno per agrandire loro finaggio, et minuirvi quello d’esso povero luogo, qual tutto è feudale, arrancato, et esportato li termini ch’erano nelli confini tra l’uno stato et l’altro, et l’una et l’altra giurisditione. Già tre o quattro anni or sono detti particolari huomini di Cassinale piantano le croci nelli confini verso essi secondo è il solito, gli del detto stato gli estirpano sopra la giurisditione di Sua Altezza”28. Il referendario descrive Cascinale come un povero luogo, solito nel subire le prevaricazioni della vicina comunità confinante di San Nazzaro, spesso intenta a rosicchiare qualche porzione di territorio sabaudo. La dizione che più salta all’occhio è la ferma definizione che il referendario dà del territorio di Cascinale, che viene definito tutto feudale. Quali siano le implicazioni di quel tutto feudale non è completamente chiaro; lascerebbe tuttavia intuire un insediamento con forti prerogative da parte del marchese di Gattinara, suo attuale feudatario, per lo meno secondo la versione presentata alla camera dei conti di Torino. AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo stato di Milano, m. 7, fasc. 1, Rappresentanza della camera a S.A. riguardo de’ mali trattamenti, novità, ed opere di fatto fatte dagli uomini dell’Abbazia di St. Nazaro Stato di Milano agli uomini del Cassinale del Bosco oltre il fiume Sesia dominio di detta S.A. coll’esportazione de’ termini dividenti detti Territori, 10 Marzo 1627. 28 54 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna Nessuna menzione sino ad ora di organizzazioni comunitarie, tranne uno spiraglio, costituito da una seconda relazione, questa volta risalente al 1677 da parte del referendario Mella, ed ancora una volta riguardante le vertenze tra Cascinale e San Nazzaro. Nel presentare un rapido resoconto sulle asportazioni dei termini per nulla dissimile a quello di cinquant’anni prima apre la sua lettera con una descrizione del luogo di Cascinale: “fra le quali pertinenze [di Recetto] convien dire si computasse anche il luogho di Cassinale, misero avanzo dell’ingordiggia delle guerre, che ancor oggi spira del debole fiato di tre soli capi di Casa, il quale non si legge espressamente nominato in detta clausola e pure sempre ha riconosciuto e riconosce tuttavia la superiorità di Sua Altezza Reale, formando corpo di communità separato da quelli di Recetto”29. L’ambiguità nel descrivere lo status territoriale di Cascinale cinquant’anni dopo la prima relazione è di poco attenuata. Questa volta vengono aggiunti particolari circa la composizione della popolazione, valutata in soli tre capi di casa; si precisa inoltre che nonostante l’esigua componente umana, Cascinale ha sempre voluto formare un corpo di comunità separato. É evidente tuttavia che questo corpo di comunità separato non sia da intendere nei termini relativi alle comunità analizzate finora; di Cascinale non esiste un archivio comunale, e sembra che i suoi abitanti non abbiano mai organizzato una struttura comunitaria stabile, per di più l’accezione del tutto feudale sembra escludere agli occhi di Torino una qualche forma di gestione comune del territorio. Alcuni dei proprietari terrieri possidenti beni feudali a Cascinale sono citati durante il corso del Cinquecento in alcuni atti giudiziari30, conservati presso l’archivio di Torino e relativi alle ragioni dei beni stessi; ad esempio, nel 1516, Bartolomeo Brambilla di Vercelli viene accusato di non aver 29 AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo Stato di Milano, m. 7, fasc. 5, Relazione fatta dal Referendaro Mella dello stato delle pendenze Territoriali tra le communità di Cassinale, e Recetto con Biandrate, e St. Nazaro, 1677. 30 AST, Sezioni Riunite, Camera dei Conti, art. 749, Atti per feudi, giurisdizioni, beni e ragioni feudali e per debiti verso il regio patrimonio, m. 34. 55 Matteo Tacca consegnato alcuni beni ed una casa sita nel castello di Cascinale31. Nel 1581 abbiamo notizia di Giovanni Ferraro di Greggio, il quale dichiara di aver comprato una giornata di terra situata a Cascinale da Matteo e Francesco Messiano, giustificando il mancato consegnamento dicendo “che egli non sapeva che fosse feudale et che retrovandosi esser feudale se offerisse pigliar la debita investitura et pagar il debito laudemio”. Due anni dopo vi è invece notizia di una visita a Cascinale di un commissario ducale per riconoscere i beni feudali posseduti dal signor Pietro Avogadro Bena; singolare il fatto che venga chiamato un agrimensore di Biandrate, poiché “tanto nel vender come nel comprar terre et possesioni si sole nei loghi di Recetto et Cassinale adoprar et usar la mesura novaresa mancho della vercellesa di uno staro per moggio et che dette due terre si soleno servir dil mesurator di Biandrà, discosto un miglia qual’he terra dil statto di Millano” e dalla cui misura risulta infine possedere 24.1 giornate di terra. La visione torinese di Cascinale si amplia con l’opera settecentesca di perequazione citata nel paragrafo precedente. Anche se la mole di dati e di numeri relativi all’estensione fondiaria e alla qualità dei territori aumenta, sono presenti alcune incongruenze tra le diverse tabelle che sottolineano una profonda incertezza delle stime. Secondo il registro dei tenimenti separati, basato su un consegnamento del 1721, Cascinale viene descritto come “piccol luogo di sole giornate 85.83 allodiali, altre feudali et ecclesiastiche, ne risulta misura da per se fa corpo di comunità et paga le sue debiture la maggior parte sovra il traffico e personale”32. L’anno immediatamente successivo, il 10 aprile, troviamo una consegna generale delle bocche umane e del bestiame33 che cambia decisamente le carte in tavola; questa volta Cascinale viene descritto come un luogo di 248.76 giornate, delle quali 45.71 vengono concesse in feudo dal diretto dominio di Sua Maestà al marchese di Gattinara, 12.56 al signor abate Gio. Angelo Berzetti Buronzo, 35 sono possedute dalla chiesa parrocchiale del luogo, mentre 73 sono possedute “dalli heredi Cavazza della città di Vercelli per quali concorano al pa- I resti di questa struttura sono ancora oggi visibili, anche se in gran parte incorporate nelle abitazioni, e individuabili solo in alcune parti di muratura. 32 AST, Sezioni Riunite, Seconda Archiviazione, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 16, Ricavo dei Cantoni delle 12 provincie del Piemonte non facenti corpo di comunità. 33 AST, Sezioni Riunite, Capo 10, Consegna delle bocche umane, e delle bestie, m. 1. 31 56 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna gamento de carrichi”. Infine le restanti 103.98 giornate “sono tenute dalla communità del detto luogo, che sono gerbidi, boschi di frasche e pascoli”. Un terzo ed ultimo dato discordante è fornito dalla consegna delle valbe del 173034; nel documento viene dichiarata un’unica valba composta da dodici regioni35, nelle quali si dichiarano 51 giornate di beni comuni tra gerbidi e boschi da fuoco, specificando inoltre “però che detta communità non ha alcun cattastro, in cui restino descritti, et allibrati li beni del di lui territorio”. 4. Il conflitto quotidiano tra Cascinale e San Nazzaro In assenza di materiale direttamente riguardante le strutture organizzative della comunità ricorriamo dunque ad una lite rinvenuta all’interno dell’archivio Arborio di Gattinara. Risale infatti al 30 aprile 1610 una denuncia di Gaspardo dell’Abbate, console di Casinale, presso il podestà di Gattinara Camillo Galli; durante la deposizione Gaspardo sostiene di aver visto: “ritrovandosi in campagna a sapar della canepa, [...] certi assini qual poi ha inteso esser delli pegorari di Greggio con doi huomini quali li conducevano verso l’Abbatia di Santo Nazaro, et da ivi a pocho vide doi altri homini armati uno d’archibuggio et l’altri di spontone, et altri sei quali seguitavano detti assini et una cavalla di pelo bertino [...] le quali bestie sono statte da luoro tolte di fatto sopra l’istesso finaggio di Casinale, e ciò in discharigo della communità di Casinale”36. Nel rendere la sua testimonianza, Gaspardo si definisce console di Cascinale, non di meno precisa che gli animali sono stati sottratti dagli uomini di San Nazzaro sul territorio di Cascinale ai danni della comunità stessa; la denuncia inoltre si riferisce ad un furto di bestiame ai danni di due pastori di Greggio, villaggio corrispondente a Cascinale sul lato vercellese del fiume Sesia. AST, Sezioni Riunite, Capo 21, Perequazione generale del Piemonte, m. 27. I toponimi delle regioni sono: alla Scaffa, alle Piane, al Proglio, alle Prose, alla Montà, alli Giaretti, alla Marena, alle Cognie, al Campo del Sitto, alla Prigione, alla Roggia, al Campo del Castello. 36 ASV, Arborio di Gattinara, m. 314, Atti civili e criminali del marchesato 1607-1613. 34 35 57 Matteo Tacca Sentita la denuncia, il podestà decide di predisporre una visita ai luoghi interessati “sopra le fini di Casinale nelle giare in mezzo li doi rami [della Sesia]”. La visita avviene il 5 maggio, alla presenza di un delegato del podestà e di Gaspardo stesso. Sono presenti anche i due pastori a cui è stato rubato il bestiame, Pietro Malugano della Valsesia e Francesco di Soero di Costanzana37. A questi ultimi viene chiesto di indicare in fede il luogo dove sono stati rubati gli animali “calcando il piede”; di conseguenza, come richiesto “esso mediante hanno rimostrato calcato il piede il locho esser nelle giare in mezzo alla Sesia fini proprie di Cassinale et qual luogho è stato parimenti visitato et raconosciuto da Bertolino Beltramo, Bartolomeo Beltramo, Gioanni dil Chioso et Batista Bertone, tutti di Recetto delli più vechi et informati delli siti et fini di Casinale”. Vengono dunque chiamati a validare le affermazioni dei due pastori alcuni anziani di Recetto, i quali confermano quanto detto, aggiungendo che: “le fassine et legne tagliate dalli particholari di Casinale essere fini proprie et indubitate di detto locho [...] ciò sapendo perché hanno sempre visto per il tempo di suo ricordo, che sarà di anni dieci, venti, trenta e più, essi homini di Casinale tenere et posedere dette giare liberamente, pascolando loro bestiami, tagliando boscho et facendo altri atti possessori soliti a farsi dalli veri et indubitati patroni delle cose loro proprie”. A questo punto, l’immagine della comunità che gli abitanti di Cascinale intendono restituire, risulta decisamente differente dalle descrizioni torinesi. Gli atti possessori di cui si servono, sembrano voler costruire un’identità comunitaria; quel tutto feudale del referendario Avogadro stride decisamente con le descrizioni degli atti possessori, i quali secondo gli anziani di Recetto sarebbero d’uso ai veri et indubitati patroni delle cose loro proprie. In questo caso l’atto possessorio è visto non solo come marcatore di una proprietà improntata all’uso, ma come un’azione identitaria volta a costruire l’immagine della comunità, quest’ultima impegnata in costanti battibecchi I due, identificati precedentemente come pastori di Greggio, risultano invece provenire da ben più lontano. Questo sembra confermare le parole ritrovate nello stesso mazzo in una vertenza tra Greggio e Recetto del 1665, nella quale si affermava che gli abitanti di Greggio erano quasi tutti massari delle cascine del marchese di Gattinara, persone forestiere e non formanti un corpo di comunità; lo stesso come vedremo non si potrà dire per pochi abitanti di Cascinale. 37 58 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna con una comunità avversaria particolarmente insidiosa. Lo stesso giorno della visita seguono infatti in loco le testimonianze dei due pastori derubati, che forniscono una descrizione degli agguerriti uomini di San Nazaro: “videro ivi circa numero di persone quatordeci quali cominciarono a radunare assieme detto loro gregge per condurlo all’Abbatia di santo Nazaro [...] quali persone erano tutte armate di archibuggi da focho, spontoni et altre arme et incontinenti andarono ala sua volta quatro persone del quale conobbe che vi era il podestà dell’Abbatia [...] et subito presero tre assini et un poledro quali avevano con dette pecore et li condusse alla detta abbatia”38. Le prevaricazioni effettuate dagli uomini di San Nazzaro si diversificano all’aumentare delle testimonianze; la deposizione successiva appartiene a Michel di Copola di Cascinale. Il suo racconto è relativo ad un altro episodio di sconfinamento da parte della comunità avversaria; Michel riferisce di essere stato svegliato un mattino da un suo vicino con queste parole: “o Michel, guardatte se vi è degli huomini aciò potete andare et defendervi perché quelli dell’Abbatia hanno carigato delle fassine sopra de carri et barozze nelle vuostre giare in mezzo alli rami della Sessia”. Vengono a quel punto fatte suonare le campane a martello e Michel riesce a radunare alcuni uomini con cui si reca verso la giara contesa, dove trova “in numero di persone cinquanta armati d’archibuggi da focho, spontoni, arme d’asta, stiletti, spade, forchini, tridenti” e domandandogli Michel il perché di quell’incursione, risposero “che il console dell’Abbatia era venuto et così loro sono venuti tutti appresso detto console così armati”. Segue infine la deposizione di uno degli uomini accorsi alla giara assieme a Michel, al quale viene chiesto come faccia a sapere che quelle giare sono dei particolari di Cascinale; egli risponde di saperlo “per haver lui visto quelli di Casinale a tagliar boschi et pascolar come parimenti ha fatto lui teste et ciò quietamente, pacificamente, vedendo detti dell’Abbatia et non contradicenti salvo quello che hanno fatto al presente”. La superiorità numerica degli uomini di San Nazzaro sembra tuttavia schiacciante e i particolari di Cascinale sono costretti ad arrendersi, tornando al villaggio. 38 ASV, Arborio di Gattinara, m. 314, Atti civili e criminali del marchesato 1607-1613. 59 Matteo Tacca La denuncia subirà uno stallo fino al 12 dicembre dello stesso anno, quando verranno citati in giudizio alcuni particolari di San Nazzaro sospettati di essere presenti il giorno dell’incursione; vengono inoltre tutti convocati al palazzo di Gattinara entro cinque giorni per rispondere delle loro azioni. Nonostante il procuratore fiscale di Gattinara si sia recato “al loco di Cascinale come terra più vicina all’Abbatia di santo Nazaro et ivi haver ad alta et intelligibil voce pubblicato le lettere di cittatione”, i particolari non si presenteranno mai al palazzo, rimanendo di fatto contumaci. Nei mesi successivi le lettere di citazione si susseguono fino alla terza, la quale prevede una pena di cento scudi d’oro a testa per i particolari recidivi. Il 14 maggio 1611 il processo è chiuso e la sentenza proclamata in contumacia dei particolari di San Nazzaro, i quali sono considerati da qual momento banditi ed il fascicolo si chiude. Se la lettura torinese dell’epoca sembra non essere stata in grado di percepire le frammentazioni interne degli insediamenti più piccoli, come ad esempio Cascinale, attraverso un’attenta decostruzione dei comportamenti tenuti dagli abitanti del luogo, emerge un uso delle pratiche del possesso volto alla costruzione di una propria identità comunitaria che automaticamente produce il confine. L’azione collettiva è il frutto di legami che a volte si possono formare tra i nuclei familiari che compongono una comunità. Il vicino di casa avverte Michel, il quale suona la campana a martello, alla quale subito accorrono altri uomini di Cascinale; una pratica sociale solidale che colpisce tanto quanto l’ostinazione dei particolari di San Nazzaro nel riunirsi armati per depredare le giare contenziose. Pratiche identitarie opposte, volte a costruire un’immagine collettiva in cui riconoscersi e attraverso le quali s’innesca un lungo e complesso processo di produzione di luoghi, territori, confini e diritti. L’altro tassello importante che emerge dalle fonti, e che sembra essere fondamentale per la costruzione di un territorio dotato di una sua identità è il tema dei confini. A partire dagli studi fondamentali già ricordati precedentemente, risulta chiaro come il piano delle pratiche dei confini vada ad intrecciarsi con quello giuridico. Il territorio rurale di Ancien Régime è caratterizzato da ampie zone grigie, dotate di confini incerti ed usi promiscui e zonali; il caso di Cascinale è risultato emblematico sotto questo aspetto, considerate le sue continue diatribe tra comunità confinanti. Per tutto il corso dell’età moderna si susseguono negli archivi centinaia di faldoni conte60 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna nenti materiale relativo a liti confinarie ed asportazioni di termini; risulta evidente il peso che la cultura dei confini avesse nella mentalità giuridica collettiva dell’epoca. Nei casi in cui la documentazione di archivio ci permette di definire la concezione del confine in area rurale, emerge chiaramente una cultura a cui non importa molto tracciare una linea netta che separa due territori tra di loro, quanto più la necessità di attribuire la pertinenza dei diritti d’uso delle risorse contenute nei territori stessi. Appare del tutto normale quindi la concezione di un territorio con forti frammentazioni interne e generalmente discontinuo; da qui la forte ambivalenza delle zone di confine, le quali possono diventare sia zone di cooperazione sociale, sia luoghi scossi da conflitti territoriali capaci di durare secoli39. Occorre poi effettuare un’ulteriore distinzione tra chi in queste liti opera effettivamente sul territorio e chi invece agisce per conto di un’autorità sovralocale; dall’analisi dei diversi approcci nel dirimere le contese territoriali emergono diversi modelli di azione, ma anche diversi modelli politici; in particolare, l’opposizione fondamentale è quella costituita dal dualismo pratiche / scritture. L’analisi di una lite intercomunitaria dal punto di vista torinese, ci permetterà di capire le differenze nel vedere il territorio tra chi lo pratica e chi tenta di dirimere le contese tramite agenti e referendari. Si noterà come il principale tratto distintivo sul versante delle pratiche è da intendersi in materia di prova dei confini, elemento dotato di una certa originalità in ambito giuridico: le prove in termini di materia confinaria, infatti, non possedevano un carattere distintivo particolare, ma piuttosto un “quadro complessivo di elementi, anche dotati di un valore probatorio minimo”40, Secondo Marchetti 2001, p. 145, “i luoghi posti ai margini della vita di due comunità sono luoghi ambigui (ed i giuristi medievali non mancano di sottolinearlo) in cui si esprime l’ambivalenza della nozione di confine. Da una parte, infatti, quest’ultimo può rappresentare un elemento di contatto e cooperazione capace di un radicamento talmente profondo nelle dinamiche relazionali intercomunitarie da rendere quasi impossibile un atto di discernimento territoriale [...] dall’altra [...] i conflitti innescati da atteggiamenti tesi ad egemonizzare le risorse, in senso lato economiche, che un territorio può offrire, possono dare origine a lites immortales capaci di risorgere, periodicamente, come eventi tellurici in una zona sismica”. A sua volta Marchetti formula le sue considerazioni a partire da Zanini 1997, pp. 106-162. 40 Marchetti 2001, p. 146; secondo Baldo degli Ubaldi i confini potevano essere provati “per libros antiquos, vel alio modo, necnon per testes, famam, vel quecumque alia adminicula”, poiché “que non possunt singula, multa iuvant, quia iudex inquisitor veritatis debet 39 61 Matteo Tacca attraverso il quale il giudice doveva ricostruire la proiezione sul territorio di un quadro socio-politico. Non stupisce perciò il fatto che nella mentalità giuridica delle comunità sia tanto frequente la manifestazione di prassi e segni confinari rituali. Per lungo tempo l’atto possessorio rappresentò il vero veicolo attraverso cui dimostrare il rapporto costante di appartenenza di un luogo ad una determinata collettività, e ogni dimostrazione, ogni sfilza di testimoni, contribuiva a rinsaldare la convinzione comune dell’esistenza di quel rapporto. Non è certamente un caso che a Cascinale venissero chiamati a testimoniare gli uomini più anziani41 della vicina Recetto, poiché uomini “più vechi et informati delli siti et fini di Casinale”. Vi è poi la questione dei termini, unico elemento di demarcazione fisica del territorio, il quale viene usualmente descritto secondo elementi naturali; i termini solitamente parlavano un linguaggio chiaro, ma che bisognava saper leggere. La prima caratteristica da riconoscere in un termine era certamente la sua antichità; ad esempio, in una lite tra Arborio e San Giacomo del 1665 per il possesso di una baraggia, il prefetto di Vercelli Gio. Francesco Ranzo dispone una visita ai luoghi interessati; alla visita partecipa anche Filippo Fecia Rosa, di professione fondighiere, ovvero l’autore del tipo (purtroppo non incluso nella documentazione) raffigurante i terreni contesi. Dopo aver dimostrato la veridicità del tipo, conferma la bontà dei termini piantati tra Arborio e San Giacomo “perché essendo io stato sopra il luogho de luoghi dove sono piantati detti termini, per venir in cognitione di quelli ha bisognato adoprar zappe per levar la terra che sopra di quelli era [...] da quel che si è veduto e dalla fatiche fatta in reperire detti termini non puol esser che non sia gran tempo che siano piantati”42. Alla lettura dotta dei termini da parte di cartografi e fondighieri seguivano poi le conoscenze orali che si trasmettevano tra i pratici del luogo, di padre in figlio, da padrone a manovale. Sempre a riguardo dei termini tra Arborio e San Giacomo, Giacomo Guaglia di Castelletto, vacaro residente e pratico di San Marco, cuncta rimari, nec astringere animun suum ad unam speciem probationis”, In decretalium volumen commentaria, cit., c. Cum causam, tit. De probationibus, nn. 1-2. 41 Questi aspetti erano gia stati sottolineati da Grendi 1986, p. 162, “la linea della sovranità è anzitutto la linea della comunità: delimita il terreno entro quale svolgere gli atti possessori. Le testimonianze di queste pratiche (roncare, boscare, seminare, inserire, fogliacare) sono continuamente richieste e sono gli anziani che parlano”. 42 ASV, Comune di Arborio, m. 41. 62 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna riferisce di come “il mio padrone mi diceva che non passassi detti termini che altrimenti quelli d’Arboro mi havriano preso il bestiamo et so anche che alcuni anni sono quelli d’Arboro presero li bestiami a quelli delle cassine di S. Giacomo quali poi ricuperarono il bestiame pagando la pena”. Il tema dei confini può dunque essere anch’esso analizzato sotto due punti di vista, quello dell’autorità sovralocale, e quello degli individui che praticano effettivamente e quotidianamente il territorio; nell’analisi del prossimo caso cercheremo di mettere in risalto questo dualismo. 5. La cultura dei confini La documentazione relativa alla lite territoriale vertente tra Gattinara e Romagnano che stiamo per esporre è contenuta anch’essa nel fondo Confini antichi con lo Stato di Milano dell’Archivio di Stato di Torino. Se per le liti precedenti, rinvenute principalmente in un archivio familiare43, la documentazione era organizzata in solidi fascicoli rilegati tra di loro, ognuno corrispondente ad una determinata azione legale, qui la documentazione assume un aspetto più selezionato; il faldone intitolato Gattinara con Romagnano contiene una collezione di documenti che corrono dal 158844 al 1666, probabilmente ritenuti significativi per rappresentare non un singolo episodio, ma più in generale le continue vertenze territoriali occorse tra le due comunità. Se da un lato questo sistema organizzativo ci impone un minor grado di dettaglio, dall’altro aiuta a rendere la sensazione di quelle zone telluriche di confine cui Marchetti fa riferimento nell’identificare le sue lites immortales. Ulteriori informazioni circa l’archivio Arborio di Gattinara in Cassetti 1981. In apertura alla documentazione è contenuta una lettera del 1588 re di Spagna Filippo III relativa alle vertenze territoriali tra Romagnano, Lenta, Gattinara, Carpignano e Ghemme. La questione dei confini con il fiume Sesia doveva interessare parecchio all’amministrazione spagnola; nella lettera il re afferma di essere a conoscenza del fatto che “cum super intellexerimus aut veteris, aut novas esse differentias inter gattinarienses, et romanienses, nec non et homines Calpignani, et Ghemi, ac Lenta partes diversas”; in virtù di ciò il re delega in questo modo il senatore Odescalco affinché indaghi e ponga fine alle vertenze: “dilectissimus noster et si aliis litteris vos delegaverimus ad cognoscendas et terminandes et latere sivus dominis eas omnis finium difficultatis ubique, et cum quibuscumque existentes inter nostrates et quosius subditos serenissimi ducis sabaudie” (AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo stato di Milano, m. 1, fasc. 3, Pienpotere del re di Spagna Filippo III al Senatore Odescalco suo delegato per terminare colli delegati di Savoja le pendenze territoriali vertenti tra le communità di Gattinara, e Romagnano, e tra Lenta con Carpignano, e Gheme. 2 maggio 1588). 43 44 63 Matteo Tacca Gattinara fu un comune di nuova fondazione posto all’imbocco della Valsesia, istituito dal comune di vercelli nel XIII secolo radunando le genti dei villaggi circostanti; per quanto riguarda Romagnano invece, si tratta della quasi corrispettiva comunità (è situata leggermente più a nord rispetto Gattinara) che si trova dall’altra parte del fiume Sesia, nel territorio dello Stato di Milano. Sempre a proposito di Romagnano esiste inoltre una dettagliata scheda all’interno dello schedario storico-territoriale dei comuni piemontesi45 ad opera di Emanuele Colombo: dalle informazioni contenute in quest’ultima riguardo all’assetto insediativo, Romagnano appare come un territorio a forma di imbuto allungato verso il Sesia, il cui corso ha lambito l’abitato per tutta l’età medievale fino al Cinquecento. Soltanto nel Seicento alcuni lavori apportati lungo le sponde del fiume hanno consentito una distanza della riva dall’abitato di circa quattrocento metri. Ed è proprio l’aspetto relativo al corso del fiume Sesia a causare forti attriti tra le due comunità; aspri litigi per le derivazioni di rogge dal fiume sono registrati dal 1482 sino alla metà dell’Ottocento circa. Nel nostro caso la conflittualità nasce con tutta probabilità da quei lavori secenteschi per ottenere uno spazio tra il fiume e la comunità di Romagnano a scapito chiaramente della dirimpettaia comunità di Gattinara. Le prime proteste da parte dei gattinaresi risalgono già al 1597, quando su istanza dei consoli di Gattinara, il podestà della stessa, Ricardo Riccardini interroga Bernardino Torello come persona informata circa un nuovo cavo che quelli di Romagnano stavano scavando. Costui, interrogato, risponde che il 19 agosto, mentre si stava recando per lavoro verso Romagnano passò vicino al “detto luogho, o sii la nave”46 e vide “pocho discosto dalla detta nave una quantità di gente qual ivi lavorava cavando et portando pietre per fare una chiusa al traverso del detto fiume Sesia, facendo voltare l’acqua verso il finaggio di Gattinara”. Tornato a Gattinara, molti gli chiesero il perché di quei lavori, e lui riferì “che li di Romagnano si escusavano che facevano tal chiusa per pescare solamente”. Il giorno successivo, il 20 agosto, Bernardino tornò alla chiusa per vede- Colombo 2009. AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo Stato di Milano, m. 1, fasc. 4, Informazioni prese dal Podestà di Gattinara sull’opere fatte dalli Uomini di Romagnano per divertir il corso della Sesia in pregiudicio del territorio di Gattinara. 5 7bre 1597. Con un atto di protesta fatta da Sindaci di questa communità contro le suddette opere delli 20 agosto. 45 46 64 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna re se effettivamente era stata costruita solo per pescare o altrimenti, ma “ivi considerando questo, gli fu subito sparata una archibugiata dalle fenestre di Romagnano, perché essi si pensavano che lui fosse ivi per altro effetto che di vedere”; al momento dell’archibugiata Bernardino racconta di aver sentito immediatamente “dare campana et martello, sagliendo gran parte di essi fora dalla porta del pontone armati, guardando sempre alla detta chiusa ivi vicina”. La reazione violenta degli uomini di Romagnano è più da intendersi come controreazione, poiché alcuni giorni prima la chiusa era stata distrutta da alcuni sconosciuti: durante “la notte di detto giorno di sabato, essi di Romagnano sonarono la campana a martello et furono sparate alcune archibugiate verso la detta chiusa”. L’anno successivo, il 1598, seguono ulteriori denunce al podestà di Gattinara, il quale si reca presso il notaio Gio. Antonio Bocuto denunciando nuovamente delle costruzioni abusive di quelli di Romagnano volte a deviare il corso del Sesia verso Gattinara. Si decide perciò una ricognizione con perizia del notaio sul luogo stesso47, tramite la quale si individua un riparo “di pietra et boschami di altezza di più di un uomo”48, grazie al quale nella parte di alveo che si era asciugata “havevamo ancho veduto una isoletta zappata tutta di frescho, et cavate le radici e sminuzata la terra, non per altro come temono che per far più picholo il corso d’acqua”. Ancora una volta il sopralluogo viene bruscamente interrotto “sentendo che da Romagnano cridavano molte voci, le quali non potevamo intendere per il romore del aqua della Sesia, et vedendo molti homini affazati alle fenestre respondenti verso Sesia [...] dubitandoci di qualche eccesso siamo tutti tornati a Gattinara”. Comincia qui a delinearsi la vera natura dei lavori condotti dagli uomini di Romagnano, volti sostanzialmente a guadagnar terreno tra il Sesia e l’abitato; terreno che verrà poi zappato di frescho e presumibilmen- Si noti l’estrema versatilità della figura del notaio; Grossi 1995, p. 61 lo definisce come una “formica operosa dell’officina giuridica delle fondazioni medievali [...] egli adegua e modifica, intuisce e inventa figure, con diagnosi che puntano sempre sui fatti, sulle istanze concrete proclamate dai fatti. E gli strumenti contrattuali (si pensi alla estrema varietà dei contratti agrari), il richiamo alla vita quotidiana, alle strutture concrete, agli usi scritti nella terra”; sul ruolo propulsivo del notaio si vedano principalmente Vismara 1979 e Nicolaj 1991. 48 AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo Stato di Milano, m. 1, fasc. 5, Atto di prottesta fatta per parte delli uomini di Gattinara contro i ripari fatti da quelli di Romagnano nell’alveo del fiume Sesia per divertirne il corso in pregiudicio del territorio di Gattinara. 19 settembre 1598. 47 65 Matteo Tacca te coltivato. Con tutta probabilità è da qui che derivano quei quattrocento metri circa che, a partire dal Seicento, dividono Romagnano dalla riva del Sesia, prima aderente all’abitato. Si tratta in ogni caso di un’asportazione di termini: se nel caso di Cascinale e San Giacomo i termini erano pietre fisiche da arrancare e spostare per rappresaglia, qui il termine è rappresentato dal Sesia stesso, che al livello di Gattinara è un fiume dal carattere decisamente torrentizio. L’operazione di asportazione dei termini qui consiste sostanzialmente nella deviazione artificiale del corso del fiume. Negli anni successivi si susseguono altre due denunce49 per costruzioni di chiuse abusive sul Sesia le quali non suscitano tuttavia particolare attenzione. Un punto di svolta arriverà nel 1666, quando l’ennesima denuncia per diversione del corso fluviale attira l’attenzione di Torino, la quale invia il suo referendario e consigliere Carlo Agostino Mella50 a Gattinara per raccogliere testimonianze. Quest’ultimo, assieme al podestà Giovanni Calligaris convoca alcuni particolari di Gattinara, ancora una volta dei più vecchi ed informati, i quali formano una sorta di corteo che da Gattinara si muove verso nord per attestare la bontà dei termini che delimitano la comunità. Costeggiando la collina posta ad ovest, il corteo passa sotto un castello in rovina posto sulla sommità, definito dai particolari “con il loro reiterato giuramento[...]castello et monte di San Lorenzo”51; poco più avanti “s’è visto un gran sasso, che spica al piede della montagna, et al piede della rogia Molinara della comunità di Gattinara, nel qual sasso si vede scolpita una croce, et questo li medesimi homini hanno detto essere un termine terminante li possessi delli homini di Gattinara da quelli di Romagnano”. Ma la parte più sorprendente del resoconto arriva di lì a poco, quando gli uomini alzano lo sguardo sul versante montuoso corrispondente al grande sasso: 49 AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo Stato di Milano, m. 1, fasc. 7, Atti Civili fatti nanti li rispettivi delegati dalla corte di Savoja, e dal Senato di Milano sulle pendenze territoriali vertenti tra le communità di Gattinara e Romagnano. 1603. Con informazioni, e memorie relative alle medesime. 50 Con tutta probabilità, lo stesso Mella autore della relazione a proposito dello stato di Cascinale nel 1677. Per ulteriori approfondimenti sulla famiglia Mella rinvio a Avogadro di Vigliano 1989, pp. 135-149 e a Balzaretti 2005. 51 AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo stato di Milano, m. 1, fasc. 12, Testimoniali di visita, ed informazioni prese dal refferendario Mella delegato dalla Camera sulle pendenze territoriali tra le communità di Gattinara, e Romagnano. Luglio 1666. 66 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna “et alzando la testa verso la colina, o sia montagna, si è visto per retta linea una gran pietra con la forma di tre occhi fissa nel monte verso il detto castello di San Lorenzo, quali li suddetti hanno deposto chiamarsi pietra occhiaria, che continua la terminazione dei confini fra Gattinara e Romagnano, che sino a Vintebbio ascendono et discendono per monti et valli”. In quest’ultimo passo emerge la complessità del linguaggio attraverso il quale i termini comunicano informazioni a chi è in grado di leggerli. La diversificazione dei termini si presenta come un tratto fondante di quella cultura non scritta dei confini che caratterizza le modalità e le forme del possesso nelle comunità. Al gran sasso dotato di croce viene attribuita la semplice funzione di dividere il territorio pianeggiante di Gattinara da quello di Romagnano; ma la pietra occhiaria posta al di sopra del termine indica la continuazione dello stesso oltre la montagna, orientandolo con il suo sguardo sino a Vintebbio. Queste conoscenze dei confini possono essere padroneggiate soltanto dai particolari del luogo, poiché muniti di conoscenze del territorio principalmente acquisite per via orale; non a caso anche questa volta vengono invitati a riconoscere i termini i più anziani e meglio informati della comunità. La visita prosegue, e il referendario Mella coglie l’occasione per interrogare altri testimoni ritrovati strada facendo; è il caso di Carlo Bruco di Michelino, di professione barcaiolo “naturale di Romagnano, et d’età d’anni vintisei” che passava da lì per lavoro. Il Mella gli domanda se il Sesia fosse sempre passato nel presente alveo, il testimone risponde che da circa otto anni il fiume ha iniziato a corrodere la parte di Gattinara a causa “delle stelonere per prender pesci, che sono fabriche construtte di grosse pietre che traversano tutto il fiume” (le stelonere dovevano quindi essere simili a dei bertavelli in pietra, in cui i pesci rimanevano intrappolati). Il Mella coglie poi l’occasione per domandare al testimone chiarimenti riguardo alla franchigia che i banditi dallo stato di Milano godrebbero una volta attraversato il Sesia, a riguardo il barcaiolo risponde che “si, questo è verissimo et continuamente se ne vede la pratica et delli essempi, anzi al presente vi è un bandito da Romagnano per goder la franchigia s’è fatto una gabanna ivi alla ripa del fiume Sesia come stato di Savoia”. Quest’ultimo aspetto è forse il più interessante dal punto di vista torinese e milanese, poiché di fatto le persone che godono di questo status non sono più fiscalmente imponibili; meno rilevanza sembra rivestire a livello 67 Matteo Tacca locale, poiché il testimone prosegue riferendo che spesso i banditi che si stabiliscono sulle rive del Sesia continuano a condurre i loro affari e il loro lavoro nella comunità di Romagnano, oppure lavorando presso la comunità di Gattinara. Sembrerebbe piuttosto che a livello locale il bando da una comunità implicasse più una negazione della residenza che altro. In seguito alla visita e alla relazione del Mella, il 13 novembre 1666 la camera dei conti di Torino emette un atto di deputazione per nominare un rappresentate della parte piemontese, ovvero il senatore e consigliere del duca Giovanni Gonteri “per poter unitamente con detto avvocato fiscale [...] fare le parti della sudetta comunità di Gattinara e a poter etiandio ove non possino disporre dette comunità d’un amicabile temperamento”52. Dal carteggio di quest’ultimo con il duca spicca fra tutte una lettera inviatagli dal duca Carlo Emanuele II il quale raccomanda riserbo nei confronti del conte Casati, deputato dello Stato di Milano: “onde nel discorrer seco di queste ed altre materie dovrete andar con prudenza e riserva, e osservare i suoi discorsi: ma perché non paia ch’il solo negotio di Gattinara ci habbia mosso a mandarvi colà, vogliamo che colla medesima occasione voi parliate delle nostre pretensioni per il suburbio della città di Vercelli con le sue dipendenze, delle quali già sarete pienamente informato [...] et quando da questa visita vediate le nostre pretensioni fondate voi ce ne darete pronto avviso, acciò che possino scrivere a Milano avanti la partenza del deputato perché se gli diano ordini opportuni per trattar anche di questo interesse, che non è di poco rilievo”. Dalle istruzioni che il duca fornisce al Gonteri nel trattar l’affare si percepisce tutto il divario non solo culturale (ammessa la presunta superiorità di una cultura ufficiale rispetto a una cultura popolare), ma anche di percezione territoriale completamente differente da una comunità che vede la lotta per i confini come una sorta di lotta per l’esistenza, come qualcosa di profondamente radicato nella propria identità locale, in alcuni casi addirittura come una questione di sopravvivenza. AST, Sezione Corte, Confini antichi con lo stato di Milano, m. 1, fasc. 14, Atto di deputazione fatta dalla camera del senatore Gonteri per trattare col deputato del senato di Milano l’amichevole adequamento delle pendenze territoriali vertenti tra le communità di Gattinara, e Romagnano, 13 novembre 1666. 52 68 69 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna Tipo generale del corso del fiume Sesia avente il suo principio al luogo detto il Sasso del Bagno, ed il suo termine allo sbocco del versatore dell’ultima roggia (1836). Particolare del tratto fra gli abitati di Romagnano e Gattinara. ASTO, Sezioni Riunte, Camerale Piemonte, Articolo 663, Sesia Fiume, Cartella 134, n. 1. Autorizzato alla pubblicazione ai sensi del prot. n. 936/28.28.00-21. Matteo Tacca 6. Conclusioni: habitus mentali a confronto e quotidianità In conclusione vorremmo sottolineare gli aspetti salienti della ricerca effettuata in queste pagine. L’analisi dei due casi ha portato alla luce in prima istanza una profonda opposizione tra centro e periferia dello Stato; in poche parole, quando si cerca di vedere il confine dal punto di vista del centro, vengono meno, o meglio, non sono compresi appieno, una serie di aspetti fondanti della complessa cultura giuridica dei confini che impregna la mente degli attori sociali in gioco. L’immagine più efficace che possiamo usare per descrivere questa differenza di campo è quella utilizzata da Bourdieu per definire il sistema sociale del gioco53; riprendendo il concetto di Homo ludens proprio di Huizinga, Bourdieu sostiene che un gioco è tale soltanto quando si è presi da esso, quando si crede che il gioco valga la pena o per lo meno valga la pena di giocare. In altri termini, riconoscere se un gioco sociale è importante o meno sta agli attori sociali stessi, i quali definiscono peraltro le regole entro le quali il gioco si articola ma al di fuori delle quali non può in nessun modo esistere. Per chi non vede il gioco, e soprattutto per chi non vede le regole del gioco, quest’ultimo non sussiste, o comunque non ha significato, riducendosi ad una futile schermaglia i cui motivi in questi casi sono dettati da meri problemi di sussistenza. Dunque le pratiche intese come azioni contestualmente significative, non devono essere relazionate unicamente al territorio, ma anche e soprattutto al terreno mentale di chi le pratica, di chi vede la contesa come un gioco sociale importante. L’habitus mentale di questi individui che abitano la periferia di uno Stato li porta a compiere azioni e pratiche che viste dall’esterno sembrano prive di significato o non validanti dal punto di vista giuridico. Le lamentele che arrivano a Torino sono intese come sforamenti territoriali, come tentativi di allargamento dello Stato vicino, in alcuni casi si teme addirittura che i piccoli conflitti possano sfociare in qualcosa di più grande, portando ad esempio l’imperatore Filippo II ad esortare alla calma i particolari di Romagnano con una lettera. Ma, come si è potuto vedere, la formazione dei confini dipende in minima parte dalle direttive del centro; per un gruppo di particolari di Cascinale che praticano il territorio e vivono il conflitto dal punto di vista quotidiano, raccogliere gli strami su di un’isola del fiume constatando che quelli di 53 Bourdieu 1995, pp. 134-136. 70 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna San Nazzaro vedevano ogni giorno e non contraddicevano ciò, equivaleva a provare il possesso di quel terreno, erano azioni, per usare le parole degli anziani di Recetto, solite a farsi dalli veri et indubitati patroni delle cose loro proprie. Per gli attori locali, veri protagonisti del processo di produzione dei confini, la pratica coincideva con il confine e contribuiva a formarlo; nell’opinione comune su cui si basavano le supposizioni, praticare azioni su di un territorio, e soprattutto farlo senza contraddizione di alcuno, equivaleva a fissare il confine del proprio possesso. Parallelamente i particolari di Romagnano, una volta guadagnato terreno sulla sponda del fiume tramite complessi sistemi di chiuse, si apprestano a zappare e roncare54 il terreno guadagnato per dichiararlo come proprio della comunità, assicurandosi al contempo che nessuno contraddica quanto sta succedendo (le preoccupazioni degli abitanti di Romagnano riguardavano appunto il timore che il testimone di Gattinara si fosse recato sul luogo delle chiuse per altro effetto che di vedere), dispensando all’occorrenza fucilate dalle finestre dell’abitato. In questo senso la rappresaglia e la violenza rappresentavano il corrispettivo linguaggio giuridico per indicare che gli avversari vedevano quanto stava accadendo e non lo accettavano, contraddicendo a loro volta i nemici; da questo punto di vista il confine tra la molestia e la risposta giuridica è decisamente sottile e relativo al sistema di regole del gioco che si intende applicare. Allo stesso modo resta sconosciuto ai burocrati del centro il complesso sistema di regole dei termini, il cui linguaggio viene decifrato attraverso uno strumento fondamentale come la visita sul territorio dell’intendente accompagnato dagli anziani, i quali, provvisti di una adeguata cultura orale circa i termini, ne spiegano significato ed orientamento. Questo cambio di prospettiva riveste le piccole comunità locali e le periferie degli Stati di età moderna di un ruolo di primaria importanza che è stato sino ad oggi in parte sottovalutato. Resta in definitiva da capire quali siano le radici di questa predisposizione mentale che sembra permeare in qualche modo più regioni geografiche che come abbiamo visto in precedenza possono anche essere molto lontane. È a suo modo un caso di connected history che Herzog ha preferito L’identificazione storica di questa pratica significativa, che consiste principalmente nell’arroncare vegetazione e radici per rendere il terreno adatto alla coltivazione, è effettuata da Moreno 1992, pp. 251-276. 54 71 Matteo Tacca analizzare dal punto di vista oltreoceano, ma che certamente ritrova le sue radici nella cultura europea; se l’interpretazione classica del diritto comune che dovrebbe regolare tali schermaglie è quella di una derivazione dal diritto romano dopo la riscoperta di quest’ultimo nelle università bolognesi, l’alternativa che alcuni storici del diritto55 hanno proposto è quella di diritto comune frutto di un continuo costruirsi di istanze locali tipico del periodo medievale, le quali operando in relativa autonomia hanno assorbito influenze da diverse culture giuridiche, massimamente quelle tramandate oralmente nel periodo dei regni romano barbarici. Non a caso alcune rubriche dell’Editto di Rotari e del suo successore Liutprando si riferiscono nei termini del possesso (non di proprietà) secondo i termini consuetudinari56 tipici delle liti confinarie ma sconosciuti al diritto comune normato57. Con ogni probabilità la forte componente orale di queste norme ha inciso molto sulla cultura anch’essa orale dei piccoli gruppi rurali, veri protagonisti della creazione dei confini tramite un diritto “di frontiera” che seguiva meccaniche profondamente diverse da quello centrale. Per chiarire questi complessi procedimenti storici non occorre dunque soltanto, come suggerisce Herzog, riconnettere il diritto alla storia, ma soprattutto riconnettere il diritto alle pratiche e le pratiche ai sistemi economici locali che le generano. Tutte le azioni di cui abbiamo parlato precedentemente (pascolare, raccogliere strami su di un’isola fluviale, costruire 55 Oltre ai già citati Grossi 1995 e Marchetti 2001, è fondamentale l’inquadramento storico del diritto comune operato in Conte 2012. 56 È molto interessante notare come Bourdieu 1995 stesso, citando a sua volta Krader 1974, p. 335, segnali che già Marx, nel tentativo di accostarsi al concetto di habitus, avesse intrapreso uno studio antropologico dello ius commune: “Il diritto consuetudinario […] non viene osservato come quello positivo. Quando esso vige in piccole aree o in piccoli gruppi naturali, la sua sanzione è affidata in parte all’opinione sociale, in parte alla superstizione, ma in misura assai maggiore a un istinto cieco e inconscio quasi come quello che produce certi movimenti del nostro corpo”; il punto di vista antropologico più eloquente circa questi aspetti è quello di Lévi-Strauss 1990. 57 A proposito del possesso, l’Editto di Rotari suggerisce che: “Chi ha qualcosa del pubblico e lo possiede incontestatamente per sessant’anni, gli sia consentito tenerlo e possederlo in futuro senza alcun fastidio. [...] Se il nostro giudice, o il nostro attore, accusa colui che ha un tale processo [dicendo] che possiede o che occupa tale bene ingiustamente e che non sono trascorsi i sessant’anni, allora colui cui appartiene il possesso dica giurando sui Santi Vangeli che [ha avuto] da sè, o tramite suo padre o suo nonno, quel bene dal principe, che si osa nominare, e che lo ha posseduto, lui o i suoi parenti, per sessant’anni e che non deve lasciarlo per legge” (Azzara - Gasparri 1992, p. 167). 72 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna stelonere per catturare pesci, roncare un terreno ricavato dalla diversione del fiume) sono aspetti della vita quotidiana profondamente radicati nel territorio ed acquisiscono pieno significato soltanto se messe in relazione ad un’analisi economica che tiene conto delle diversità locali e del rapporto tra di esse. 73 Matteo Tacca Bibliografia Adami 2012 Igiea Adami, Terre di baraggia: pascoli, acque, boschi e risaie. 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Derouet - Lorenzetti - Mathieu 2010 Bernard Derouet, Luigi Lorenzetti, Jon Mathieu, Pratiques familiales et sociétés de montagne, XVI-XX siècles, Basilea 2010. 74 Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna Durkheim 2015 Émile Durkheim, Sociologia e filosofia, a cura di Angelo Romeo, Sesto San Giovanni 2015. Ferraris 1984 Giuseppe Ferraris, La pieve di S. Maria di Biandrate, Vercelli 1984. Kant 1797 Immanuel Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note a cura di G. Vidari, Roma 2014. Krader 1974 The ethnological notebooks of Karl Marx: studies of Morgan, Phear, Maine, Lubbock, a cura di L. Krader, Assen 1974. Grendi 1986 Edoardo Grendi, La pratica dei confini: Mioglia contro Sassello 1715-1745, in “Quaderni Storici”, n. 63, 1986, pp. 811-845. Grendi 1993 Edoardo Grendi, Il Cervo e la repubblica: il modello ligure di antico regime, Torino 1993. Grossi 1992 Paolo Grossi, Il domio e le cose. Percezioni moderne e medievali dei diritti reali, Milano 1992. 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Successivamente, il confronto dei documenti sopraccitati con quelli relativi all’amministrazione centrale sabauda, ha portato alla luce due differenti modi di concepire il possesso ed i confini: uno legato alle piccole autonomie locali ed alle norme consuetudinarie non sempre scritte, l’altro relativo alle autorità centrali impegnate ad incrementare il loro controllo sul territorio attraverso i moderni strumenti dello Stato di diritto. Abstract The essay deepen some of the critical aspects relative to the culture of possession in some rural communities of the alto vercellese in the modern age. The analysis of juridical conflicts relative to boundaries in some documents of XVI-XVIII centuries, brought to the individuation of a culture of possession deeply tied to the culture of boundaries of single communities. Subsequently, the comparison of these documents with the ones relative to the central sabaud administration, discovered two different ways of thinking about possession and boundaries: one tied to the little local institutions and to consuetudinary rights not always written, the other, instead, relative to the central authorities engaged with the incrementation of territorial control through the modern instruments of the State of law. matteo.tacca@usi.ch 77 Matteo Tacca 78 Michela Ferrara QUESTIONE DI NOBILTÀ: I BELLINI “NOBILI DI VINTEBBIO E BORNATE” Lo studio della nobiltà ha da sempre attirato l’interesse degli storici: per comprendere la storia europea prerivoluzionaria è infatti necessario esaminare la composizione di un ceto che esercitava poteri, ma che al suo interno era molto variegato1. Sebbene negli ultimi decenni, per il Piemonte, più studiosi si siano cimentati in questo terreno di studio, la nobiltà rimane un’incognita2. Fra i risultati di maggior rilievo, ricordo il superamento della suddivisione in noblesse d’épée e in noblesse de robe, quest’ultima ulteriormente diramata in “nobiltà di servizio”. Della prima avrebbero dovuto far parte le famiglie feudatarie di origine medievale, nella seconda si sarebbero dovute ascrivere le famiglie nobilitate attraverso l’esercizio del notariato, mentre l’ultima sarebbe stata composta da famiglie nobilitate mediante il servizio offerto al sovrano. Una classificazione che, per vari motivi, ha poco senso. Sigle: AABCC = Archivio Biamino Arborio di Caresanablot (presso Archivio Storico Civico di Vercelli). AST = Archivio di Stato di Torino. ASCV = Archivio Storico Civico di Vercelli. ASV = Archivio di Stato di Vercelli. BCV = Biblioteca Civica di Vercelli. PCF = Patenti Controllo Finanze. PP = Patenti Piemonte. 1 Abbondano gli studi riguardo la nobiltà. I grandi classici rimangono Ventura 1964, Berengo 1965, Zenobi 1976 e Brunner 1982. Un confronto fra le situazioni italiane si trova in Ago 1994. Lavori comparativi su scala europea sono, fra gli altri, Scott 1995 e Dewald 2001, pp. 29-40. 2 L’espressione è mutuata da Merlotti 2000. Per la situazione a fine Seicento si vedano soprattutto pp. 5-32, in seguito lo studioso si focalizza sul Settecento. La difficoltà di delimitazione del ceto si trova anche in Mola di Nomaglio 2006, pp. 63-68. Sulla nobiltà di inizio Seicento Rosso 1992, pp. 207-216 e su quella della tarda età medievale Barbero 1995, pp. 30-35. Benché datati, continuano a costituire un valido riferimento gli studi di Luigi Bulferetti, tra tutti ricordo Bulferetti 1953. Sulla nobiltà vercellese settecentesca sono recenti le ricerche di Balzaretti 2005 e di Tibaldeschi 2009, per uno sguardo sull’intera età moderna Balzaretti 2012. Si tenga presente che il concetto di nobiltà è diverso a seconda del secolo di riferimento. Ad esempio, si riscontra un maggior grado di rigidezza e di chiusura nella nobiltà settecentesca rispetto a quella dei due secoli precedenti. 79 Michela Ferrara Prima di tutto, perché presuppone una chiara definizione di nobiltà che, per l’età moderna, sfortunatamente non possediamo3. In secondo luogo, perché troppo rigida: chiunque si sia trovato a sfogliare archivi familiari sa quanto sia difficile affermare che una famiglia si nobilitasse esclusivamente per gli incarichi ricoperti o per l’antichità del casato. Di solito, una stessa persona e più membri della famiglia operavano su più fronti contemporaneamente4. Un altro problema che gli studi hanno sollevato, e a cui qui solamente accenno, è l’esigenza di capire che cosa fosse quell’organismo chiamato famiglia nobile. L’eccezione sotto cui bisogna intendere il termine è molto ampia, ben più ampia di quello che si possa immaginare: alcune famiglie si aggregavano in consortile per favorire il mantenimento del potere e della stirpe, ma all’occorrenza accettavano elementi più o meno estranei. Il caso più eclatante, nel vercellese, è l’aggregazione di Alessandro Mella al consortile degli Arborio, avvenuta nel 16545. Vi era poi un fenomeno, non troppo sotterraneo, di persone che avevano la fortuna di portare cognomi uguali, o simili, a quelli di nobili, e che pretendevano l’affiliazione nelle famiglie. Un aspetto della massima rilevanza è il ruolo del sovrano. Nel corso del Seicento, si assiste a un’ininterrotta acquisizione da parte dei Savoia del diritto di investitura del feudo e di nobilitazione, il cui scopo consisteva nel legare con vincoli di fedeltà la nobiltà piemontese alla Corona. Occorre specificare che un nobile non era necessariamente un feudatario: il primo poteva infatti appartenere a quello che viene comunemente chiamato patriziato urbano e non possedere alcun feudo (o porzioni di esso). Inoltre, corre 3 Sulla mancanza di una definizione nel Piemonte del Tre-Quattrocento Barbero 1995, pp. 33-35 e 56-59, mentre per una prospettiva italiana sul concetto di nobiltà tra tardo medioevo ed età moderna Donati 1988. 4 Sia chiaro che non intendo affermare che non esistessero famiglie nobili di origine medievale o famiglie che si nobilitassero attraverso il maneggio di uffici o di denaro, ma che la divisione non fosse né così netta né così semplice. Andrea Merlotti propone di suddividere la nobiltà sabauda in famiglie feudali, cioè di origine medievale, in famiglie burocrate, cioè nobilitate attraverso l’esercizio di uffici, e in “civili” o in “generiche”, cioè provenienti dal notabilato provinciale. La suddivisione è di comodo e non si devono erigere barriere laddove i contorni sono sfumati. La nobiltà appartenente alla terza tipologia è la più sfuggente da definire e da quantificare. La definizione di “generica” si deve a Enrico Genta, mentre quella di “civile” ad Andrea Merlotti, termine mutuato da Francesco Agostino della Chiesa. Genta 1983, pp. 87-131 e il più recente Genta 2010, pp. 241-250; Merlotti 2000, pp. 5-41. Un interessante caso di nobilitazione si trova in Barberis 1997, pp. 98-106 con i Gabaleone. 5 Balzaretti 2012, pp. 59-63. 80 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” una sostanziale differenza fra il possesso di beni feudali e il possesso di un feudo: dei primi possono favorirne indistintamente nobili e plebei - senza per questo ascendere alla nobiltà -, mentre il secondo riguarda esclusivamente la nobiltà. Nella seconda metà del secolo, si tende a identificare la nobiltà con il possesso di un feudo, di un castello e della giurisdizione di un luogo. Nella maggior parte dei casi, il sovrano concede la prima e la seconda istanza nelle cause civili e criminali; è rara la concessione della terza e ultima cognizione. L’investitura di feudi non è perpetua: il permesso dev’essere periodicamente rinnovato perché i signori non sono proprietari del feudo, ma godono del permesso del possesso del feudo, su di un territorio che comunque è riconducibile al Regio Patrimonio. Il sovrano, nella maggior parte delle investiture, si riserva infatti la facoltà di riscatto. La matassa è molto più ingarbugliata di quanto si possa immaginare: a livello locale, alla fine del Cinquecento, non era facile stabilire chi fosse nobile. Nelle comunità piemontesi, uno dei fattori discriminanti era spesso costituito dall’adozione di uno stile di vita more nobilium: nobile è chi da nobile vive, ossia non svolge “lavori mecanici” e mantiene una o più abitazioni signorili grazie alle rendite o all’esercizio di professioni ritenute “nobili”, magari da un paio di generazioni. Va da sé che una tale mentalità giustifica l’abbondanza di “nobili messeri” e di “signori” nelle fonti vercellesi tardocinquecentesche. Pertanto, oltre a forme disciplinate di nobilitazione, consistenti nel possesso di patenti regolarmente interinate e nell’appartenenza “da tempo immemorabile” al patriziato, convivevano forme arbitrarie di nobilitazione locale. Carlo Emanuele I avvia una serie di interventi volti a normalizzare l’ascesa nobiliare, rendendola possibile solo attraverso l’autorizzazione del sovrano. L’entrata, o la permanenza, tra la nobiltà sabauda diviene possibile a costo di un servizio: attività diplomatica, servizio in guerra, prestito di somme, esercizio dell’avvocatura o di professioni simili, ruolo di spicco nei Comuni piemontesi. Le scelte sono ampie e le famiglie nobili, per rimanere a galla, sono costrette a intraprendere un percorso. A ben vedere, non ci sono altre strade da percorrere: se una famiglia rimane isolata nella propria località d’origine e non entra nel circuito di alleanze politico-matrimoniali, è destinata a essere sopraffatta dalla fiumana del progresso. Questa è la tematica che emerge dallo studio della famiglia Bellini, appartenente a una nobiltà di tipo feudale, le cui origini si perdono nella notte 81 Michela Ferrara dei tempi. Legata al castello di Vintebbio e a quello di Bornate, al termine del Cinquecento, i nobili di queste località si trovano ad affrontare un insolito problema: il sempre più capillare potere del sovrano. Nella fattispecie, l’ostacolo ha un nome ben preciso: Salomone, la famiglia del patriziato vercellese che viene infeudata di Serravalle. Il panorama storiografico si è arricchito negli ultimi anni con le ricerche di Sabrina Balzaretti e con i contributi contenuti nella Storia di Vercelli; ciononostante rimane ancora molto da studiare sulle famiglie vercellesi. Al momento sono noti, e solo in parte, i meccanismi di conservazione del potere messi in atto da alcune delle famiglie più celebri, ma nel Seicento esisteva una pletora di nobili, di aspiranti tali e di famiglie che sono state dimenticate, magari perché estintesi già nel primo Settecento o perché sprovviste di un archivio familiare. Sono ancora da chiarire le modalità associative e le pratiche della nobiltà vercellese6. 1. Il contado di Serravalle Nelle fonti, la famiglia Bellini è variamente definita signora di Vintebbio e di Bornate, o di Serravalle, benché fra i territori corra una certa differenza. Per la ricostruzione della storia di Serravalle, offre un aiuto la Descrittione dell’origine e successi di Serravalle et altri luoghi circonvicini di Vercellino Bellini. Da quanto si evince dal testo, l’opera è stata composta nel 1617 per essere ricopiata, e rivista, dal figlio Carlo Amedeo nel 1649. Nel Seicento, queste località erano situate uQuestallalall’estremità dei domini sabaudi, all’imbocco della Valsesia ed erano separate “dal resto d’essi Stati da una continua catena di monti et attorniat[e] da Stati forestieri”7. Da queste parole si comprende la situazione atipica del contado all’interno del territorio vercellese: i suoi luoghi (o il luogo, perché la suddivisione del territorio cambiò nel corso del tempo) erano isolati8. La continua catena di monti a cui accenna il Bellini sono i colli che dividono i territori di Serravalle da quelli di Gattinara, di Lozzolo, di Sostegno e di Crevacuore, poste a sud e a ovest. Lo Stato forestiero era invece lo Stato di Milano, di I primi studi recenti sono di Balzaretti 2005 e Balzaretti 2012. BCV, Vercellino Bellini, Descrittione dell’origine e successi di Serravalle et altri luoghi circonvicini, ms. A.7 f. 75. 8 Della “produzione di località” si è occupato Torre 2011. 6 7 82 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” cui facevano parte la Valsesia, che iniziava nei pressi della Sessera, e il Novarese, con Ara e con Grignasco posti al di là della Sesia. Crevacuore faceva invece parte dei territori del principato pontificio di Masserano e apparteneva ai Ferrero Fieschi. Anche l’articolazione interna della comunità è anomala rispetto ai villaggi del vercellese. In pianura, le comunità sono costituite da piccoli insediamenti concentrati intorno a un castrum, mentre il borgo franco di Serravalle sorge in un’area in cui i nuclei abitativi si organizzano in cantoni. Gli insediamenti di Vintebbio e di Bornate sono preesistenti rispetto al borgo franco, fondato nel 1255, e, nel loro nucleo originario, sorgono a una distanza di circa due chilometri da Serravalle9. In età tardomedievale, i nobili del castello di Vintebbio erano investiti del feudo “con tutte le […] ragioni e pertinenze feudali”10. Fra il borgo e Vintebbio vi sono numerosi insediamenti: Naula, la Gattera e i nove cantoni di Piane11. Secondo quanto riportato dallo storico locale don Florindo Piolo nella sua Storia del Comune di Serravalle Sesia, nel 1427, anno di dedizione del distretto di Vercelli ai Savoia, Amedeo VIII avrebbe riconosciuto per “nobili vassalli” una trentina di famiglie originarie di Vintebbio e di Bornate, alcune delle quali si erano ormai trasferite nel borgo di Serravalle12. 9 La descrizione di Vintebbio nel Casalis inizia a partire dal XI secolo con la concessione del luogo al vescovo di Vercelli da parte dell’imperatore. Cospicua traccia di Vintebbio si trova anche negli statuti della città di Vercelli del 1341. Casalis, vol. XXV, pp. 555-559, anche Piolo 1995, p. 232 sgg. Nella voce Bornate, il Casalis afferma che i feudatari del luogo erano i Bellini, la cui famiglia era divisa in sette rami. Casalis, vol. II, p. 509. Una descrizione della storia di Serravalle, che in parte ricalca la Descrittione del Bellini, si trova invece in Casalis, vol. XIX, pp. 900-904. 10 Casalis, vol. XXV, p. 557. 11 I cui nomi sono San Giacomo, La Sella, de Ambrosis, Martellone, Quazzo, Imbrico, Bertola, Castorino o Mazzone Sopra, Mazzone o Mazzone Sotto. 12 L’opera di don Piolo scritta nel Novecento, ma di gusto Ottocentesco, spesso non si cura di citare le fonti. Egli afferma che il diploma di nobiltà è stato smarrito “prima che se ne facessero copie”, senza specificare su quali basi riporti il dato. Lo spoglio di “antiche carte” gli permette di elencare le famiglie ammesse nel “nobile Collegio dei Nobili di Vintebbio o di Bornate”: per Vintebbio le famiglie Tazzolio, Ratto, Piasio, Albertone, Delvecchio, Airotto, Gaspardo, Grignascotto, Ragozzo, Riotto, Gasparino, Martinetto, Naula, Mellano; per Bornate: Torchio, Bosca, Pasquina, Mazzone, Franchino, Julietta, Sasso, Negra, Canova; per Serravalle: Pilotti, Baranzano, Avondo, Bellini, Frailino, Cena, Sella e De Ambrosis di Piane. Piolo 1995, p. 350. 83 Michela Ferrara Mappa del territorio di Serravalle, Bornate e Vintebbio. Nel Seicento, i confini fra il ducato sabaudo e lo Stato di Milano non coincidono esattamente con il corso del fiume. Alcuni territori sulla sponda destra della Sesia sono lombardi. ASCV, Terre distrettuali, m. 114/Z (Serravalle), 114/B1 (Vintebbio). Elaborazione grafica dell’autrice. 84 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” L’8 dicembre 1527 Filiberto Ferrero Fieschi signore di Candelo e Luigi Ferrero Fieschi signore di Masserano acquistano dai Savoia per mille scudi d’oro il feudo e la giurisdizione di Serravalle, a cui erano uniti Bornate e Vintebbio. Il 18 dicembre 1561 Emanuele Filiberto conferma la vendita del feudo e della giurisdizione da Besso Ferrero marchese di Masserano a Francesco Salomone per mille scudi d’oro13. La famiglia Salomone apparteneva al notabilato vercellese, i membri erano notai collegiati almeno dal Quattrocento e godevano di quattro posti in consiglio comunale. A metà Cinquecento, Francesco è esattore dei dazi di Vercelli14. Il 26 aprile 1562 il feudo è eretto in comitato, mentre il 13 settembre 1573 il conte ottiene “concessione del dazio particolare delle cose nate e che nascheranno nel contado”15. Vercellino Bellini racconta i primi screzi fra il conte di Serravalle e l’antica nobiltà locale: nel 1567 “doppo longa lite fu per accordio fatta la divisione del territorio fra Serravalle e Vintebio […] et l’anno 1603 doppo altra longhissima lite fu fatta quella tra Serravalle et Bornate, [...] et così furon divisi essi luoghi, che prima erano come un sol luogo, anzi era un sol territorio e popolo; se ben quanto alla feudalità et allodialità de beni ciascuno pagava li suoi carighi separatamente”16. Nonostante le divisioni territoriali, che avrebbero dovuto preservare il potere della nobiltà locale, l’attrito fra le due parti non cessa. Il 27 agosto 1585, il conte ottiene in dono il diretto dominio sui beni feudali di Vintebbio e di Bornate perché i nobili locali stipulano contratti senza il beneplacito sovrano. La Camera dei conti condanna i nobili al pagamento di trecento scudi di laudemio da rimborsare al Salomone, che si trova in credito dei mille scudi sul feudo. Il conte ottiene inoltre il permesso di costituire una primogenitura17. I nobili di Vintebbio e di Bornate immeditatamente contrattaccano. Il 14 marzo 1586, dietro pagamento di cinquecento scudi, sono liberati dal lau- AST, Camerale, PCF, 1561 III f. 318. Balzaretti 2012, p. 81 sgg. AST, Camerale, PP, r. 10 f. 92 (7 maggio 1566), r. 15 f. 33 (13 settembre 1578). 15 Manno, vol. XXIV, p. 46. 16 BCV, Vercellino Bellini, Descrittione, ms. A.7 p. 83. 17 AST, Camerale, PCF, 1586-87 f. 86r-v. 13 14 85 Michela Ferrara demio e ricevono piena conferma degli antichi privilegi e delle franchigie18. Il 3 dicembre 1586 il Senato stabilisce che ai nobili spetta l’esenzione dai laudemi, ma che il conte non può essere rimosso dal possesso del feudo di Vintebbio fintantoché non gli sia restituita la somma di cui resta creditore. Il 25 febbraio 1587 e il 25 settembre 1590 il conte chiede nuovamente di essere rimborsato, alla luce di un ulteriore prestito di settecento scudi. Il 21 agosto 1589 la vendita al Salomone del luogo di Vintebbio è annullata: ventisette anni prima, il 9 aprile 1562, i nobili locali, “non informati delle ragioni luoro”, avevano prestato giuramento di fedeltà al Salomone. Appena si rendono conto delle conseguenze, supplicano il duca e riottengono la giurisdizione e la prima cognizione sui beni di loro pertinenza. Al Salomone dovrebbero però essere restituiti settecento scudi per la perdita dei due luoghi19, pertanto gli si assegna parte del tasso del vercellese20. Fra i nobili di Vintebbio e di Bornate si annoverano anche sudditi dello Stato di Milano, che all’inizio del Seicento sono nemici: nel corso delle guerre per il possesso del Monferrato, gli Spagnoli occupano il vercellese nel 1617 e ancora dal 1638 al 1659. Il 20 marzo 1621, Carlo Emanuele I revoca ai sudditi milanesi il possesso di venti giornate di beni feudali per donarle al conte Marco Antonio Salomone, figlio di Francesco. L’offerta è giustificata dai danni patiti al castello e al feudo di Serravalle durante la guerra21. I Salomone continuano a stringere alleanze matrimoniali con famiglie vercellesi: con gli Arborio di Gattinara, con gli Aiazza, con gli Avogadro di Valdengo e con i Cipelli della Motta. Nel contempo, emerge la vocazione militare della famiglia. Il figlio di Marco Antonio, Cristoforo, capitano di corazze, muore in battaglia alle Apertole nel 161522. Il figlio di un fratello di Marco Antonio, Francesco Gerolamo, diventa cavaliere della Sacra Religione dei Santi Maurizio e Lazzaro nel 1605, è comandante di una compagnia di archibugieri a cavallo e il 24 settembre 1620, nel corso della AST, Camerale, PCF, 1586-87 f. 162v. Di questi cinquecento scudi, trecentocinquanta dovrebbero spettare al conte Salomone in perenne credito con il sovrano, 1587-88 f. 316 (4 marzo 1587). 19 AST, Camerale, PCF, 1589-90 f. 204r-206v. 20 AST, Camerale, PCF, 1590-91 f. 71 (25 settembre 1590). 21 AST, Camerale, PCF, 1621 I f. 105. 22 Manno, vol. XXIV, pp. 46-47. 18 86 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” prima grande infeudazione del 1618, è infeudato di Lachelle e Larizzate (smembrati da Ronsecco) e di Caresana col comitato23. Il figlio di Cristoforo, Carlo Marco Antonio, in seguito a una ferita di guerra muore in giovane età. Un fratello di Carlo, Giovanni Girolamo, inizia la carriera come paggio del duca e come gentiluomo di Camera del principe Tommaso, viene poi messo a capo di una compagnia di fanteria nel reggimento del colonnello Clanexi e in seguito ai meriti della famiglia, riceve in dono i feudi di Serravalle nell’astigiano e di Sessant24. A questo punto è evidente la disparità di merito fra i nobili di Vintebbio e di Bornate e la famiglia Salomone. Seppure le pretese dei primi fossero fondate su antichi privilegi, fra Cinque e Seicento non offrono alcun servizio rilevante allo Stato sabaudo. Certo, fra di loro si annoverano gli Arborio di Gattinara, ma questa famiglia possedeva feudi di ben più rilievo. L’unico altro cognome di nobili locali ricordato dall’amministrazione sabauda è quello dei Bellini, e proprio perché dal borgo natio emigrano. La condizione dei Salomone era in tutto diversa: i meriti non riguardano solamente il prestito di somme, per altro non molto elevate, quanto piuttosto l’impegno militare. In un passo della Descrittione che è utile riportare, Vercellino Bellini fa capire quali fossero le preoccupazioni della nobiltà locale di fronte alle novità. Benché non perda ancora del tutto il possesso del feudo, con l’erezione del comitato, la nobiltà perde un elemento altrettanto importante, la giurisdizione. Inoltre, la Camera dei conti riconosce ai nobili locali l’esclusivo possesso di beni feudali, e non di feudi o di porzioni di castelli. Stimo sia da Navola derivata et habbi havuto origine la feudalità de beni ch’ancor Vintebio e Bornate, sotto pretesto d’antica nobiltà, ritengono ne luoro territorij, che solo da 50 anni in qua son stati da quello di Serravalle smembrati et separati per la diversa natura di beni, et che quando fu fabbricato Serravalle, et che restò abbandonato da gl’habitanti il luogo di Navola, per ritirarsi a star in Serravalle, i nobili di Navola si ritirassero ne i castelli di Vintebio et Bornate, ove havevano habitationi, (se ben alcun andassero a stantiare in Serravalle) et che per le continuationi delle luoro habitationi in essi castelli e luoro ville habbino meglio conservato viva la natura de luoro beni, et la qualità feudale di essi. Di quelli che si ritirarono a 23 24 Manno, vol. XXIV, p. 47. Balzaretti 2012, pp. 81-82. AST, Camerale, PCF, 1639-40 f. 206 (20 marzo 1640). 87 Michela Ferrara Serravalle, i cui beni, confondendo la qualità luoro, con quelle degli altri ignobili, son puoi stati tenuti et reputati allodiali, come gli altri del territorio di Serravalle. Et so che mio padre possedeva, et ancor noi suoi figliuoli possidemo, un pezzo di prato tra Serravalle e la Sessia, che riteneva ancor la natura e qualità feudale, che puoi per la nuova legge dal Principe gl’anni passati fatta sopra la feudalità, et allodialità de beni è passata in allodio con gl’altre. Se ben gl’huomini di Vintebio e Bornate siano sotto posti hoggidì al signor conte di Serravalle et a suoi ufficiali, et vivono, sì +++ et +++, che per longa serie dimostrino non descender, o almeno haver degenerato da quei nobili antichi né altro segno di nobiltà riserbino, che la feudalità sola di quei pochi beni che ancor posseggono25. La voce dedicata a Vintebbio nel Dizionario del Casalis parla dell’esistenza, a metà Ottocento, di un archivio comunale del paese (che attualmente è frazione di Serravalle Sesia). In esso erano conservati alcuni documenti riguardanti la nobiltà locale; il più antico dei quali sarebbe stato una Ricognizione fatta dai nobili et università di Vintebbio del 29 aprile del 166826. Gli ultimi documenti attestanti una qualche forma di nobiltà sul feudo di Vintebbio risalirebbero al 31 maggio 1661, al 20 giugno 1675, al 7 maggio 1734 e si concluderebbero con il giuramento di fedeltà al re Carlo Felice prestato dai delegati eletti conte Giuseppe Avogadro di Quaregna e conte Ressano di Fenile27. 2. La famiglia Bellini Trovare notizie su uomini della famiglia prima di Vercellino non è facile28. È vero che insieme alla Genealogia e descendenza della famiglia di me Carlo Amedeo Bellino dal 1400 circa in qua con altre annotationi appartenenti alla medemma famiglia è conservato un albero che risale indietro nel tempo fino al 1116, anno in cui Guglielmo Bellini “cittadino e nobile di Vercelli” è nominato in un atto di procura “che esiste nel archivio BCV, Vercellino Bellini, Descrittione, ms. A.7 pp. 20-22. Casalis, vol. XXV, p. 559. 27 Casalis, vol. XXV, p. 558. 28 In ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, m. 76, fasc. 1212 (23 luglio 1627 - 4 luglio 1631) si trovano gli atti di un processo fra l’esattore della città di Vercelli Giovanni Bellino e gli eredi di Giulio Cesare Salomone di Vercelli, ma non pare esserci nessuna parentela con la famiglia Bellini. 25 26 88 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” del capitolo”, ma in età moderna erano frequenti ricostruzioni genealogiche forzate, se non fantasiose29. Le memorie genealogiche di Carlo Amedeo offrono una fonte ben più attendibile dell’albero. Fra la documentazione richiesta per entrare a far parte del collegio dei dottori e di quello dei notai era usuale che venissero richieste genealogie documentate, come anche patenti di investiture, atti di nascita, consegnamenti di armi gentilizie ecc. Gli statuti del collegio richiedevano, infatti, che le famiglie dei membri risiedessero almeno da cent’anni nel vercellese e che “eius parentes per hominum memoriam nobiliter vixerint”, quindi Carlo Amedeo inizia il resoconto dal 1508, anno di nascita del bisnonno Vercellino. Le brevi biografie riservate ad ogni avo si fanno più dettagliate quando Carlo Amedeo parla dei fratelli; in particolare, indugia sui battesimi e sui legami matrimoniali. Il primo Bellini di cui si può parlare diffusamente rimane comunque il padre di Carlo Amedeo. Nato a Serravalle il 21 dicembre 157830, Vercellino si sposta a Vercelli. Gaspare De Gregory ci informa della sua formazione31: istruito dapprima alle scuole del maestro Torchio, studia in seguito al collegio dei gesuiti di Vercelli dove si sarebbe distinto in retorica e in poesia. Sulla sua carriera le notizie sono meno certe: “il Puccinelli asserisce, che il nostro concittadino rimase per ben 50 anni cancelliere del vescovado di Vercelli”32. Bizzocchi 2009. In ogni caso la genealogia data dal Bellini va confrontata con quella messa a punto da Teodoro Arborio Mella (1866-1947). Teodoro Arborio Mella, Genealogie, manoscritto in quattro volumi archivio privato, esemplare microfilmato disponibile in Archivio di Stato di Vercelli, vol. I fasc. 5 ff. 345-349. 30 Nel centro storico di Serravalle vi è una via intitolata a Bellini, dove si dice sorgesse la casa di famiglia. 31 Il De Gregory, nella compilazione della sua Istoria della vercellese letteratura ed arti, si avvalse del contributo del Compendio delle vite degli uomini, e delle donne illustri della città di Vercelli di Carlo Amedeo Bellini patrizio e decurione della medesima sua patria. 32 De Gregory 1821, pp. 73-75. Aggiunge inoltre i testi che Vercellino Bellini avrebbe scritto, e cioè: Formularum expeditionum necessariarum pro curia episcopali Vercellensi, Prefazione ad lectores (sopra il volume della summa Rolandina), Orazioni diverse massime sopra il capitano francese Dighera, che infestava il Piemonte, animando i soldati a debellare quel perfido colla sua ciurmaglia, Descrittione dell’origine e successi di Serravalle ed altri luoghi circonvicini del signore Vercellino Bellini nobile Vercellese (stampato nel 1649 a Vercelli presso Gaspare Marta), Ricettario per molte infermità, operetta da lui compilata trovandosi in letto per la gotta artetica, Le regole per pescare alla canna nel fiume Sesia, Poesia amorose divise in sonetti, madrigali, canzoni, dialoghi ed ottave rime molto graziose, Vita del Beato Euseo che si dice nativo di Serravalle, e che visse nel secondo secolo XIV dell’era cristiana. Informazioni simili si trovano in Mazzucchelli 1760, p. 691 e in Gorini 1958, pp. 47-48. 29 89 Michela Ferrara Nel 1613, Vercellino risiede nella vicinia di San Donato, è notaio di Vercelli, consigliere della comunità di Serravalle e ricopre l’incarico di vice avvocato fiscale della provincia33. Nel 1617 scrive la sua Descrittione ed è per certo segretario della curia episcopale vercellese nel 164434. Sposa Leonora Binelli, di famiglia nobile di Caresana35, dalla quale ha i seguenti figli: 1) Anna Maria ha come padrino di battesimo Giovan Andrea Avogadro di Casalvolone e come madrina Geronima Granozzo “nostri cugini”. Sposa Giovanni Antonio Rogerino dei nobili di Arborio; 2) Francesca Dorotea, morta in tenera età per vaiolo, ha come padrino Giovanni Giacomo Raspa e come madrina Francesca Granozzo Tosetto “nostri cugini”; 3) Due figlie, entrambe di nome Dorotea, periscono in età infantile; 4) Giovanni Pietro viene tenuto a battesimo dall’avvocato Giovanni Pietro Bucino dei signori di Buronzo e da Margherita Guambelli Raspa. Muore anch’egli in tenera età; 5) Giovanni Francesco ha come padrino Giacomo Antonio Caresana “canonico e cugino”, ma non sopravvive ai rigori invernali; 6) Carlo Amedeo ha come padrino lo zio Giovanni Maria Raspa e come madrina la cugina Doralice Dioniggio Robino. Il 27 febbraio 1650 sposa Paola Leonora Avogadro di Valdengo. Poco prima di morire, Vercellino e consorte sono chiamati in tribunale per questioni di eredità dai fratelli Cerruti di Caresana36. Il Bellini spira l’11 ottobre 1648. ASCV, Libri delle taglie 1614, ASCV, Ordinati, vol. 30 (18 novembre 1613), ASCV, Militaria. Atti in relazione alle forze armate (1550-1621), m. 100/A. 34 Cusano 1702, p. 32. 35 Una carta relativa alla famiglia si trova in ASCV, AABCC, Ammissione nel collegio de notai del nobile Angelo Maria Binelli di Caresana, m. XVI.B fasc. 1030 (6 e 9 maggio 1654). Anche il Binelli faticò ad essere ammesso nel collegio dei notai nobili di Vercelli, benché avesse fatto domanda solo come notaio distrettuale. Anche in questo caso il collegio sosteneva che il Binelli non possedeva “le qualità che si richiedono per qualità dagli statuti, provisioni et privileggij del collegio in quelli ponno prettendere et esser admessi come nodari nobili” [carta 6 non numerata]. 36 ASV, Prefettura di Vercelli, Giudiziario Fondo Antico, m. 51 fasc. 440 (28 gennaio - 21 agosto 1648). Nei documenti Vercellino è definito “nobile signore” (f. 5r-v) e come procuratore ha il sig. Giovanni Paolo Cusano causidico e cittadino di Vercelli. 33 90 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” Arma depositata in occasione del consegnamento del 1613. Sopra lo stemma si legge “Arma Bellina di Serravalle” e in basso “Quelli che richiedono la confirmatione et licenza dell’uso antico e pacifico possesso della sopra dipinta arma sono li nobili signori Giovanni Pietro del fu signor Vercellino Bellino e suoi figlioli et signor prior Francesco Bellino suo nepote minore”. BCV, Genealogia e descendenza della famiglia di me Carlo Amedeo Bellino dal 1400 circa in qua con altre annotationi appartenenti alla medemma famiglia, ms. B.190 (su gentile concessione del Comune di Vercelli). 91 Michela Ferrara La famiglia consegna l’arma gentilizia nel 1614. È infatti inserita fra le file della nobiltà sabauda da Antonio Manno, da Alessandro Franchi-Verney della Valletta e da Federico Bona, ma non compare nei Fiori di blasoneria di Francesco Agostino della Chiesa. Non figura neanche negli inventari del consegnamento delle armi gentilizie del 168837. Carlo Amedeo, figlio di Vercellino, nasce a Vercelli il 21 dicembre 1625, studia legge fino alla laurea dopodiché, a detta del De Gregory, viene “tosto promosso al collegio de dottori, e quindi nominato professore straordinario dell’università di Torino nel 1659”38. Entra nel consiglio comunale di Vercelli il 1° luglio 1652, è avvocato e oratore del Comune residente a Torino a partire dal 1662 ed è altresì consultore del Sant’Uffizio e lettore dell’università di Torino39. Muore il 29 agosto 1676. L’ammissione nel collegio dei dottori non è però così immediata. Carlo Amedeo continua ad arricchire la Genealogia per tutta la vita, 37 Manno, vol. II, p. 231, Franchi-Verney della Valletta 1874, p. 20, della Chiesa 1777. In Franchi-Verney della Valletta si legge: “Bellino, dei nobili di Vintebbio e Bornate, inquartato: al primo e al quarto; d’argento a tre piante di lino verde, fiorite di rosso, nudrite sul terreno erboso al naturale: al secondo e terzo; di rosso alla banda d’argento accompagnate da due stelle dello stesso, e caricata di sette rombi d’azzurro nel verso della pezza”, descrizione identica si trova anche in Bona 2010, p. 32. Riguardo i consegnamenti delle armi AST, Camerale, Inventario consegne armi gentilizie 1613, n. 123 f. 69 e AST, Camerale, Inventario consegne armi gentilizie 1687-1688, n. 120. 38 Pubblica diversi libri: la Descrizione di Serravalle paterna “che dedicò a Pietro Filippo Bellini dottore d’ambe le leggi, tesoriere e canonico della cattedrale d’Ivrea con una bella lettera in data 12 giugno 1649”, poi, di suo pugno, Annali della città di Vercelli dai tempi antidiluviani sino all’anno 1499, L’antichità di Vercelli (stampata in Torino nel 1659), Stato spirituale della città e diocesi di Vercelli (stampato in Vercelli nel 1659 da Gaspare Marta), Serie degli uomini e delle donne illustri della città di Vercelli (1659 presso il Marta), Compendio delle vite degli uomini, e delle donne illustri della città di Vercelli di Carlo Amedeo Bellini patrizio e decurione della medesima sua patria “diviso in tre parti; nella prima d’esse parla de’ santi, e degli ecclesiastici, nella seconda de militari, nella terza de letterati, magistrati ed artisti”, Iscrizioni, elogi, epitafi, ed altre memorie sì antiche, che moderne cavate dagli atrj, dalle chiese, dai sepolcri, ed altri luoghi pubblici della città di Vercelli con una breve narrativa sopra le famiglie, e persone in dette iscrizioni e memorie nominate dal dottore Carlo Amedeo Bellini (1658), Idea pacis, legale opus, materiam omnem diffuse enucleans, quae tempore, causave pacis occurrere potest auctore Carolo Amedeo Bellino J. C. Vercellensi (1660 apud Nicolaum Hyacinthum Martam Vercellensis, dedicato a Giovanni Francesco Bellezia primo presidente del Senato di Torino), Discorso sopra le qualità della casa Avogadro della città di Vercelli. De Gregory 1821, pp. 75-77. Informazioni simili si trovano in Piolo 1995, pp. 498-501, in Gorini 1958, pp. 56-58 e in Mazzucchelli 1760, p. 684. 39 AST, Camerale, PCF, 1671-72 f. 35. Boccalini 2009, p. 108. Sulla localizzazione delle pubblicazioni e dei manoscritti pp. 108-117 e 125-126. 92 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” come si nota dal cambio di inchiostri e di grafia, che appartiene comunque alla stessa mano. Il cambio di grafia permette di desumere il periodo di stesura del fascicolo, che è da collocare circa a metà Seicento. Carlo Amedeo e Paola Leonora hanno la seguente prole: 1) La primogenita Anna Leonora (Vercelli, 1652-1672) prende abito monacale in S. Agata di Vercelli nel 1669 con nome di suora Maria Leonora Amedea; 2) Clara Maria (Vercelli, 1654-1676) è tenuta a battesimo dall’avv. Giovan Battista Avogadro di Valdengo “mio cugino” e da Bianca Avogadra “mia cognata”. Anch’ella prende abito monacale in S. Agata nel 1669, con nome di suora Paola Maria Felice; 3) Periscono in età infantile due figlie, entrambe di nome Francesca Margherita, nate rispettivamente nel 1655 e nel 1658; 4) Muore a causa di un aborto spontaneo Giovanni Maria nel 1659; 5) Costanza Virginia (Vercelli, 1660) ha come padrino l’avv. Carlo Giovanni Battista Mantegazza “mio cugino” e come madrine Virginia Maria Centoris Rogerino “mia nepote”. Muore dopo pochi mesi; 6) Giuseppe Antonio Vercellino (Vercelli, 1661-1662) è tenuto a battesimo dal referendario Paolo Avogadro di Valdengo e da Paola Costanza Barozzi Avogadro “mia cugina”; 7) Pietro Lorenzo Emanuele (Vercelli, 1662). Nasce nell’estate in cui Carlo Amedeo si trasferisce a Torino. Il neonato muore all’età di un mese e mezzo; 8) Vittoria Caterina (Torino, 1663-1665); 9) Margherita Felice (Torino, 1665-?) è tenuta a battesimo da Francesco Emanuele Provana conte di Druento e da Maria Margherita Langosco Parpaglia Provana contessa di Altessano, Druento, Stroppiana e Bastia “madre del suddetto conte”. È data in sposa a Giuseppe Ludovico Corbetta di Vercelli; 10) Caterina (Torino, 1666-1668); 11) Maria Teresa (Torino, 1667); 12) Antonio Francesco Ottavio (Torino, 1669-post 1712) è tenuto a battesimo da Ottavio Antonio Provana conte di Druento e dalla sorella Giovanna Cristina Provana madamigella di Druento con assistenza della contessa di Vische e di Antonio Provana conte della Battaglia, rispettivamente zia e fratello di Ottavio. Decurione e avvocato di Vercelli. Sposa Elisabetta figlia di Giuseppe Mella Arborio; 93 Michela Ferrara Altra arma della famiglia Bellini con elmo, cimiero e svolazzi. Il motto non trova riscontro in altre fonti. Fra gli stemmi è conservato anche quello della famiglia Bellini di Novara, della quale i vercellesi sostenevano di essere parenti. BCV, Genealogia e descendenza della famiglia di me Carlo Amedeo Bellino dal 1400 circa in qua con altre annotationi appartenenti alla medemma famiglia, ms. B.190 (su gentile concessione del Comune di Vercelli). 94 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” Particolare dell’albero genealogico della famiglia Bellini composto da Carlo Amedeo e arricchito dai discendenti nel corso del Settecento. Lo stemma è sormontato dalla corona comitale. Nella cornice si legge “Arma gentilizia della familia Bellin patrizia vercellese. Registrata nel Uffizio della Reggia Balsoneria di Sua Reale Maestà Sarda a foglio 17 nel nuovo registro quarto colla seguente inscrizione: vassallo ed avvocato Francesco Antonio [Antonio Francesco Ottavio] figliuolo del fu vassallo ed avvocato Carlo Amedeo Bellini dell’antico colleggio de Dottori di Vercelli, Oratore di detta Città presso Sua Altezza Reale e vassallo Giovan Pietro Bellini di Serravalle suo cugino, ambi de nobili di Vintebbio e Bornate”. BCV, Genealogia e descendenza della famiglia di me Carlo Amedeo Bellino dal 1400 circa in qua con altre annotationi appartenenti alla medemma famiglia, ms. B.190 (su gentile concessione del Comune di Vercelli). 95 Michela Ferrara 13) Clara Francesca Leonora (1673-?); 14) Maria Teresa Caterina (1675). Le ultime pagine del manoscritto sono dedicate alla Distincione delle parentele d’affinità di mia famiglia con altre collegate, ossia i Sella, prozii di Carlo Amedeo, i Raspa, da parte della nonna materna, i Rogerino di Arborio, per via del matrimonio contratto dalla sorella, e gli Avogadro di Valdengo, per via del matrimonio di Carlo Amedeo. Seguono appunti di mano diversa, appartenenti al figlio Francesco Antonio Ottavio perché vertono sulla parentela con le famiglie Mella e Canera40. In base ai battesimi e ai matrimoni, è indubbia la nobiltà dei Bellini: famiglie vercellesi così illustri non avrebbero mai stretto legami con un parvenu. 3. Entrare nel collegio: una questione di nobiltà Nel 1653 o poco prima, Carlo Amedeo chiede di entrare nel collegio dei dottori. L’accesso era regolamentato dagli statuti, riveduti dopo il 1568, anno in cui Emanuele Filiberto concede il privilegio di far ricoprire la carica di prefetto al priore del collegio, incarico a rotazione semestrale41. Fra il materiale relativo al collegio non è stato trovato nessun elenco delle matricole degli iscritti a cui accennano gli statuti. In compenso Vittorio Mandelli, nell’opuscolo che dedica al collegio, riporta un parziale elenco dei priori, che può perlomeno servire a dare un’idea delle famiglie da cui provenivano i collegiati. A partire da metà del Cinquecento fino al 1685, si trovavano rappresentanti delle famiglie Aiazza, Alciati, Arborio, Avogadro, Barozzi, Bolgaro, Bosco, Buronzo, Cipelli, Cusano, Olgiati, Ranzo e Raspa42. È possibile ricostruire il processo attraverso due documenti: il sommario, a opera dello stesso Carlo Amedeo, e le Nobilitatis iuris allegationes pro D. I. C. Carolo Amedeo Bellino vercellense del romano Nicolò Bianchino, stampate a Vercelli nel 165343. 40 Altre informazioni sulla discendenza sono presenti nell’albero genealogico della famiglia, conservato insieme alla Genealogia. 41 30 marzo 1568. ASCV, Collegio dei dottori nobili, m. 78. 42 Mandelli 1848, pp. 260-265. 43 ASCV, Manifesti vercellesi sec. XVII. 96 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” Nel sommario, Carlo Amedeo elenca tutta la documentazione che prova la nobiltà della sua famiglia, cioè: le carte del battesimo, le patenti di dottorato, le fedi di testimoni, “diversi instromenti dal 1400 in poi, ove suoi antenati son chiamati con titolo di Domini, Nobiles et ex Nobilibus Castri Vintebij”. Presenta inoltre un’attestazione del consortile di Vintebbio, la ricevuta di pagamento della cavalcata “da quali si verifica esser sempre stati li Bellini Feudatarij di Vintebio”, un’attestazione della Camera dei conti, il consegnamento dell’arma gentilizia del 1614, “testimoniali di visita di pitture, sculture e sigilli vecchi fatti in prova dell’uso antichissimo di dett’arma”, una genealogia della famiglia (il succitato manoscritto), un’attestazione che il nonno “d’esso Avvocato fu Giudice del Contado di Serravalle […] come anche le testimoniali d’admissione d’esso Avvocato nel numero de Consigliere e Decurioni Nobili di detta Città […] più altro esamme fatto ex officio da detto Collegio di 4 testimonij, che concludono la famiglia Bellina esser antica e nobile, e per tale tenuta pubblicamente da tutti, e gl’Antenati dell’Avvocato haver vissuti nobilmente, et esser provenuti da Vintebio”. A ciò aggiunge l’investitura del feudo di Vintebbio concessa “in feudo nobile, ligio, antico e con la spada nuda e abbraciamento”, lettere intestategli come vassallo di Vintebbio e attestazioni di persone eminenti, quali vescovi, legisti, teologi, colonnelli ecc. Nonostante tutto, i documenti non persuadono i collegiati. Il precipuo, nonché pubblico, impedimento è costituito dalla natura dell’infeudazione: “Feudum absque iurisdictione non nobilitat, etiamsi in feudum nobile concedatur”, “insignia nobilitatem non inducunt”, “non sufficit quem esse nobilem, sed requiritur quod ab omnibus pro tali habeatur”, “enunciativa Domini non habentur in consideratione in materia nobilitatis”, “identitas agnationis et persona est concludenter probanda”, “cum ex dictis aliquorum testium Maiores Bellini egerint aliquod exercitium campestre, licet recreationis gratia, et offitium notariatus, eorum nobilitati preiudicium attulerunt”. Le affermazioni del collegio collimano con quanto affermato dal padre Vercellino nella Descrittione: “i nobili antichi” locali non hanno “altro segno di nobiltà […] che la feudalità sola di quei pochi beni che ancor posseggono”44. La famiglia Bellini è spogliata delle proprietà intrinseche di un feudatario e, nel contempo, anche di un nobile. 44 BCV, Vercellino Bellini, Descrittione, ms. A.7 p. 22. 97 Michela Ferrara È da sottolineare che la frapposizione di ostacoli per l’ingresso nei collegi civici non era fatto insolito: negli archivi vercellesi si trova testimonianza di più di un episodio analogo. Pare di capire - anche se non è possibile stabilire in quale misura - che l’accesso ai collegi da parte della fresca nobiltà o della nobiltà “forestiera” fosse possibile solo tramite ricorsi o insistenze. Allo stato attuale della ricerca, non si può fare chiarezza sugli aspiranti collegiati effettivamente esclusi. I Bellini avevano, però, deciso di reagire ai cambiamenti che avrebbero spinto la nobiltà primigenia nell’oblio. Con il trasferimento a Vercelli e con l’esercizio dell’avvocatura, si ritagliano uno spazio di potere, che però non basta per farsi accettare dalla nobiltà cittadina. Stringono alleanze matrimoniali, ma non al livello dei Salomone, famiglia che era radicata in città. La rivendicazione delle origini vercellesi è un fattore importante per i Bellini, che infatti scelgono di dichiarare oriundo della città il supposto capostipite del XII secolo45. Sembra che l’unica vera sfortuna di Carlo Amedeo, nel momento in cui presenta domanda di ingresso, sia quella di non appartenere alle storiche famiglie che si tramandano da generazioni un posto nel collegio. E se per lui non è stato difficile entrare in consiglio comunale (l’acquisizione del posto avveniva tramite vendita da parte di chi ne possedeva uno), pare di capire che un posto in collegio, fosse quello dei dottori o quello dei notai nobili poco importa, fosse riservato a famiglie storicamente radicate in città, legate da secoli a possessi urbani e con forti legami di parentela. Paradossalmente, pare più semplice muoversi a Torino, dove infatti Bellini riesce a ricoprire cariche all’università. Il sovrano aveva bisogno di diligenti e di fedeli servitori, mentre l’élite vercellese non sapeva che farsene di estranei che sottraevano incarichi. Carlo Amedeo decide quindi di far leva non solo sulla veridicità e sull’antichità della documentazione, ma anche e soprattutto sull’appoggio del potere sovrano: “Feudum nobile et antiquum absque iurisdictione nobilitat quando conceditur a Principe Supremo in vim feudi nobilis, et quod ab antiquo possideatur” e, poco dopo, “insignia nobilitant, maxime quando 45 Dall’albero risulta che il trasferimento della famiglia “sempre stata di nobiltà patrizia et altresì generosa della […] città di Vercelli” a Bornate e a Vintebbio è avvenuto nel Quattrocento con l’investitura, datata 24 novembre 1488, del castello di Vintebbio. BCV, Genealogia e descendenza, ms. B.190. 98 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” antiqua, et à Principe admissa, et potissimum cum plebeis insignia deferre sit prohibitum per Ducalia Decreta”46. Nelle sedici pagine delle Nobilitatis iuris allegationes, Nicolò Bianchino argomenta a favore della nobiltà di Carlo Amedeo smontando una per una le motivazioni del collegio dei dottori. In particolare, egli cita le opere di noti giuristi, quali Giovanni Fabro, Giuseppe Mascardi, André Tiraqueau e Nicola Everardo. Tutte prove a sostegno della sicura nobiltà della famiglia Bellini. C’è un elemento da non sottovalutare nella questione: il dominio spagnolo su Vercelli fino al 1659. Nel consiglio comunale di Vercelli siedono le famiglie che monopolizzano l’amministrazione della città e della provincia. Nella prima metà del secolo, sono una trentina di famiglie di diversa origine e sono divise in due banche: una ex-ghibellina, capeggiata dai Tizzoni, e una ex-guelfa, capeggiata dagli Avogadro. Le famiglie che fanno parte del primo gruppo sostanzialmente sono filospagnole, mentre quelle del secondo filosabaude. Nel 1653 esistono all’interno della città non poche tensioni perché i filosabaudi premono per ritornare sotto il dominio dei Savoia, i filospagnoli per mantenere il potere lombardo, mentre i doppiogiochisti parteggiano un po’ per l’una e un po’ per l’altra parte47. Durante il periodo spagnolo, la decisione sui processi riguardanti la feudalità spetta comunque a Torino perché i feudi appartengono al patrimonio sabaudo. La questione è discussa davanti al Senato di Torino, il quale conclude che “declarari probationes validas pro petito ingressu”48. Il collegio non sembra considerare la decisione del Senato, infatti continua imperterrito a negare l’accesso al Bellini, sentenziando che “le prove sono insufficienti” perché il deposito non è stato fatto “ad mentem Statuti”. Carlo Amedeo asserisce che ormai la sua nobiltà è manifesta e che non è “tenuto far alcun deposito conforme detto Statuto, ma solamente pagar la quota prescritta sendo ammesso”. Come da sentenza, “l’Avocato conclude dichiarar sue prove vallide, et esso capace d’essere admesso in detto 46 ASCV, Manifesti vercellesi sec. XVII, Sommario della causa dell’avvocato Carlo Amedeo Bellini contro il Collegio de Signori Dottori, Giudici di Vercelli. 47 Sul periodo di dominazione spagnola Rosso 2011, pp. 265-290. 48 ASCV, Manifesti vercellesi sec. XVII. 99 Michela Ferrara Collegio, con ordinar a tal effetto venghi accettato nel numero de Collegiati con condannar la parte delle spese”49. Alla fine, Carlo Amedeo ottiene l’accesso nel collegio. Dalla documentazione rinvenuta non è possibile stabilire la data, se prima o dopo il ritorno di Vercelli ai Savoia. L’ingresso è comunque certo perché il secondo semestre del 1696 è priore del collegio il figlio “vassallo” Antonio Francesco Ottavio, che sarebbe stato nuovamente eletto il primo semestre 1702, 1705, 1709 e 171250. Egli sposa Elisabetta Mella Arborio, mentre la sorella Margherita Felice convola a nozze con Ludovico Corbetta di Vercelli, che il 28 marzo 1686 acquista da Francesco Maria San Martino Valperga una porzione del feudo di Lessolo col signorato51. Con la generazione successiva la famiglia Bellini si estingue. I tre figli di Antonio Francesco Ottavio non generano prole. Il primogenito, l’avvocato Mattia Giuseppe, è consigliere comunale e oratore della città di Vercelli di stanza a Torino, mentre i fratelli si dedicano a vita religiosa. Paolo Giuseppe è gesuita rettore del collegio provinciale d’Arona, poi di quello di Milano e infine di quello di Torino, Giuseppe Ignazio è “canonico arcidiacono mitrato” della cattedrale di Vercelli. Quest’ultimo muore il 13 giugno 1748 e il 6 agosto alcuni cugini trasferiti a Borgosesia donano i censi, la biblioteca e l’archivio di famiglia a Cesare Antonio Corbetta, figlio di Ludovico, e a Carlo Alessandro Mella52. Nelle carte di famiglia, i Corbetta sono definiti “conti” mentre l’amministrazione sabauda li ritiene “vassalli”; i principali blasonari subalpini sono concordi nel definirli consignori di Lessolo, affermazione che trova piena conferma nel Casalis53. Anche in questo caso, si assiste alla rivendicazione di un titolo da parte di una famiglia vercellese. Sarebbe opportuno approfondire la questione, ma per il momento è sufficiente fermarsi qui. ASCV, Manifesti vercellesi sec. XVII. Mandelli 1848, p. 263-265. Anche Manno, vol. II, p. 231. 51 Manno, vol. VII, p. 257. 52 Albero della famiglia Bellini databile XVIII secolo in BCV, Genealogia e descendenza, ms. B.190. 53 AST, Camerale, PP, r. 190 f. 128 (10 maggio 1754). Casalis, vol. IX, pp. 403-404, Franchi-Verney 1873, p. 57, Manno, vol. VII, pp. 256-258, Bona 2010. 49 50 100 Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate” Bibliografia Ago 1994 Renata Ago, La feudalità in età moderna, Roma-Bari 1994. 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L’articolo si propone di studiare la famiglia Bellini dei nobili di Vintebbio e di Bornate, in particolare nel Seicento, quando Vercellino si stabilisce nella città di Vercelli. L’articolo si divide in tre parti; nella prima, si ricostruiscono le vicissitudini degli antichi feudi di Bornate e di Vintebbio e del borgo di Serravalle, fra cui le infeudazioni e l’erezione in comitato. Nella seconda parte, viene ricostruita la genealogia della famiglia dalla fine del Cinquecento all’inizio del Settecento. L’ultima parte è dedicata al processo fra l’avvocato Carlo Amedeo e il collegio dei dottori della città. Abstract This paper is meant to be a contribution to the history of Vercelli’s local elite, and it discusses the notion of “nobility” in Early Modern Age. It aims to study the Bellini, a noble family from Vintebbio and Bornate, especially in seventeenth century, when Vercellino Bellini settled in Vercelli. The article is divided in three parts: in the first part, it retraces the events connected to the old fiefs of Bornate and Vintebbio and the village of Serravalle, for example the infeudations and the creation of a comitato. In the second part, the article reconstructs the genealogy of the Bellini family, from the end of the sixteenth century to the beginning of the eighteenth century. The last part focuses on the ligation between the lawyer Carlo Amedeo Bellini and Vercelli’s Collegio dei dottori. 10038816@studenti.uniupo.it 104 Gilles André FÉLIX GALLET (1773 - ca 1845), AUTEUR DE L’ARBRE GÉNÉALOGIQUE DES LANGUES, EMPLOYÉ DES POSTES FRANÇAISES À VERCEIL DE 1804 À 1814* 1. Introduction En mai 1804, alors que Verceil est depuis peu la capitale administrative d’un département français annexé, la Sésia, un jeune homme âgé de 31 ans, Félix Gallet, vient s’y établir comme contrôleur des Postes. Peu après, il épouse une piémontaise, Ferdinande Porro, fonde une famille et “jouissant de l’estime publique” est ensuite nommé directeur des Postes à Verceil jusqu’à la fin de l’existence de ce département français en 1814. De retour en France, il poursuit sa carrière jusqu’à sa retraite dans l’administration des Postes à Marseille. Cet homme apparemment ordinaire est en fait un amateur passionné, auteur d’une Grammaire française, et dont le nom est internationalement connu aujourd’hui dans l’histoire des idées pour avoir créé, parmi les premiers, un Arbre généalogique des langues. Son identité, sa vie, étaient cependant restées jusqu’à présent totalement inconnus des biographes et historiens. Cet article a pour objet de lever un peu le voile sur la vie et le parcours inédits de cet homme depuis sa naissance en 1773 à Châteauneuf-sur-Loire (Loiret) jusqu’à son décès à Marseille vers 1845, tout particulièrement sur ses dix années passées à Verceil, où il a certainement travaillé à la création de son fameux arbre. 2. Sa famille et sa jeunesse à Châteauneuf-sur-Loire (1773-1788) François Félix Gallet, prénommé communément Félix, naît à Châteauneuf-sur-Loire, département du Loiret en France, le 19 décembre 1773, fils de Pierre Gallet et de Catherine Pillé1. L’auteur tient à remercier chaleureusement Giorgio Tibaldeschi pour la communication de ses fructueuses recherches dans les différents services d’Archives de Verceil et pour sa minutieuse révision du manuscrit. À Nils Petter Hellström, pour lui avoir évoqué l’Arbre généalogique des langues et son mystérieux auteur Félix Gallet, pour de passionnants échanges également. * Abbréviations: AN = Archives Nationales, Pierrefitte-sur-Seine (93). AD 13 = Archives départementales 13: département des Bouches-du-Rhône. AD 45 = Archives départementales 45: département du Loiret. 105 Gilles André Son père, Pierre Gallet était né vers 1728 à Huisseau en Beauce dans le Loir-et-Cher et avait épousé en 1753 en premier mariage à Saran (Loiret) Marie Madeleine Chauvigneau; Pierre Gallet et Marie Madeleine Chauvigneau étaient tous les deux maître et maîtresse d’école, ce qui est assez rare à cette époque pour une femme. Marie Madeleine Chauvigneau malheureusement décéda à 29 ans, en 1756 à Ingré (Loiret) à la naissance de leur troisième enfant. Pierre Gallet se remarie le 6 mai 1765 à Châteauneuf-sur-Loire, avec Catherine Pillé, originaire de ce village où elle est née en 1735. Le couple Pierre Gallet-Catherine Pillé aura dix enfants, tous nés à Châteauneuf-surLoire en l’espace de seulement dix ans entre 1766 et 1775; Félix né en 1773 est l’avant dernier de la fratrie. Avec eux vit également Pierre Gallet, né en 1755, frère consanguin de Félix, prénommé comme son père et issu de son premier mariage. Cette famille nombreuse est certes modeste mais apparemment tous les enfants reçoivent assez tôt un bon enseignement, sachant écrire et dès leur plus jeune âge signer au bas des actes d’état civil de leur paroisse. La profession de maître d’école2 de leur père l’explique certainement; leur mère, Catherine Pillé sait elle aussi écrire, ce qui est alors encore peu fréquent. En ce qui concerne Félix Gallet, on retrouve sa signature “f. gallet” dès le 24 août 1783, il a alors 9 ans et demi, au bas de l’acte d’inhumation de son frère aîné Jules. Félix Gallet a seulement 3 ans et demi quand son père décède, âgé d’environ 49 ans, à Châteauneuf-sur-Loire le 30 avril 1777. Pierre Gallet laisse alors sa femme Catherine Pillé, âgée de 42 ans, avec 4 garçons encore vivants: Pierre, âgé de 22 ans, Jules, 9 ans (qui décédera en 1783), Louis, 7 ans et Félix désormais le cadet. On peut imaginer que le fils aîné Pierre prend alors une grand part pour subvenir aux besoins familiaux et à l’éducation de ses petits frères; il deviendra d’ailleurs lui aussi comme son père, dès 1794, maître d’école. Apparemment Félix et sa famille continuent à habiter le bourg de Châteauneuf-sur-Loire au moins jusqu’en 1788, à la veille de la Révolution française, date à laquelle nous perdons momentanément sa trace. 1 Sauf mention contraire précisée, les renseignements généalogiques concernant la vie de Félix Gallet entre 1773 et 1793 proviennent des registres paroissiaux et des registres d’état civil des différentes communes des départements du Loiret et du Loir-et-Cher où ont vécu Félix Gallet et les autres membres de sa famille cités. 2 Pierre Gallet, père, est également signalé choriste à l’église paroissiale. 106 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 1. Signature de Félix Gallet, âgé de 17 ans, le 7 juin 1791 (AD 45, 61 O-SUPPL GG/15, Baule, Baptêmes, mariages, sépultures: registres paroissiaux (1786-1792). 3. Secrétaire-greffier à Baule (1791-1793) Nous retrouvons Félix le 7 juin 1791, âgé de 17 ans, présent à Baule (Loiret) [à l’époque Baulle-sur-Loire], au mariage de son frère aîné consanguin Pierre, avec Anne Marie Cosson3. Au bas de cet acte Félix Gallet signe désormais différemment de ses premières années de jeunesse: sa signature, est devenue plus personnalisée et chargée de fioritures (Fig. 1); au fur et à mesure des années elle deviendra d’ailleurs de plus en plus stylisée (voir Fig. 7). Nous apprenons4 que Félix est alors secrétaire-greffier de la commune de Baule, chef-lieu de canton, métier qu’il exercera deux années jusqu’en mai-juin 1793. Ce métier était souvent occupé par un notaire, instituteur ou personne suffisamment lettrée et sachant bien écrire; le secrétaire-greffier 3 Ce couple aura 5 enfants nés entre 1794 et 1805 à Meung-sur-Loire (Loiret) où Pierre Gallet fils est instituteur. Il décédera en 1834 à Lorcy (Loiret). Le seul autre frère de Félix encore vivant en 1791, Louis Guillaume dit Louis, restera aussi dans sa région natale, se mariera en secondes noces le 10 août 1812 à Boynes (Loiret) et demeurera à Vrigny (Loiret) comme menuisier. Sa mère, Catherine Pillé, décédera chez son fils Louis à Vrigny en 1822, âgée de 87 ans. 4 AN, F/90/19073: Administration des Postes, Personnels: états de service (déclarations), an VII-1815. 107 Gilles André était notamment chargé par la municipalité de rédiger les actes administratifs comme les Comptes rendus des délibérations municipales. Nous sommes alors en pleine période de la Révolution française et apparemment Félix Gallet fait partie de la Société des amis de la Constitution de Beaugency (bourg voisin de Baule): à ce titre il fait publier le 25 avril 1792, “l’an 4 de la liberté”, une lettre ouverte, écrite de “Baulle-sur-Loire”; sa lettre d’une page, signée “Gallet le jeune”, traduit toute l’exaltation d’un jeune homme de 18 ans, enflammé par les perspectives ouvertes par la Révolution et le nouveau régime; il est apparemment aussi devenu très anti-clérical5. 4. Une longue carrière au service des Postes françaises (1793-1833) 4.1 À Paris, puis dans les armées de la République (1793-1798) En mai-juin 1793, Félix Gallet entame jusqu’à sa retraite une carrière tout entière consacrée au service des Postes françaises. Très certainement grâce à un parent éloigné6, il débute modestement comme “employé surnuméraire, au Bureau de la Correspondance, division du Nord” (voir note 4 et Fig. 2). Félix Gallet réside donc désormais à Paris où est situé ce Bureau, chargé de maintenir la correspondance postale notamment avec les armées de la République en campagne dans le Nord de la France et les pays limitrophes. Il reste une année à Paris dans cette fonction avant d’être nommé le 1er Fructidor an II [18 août 1794] comme Directeur Divisionnaire des Postes aux armées des Ardennes puis de la Moselle puis du Rhin jusqu’au 1er Ventôse an VI [23 février 1798]. Il travaille très probablement au début sous les ordres du fils d’Alexis Prosper Dagand (voir note 6), Ambroise Marie Jacob Dagand, Directeur des postes aux Armées d’Ardennes en 1794. Pendant l’année 1798, du 1er Ventôse an VI [23 février] au 1er Nivôse an VII [21 décembre], Félix Gallet est nommé Directeur Divisionnaire des Postes aux armées d’Angleterre. Durant ces 4 années et demies Félix suit le déplacement des différentes armées de la République en campagne. Tournon 1791, p. 223. On peut imaginer qu’il obtient son premier emploi grâce à Alexis Prosper Dagand, un petit cousin éloigné du côté de sa femme, Françoise Jacob, originaire de Châteauneuf-surLoire; Dagand est employé des Postes depuis 1756 à Paris et terminera au poste important d’Inspecteur au Bureau du départ en 1813. 5 6 108 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 2. Déclaration manuscrite des états de service de Félix Gallet dans l’Administration des Postes, datée de 1809, alors qu’il était directeur du Bureau de Verceil (AN, F/90/19073: Administration des Postes, Personnels: états de service (déclarations), an VII-1815). 109 Gilles André 4.2 Au bureau de Genève, département du Léman7 (1798-1804); Grammaire française Peu de temps après la création du département du Léman, l’administration générale des postes et messageries cherche à nommer au Bureau de Genève un second commis sur un poste devenu vacant. “[…] On lui observe que le Bureau de Genève étant surchargé de travail il est nécessaire que le second commis ait une parfaite connaissance du service des postes; en conséquence on propose de nommer à cette place le citoyen Félix Gallet; ce citoyen est employé dans les postes depuis 1793 et depuis le 1er fructidor an 2e il a toujours été Directeur D[ivisonnai]re aux armées des Ardennes, de la Mozelle [sic], du Rhin, et d’Angleterre, il est fortement recommandé par la Députation du Loiret, et par le citoyen Dagand père son parent (voir note 6)”. Félix Gallet obtient le poste où il est nommé le 11 Nivôse an VII [31 décembre 1798]8. Durant son séjour à Genève, deux rapports de l’administration des Postes nous apportent quelques renseignements complémentaires sur lui. En 18039 “des affaires de famille10 exigent sa présence dans son pais [sic]” et en conséquence Félix Gallet sollicite à cette occasion un congé de “4 décades” qui lui est accordé. En mai 180411, nous apprenons que Félix Gallet, engagé comme second commis fin 1798, a été promu entre temps caissier au bureau de Genève. C’est au cours de cette période genevoise que Félix Gallet, parallèlement à son emploi dans les Postes, se signale de manière inattendue par des activités littéraires et d’enseignement. Ainsi le 30 Messidor an VIII [19 juillet 1800], le journal “Le nouvelliste littéraire […]”12 annonce que Félix Gallet vient d’ouvrir une souscription pour mille exemplaires d’un futur ouvrage intitulé “Tableaux analytiques et raisonnés des principes de la 7 Nouveau département français créé le 25 août 1798 et supprimé le 31 décembre 1813. Ce département comprenait outre une partie des départements français actuels de l’Ain et de la Haute-Savoie, la ville de Genève et une partie de sa banlieue, situées sur le territoire helvétique. 8 AN, F/90/19057, Département du Léman, an VI-1814, Pièce 3918. 9 AN, F/90/19057, Département du Léman, an VI-1814, Pièce 3952. 10 Nous n’avons pas découvert de quelles affaires de famille il s’agissait. 11 AN, F/90/19057, Département du Léman, an VI-1814, Pièce 3957 (voir Appendice I). 12 “Le nouvelliste littéraire […]”, N° CVII, 30 Messidor an VIII, p. 5. Peu après, “Le Bulletin Helvétique”, Vol. 4, N° 31, du Mardi 5 août 1800, p. 252, annonce la même souscription. 110 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Grammaire française”, soumis par ailleurs à l’examen de trois célèbres professeurs; les souscripteurs “sont invités à faire passer leurs engagements à l’adresse du citoyen Félix Gallet, bureau des postes, à Genève”. La sortie définitive de son ouvrage est annoncée13 en Floréal an IX [mai-juin 1801] sous un titre légèrement différent “La grammaire française par tableaux analytiques et raisonnés”14 (Fig. 3); il est alors précisé que sa grammaire a été soumise à l’examen de l’Institut National15. La découverte d’une lettre conservée aux Archives Nationales16 nous confirme cette parution toute récente: le 22 Floréal an IX [12 mai 1801], Félix Gallet, domicilié à Genève, charge en effet l’imprimeur-libraire parisien GuerlainSauvage, d’adresser une lettre au ministre de l’intérieur de l’époque [JeanAntoine Chaptal] pour lui demander de pouvoir apposer sur les exemplaires de son récent ouvrage Grammaire française, l’estampille du gouvernement. Le 14 Prairial an IX [3 juin 1801], le ministre, qui avait reçu un exemplaire de l’ouvrage, répond à cet intermédiaire que malheureusement une telle autorisation est impossible. Incidemment, le 1er Frimaire an X [22 novembre 1801] “le Journal des débats”17, précise que l’ouvrage de Félix Gallet est disponible chez ce même Guerlain-Sauvage et chez le Normant [ou Lenormant], imprimeurlibraires à Paris. Plus curieusement, dans “la France littéraire”18 de 1806, nous apprenons que l’auteur de la Grammaire française, “Gallet (Félix) de Châteauneuf sur Loire” est qualifié de “Professeur de langue française à Genève”. Plusieurs numéros de la revue “Gazette Nationale ou le Moniteur universel” de début 1802 nous confirment que non seulement Félix Gallet donne bien des cours de langue française à Genève19, mais que ses cours semblent avoir un A notre connaissance, le premier journal à annoncer la parution de cet ouvrage est le “Journal de la littérature […]”, 4e année, Floréal an IX, p. 154. 14 Gallet 1801. 15 L’Institut national des sciences et des arts, mis en place le 22 août 1795, correspond aux anciennes Académies scientifiques, littéraires et artistiques à Paris. 16 AN, F/17/1337 dossier 17. 17 “Journal des débats […]”, 1er Frimaire an X, p. 4. 18 Ersch 1806, p. 235. 19 “Gazette Nationale ou le Moniteur Universel”, 22 Nivôse an X [12 janvier 1802], N° 112, p. 450. “Le cit[oyen] Gallet, auteur de la Grammaire française par tableaux analytiques et raisonnés, qui a été soumis à l’examen de l’Institut national, inséré dans le n°107, annonce 13 111 Gilles André certain succès20. A cette époque apparemment Félix Gallet a encore gardé de solides liens avec son village natal, car dans le N° 107 de cette même revue, il est indiqué que sa Grammaire est disponible non seulement chez les grands libraires parisiens mais aussi “chez l’auteur, au bureau de la poste à Châteauneuf-sur-Loire”21. Ainsi, au tournant du XIXe siècle, Félix Gallet, modeste caissier des articles du Bureau des Postes à Genève, donne aussi des cours de langue française basés sur son ouvrage Grammaire française, soumis à l’approbation d’éminents professeurs parisiens22 et publié chez les grands libraires européens. 4.3 Au bureau de Verceil, département de la Sésia23 (Italie) (1804-1814); Arbre généalogique des langues Le 15 mai 1804, Félix Gallet, caissier des articles au bureau de Genève et le citoyen Girault, contrôleur au bureau de Verceil, demandent à échanger leurs places respectives, ce qui leur est accordé le 17 mai 1804 (voir note 11 et Appendice I). Félix Gallet, nommé suivant son souhait nouveau contrôleur des Postes à Verceil, va ainsi passer les dix années suivantes dans ce bourg où les rapports qu’il a ouvert un cours de langue française, à Genève, lieu de son domicile actuel”. 20 “Gazette Nationale ou le Moniteur Universel”, 1er Germinal an X [22 mars 1802], N° 181, p. 726. “Le cit[oyen] Félix Gallet, domicilié à Genève, auteur de la Grammaire française, par tableaux analytiques et raisonnés, annonce qu’il va s’ouvrir incessamment un deuxième cours de langue, divisé en dix-huit leçons. Sa méthode consiste à faire écrire sous dictée, et faire remplir des tableaux modelés sur ceux de sa Grammaire. Cet ouvrage, en un volume petit in-4° de 80 pages d’impression, se trouve chez l’auteur, bureau des postes à Genève, et chez tous les principaux libraires de la République. - Pour l’étranger, à Gênes, chez le cit[oyen] Gravier, libraire français, et à Lausanne, chez le cit[oyen] L. Luquiens l’aîné”. 21 “Gazette Nationale ou le Moniteur Universel”, 17 Nivôse an X [7 janvier 1802], N° 107, p. 430. 22 Nous n’avons pas réussi à découvrir de document démontrant l’approbation effective de sa grammaire soumise à l’examen par des professeurs de l’Institut National; apparemment dans les Observations importantes insérées en début de son ouvrage, l’auteur déplore que ce jugement ait été sans cesse différé: “Sans une foule de circonstances imprévues, et des obstacles sans cesse renaissans [sic] qui ont retardé de près de six mois la mise au jour, et l’exposition en vente de cet Ouvrage, nous aurions encore attendu le jugement de l’Institut national, à l’examen duquel le manuscrit doit être soumis par le citoyen Domergue [François Urbain Domergue 1745-1810], l’un de ses membres”. 23 Nouveau département français annexé sur le territoire de la République subalpine en Italie le 11 septembre 1802 et supprimé le 21 mai 1814. Sa préfecture était installée à Verceil. 112 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 3. Page de titre de La grammaire française de Félix Gallet publiée en 1801 (BnF, X-2385). 113 Gilles André consignés par l’administration des postes françaises nous permettent de suivre l’évolution de sa carrière et également quelques événements de la vie locale. En novembre 180524, Félix Gallet propose à l’administration des Postes, en l’appuyant de différents arguments, d’établir un nouveau Bureau de distribution à Gattinara, bourg assez distant de Verceil; sa demande bien que prise en considération ne sera cependant pas retenue. Grâce à un état général des contrôleurs de toute l’administration des Postes dressé en l’an XIV [1806], nous apprenons que: “Galet, Contrôleur à Verceil, entré au service en 1792, nommé à sa place le 25 floréal an 12, touche 1500 fr[ancs] de traitement mensuel25”. En mai 1809 l’administration des postes envoie un enquêteur pour essayer de résoudre les problèmes rencontrés suite à la conduite scandaleuse du directeur du Bureau de Postes de Verceil, Mr. Mayno26 fils. L’histoire est assez rocambolesque: dans ce bureau de postes, dirigé par Mr Mayno fils, sont employés outre Félix Gallet comme contrôleur, le père du directeur, Mr Mayno père, en tant que commis. C’est ce dernier qui dans une lettre dénonce à l’administration des Postes, la mauvaise conduite de son propre fils. L’enquêteur dépêché sur place ne peut que constater la débauche et les délits financiers du directeur et propose en accord avec Félix Gallet et Mr Mayno père, de suspendre Mr Mayno fils et de nommer à sa place Félix Gallet; il pense en effet: “qu’en le nommant à la Direction on favorisera le vœu public […] M. Gallet contrôleur actuel jouit de l’estime publique. Il est le cousin de M. Dagand l’un des chefs du Bureau du départ à Paris; il est marié à Verceil; il tient à beaucoup d’honnêtes gens du pays; il est fort intelligent et très actif 27” (Fig. 4). Ce document nous révèle que non seulement Félix Gallet semble bien intégré et apprécié des habitants de Verceil notamment pour son intelligence, son activité, mais aussi qu’il s’est marié à Verceil. Par la suite, Félix Gallet, en tant que nouveau directeur des Postes à Verceil, gère son bureau, au gré des départs de personnel28 et des disputes entre ses AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812, Pièce 8356 (voir Appendice I). AN, F/90/20367, Etat des Contrôleurs, an XIV. 26 Il s’agit très probablement de la famille Maino de Capriglio (comm. pers. de Giorgio Tibaldeschi); en 1810 et 1811 (voir note 34) un dénommé Louis Maino est mentionné contrôleur à Verceil; il s’agit du dénommé “Mayno père” de ce document des Postes françaises. 27 AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812, Pièce 8362 (voir Appendice I). 28 AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812, Pièce 8363 (voir Appendice I). 24 25 114 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 4. Extrait de la nomination de Félix Gallet comme Directeur des Postes, en mai 1809, à Verceil (AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812, Pièce 8362). 115 Gilles André employés29. Apparemment Félix Gallet se révèle un habile médiateur. Félix Gallet, demeurant à Verceil depuis environ deux ans et demi, dans la paroisse de Saint-Thomas, épouse le 21 novembre 1806, Ferdinande fille de Josef Porro, née à Verceil et de la paroisse de Saint-Laurent30 (Fig. 5). Les époux avaient peu auparavant, le 13 novembre 1806, signé un contrat de mariage31 et l’épouse, Ferdinande fille de Josef Porro et de Therèze Morlaco (alias Morlacco) avait aussi rempli le 12 septembre 1806 un acte de consentement à son mariage32. A son mariage, Félix Gallet approche de 33 ans, alors que Ferdinande Porro, née vers 178533, a environ 21 ans. Ferdinande a alors quatre frères et sœurs, Claire Laurent (31 ans), Ugoline (30 ans), Paul (28 ans) et Félix (23 ans). Son père Josef Porro34, âgé de 57 ans à son mariage, est couturier et son épouse Thérèse Morlacco a 55 ans. Le couple Félix Gallet-Ferdinande Porro donnera naissance à Verceil à trois garçons: François Joseph Pascal Marie, né le 1er février 1808; Pierre Marie Félix César Gaétan, né le 7 août 1810; Jean Louis Sébastien Félix, né le 20 janvier 181435. Le second, Pierre Marie Félix César Gaétan, décèdera le 28 juillet 1812, âgé d’à peine 2 ans36. Alors que l’Italie récupère sa souveraineté sur le territoire du département AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812, Pièce 8366, (voir Appendice I). Des recherches menées par Giorgio Tibaldeschi dans les différents services d’archives de Verceil, notamment les registres paroissiaux des différentes églises dépendant de la Cathédrale de Verceil, ont permis de connaître plus précisément son épouse et la famille qu’ils vont fonder. Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Vercelli, Parrocchia di S. Lorenzo, Matrimoni 1709-1832, p. 179 : Mariage de François Félix Gallè [sic] feu Pierre, né à “Castronovo super Ligerem in Gallia” [Châteauneuf dans le Loiret en France], diocèse de Orléans, demeurant il y a deux ans et demi à peu près à Verceil, paroisse de Saint Thomas; il épouse Ferdinande fille de Josef Porro, paroisse de S. Laurent, née à Verceil. 31 Archivio di Stato di Vercelli, notaire Benedetto Palea, Vol. 3662, acte n. 1205. 32 Cet acte mentionné n’a pu être retrouvé. 33 Archivio Storico Civico di Vercelli, Consegnamenti [Recensements] de 1794 et 1798. 34 En 1810 dans l’Annuaire administratif du département de la Sésia, Félix Ceretti, Verceil, p. 85 [id. en 1811, p. 47], sont mentionnés Félix Gallet, directeur des postes de Verceil, ainsi qu’un dénommé Porro [prénom manquant], commis; nous n’avons pu découvrir si cet employé faisait partie de la famille de son épouse. Deux autres personnes, Charles Monti, facteur, et Louis Maino, contrôleur, font aussi partie de ce Bureau dirigé par Félix Gallet. 35 Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Vercelli, Parrocchia di S. Eusebio, Battesimi 18041809, p. 134 et 1809-1814, p. 48 et p. 168. 36 Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Vercelli, Parrocchia di S. Bernardo, Defunti 18061813, p. 105. 29 30 116 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 5. Mariage de Félix Gallet avec Ferdinande Porro à Verceil le 21 novembre 1806 (Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Vercelli, Parrocchia di S. Lorenzo, Matrimoni 17091832, p. 179). Reproduction autorisée. 117 Gilles André de la Sésia le 21 mai 1814 et que tous les services administratifs français tels les Postes de Verceil ont dû fermer à cette date, on trouve encore très curieusement la famille de Félix Gallet recensée 2 mois plus tard, en août 1814 à Verceil; Félix Gallet, 40 ans, est toujours qualifié de Directeur des Postes et avec leur fils Josef, âgé de 7 ans est recensée une servante âgée de 35 ans Lucie37. Lors de ses dix années passées à Verceil, Félix Gallet n’est sûrement pas resté inactif concernant ses occupations littéraires, extérieures à son métier dans les Postes. En effet, encore bien plus que pour sa Grammaire française publiée en 1801 alors qu’il était employé des Postes à Genève, le nom de Félix Gallet est connu internationalement dans l’histoire des sciences et des idées pour être l’auteur d’un Arbre généalogique des langues mortes et vivantes38 (Fig. 6), le premier du genre connu, sur lequel il a très probablement travaillé lorsqu’il était à Verceil. Cet arbre est un dessin gravé (395 x 290 mm) sur une feuille de grand format (610 x 460 mm), représentant un arbre stylisé avec différentes branches ramifiées issues de son tronc, comme un arbre végétal, permettant de visualiser en un coup d’œil, les relations de parenté, d’ancienneté et l’origine de toutes les langues mortes et vivantes. Chaque langue connue est figurée dans un petit cercle et positionnée sur cet arbre en fonction de son lien avec les langues les plus voisines ou analogues et de son éloignement à la langue primitive. Ce type de représentation en arbre généalogique similaire à ceux utilisés en généalogie des familles humaines est très novateur à cette époque; à peine connaît-on quelques autres arbres similaires et contemporains, tel en botanique, l’Arbre botanique d’Augustin Augier39, dessiné et publié en 1801 dans son ouvrage Essai d’une nouvelle classification des végétaux40. Archivio Storico Civico di Vercelli, Consegnamenti [Recensement] d’août 1814. De manière inexpliquée, leur dernier garçon, Jean Louis Sébastien Félix, né en janvier 1814 ne figure pas dans ce recensement; nous retrouverons cet enfant peu après en France. 38 Gallet Arbre généalogique des langues mortes et vivantes, s. l. n. d. A notre connaissance, il ne semble exister aujourd’hui que très peu d’exemplaires connus de cet arbre; il y a un exemplaire conservé à la Bibliothèque Nationale de France à Paris, BnF, X-1305 (voir Fig. 6) et un autre décrit précisément et mis en vente par la Galerie londonienne Maggs Bros Ltd, dans son Catalogue 1441, pp. 12-13 et récemment acquis par la Bibliothèque de l’Université de Princeton (voir: https://blogs.princeton.edu/graphicarts/2011/08/tree_of_ language.html). 39 Hellström - André - Philippe 2017. 40 Augier 1801. 37 118 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 6. Arbre généalogique des langues mortes et vivantes, de Félix Gallet, ca 1807 (BnF, X-1305). 119 Gilles André Les historiens spécialistes des langues41 qui ont déjà parlé de ce fameux arbre de Félix Gallet ne disposaient jusqu’ici d’aucune information sur l’identité de son auteur, son parcours, sa profession, le contexte dans lequel son auteur l’avait créé. Les seules informations dont ils disposaient étaient réunies sur le dessin lui-même et la courte légende qui l’accompagne. En l’absence d’aucun élément daté explicite accompagnant cet arbre, à la suite d’Auroux (voir note 41), il est couramment admis par les chercheurs suivants qu’il a été imprimé autour de 1795-1800. Grâce à une analyse historique détaillée de la légende accompagnant son arbre et à la lumière de quelques éléments nouveaux inédits, nous pensons que cet arbre a plutôt été imprimé au début de 1807, alors que Félix Gallet était installé à Verceil (voir Appendice II). 4.4 Retour en France, au Bureau de Marseille (1815-1833) Nous ne connaissons pas la date précise du départ de Verceil de la famille de Félix Gallet et de Ferdinande Porro. Une courte lettre de “M. Gallet, ancien directeur des postes de Verceil”, publiée le mercredi 15 février 1815 dans le journal “la Quotidienne”, nous montre qu’il a déjà très certainement quitté Verceil à cette date. La teneur un peu ésotérique de son article dédié à “une combinaison de chiffres et de lettres codant les noms latins de Napoléon” traduit son goût indéniable pour les jeux de mots et de chiffres42. Nous savons toutefois qu’en avril 1815 toute sa famille est de retour dans la ville de Baule (Loiret) où Félix Gallet fut secrétaire-greffier durant la période révolutionnaire. En effet une lettre manuscrite de sa main, figurant parmi les documents administratifs de ces états de service dans les Postes, précise que le 19 avril 1815, Félix Gallet attend toujours impatiemment un nouvel emploi dans l’administration des Postes, plusieurs mois après avoir quitté son dernier emploi de Directeur des postes à Verceil43 (Fig. 7). 41 C’est apparemment l’historien des sciences du langage, Sylvain Auroux, qui a le premier découvert cet arbre et le mentionne dans plusieurs articles dès 1982. Auroux, Désirat, Hordé 1982, pp. 145-170; dans cet article Sylvain Auroux attribue à un seul Félix Gallet, La Grammaire française de 1801 et L’arbre généalogique des langues, non daté. Auroux 1989, p. 166, indique notamment “F. Gallet, auteur inconnu”. Auroux 1990, pp. 231-238. Auroux 2013, pp. 31-52. Pour une discussion récente voir: http://phylonetworks.blogspot. fr/2012/11/an-early-tree-of-languages.html. 42 “La Quotidienne”, N° 46, Mercredi 15 février 1815, p. 3. 43 AN, F/90/19073: Administration des Postes, Personnels: états de service (déclarations), 120 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Fig. 7. Lettre manuscrite de Félix Gallet, du 19 avril 1815, sollicitant un nouvel emploi dans l’administration des Postes (AN, F/90/19073: Administration des Postes, Personnels: états de service (déclarations), an VII-1815). 121 Gilles André Toujours est-il, qu’avant juillet 1818, Félix Gallet a retrouvé un emploi de Contrôleur des Postes à Marseille44. Bien que n’ayant plus à notre disposition d’états détaillés de services de Félix Gallet dans cette administration après 1815, quelques autres documents contemporains nous permettent de suivre sa trace. Ainsi en 1820, toujours Contrôleur des Postes, il est domicilié 78 rue d’Aubagne à Marseille45. Le 27 mars 1824, son épouse Ferdinande Porro, donne naissance à un quatrième garçon, Louis Emile Ferdinand (dit Emile); le couple est alors domicilié 11 rue Fougate à Marseille46. Le 29 juillet 1828 son fils Jean Louis Sébastien Félix, âgé de 14 ans et demi, “né à Vercelli (Piémont)” décède à Marseille47. Ses parents habitent alors 29 boulevard du Muy et Félix a été promu Sous-inspecteur des Postes entre 1824 et 1828. 5. La retraite et les dernières années (1833-1847); son fils Emile Il est probable que Félix Gallet prend sa retraite aux alentours de 1833, en tous cas avant 1837, alors qu’il a environ 60 ans et après 40 années passées presque sans discontinuer dans l’administration des Postes. En effet, dans un article publié en 1837 et écrit par “M. Gallet, sous-inspecteur des Postes en retraite”, l’auteur expose des données statistiques détaillées sur les opérations effectuées dans les Postes de Marseille, et ses données s’arrêtent fin 183248. an VII-1815. Lettre manuscrite: ”Je Soussigné felix Gallet Ex-directeur des postes de Verceil déclaré être marié depuis huit ans, et être père de famille chargé de deux enfans, encore en bas-âge, et n’avoir d’autres ressources pour leur éducation que dans un emploi que le Soussigné sollicite avec instances des Bontés de l’Administration. Baulle sur Loire ce 19 avril 1815”. Elle est suivie d’une lettre du maire de Baule, Laffray, datée du 21 avril 1815, attestant que Félix Gallet a fait la déclaration précédente en sa présence. 44 AN, F/90/20367, Nomenclature des Contrôleurs provinciaux des postes en exercice, 1818. “16 juillet 1818, Gallet remplaçant Hotinau, Contrôleur à Marseille”. 45 Jauffret 1820, p. 164. 46 AD 13, Marseille, Actes de naissances 1824, Mars, Registre 2, acte n° 1254. “Naissance le 27 mars 1824 de Louis Emile Laurent Ferdinand Gallet, à Marseille, fils de sieur François Felix, Contrôleur des Postes et de Dame Marie Lucie Ferdinande Porro, mariés demeurans [sic] rue fougate n° 11 […]”. 47 AD 13, Marseille, Actes de décès 1828, Juillet, Registre 6, acte n° 476. “Acte du 30 juillet 1828; Jean Louis Sébastien Félix Gallet décédé hier à 7 h du soir, chez ses père et mère, domiciliés et demeurant boulevard du mui [=Muy] n° 29, âgé de 14 ans et demi né à Vercelli (Piémont) fils de François Felix Gallet Sous inspecteur des Postes et de Ferdinande Porro”. 48 Gallet 1837, pp. 351-365. 122 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Félix Gallet, bien qu’à la retraite, est un membre actif de la “Société de Statistique de Marseille” et s’intéresse désormais à des sujets de statistique et d’histoire en liaison avec les Postes. En plus de l’article déjà mentionné un peu plus haut, nous connaissons de lui une série d’autres travaux répertoriés dans les Bulletins de cette Société: “Coup d’œil statistique sur les postes chez tous les peuples de la terre”49, “Précis historique sur l’Origine des Postes - Epoque de leur introduction en France - Modifications et améliorations successives dans cet important service”50, “Statistique générale des Postes, accompagnée de notes historiques et étymologiques”51. Nous n’avons malheureusement pas réussi à découvrir l’acte de décès de Félix Gallet; cependant plusieurs indications semblent montrer que celui-ci a dû survenir autour de 1845. Alors qu’en 1837, dans son premier article Félix Gallet est qualifié de “Sous-inspecteur des Postes en retraite, membre actif de la Société de Statistique de Marseille”, dans ses articles publiés en 1847, c’est devenu “Ancien sous-inspecteur des Postes en retraite, ex-membre actif de la Société de Statistique de Marseille”. D’autre part, nous apprenons le décès, survenu le 7 octobre 1847 à Marseille, de son épouse Ferdinande Porro, âgée de 62 ans52. L’acte indique qu’à son décès, Ferdinande Porro est déjà veuve. Parmi les quatre garçons nés de l’union du couple Félix GalletFerdinande Porro, deux sont décédés très jeunes: Pierre Marie Félix César Gaétan né à Verceil en 1810 et décédé à Verceil en 1812 et Jean Louis Sébastien Félix né à Verceil en 1814 et décédé à Marseille en 1828. Quant à l’aîné, François Joseph Pascal Marie, né en 1808 à Verceil, nous perdons sa trace après 1815 où il est encore présent au retour de la famille GalletPorro en France. Il semble bien cependant qu’il soit décédé avant 1847 49 Dieuset 1837, pp. 366-374. En conclusion de ce Rapport, M. Dieuset précise “ce mémoire de Félix Gallet est parsemé d’anecdotes intéressantes, de recherches à la fois agréables et savantes qu’il a dû taire”. 50 Gallet 1847a, pp. 254-288. 51 Gallet 1847b, pp. 288-348. 52 AD 13, Marseille, Actes de décès, 1847, Octobre, Registre 1, acte n° 761. Acte du 8 octobre 1847 “décès de Ferdinande Poro (ou Porro dans la marge), survenu hier à 3 heures du soir, à Marseille dans sa maison d’habitation, rentière, âgée de 62 ans, née à Verceil (Piémont), domiciliée et demeurant à Marseille, rue dragon 30, veuve de François Félix Gallet, sous inspecteur des postes, fille de défunts Joseph Poro et de xxx”. 123 Gilles André car lors de la succession survenue au décès de sa mère, un seul héritier, non prénommé, est mentionné53. Cet héritier unique ne peut-être que Louis Ferdinand Emile dit Emile, né en 1824 à Marseille et dont l’existence après 1847 est bien établie. Emile Gallet (1824-1884), fils de Félix et de Ferdinande Porro, fera une brillante carrière dans les finances des armées françaises, comme Payeur des armées en campagne; engagé à 20 ans en 1844, il sera de la campagne de Rome de 1849 à 1855, de Crimée de 1855 à 1856, d’Italie de 1859 à 1860, du Mexique de 1862 à 1864, du Rhin, terminant Payeur en chef de l’armée de Paris. Ses pérégrinations rappellent un peu celles de son père, réalisées cinquante ans plus tôt, dans les Postes aux armées. Il est fait chevalier de la légion d’honneur le 3 octobre 1863 et officier le 8 décembre 1870. Il est domicilié à Paris à partir de 1870 et décède le 17 février 188454. 6. Epilogue Félix Gallet, auteur d’une Grammaire française et de l’Arbre généalogique des langues, était un homme qui, sous l’apparence d’une vie ordinaire d’employé des Postes, a démontré toute sa vie une grande curiosité, s’intéressant en amateur éclairé à de multiples sujets souvent liés aux mots et aux chiffres: grammaire, linguistique, statistique, histoire. Autant qu’on puisse en juger, il semblait doué d’un caractère assez aventurier, entreprenant, ouvert sur les autres cultures. Son long parcours, depuis sa naissance à Châteauneuf-sur-Loire, dans le centre de la France, jusqu’à son décès à Marseille, en passant par Baule, Paris, dans les armées républicaines en campagne, en territoire annexé à Genève puis à Verceil en Italie où il fonde une famille, est riche et original, à l’image de l’homme. 53 AD13, Série de l’enregistrement, Bureau de Marseille, commune de Marseille, année 1847, Table des décès, successions et absences, 12 Q9 16 37. “Pero [sic], M[ar]ie Lucie, (piémontaise) domiciliée, 30 rue dragon, 62 ans, date du décès 7 8bre 1847, veuve de f[ranç] ois Gallet, héritier: son fils, au bureau de la poste à Valence, Biens déclarés: valeur du mobilier, argent, rentes et créances: rien; revenus des immeubles: aucun”. 54 Base LEONORE de la Légion d’honneur, Ministère de la Culture, Dossier LH/1061/6; site: http://www.culture.gouv.fr/documentation/leonore/recherche.htm,. 124 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues APPENDICE I Félix Gallet, employé des Postes à Verceil (1804-1814) AN, F/90/19057, Département du Léman, An VI-1814. Pièce 3957: Rapport du 25 Floréal an XII [15 mai 1804]. “Le C[itoy]en Gallet, Caissier des articles au Bureau de Genève, et le C[itoy] en Girault, Contrôleur à celui de Verceil, demandent par leurs lettres en dates des 2 et 11 courant, à échanger leur place respective. Cet échange leur convenant à tous les deux, et rien ne paraissant s’y opposer, l’Administration propose au Directeur Général, de l’autoriser”. Le 27 Floréal an 12 [17 mai 1804] cette autorisation leur est donnée. AN, F/90/19066, Département de la Sésia, an XIII-1812. Pièce 8356: Rapport du 15 Brumaire an XIV [6 novembre 1805]. “Mr Gallet, contrôleur à Verceil (Sésia) a proposé à l’Administration d’établir une Distribution à Gatinara, bourg de l’arrondissement de Verceil, qui en est à 8 lieues. La population de ce Bourg, est, dit-il, de 3,600 habitans; il y a un juge de Paix, un Receveur de l’Enregistrement, un Receveur des Droits réunis et un des Douanes. Varallo, chef-lieu des vallées de la Sésia, est, dit-il, situé sur le Territoire étranger dans le Royaume d’Italie, mais comme Varallo est éloigné de Novarre, Bureau étranger, c’est celui de Verceil qui fait le Service de Varallo et des vallées de la Sésia, et Gatinara est le point intermédiaire de ce Service. Tels sont les motifs dont le Contrôleur de Verceil appuie sa demande à faire établir un Bureau de Distribution à Gatinara. Mr Monicault, Directeur de Lyon, qui connait très bien les localités et le Service de ce Pays, a été consulté pour avoir des renseignements sur cet objet. Il vient de répondre que la population de Gatinara, milite pour l’Etablissement demandé et qu’il aurait proposé de le former lorsqu’il organisa le Service des Postes dans la 27e Division, s’il eut pu coûter moins de 12. A 1500. Fr[ancs] par an; mais qu’il lui parut impossible de le faire à moindre prix. Il se détermina d’autant plus volontiers à ne pas le proposer, qu’il était persuadé que la Recette du Bureau de Verceil n’augmenterait pas, quand même ce Service existerait, car les habitans[sic] de Gatinara, dit-il, qui reçoivent des lettres de Turin, de Milan et d’autres Pays éloignés, savent bien prendre leurs mesures pour les faire retirer à Verceil même. Quant aux lettres de et pour Verceil à Gatinara, les habitans, dit Mr Monicault, tiennent trop à deux décimes qu’il leur en coûterait de plus, en les prenant à Gatinara, pour ne pas profiter des occasions fréquentes qu’ils ont d’envoyer leurs lettres à une petite distance, plutôt que de servir de la voie de la Poste. 125 Gilles André Toutes ces considérations détermineront probablement l’Administration à laisser les choses dans l’état où elles sont, avec d’autant plus de raison, que comme le dit Mr Monicault, d’après le traité fait avec l’office des Postes du Royaume d’Italie, l’Administration des Postes françaises ne peut pas faire distribuer des lettres dans la vallée de la Sésia qui se trouve faire actuellement partie du Royaume d’Italie. D’après ces faits et observations, on croit pouvoir proposer à l’Administration de ne pas établir une Distribution à Gatinara”. Pièce 8362: Rapport du Vendredi 19 may [sic] 1809. “L’Administration a été informée de la mauvaise conduite du Directeur de Verceil, par une lettre de M. Mayno Commis à ce Bureau et père du Directeur. Ce dernier demanda à rentrer dans la Direction de Cazal, qu’il avait déjà occupée et que le Directeur de ce Bureau vint occuper celle de Verceil. L’Administration décida sur l’exposé qui lui fait de cette demande, qu’il en seroit [sic] écrit au Directeur de Cazal. On allait exécuter cette décision lorsqu’une lettre de l’Inspecteur Perault est venue présenter les faits suivants. Il expose qu’attiré à Verceil pour vérifier d’office la conduite du Directeur, il se transporta avec le Contrôleur chez M. le Préfet, lequel lui parla de ce Directeur de manière à l’allarmer [sic] sur la sureté des fonds de la Direction, en l’assurant qu’il était plongé dans la débauche. Il a été accusé d’avoir soustrait des traites de Commerce d’une lettre adressée à un Négociant Juif à Verceil. Ce délit avait fait beaucoup de bruit; mais le Directeur à force d’instances auprès du Juif, en obtint un certificat qu’il montra et dont personne ne fut la dupe. L’Inspecteur alla voir le négociant qui lui avoua n’avoir délivré le certificat que pour arracher à l’infamie le père et l’épouse du S[ieur] Mayno qu’il étoit [sic] loin de vouloir traduire devant les Tribunaux. Il paraît par la pièce N° 1er joint à la lettre de l’Inspecteur, que ce Directeur après avoir soustrait les effets de la lettre, les a présentés chez un Banquier pour les négocier; il les avoit [sic] adressés à Cazal où il les avait mis en gages. Ce délit fut reconnû [sic] par l’avis qu’en donna le Banquier au Négociant Juif. Les choses en sont à un point que le S[ieur] Mayno fils ne peut plus rester dans le Département; mais M. le Préfet a conservé son estime au père et à la femme de ce mauvais sujet, et le public est dans la même opinion. En conséquence l’Inspecteur a cru devoir suspendre le S[ieur] Mayno fils de ses fonctions et conférer la Direction au père. Il a trouvé la Caisse des articles en règle. La comptabilité ordinaire était bien tenue, et la Caisse vérifiée s’est trouvée intacte. L’Inspecteur pense que M. Mayno le père pourroit [sic], eû égard à son grand âge qui l’empêche de pouvoir occuper utilement les fonctions relatives à la comptabilité, être nommé à la place de Contrôleur dont les opérations sont moins pénibles que celles de la Direction. M. Gallet, Contrôleur actuel jouit de l’estime publique. Il est le cousin de M. Dagand, l’un des chefs du Bureau du départ à 126 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Paris; il est marié à Verceil; il tient à beaucoup d’honnêtes gens du Pays; il est fort intelligent et très actif. L’Inspecteur pense qu’en le nommant à la Direction on favorisera le vœu public. Il demande l’indulgence de l’administration pour le S[ieur] Mayno le fils et pour qu’il soit placé dans un autre Département. On pense que l’administration voudra bien accueillir favorablement l’arrangement qui lui est proposé et qui est consenti par Messieurs Mayno père et Gallet, Contrôleur. Cette disposition fera vacquer une place aux appointements de 600 f[rancs] qui sont accordées au Directeur de Verceil pour faire aider. Les malheurs de la famille Mayno auxquels M. le Préfet et le public prennent beaucoup d’intérêt pourroient [sic] déterminer l’administration à continuer de considérer cette somme de 600 fr[ancs] comme devant servir au Directeur de Verceil pour faire aider le Service; elle tournerait à l’avantage du père Mayno et de sa bru, sans cependant que jamais le S[ieur] Mayno fils pût paraître dans le Bureau. Tels sont les faits et propositions sur lesquels l’Administration est priée de prendre une décision”. Pièce 8363: Rapport du Vendredi 1er septembre 1809. “M. Gallet, Directeur à Verceil mande que le S[ieu]r Crivelli, facteur à Verceil a quitté le Service; il propose pour le remplacer le Sr. Charles Monti [plutôt que Mouti]. Les appointements de cette place sont de 400 fr[ancs]. On pense que Messieurs les administrateurs voudront bien proposer à Monsieur le Directeur Général de nommer le Sieur Monti facteur au Bureau de Verceil”. Pièce 8366: Rapport du Vendredi 26 octobre 1810. “L’Administration a décidé le 24 août dernier que le Distributeur à Santhia seroit [sic] remplacé, attendu que d’après le rapport de l’Inspecteur Pérault, M. Dalloni titulaire de cette Place, avait eû des torts à l’égard de M. Guelpa, Directeur à Bielle, dont ce dernier s’étoit [sic] grièvement plaint à M. Pérault. M. Gallet, Directeur à Verceil, qui avait été chargé de faire choix d’un Distributeur, attendu que cette Distribution relève de son Bureau, mande, qu’ayant été médiateur entre M. Guelpa, Directeur à Bielle, et M. Dalloni, il avait été assez heureux pour les réconcilier, et que l’Inspecteur l’avoit [sic] prié de donner connoissance [sic] de ces faits à l’Administration en la priant de rapporter la décision qui ordonne le remplacement de M. Dalloni distributeur à Santhia. D’après cet exposé, on pense que Messieurs les administrateurs voudront bien rapporter la décision du 24 août dernier par laquelle ils avoient [sic] proposé à Monsieur le Directeur de Verceil de remplacer le Distributeur à Santhia”. 127 Gilles André Appendice II Contribution à la datation et au lieu d’impression de l’Arbre généalogique des langues de Félix Gallet Rappelons le texte entier de la légende de son arbre: “Arbre généalogique des Langues mortes et vivantes, dressé d’après les Principes de l’Auteur du Monde Primitif sur la Génération des Langues, dédié à Monsieur l’abbé Sicard, Instituteur des Sourds-Muets, membre de l’Institut National, Par Felix Gallet. Felix Gallet Invenit [= Felix Gallet l’a inventé]. C. G. Geusler Sculps. [= Christian Gottlieb Geissler l’a gravé]”. L’auteur du Monde primitif sur la génération des langues55 qui inspira Félix Gallet est Antoine Court de Gébelin (1728-1784). La dédicace de son Arbre à l’abbé Sicard, Instituteur des Sourds-Muets, membre de l’Institut National est plus instructive. L’abbé Roch Ambroise Sicard (1742-1822) est effectivement connu pour avoir été instituteur des sourds-muets et membre de l’Institut National de novembre 1795 à septembre 1797, puis de juin 1801 à son décès en mai 182256. L’arbre de Félix Gallet n’a donc logiquement pu être imprimé que durant une de ces 2 périodes: novembre 1795-septembre 1797 ou juin 1801-mai 1822. Le graveur de cet arbre, Christian Gottlieb Geissler [ou Geisler] (1729-1814), est un graveur et peintre en miniature et sur émail célèbre, originaire d’Augsbourg, venu s’installer pour travailler à Genève de 1768 à 1814. Il était en particulier bon connaisseur de la représentation des plantes57. Félix Gallet est arrivé à Genève début 1799, pour y rester jusqu’en mai 1804: on peut raisonnablement penser qu’il a contacté Geissler pour la gravure de son arbre lors de ces cinq années passées à Genève. Enfin, à notre connaissance, le premier journal à évoquer la publication de l’arbre de Félix Gallet, est le “Journal général de la littérature de France”, Dixième Court de Gébelin 1773-1782. http://pages.textesrares.com/index.php/Rubriques/Sicard-Roch-Ambroise-1742-1822un-philanthrope-de-l-Institut-national-a-l-Academie-francaise.html. 57 Sigrist 1999, pp. 11-52. 55 56 128 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues année, 6eme Cahier, 1807, Paris, p. 18558; ce journal ainsi que quelques autres se chargeaient d’indiquer en plusieurs livraisons annuelles toutes les publications récemment parues pour que le public puisse se les procurer; le 6eme Cahier de 1807, sur les 11 Cahiers de l’année 1807, regroupe donc à priori les ouvrages parus un peu avant mai-juin 1807. Il est aussi intéressant de remarquer que c’est ce même journal qui avait annoncé le premier en 1801 la parution de la Grammaire française de Félix Gallet, juste après sa sortie (voir note 13). Quelques mois plus tard, le Journal italien “Giornale bibliografico universale”, T. 1, N° 2, Octobre 1807, p. 183, décrit exactement la même notice, en langue italienne, sur la publication de l’Arbre des langues de Félix Gallet. A la lumière de ces éléments et en concordance avec les différentes dates possibles, il nous semble raisonnable de penser que l’Arbre généalogique des langues de Félix Gallet a été imprimé en 1807, peu avant mai-juin, et non vers 1795-1800 comme on le pensait généralement auparavant. Le lieu de son impression nous reste inconnu mais deux hypothèses semblent possibles, toutes les deux suggérées d’ailleurs dans la notice du “Journal général de la littérature de France” (voir note 58), où il est précisé, au printemps 1807, que son ouvrage est disponible chez l’auteur à Verceil et chez le libraire parisien Lenormant. On peut ainsi tout d’abord imaginer que Félix Gallet étant bien introduit à Verceil et cette ville possédant à cette époque deux imprimeries actives, Ceretti et de Panialis, il ait fait imprimer son arbre, déjà gravé à Genève, sur place à Verceil. Cependant une typographie semblable à celle de son arbre ne semble jamais avoir été produite à Verceil à cette époque59. L’hypothèse parisienne, à savoir une impression effectuée par Lenormant qui ne se contentait pas d’être libraire, mais aussi imprimeur (voir par exemple note 17), nous paraît donc la plus probable, d’autant que ce même Lenormant devait déjà connaître Félix Gallet pour avoir distribué sa Grammaire française dès 1801. “Journal général de la littérature de France”, Dixième année, 6eme Cahier, 1807, Paris, p. 185. “Arbre généalogique des langues mortes et vivantes, accompagné d’une explication dressée d’après les principes du monde primitif sur la génération des langues; par Folin [sic] Gallet, gravé par Geisler de Genève. A Verceil, chez l’Auteur; à Paris, chez Lenormant. 1fr. 50c. Cet arbre, ainsi divisé, fait connaître au premier coup-d’œil l’origine des langues, leur ancienneté relative et leur analogie”. 59 Comm. pers. de Giorgio Tibaldeschi, suivant l’avis du prof. Giovanni Ferraris, expert de la typographie des imprimeries de Verceil. 58 129 Gilles André Une telle impression à Paris serait d’ailleurs conforme à une indication fournie incidemment par Jauffret en 1820 qui écrit dans “La Ruche provençale” (voir note 45): ”M. Félix Gallet, contrôleur des postes à Marseille, a publié, pendant son séjour à Paris, un Arbre généalogique des langues mortes et vivantes […] On trouve des exemplaires de l’Arbre généalogique des langues chez l’auteur, rue d’Aubagne, n° 78, à Marseille”. Ainsi, son Arbre qui était encore disponible à Marseille dans les années 1820, aurait pu être publié à Paris lors d’un séjour, dont nous n’avons pu découvrir la trace, qu’y aurait effectué Félix Gallet vers 1807. 130 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Bibliographie Augier 1801 Augustin Augier, Essai d’une nouvelle classification des végétaux […], Bruyset ainé et comp., Lyon 1801. Auroux, Désirat, Hordé 1982 Sylvain Auroux, Claude Désirat, Tristan Hordé, Les idéologues et les sciences du langage: bibliographie, in “Histoire Epistémologie Langage”, Vol. 4, N° 1, 1982, pp. 145-170. Auroux 1989 Sylvain Auroux, Histoire des idées linguistiques: Tome 3, L’hégémonie du comparatisme, Hayen 1989. Auroux 1990 Sylvain Auroux, Representation and the place of linguistic change before comparative grammar, in “Leibniz, Humboldt, and the Origins of Comparativism”, ed. T. De Mauro e L. Formigari, Amsterdam/Philadelphia 1990, pp. 231-238. Auroux 2013 Sylvain Auroux, The origin of language as seen by eighteenth-century philosophy, in “New Perspectives on the Origins of Language”, ed. C. Lefebvre, B. Comrie, H. Cohen, Amsterdam 2013, pp. 31-52. Court de Gebelin 1773-1782 Antoine Court de Gebelin, Le Monde primitif analysé et comparé avec le monde moderne considéré dans son génie allégorique et dans les allégories auxquelles conduisit ce génie, Paris 1773-1782. Dieuset 1837 Jacques-Jean-Baptiste Dieuset, Rapport sur un mémoire de M. Gallet, sous-inspecteur en retraite intitulé: Coup-d’œil statistique sur les postes chez tous les peuples de la terre, in “Répertoire des travaux de la société de statistique de Marseille”, tome 1, Marseille 1837, pp. 366-374. Ersch 1806 Johann Samuel Ersch, La France littéraire […]. Second supplement […], Hambourg 1806. Gallet 1801 Félix Gallet, La grammaire française par tableaux analytiques et raisonnés, soumis à l’examen de L’Institut national, J. J. Fuchs, Paris 1801. Gallet 1837 Félix Gallet, Statistique du bureau des postes de Marseille, pendant une période de 10 années, in “Répertoire des travaux de la société de statistique de Marseille”, tome 1, Marseille 1837, pp. 351-365. Gallet 1847a Félix Gallet, Précis historique sur l’Origine des Postes - Epoque de leur introduction en France - Modifications et améliorations successives dans cet important service, in “Répertoire des travaux de la société de statistique de Marseille”, tome 11, Marseille 1847, pp. 254-288. 131 Gilles André Gallet 1847b Félix Gallet, Statistique générale des Postes, accompagnée de notes historiques et étymologiques, in “Répertoire des travaux de la société de statistique de Marseille”, tome 11, Marseille 1847, pp. 288-348. Jauffret 1820 Louis François Jauffret, La Ruche provençale, recueil littéraire, vol. 3, Marseille 1820. Hellström - André - Philippe 2017 Nils Petter Hellström, Gilles André, Marc Philippe, Life and works of Augustin Augier de Favas (1758-1825), author of “Arbre botanique” (1801), in “Archives of natural history”, vol. 44 (1), 2017, pp. 43-62. Sigrist 1999 René Sigrist, Entre métier et vocation: itinéraire d’un chercheur autodidacte, in “Louis Jurine, chirurgien et naturaliste (1751-1819)”, ed. R. Sigrist, V. Barras, M. Ratcliff, Genève 1999, pp. 11-52. Tournon 1791 Antoine Tournon, Révolutions de Paris, dédiées à la nation […], 1791, N° 147. 132 Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues Riassunto Lo studio prende in esame la vita e l’attività poliedrica di Félix Gallet, nato nel 1773 a Châteauneuf-sur-Loire (nel dipartimento del Loiret) e morto a Marsiglia intorno al 1845, impiegato quale funzionario del servizio postale francese nel nuovo Dipartimento della Sesia (1804), la cui figura è stata finora pressoché sconosciuta. Penultimo della sua numerosa famiglia, Félix Gallet dimostra di saper scrivere già a nove anni e nel 1791-1793 si trova ad esercitare la carica di segretario e cancelliere nel comune di Baule (Loiret) da dove indirizza una lettera aperta carica di ideali rivoluzionari. Entrato nell’amministrazione pubblica, esercita per almeno un quarantennio le funzioni di dirigente delle Poste a Parigi e altrove, con l’incarico di tenere i rapporti con le armate francesi durante le lunghe campagne di guerra. Trasferito a Ginevra dal 1798 al 1804, pubblica “La grammaire française par tableaux analytiques et raisonnés” (1801) che richiama l’attenzione di periodici, librai ed eminenti professori. Nel maggio del 1804 è trasferito a Vercelli (qui proporrà, invano, di aprire anche un ufficio postale a Gattinara), sostituendo nella carica il corrotto e non meglio identificato “Mayno figlio” e dirigendo con abilità l’ufficio. Dopo due anni e mezzo di soggiorno, a Vercelli sposa Ferdinanda Porro (21 novembre 1806), da cui avrà diversi figli, continunado a mantenere l’impiego qualche tempo dopo la Restaurazione. Durante il soggiorno vercellese, con ogni probabilità, elabora un curioso e innovativo “Arbre généalogique des langues mortes et vivantes” su una grande tavola di rame di cui esistono pochissimi esemplari. Con la Restaurazione, il Gallet lascia Vercelli con la sua famiglia e ritorna dapprima a Baule, nuovamente addetto ai servizi postali e poi ancora a Marsiglia dove nasce il suo ultimo figlio e dove dà alle stampe un dettagliato rapporto statistico sull’attività postale (1837 e 1847). Lì conclude la sua vita di impiegato modello, ma anche di uomo curioso, viaggiatore, intraprendente, aperto alla cultura, studioso di grammatica, linguistica, statistica, storia. Abstract This article analizes the life and works of Félix Gallet (Châteauneufsur-Loire 1773 - Marseille about 1845). He was an office worker at the French postal service, in the Dipartimento of the Sesia (1804). Before 133 Gilles André this work position he fulfilled several functions inside the French public administration. During his life, he published several books: La grammaire française par tableaux analytiques et raisonnés (Genève, 1801); Arbre généalogique des langues mortes et vivantes (probably Vercelli), an innovative and particular genealogical tree survived on very few specimens. He was an model employee, but also a curious man, traveler, grammar scholar, linguistic, statistic and history. gilles.andre7@wanadoo.fr 134 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione L’ORGANO STORICO BRUNA 1785 - ALETTI 1880 DI MIAGLIANO. RECENTI AGGIORNAMENTI SUL FRONTE DOCUMENTARIO* 1. Introduzione e obiettivi del lavoro Sono trascorsi 37 anni da quando, il 20 luglio 1980, l’organo Bruna della Chiesa Parrocchiale di Sant’Antonio Abate di Miagliano (BI) fu suonato per la prima volta dopo i lavori di restauro conservativo condotti a termine da Italo Marzi di San Maurizio d’Opaglio (NO). Di tale evento rimane una pubblicazione sulla famiglia organaria dei Bruna1 ed il programma del concerto inaugurale tenuto dal Maestro Arturo Sacchetti. La serata fu memorabile poiché venne principalmente concepita su musiche dell’800 italiano assai brillanti: Sacchetti suonò infatti brani di G. S. Mayr, G. Morandi, Padre Davide da Bergamo, G. Damiani, senza tuttavia dimenticare autori più consoni all’ispirazione musicale a cavallo tra il XIX ed il XX secolo come M. E. Bossi e F. Capocci. All’epoca questo particolare periodo della musica organistica italiana era poco noto e il concerto servì da stimolo per approfondirne la conoscenza. Negli anni successivi nacque l’idea di intervenire nuovamente sullo strumento miaglianese ma in modo più completo e filologico, tale cioè da ricondurne le sonorità, fortemente temperate nel 1923 dall’intervento riformatore di Giulio Manzoni, ai fasti dell’epoca di origine. Alla fine del 2008 si propose un restauro di questo tipo per riportare a Miagliano la musica dell’800 italiano suonata su di uno strumento il più vicino possibile a quello originale di quasi due secoli addietro. L’opera di restauro filologico dell’organo Bruna 1785 - Aletti 1880 è stata condotta a termine, in due fasi distinte, 2014 e 2017, dall’atelier Marzi Italo snc di Stefano, Marco e Giovanni Marzi di Pogno (NO), i figli di quell’Italo Marzi che vi pose mano nel 1980. Benedetto con lo specifico rituale da Mons. Gabriele Mana Vescovo di Biella il 4 ottobre 2014 ed inaugurato dal Maestro Giuseppe Radini, lo strumento è ora restaurato in modo completo * Gli autori ringraziano sentitamente il Parroco di Miagliano, don Renato Bertolla, per aver loro consentito l’accesso alla documentazione conservata nell’Archivio Parrocchiale e il Sig. Massimo Buratti per la collaborazione nelle varie fasi della ricerca. 1 Galazzo 1980. 135 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione tanto da essere stato inserito nel Festival degli Storici Organi Biellesi 2015 sotto la direzione artistica del Maestro Mario Duella (Fig. 1). Con questa pubblicazione vogliamo rettificare e completare, sulla base di recenti e dettagliate indagini archivistiche, alcune informazioni precedentemente pubblicate e risultate poi inesatte, offrendo al lettore una storia completa dell’Organo Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano. 2. Fonti archivistiche Le principali informazioni a disposizione sono rintracciabili partendo dal Libro dei Conti, conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, in particolare nei due volumi iniziali: il primo riporta le annotazioni dal 1780 al 18172 e sarà chiamato “Libro dei conti I” ed il secondo le elenca dal 1818 al 18823 e sarà chiamato “Libro dei Conti II”. Tale libro, organizzato in Caricamenti e Scaricamenti annotati cronologicamente e molto dettagliatamente nell’ambito dell’amministrazione parrocchiale, espone ogni singola voce di incasso e di pagamento consentendo di comprendere con notevole chiarezza lo svolgersi degli eventi. La lettura di tali volumi è inoltre di interesse per i fatti storici, leggeri o drammatici, che vengono alla luce, come lo sparo di mortaretti in occasione della visita pastorale del Vescovo o della festa patronale, il pagamento di piccole contribuzioni a famiglie di Calvinisti o Ebrei che si convertono alla Santa Fede, l’acquisto di olio d’oliva per lubrificare l’orologio del campanile, le funzioni celebrate per propiziare la fine del cattivo tempo, dei malanni degli animali o dei morbi epidemici come colera-morbus4. In quest’ottica si inseriscono in più occasioni anche gli acquisti di topico, rimedio, pasta arsenica o di Arsenico per far morire i topi nell’Organo o nella Chiesa e che paiono particolarmente aggressivi nel 18745. Alcune altre informazioni sono poi desumibili da quanto annotato 2 Libro dei Conti I, con titolo indicato sulla prima pagina: Libro in cui sono registrati i conti dell’entrata ed uscita di questa Chiesa parrochiale di Miagliano sotto il titolo di S. Antonio Abbate incominciato dall’erezione della parrochia essendo il primo parroco il Sig. D. Andrea Ferri di Tolegno. 3 Libro dei Conti II, con titolo indicato sulla prima pagina: Libro II Dell’esatto per questa chiesa Parrochiale di Miagliano sotto il titolo di S. Antonio Abbate incomminciato colla resa de’ conti del presente anno del Signore 1818. 4 Libro dei Conti II, p. 132, 24 agosto 1835. 5 Libro dei Conti II, p. 284, 5 ottobre e 21 dicembre 1874. 136 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano 137 Fig. 1 Miagliano, Chiesa Parrocchiale di Sant’Antonio Abate, Organo Bruna 1785 - Aletti 1880. Foto Mario Raviglione. Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione sul Libro degli Ordinati (anch’esso conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano), istituito dopo l’ordinanza del Vescovo di Vercelli Giovanni Battista Canaveri in data 21 marzo 18076. Su di esso troviamo i verbali delle riunioni dell’amministrazione in cui si stabiliscono nomine, interventi sugli immobili della Parrocchia, attribuzione di stipendi (come a Giacinto Bruna nelle funzioni di organista, 28 febbraio 1819)7, costruzione di nuove strutture ed arredi per la chiesa (come con l’accettazione da parte dello scultore Pietro Antonio Serpentiere per la costruzione del baldacchino, 27 settembre 1812)8 ed altro ancora. Infine dati preziosi sono direttamente disponibili nella consultazione di documenti originali come ricevute e quietanze di pagamento, contratti, lettere scambiate con l’amministrazione e simili e che diverranno fondamentali per la comprensione degli interventi sull’organo, ma solo a partire dalla fine dell’800. Ciascun documento è inserito in una specifica cartellina e l’insieme è interamente conservato nell’Archivio Parrocchiale. 3. Storia dello strumento rivisitata sulla base delle nuove acquisizioni In questa sezione, riportiamo i dati più recenti desunti dall’esame della documentazione conservata presso l’Archivio Parrocchiale di Miagliano: collocazione iniziale del 1785, ricollocazione del 1805, intervento del 1848, ricostruzione del 1880, riforma del 1923, restauro del 1980 e restauro filologico del 2014-2017. 3.1 Collocazione iniziale - 1785 Il pregevole strumento di Miagliano fu costruito nel 1785 (e dunque circa 6 anni dopo la fondazione della Parrocchia di Sant’Antonio Abate)9 Bolla originale applicata all’inizio del Libro degli Ordinati. Libro degli Ordinati, p. 27. 8 Libro degli Ordinati, p. 13, Processo verbale d’accettazione per la formazione del baldacchino deliberato al Sig. Serpentiero scultore e Deffabianis indoratore. 9 Libro dei Conti I, p. 37, 7 giugno 1782, Memoria, e notazione Capo sesto. Dall’erezione della parrochiale sotto il titolo di S. Antonio Abbate di questo luogo seguita in dipendenza di sentenza della Curia Vescovile di Biella sotto li 23 marzo 1779 […]. Il 23 marzo 1779 venne anche nominato da mons. Giulio Cesare Viancini il primo parroco di Miagliano don Andrea Ferro di Tollegno (BI). Il decreto di erezione della Parrocchia e la nomina del parroco furono poi sospesi a fronte del ricorso in opposizione dell’Arciprete di Andorno presso la Curia Metropolitana di Torino. In data 18 dicembre 1779 l’Arcivescovo di Torino mons. Vittorio 6 7 138 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano dall’antica e prestigiosa famiglia organaria Bruna nella figura di Giovanni Battista, figlio primogenito di Pietro Antonio e Margherita Bagnasacco. L’opera si inserisce tra i primi strumenti realizzati e in particolare tra l’organo di Biella-Vandorno (1784) e quello di Andorno Micca-San Giuseppe di Casto (BI) (1786)10. Purtroppo della costruzione originale non si conoscono i dettagli strutturali e fonici mancando documentazioni quali capitolazioni, progetti e dichiarazioni di collaudo. Da un documento redatto dall’amministratore Giovanni Livorno e datato 13 gennaio 1787, apprendiamo che il costo pattuito per la costruzione dello strumento fu, nel 1785, di 700 Lire di Piemonte pagate negli anni successivi in decine di acconti e modalità. L’Amministrazione non viveva infatti momenti finanziariamente floridi stante la recentissima istituzione della Parrocchia, pertanto l’organaro venne pagato anche mediante la cessione di materiali e beni come le fuselle o matasse di filo offerte da numerose signore del paese11. Per sopperire alla carenza di fondi dovuta agli scarni pagamenti, frammentari e dilazionati, che gli provenivano dall’Amministrazione, Giovanni Bruna dovette anche ricorrere a finanziamenti esterni per mezzo di usurai. Si rilevano infatti dal Libro dei Conti almeno 4 pagamenti effettuati dall’Amministrazione stessa all’Ebreo di Biella (19 febbraio e 22 dicembre 1788, 27 aprile e 7 settembre 1789)12, due dei quali sicuramente per conto dell’organaro. Il saldo del dovuto al Bruna avvenne il 12 ed il 20 febbraio 180013: Li 12 febbraio 1800 all’Organaro Giovanni Bruna per la Capitolazione antica del vecchio Organo Lire 16,13,4 Li 20 febbraio 1800 al medesimo. Per saldo, come da quittanza Lire 50 La costruzione dell’organo richiedette l’intervento di numerosi minusieri, decoratori e scultori per realizzare ed ornare cassa e cantoria, o orchestra, non- Gaetano Costa d’Arignano rigettò il ricorso e confermò la sentenza di fondazione emessa da Mons. Viancini (Lebole 1987, pp. 657, 658, 659, 661). 10 Giacometto 1997, p. 163. 11 Lebole 1987, p. 676. 12 Libro dei Conti I, pp. 66, 67, 70, 71. 13 Libro dei Conti I, p. 101. 139 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione ché fornitori di legname in assi e del necessario per il completamento del lavoro. Riportiamo di seguito alcune delle numerose annotazioni in merito acquisite dal Libro dei Conti I che offrono un panorama degli artigiani intervenuti: Li 22 febbraio 1785 a Pietro Galletta per assi per l’Organo Lire 6 Li 24 febbraio 1785 ad Antonio Recanzone per assi per l’organo Lire 27,12,2 Lo stesso giorno a Martino Falcone per assi Lire 16,5 Lo stesso giorno a Giovanni Gabogna per assi Lire 4,6,8 Li 27 febbraio 1785 ad Antonio Galletta Lire 714 Li 14 marzo 1785 ha dato a Giovanni Molinaro compagno del detto Giovanni Livorno per la fattura della cassia degli Organi Lire 2,2,615 3 dicembre 1785 al mastro Giacchetto di Tolegno per fattura all’Organo Lire 3,1016 Li 22 agosto 1786 per condotta della scoltura dell’Organo Lire 2,12,2 Li 2 novembre 1786 ho pagato al scultore p un obbligo Giacomo Virla per la scultura dell’Organo Lire 32,10,1017 Li 16 febbraio 1788 ha rimborsato al Sig. Preposto che aveva pagato il Sig. Virla scultore Lire 32 Anche costoro, in particolare i minusieri Giovanni Molinaro e Giovanni Livorno e lo scultore Giacomo Virla che costruirono e decorarono cassa e cantoria, dovettero lungamente attendere dall’Amministrazione il saldo di quanto loro dovuto. 3.2 Collocazione del 1805 Come si è precedentemente accennato, Giovanni Bruna ricevette il saldo di quanto spettante per la realizzazione dell’organo del 1785 il 12 ed il 20 14 15 16 17 Libro dei Conti I, p. 51. Libro dei Conti I, p. 53. Libro dei Conti I, p. 52. Libro dei Conti I, p. 59. 140 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano febbraio 180018. In quell’occasione appare evidente come l’Amministrazione Parrocchiale (con ogni probabilità su sollecitazione dello stesso organaro) stesse pensando ad un nuovo organo o, quantomeno, alla ristrutturazione di quello esistente. Infatti, il 12 febbraio 1800, si annota che il pagamento a Giovanni Bruna avvenne per la Capitolazione antica del vecchio Organo e la formula appare maggiormente chiara quando il 20 dicembre 1800 Bruna ricevette un primo acconto a fronte di una nuova realizzazione: 20 dicembre 1800 All’Organaro Gio Bruna in conto del nuovo Organo come da Capitolazione Lire 2519 In entrambe le occasioni si parla di Capitolazione il che farebbe supporre la presenza di documenti a dettagliare quanto si andrà a realizzare, documenti che sarebbero oggi di estremo interesse consentendoci forse di svelare la disposizione fonica originale. Trascorreranno cinque anni dall’acconto pagato prima che l’opera venga realizzata a causa dei tanti lavori intrapresi dai Bruna nei primi anni del secolo. I dettagli dei successivi pagamenti vengono infatti rilevati sul Libro dei Conti I solo dalla fine del 1805. Appare comunque evidente come l’Amministrazione abbia atteso prudentemente il momento adatto per non incorrere nuovamente in problemi di ordine finanziario come sperimentato nei primi anni di gestione della recente parrocchia. I lavori che comportarono lo smantellamento ed il ripristino dell’Organo (un vero nuovo organo) avvennero per opera di Giovanni Bruna e del fratello Giacinto i quali collaborarono sin dai primissimi anni di attività e firmarono congiuntamente le loro realizzazioni già dalla metà degli anni ’90 del ‘700. La nuova cassa venne invece realizzata dal minusiere Galetta di Miagliano e impreziosita da alcune sculture di Pietro Antonio Serpentiere20 di Sagliano Micca al quale si pagarono Lire 7,10, una cifra assai modesta. Libro dei Conti I, p. 101. Libro dei Conti I, p. 102. 20 Pietro Antonio Serpentiere (1732-1814), penultimo figlio di Carlo Gaspare, fu l’ultimo e più noto rappresentante di una famiglia saglianese che diede i natali a numerosi “mastri legnamari”, intagliatori e scultori in legno fin dalla metà del XVI secolo. In molte chiese biellesi ed in alcune anche del Monferrato e Canavese, sono presenti preziose sculture in legno ma anche una quantità di arredi realizzati dai Serpentiere. Per approfondimenti si vedano Forzini 1964, pp. 181-184, Lebole 2007, pp. 13-39. 18 19 141 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione 3 gennaio 1806 al Sig. Serpentiero Scultore per la Scultura della Cassia dell’Organo Lire 7.1021 Solo più tardi, nel 1809, si rilevano nuove annotazioni di pagamento in cui il Serpentiere stesso venne retribuito in modo più consistente per lavori alla bussola in fase di completamento22. In tema di lavori all’orchestra o cantoria emergono alcune interessanti informazioni inedite che permettono di meglio comprendere come tale cantoria fu impreziosita con alcune sculture in noce, il cui autore è per il momento ignoto e che fanno tuttora bella mostra di sé (Fig. 2). Partendo da un’annotazione circa una vendita da parte della parrocchia di Alice Castello ai fratelli Bruna di dodici pannelli in noce scolpiti, probabilmente l’antica cantoria risalente agli anni 1760-64, abbiamo indagato sui libri dell’Archivio Parrocchiale di Miagliano anche in questa direzione. Dai documenti di Alice Castello (VC) apprendiamo della seguente entrata: Per dodici penelli di noce scolpiti venduti alli Fratelli Bruna Lire 3023 Poco dopo troviamo sul Libro dei Conti di Miagliano un trasporto di sedie da Borgo d’Ale (VC), evento che può far supporre il simultaneo trasferimento a Miagliano anche dei pannelli della cantoria dal vicino paese di Alice Castello. Nello stesso mese il Serpentiere venne retribuito mentre operava sulla bussola per cifre molto vicine alla spesa sostenuta dal Bruna ad Alice: 13 marzo 1809 per condotte delle Sedie dal Borgo d’Ale Lire 8,10 30 marzo 1809 allo scultore per travaglii nella Bussola Lire 30 31 marzo 1809 al medesimo Serpentiero Lire 2024 Libro dei Conti I, p. 110. Libro degli Ordinati, p. 7, 20 settembre 1808: Verbale di deliberazione per la formazione d’una nuova Bussola alla Porta Maggiore di questa Chiesa Parochiale. 21 22 L’annotazione ci viene segnalata da Adriano Giacometto in una comunicazione personale del gennaio 2016 con la seguente collocazione: Archivio Parrocchiale di Alice Castello (VC), Libro dei conti, 1801-1812, Spese dell’Organo, s.d. (post 24 dicembre 1808), probabilmente inizi 1809. 23 24 Libro dei Conti I, p. 120. 142 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano 143 Fig. 2 Gruppo centrale delle sculture che ornano la cantoria di Miagliano; esse provengono dagli arredi dell’antica parrocchiale di Alice Castello e risalgono probabilmente al 1760-64. Foto Fabrizio Boggio. Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Abbiamo tuttavia la certezza dello svolgersi degli eventi quando, molto più tardi, nel 1814-1815 rileviamo a Miagliano una voce di spesa che non lascia alcun dubbio: a Giacinto Bruna per il Parapetto dell’orchestra organo che il medesimo aveva provisto in alice Lire 1025 (Fig. 3). Le dodici formelle in legno scolpito che ornano il parapetto della cantoria di Sant’Antonio Abate dunque non furono realizzate dal Serpentiere in occasione della costruzione della bussola come ritenuto erroneamente sinora26, ma costituirono parte degli antichi arredi della parrocchiale di Alice Castello, risalenti al 1760-64 e il cui autore ci è attualmente ignoto. È verosimile che i Bruna avessero operato su commissione dello stesso Serpentiere27 il quale le avrebbe poi fatte installare durante i lavori in corso a Miagliano nel 1809. Si può facilmente notare come le formelle scolpite siano state solo adattate allo spazio disponibile e non costruite su misura; infatti, la dodicesima (l’ultima a destra fronteggiando l’organo) compare solo parzialmente per riempire lo spazio altrimenti scoperto (Fig. 4). Tornando a focalizzarci sull’organo, di seguito possiamo leggere nel dettaglio le spese sostenute in occasione della ricollocazione del 1805: Libro dei Conti I, p. 134, la nota è priva di data ma questa si deduce dalle uscite comprese tra il 4 luglio 1814 ed il 16 luglio 1815. 26 Galazzo 2014, p. 25. Lebole 1987, p. 676, afferma in modo vago che in occasione della scultura dei bassorilievi destinati alla bussola il Serpentiere “dovette eseguire anche alcuni ornamenti per l’Orchestra”. Più tardi Lebole 2007, pp. 13-39, nelle pagine in cui elenca i lavori dei Serpentiere nel biellese, non cita alcuna decorazione della cantoria nell’elenco concernente Miagliano. 27 I Bruna conoscevano molto bene la realtà di Alice Castello (VC) ove Giovanni e Giacinto costruirono il monumentale organo della parrocchiale di S. Nicolao Vescovo. I lavori sullo strumento iniziarono nel marzo 1803 e terminarono, dopo alterne vicende di ampliamenti e modifiche, alla fine del 1807. La cassa fu disegnata da Pietro Antonio Serpentiere che ne scolpì le decorazioni e i putti con tromba sonante analogamente a quanto realizzato a Montanaro (TO). La collaborazione tra gli artisti fu molto spesso assai stretta. Per approfondimenti si veda Cagliano - Salussolia 2002. 25 144 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 3 Miagliano, Archivio Parrocchiale, Libro dei Conti I, pag. 134. Giacinto Bruna viene retribuito per l’acquisto in Alice Castello delle dodici formelle che ornano la cantoria di Miagliano. Foto Fabrizio Boggio. Riproduzione autorizzata. 145 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Pagamenti fatti per l’Organo 3 ottobre 1805 a Giovanni Bruna Organaro in contanti Lire 6 6 ottobre 1805 per assi d’albero rimessi al Giacinto Lire 18,14 7 ottobre 1805 al Sig. Bruna in contanti Lire 320 20 ottobre 1805 all’Amedeo Antoniotti per assi di suo ordine Lire 20 9 dicembre 1805 al minusiere Galetta a conto della cassa Lire 30 23 dicembre 1805 allo stesso per il medesimo effetto Lire 25 8 gennaio 1806 al Giacinto Lire 26 13 gennaio 1806 al Galetta per detta cassia Lire 25 19 gennaio 1806 allo stesso Lire 15 20 gennaio 1806 al Sig. Bruna in contanti Lire 1,10 21 gennaio 1806 al Giacinto Lire 30 11 marzo 1806 incontro con Lorenzo Gallione con ordine del Gio. Lire 23 19 marzo 1806 al Sig. Giovanni Bruna in contanti Lire 10 20 luglio 1806 allo stesso Lire 63 26 settembre 1806 a Battista Bruna per tagliamento di fieno con concorde il Sig. Bruna Organaro Lire 5 17 gennaio 1807 per un asso d’albero per la cassia Lire 0,18,6 17 gennaio 1807 per il fitto d’aqua deliberata al Giacinto Lire 4 17 gennaio 1807 per pagati alli eredi fu Nott. Vella di consenso del Gio. Lire 25 [cifra contestualmente stornata per non aver avuto caricamento e per essere già stata scaricata in data 20 dicembre 1800]28. 19 gennaio 1808 all’organaro Giovanni Bruna Lire 2 29 gennaio 1808 pagato al Giacinto Bruna per conto dell’Organo Lire 5029 15 febbraio 1809 al Giacinto Bruna Lire 230 Non si rilevano altri interventi sullo strumento sino al 1814 quando due note sul Libro dei Conti I, non datate ma riportate tra le uscite registrate tra 28 29 30 Libro dei Conti I, p. 112. Libro dei Conti I, p. 115. Libro dei Conti I, p. 118. 146 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 4 Le formelle scolpite provenienti da Alice Castello furono adattate alle misure della cantoria di Miagliano; la dodicesima è visibile solo parzialmente. Foto Fabrizio Boggio. 147 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione il 1 maggio 1813 ed il 16 gennaio 1814, indicano una riparazione riguardante i mantici: Pagato Giacinto Bruna per la comodura delli tre mantici dell’organo Lire 16 Pelli per comodura dell’organo e colla Lire 9,1631 3.3 L’intervento del 1848 Le informazioni disponibili sino ad oggi avevano postulato un possibile, seppur non documentato, intervento di restauro da parte di Amedeo Ramasco intorno al 1849. Tuttavia mancavano informazioni precise su questo evento. Abbiamo quindi indagato in dettaglio per cercare di giungere ad una conclusione storicamente accettabile di ciò che avvenne in realtà in quel periodo. L’evento di cui si tratta non andava tuttavia chiarito solo ai fini storici ma anche ai fini pratici inerenti il restauro filologico dello strumento di sant’Antonio Abate avvenuto tra il 2014 ed il 2017. In particolare, nella nostra riproduzione in copia dei registri ad ancia perduti nel 1923, diveniva fondamentale sapere a quale autore rifarci: Ramasco, poiché le aveva sostituite nel 1849, o Bruna, perché tale sostituzione non era mai avvenuta. Precedenti ricostruzioni degli avvenimenti avevano concluso che “Sicuramente intorno al 1849 interviene Amedeo Ramasco, allievo nonché genero di Giacinto Bruna, con un’operazione abbastanza cospicua […]. Le ance (Violoncello, Tromba, Fagotto) e le due file ulteriori di Ripieno (XXXIII e XXXVI) parrebbero più attribuibili ad Amedeo Ramasco che nell’occasione (come del resto a Tavigliano nel 1839) sostituisce forse anche il somiere32. La consultazione accurata del Libro dei Conti ci ha permesso di dare una risposta documentata divergente da questa interpretazione di quanto si sarebbe verificato nel 1849. Infatti, la ricerca ha rivelato la completa mancanza di supporti documentari a certificare un intervento Ramasco, intervento dunque che reputiamo non essere mai avvenuto. Nell’analisi delle registrazioni riportate sul Libro dei Conti II, il 17 gennaio 1837 compare per la prima volta la figura dell’organaro Giuseppe Cesa presente a Miagliano almeno dal 1836. Costui viene pagato anche nelle ve- 31 32 Libro dei Conti I, p. 131. Galazzo 2014, p. 26. 148 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano sti di organista nella chiesa di Sant’Antonio Abate dove sembra subentrare a Giacinto Bruna nell’anno della morte di quest’ultimo: 17 gennaio 1837 Al sig. Cesa organista pel suono dell’organo nella solennità del Titolare ed agli altri cantori ho pagato Lire 7,10 12 febbraio 1837 per stipendio dovuto al sig. Giuseppe Cesa per il suono dell’organo nello scorso anno 1836 pagai Lire 3033 (Fig. 5). 26 febbraio 1838 a Giuseppe Cesa per sua mercede del suono dell’Organo Lire 30,0034 10 febbraio 1839 a Giuseppe Cesa per suo stipendio pel suono dell’organo e per la cordatura del medesimo lungo dell’anno Lire 30 26 novembre 1839 pagato a Giuseppe Cesa organista franchi 30 per suo stipendio del suono dell’Organo, e franchi 6 per riparazione e cordatura del medesimo maturande nel 1840 e gli sono anticipate Lire 36,0035 18 gennaio 1840 dato a Giuseppe Cesa organista pel suono dell’organo nella festa di S. Antonio Lire 536 7 marzo 1841 pagato a Giuseppe Cesa pel suono dell’organo Lire 30 4 aprile 1841 a Giuseppe Cesa Organaro per riparazioni fatte sul Organo lungo lo scorso anno Lire 20,0037 17 gennaio 1842 a Giuseppe Cesa organista per accompagnare il canto Lire 5,00 8 marzo 1842 a Giuseppe Cesa organista per il suo stipendio Lire 3038. Giuseppe Natale Cesa è una figura dell’organaria valsesiana. Nato a Cervarolo (VC) nel 1802, figlio di Carlo Antonio e Angela Maria Bracchinetti, entrambi contadini, sposò Serafina De-Filippi e intorno al 1830 iniziò a lavorare in sodalizio con il collega più anziano Giuseppe Patarelli. Dopo alcuni anni, come vedremo anche in seguito, trascorsi dal Cesa nel biellese a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, nel 1847 insieme costruirono lo strumento 33 34 35 36 37 38 Libro dei Conti II, p. 147. Libro dei Conti II, p. 151. Libro dei Conti II, p. 153. Libro dei Conti II, p. 155. Libro dei Conti II, p. 158. Libro dei Conti II, p. 163. 149 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione della chiesa parrocchiale di San Giuseppe di Rima cui venne attribuito dagli autori il numero 1739. Giuseppe Cesa iniziò ad operare in piena autonomia dopo il 1848, quando venne meno la collaborazione con il Patarelli, portando a compimento una serie di riparazioni, ricostruzioni ed anche nuovi strumenti sia in Valsesia che in Valle d’Aosta. Sembrano opera interamente sua, tra gli altri, gli strumenti della parrocchiale di Saint Pierre in Valle d’Aosta (1852) e delle parrocchiali di Cervatto (VC) (1854), Locarno (VC) (1859) e Crosa di Varallo (VC) (data non attribuibile)40. Morì nella natia Cervarolo il 14 settembre 1888 alla veneranda età di 86 anni. È lecito supporre che Cesa abbia dimorato stabilmente a Miagliano almeno fino al 1842 quando cessò le sue funzioni di organista e venne pagato a saldo: 29 ottobre 1843 a Giuseppe Cesa per saldo suo stipendio di mezza annata da organista per l’anno scorso Lire 15,1541 Gli subentrò Michele Ramasco fino al 18 febbraio 1844 data in cui terminò il suo servizio intervenendo come organista stabile Simone Tamaroglio di Tollegno (BI). Quest’ultimo venne anche incaricato dall’Amministrazione di curare la preparazione di due giovani del luogo dando lezioni ai signori Gallione Lorenzo di Alberto e Bruna Lorenzo di Antonio per abilitarli a suonare l’organo42. Costoro saranno entrambi operativi e retribuiti nel 184743 e, dei due, Lorenzo Gallione rimarrà in servizio per trent’anni fin quando lascerà la tastiera a Giovanni Ceppo44: 7 febbrajo 1844 al Sig. Michele Ramasco organista per saldo suo stipendio dell’anno 1843 pel suono dell’Organo Lire 55,0045 Galazzo 1990, p. 339. Organi e Organari in Valsesia, Quattrocento anni di attività organaria, 1997, pp. 47 e 135, Galazzo 1990, p. 339, Galazzo 2003, p. 66. 41 Libro dei Conti II, p. 168. 42 Libro dei Conti II, p. 176. 43 Libro dei Conti II, p. 190, 31 dicembre 1848. 44 Libro dei Conti II, p. 301, 4 febbraio e 29 aprile 1877. 45 Libro dei Conti II, p. 171. 39 40 150 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 5 Miagliano, Archivio Parrocchiale, Libro dei Conti II, pag. 147. Compare a Miagliano la figura dell’organaro valsesiano Giuseppe Natale Cesa; nei primi mesi del 1837 fu retribuito come organista a Sant’Antonio Abate. Foto Fabrizio Boggio. Riproduzione autorizzata. 151 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione 28 aprile 1845 si pagò al sig. Michele Ramasco organista per saldo del suo stipendio dal 24 dicembre 1843 fino alli 18 febbrajo 1844, in cui cessò di servire Lire 10,1046 L’ipotesi più verosimile è che il Cesa avesse già lavorato con Giacinto Bruna per poi passare alle dipendenze di Amedeo Ramasco che ne rilevò il laboratorio, attivo senza soluzioni di continuità, alla morte del Bruna stesso avvenuta il 6 febbraio 183647. Ciò che sappiamo per certo è che Cesa venne citato anche da don Zerbino parroco di Tavigliano (BI) come “garzone” del Ramasco il 10 maggio 1839, quando entrambi furono suoi ospiti per il pranzo48. Acquistata dunque la fiducia dei miaglianesi, l’organaro curò la manutenzione del loro strumento anche dopo aver lasciato il Biellese per tornare a Varallo (VC). Stando alle testimonianze che riscontreremo in seguito, questo valsesiano sembra essere stato l’unico interlocutore della Parrocchia di Miagliano in tema di organi per almeno 35 anni. All’inizio del 1848 l’Amministrazione Parrocchiale di Miagliano rilevò la necessità di intervenire sull’organo che, dopo 43 anni dall’ultimo importante intervento Bruna, non aveva più subito revisioni generali e necessitava, evidentemente, di attenzioni di rilievo. Il Libro dei Conti ci dice che per tale incombenza venne nuovamente contattato il Cesa che, nel frattempo, lavorava stabilmente a Varallo in collaborazione con Giuseppe Patarelli. Il 21 aprile 1848 per porto d’una lettera al Organaro Cesa di Varallo Lire 0.2049 Si conferma dunque che tra l’Amministrazione e l’organaro valsesiano si venne a creare un rapporto di fiducia e sintonia dato che, nell’occasione, non vennero incaricati i Ramasco che pure erano di casa seppure con gravosi impegni. Nel 1848, infatti, Amedeo Ramasco ebbe l’incarico di costruire il grande organo della Chiesa della B. V. Assunta di Bioglio (BI), uno strumento imponente di 16’, 40 registri e due tastiere che certamente ebbe 46 47 48 49 Libro dei Conti II, p. 175. Libro dei Conti II, p. 138, 28 febbraio e 3 aprile 1836. Galazzo 2003, p. 37. Libro dei Conti II, p. 188. 152 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano ad impegnarlo per l’intera annata50. In seguito, nel novembre dello stesso anno, il Ramasco stesso firmò il contratto per l’organo di Aymaville (AO) che avrebbe poi realizzato nella primavera dell’anno successivo. Sta di fatto che il lavoro da eseguirsi a Miagliano venne assegnato a Giuseppe Natale Cesa che lo portò a compimento tra il 2 ed il 23 settembre 1848 assistito dal collega Patarelli. Il Libro dei Conti continua ad elencare con precisione le spese sostenute (Fig. 6 e Fig. 7): 7 settembre 1848 speso per rasi trenta sei di tela Gialla per fare i tre tendoni nella faciata della cassa dell’Organo e per fodera di due continenze a soldi 9 cadun raso importa Lire 16,20 7 settembre 1848 una libra di filo di ferro per gli organari Lire 0,55 piu per cambiare le corde dei mantici Lire 3,00 piu per un penello ad uso degli organari Lire 0,75 7 settembre 1848 al Sig. Rapis per libre 4 di color rosso pei contrabassi, e mantici e soldi sei gesso morto in tutto speso Lire 1,7051 9 settembre 1848 per tela di cottonina bianca per otturare le fissure interne nella cassa dell’Organo per preservarlo dalla polvere rasi 12 a soldi quattro caduno importa Lire 2,40 11 settembre 1848 assestato il conto con Giuseppe Canova d’Andorno per colla chiodi ed altre merci impiegate nelle riparazioni dell’Organo in tutto rileva Lire 6,00 14 settembre 1848 a Giovanni Faletti per assi di abete per far un contra basso nuovo ed altre riparazioni piedi 28 Lire 4,20 24 settembre 1848 pagato al Sig. Giuseppe Cesa Organaro per sua mano d’opera per le varie riparazioni nel ripullire l’Organo, che cominciarono esso, e suo garzone li 2 settembre e terminarono li 23 soldi 20 Lire 100,00 29 settembre 1848 pagato a conto al Sig. pittore Arienta per il lavoro nella Sacrestia e cassa dell’Organo Lire 16,00 27 ottobre 1848 al detto pitore Arienta per piturare la Sacrestia la cassa dell’Organo, lo studio ossia gabinetto della casa parrociale colorire ed inverniciare fenestre e porte della sala, ripulire varii quadri grandi coll’incona in tutto Lire 50,00 50 51 Galazzo 1990, pp. 249, 251. Libro dei Conti II, p. 188. 153 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Fig. 6 Miagliano, Archivio Parrocchiale, Libro dei Conti II, pag. 188 destra. Prime spese annotate nel 1848 a fronte dell’intervento di manutenzione e riparazione dell’organo di Miagliano ad opera di Giuseppe Natale Cesa. Foto Fabrizio Boggio. Riproduzione autorizzata. 154 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 7 Miagliano, Archivio Parrocchiale, Libro dei Conti II, pag. 189 sinistra. Giuseppe Natale Cesa viene retribuito L. 100 per la riparazione effettuata nel settembre 1848 in collaborazione con Giuseppe Patarelli. Foto Fabrizio Boggio. Riproduzione autorizzata. 155 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione 14 di Novembre a Lorenzo figlio d’Alberto Gallione per aver tirato i mantici ed assistito gli organari per varie comissioni in tutto Lire 8,50 26 decembre 1848 6’ per egli Sig. Prevosto somministrato la pensione per giorni 24 ai due organari Giuseppe Cesa e Patarelli Giuseppe suo lavorante mentre riparavano l’Organo a soldi 35 cadun giorno per caduno importa Lire 84,0052 [26 dicembre 1848 punto] 7’ al medesimo Sig. Prevosto per aver esso soministrato la pensione al Sig. Giovanni Arienta pittore mentre lavorava sulla sacrestia ed attorno la cassa dell’Organo l’incona e varii altri quadri e lavori nello studio attiguo alla stuffa parrochiale e dar la vernice alle porte e finestre nella sala parrochiale, accordata in Lire 40,0053 (Fig. 8). 31 dicembre 1848 Si è pagato al Sig. Giuseppe Rebora e figlii a Biella per biacca vernice copale ed altri colori e merci di diverso genere impiegati nel colorire a vernice la cassa dell’Organo […] per cui in totale si pagò Lire 56,0054 26 febbraio 1849 pagato ad Alberto Gallione per giornate fatte da minusiere nelle riparazioni della cassa dell’Organo in settembre scorso Lire 4,50 18 agosto 1849 assestato il conto con Antonio Greggio per lavori da lui fatti per la chiesa l’anno scorso cioè due patte per sostenere l’incona due crocchi ed uncini per tenere di sopra la medesima ed altri picoli lavori di sua professione per l’organo in tutto rileva Lire 3,1055. L’elenco dettagliato delle spese effettuate consente ora di stabilire con precisione l’entità dei lavori intervenuti sullo strumento. Si trattò, contrariamente a ciò che era stato ipotizzato in precedenza56, di un completo lavoro di pulizia e manutenzione generale durante il quale si resero necessarie alcune riparazioni. L’unico intervento annotato per la fonica fu la ricostruzione in tutto o in parte di un contrabbasso, registro in legno degradatosi nel tempo per l’attacco di tarli, topi ed umidità. Infatti, una spesa di Lire 100 52 53 54 55 56 Libro dei Conti II, p. 189. Libro dei Conti II, p. 189. Libro dei Conti II, p. 190. Libro dei Conti II, p. 193. Galazzo 2014, p. 26. 156 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 8 Miagliano, Archivio Parrocchiale, Libro dei Conti II, pag. 189 destra. Nel dicembre 1848 il Parroco di Miagliano viene rimborsato per le spese di pensione sostenute nel settembre 1848 per ospitare i due organari valsesiani. Foto Fabrizio Boggio. Riproduzione autorizzata. 157 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione per gli organari e l’acquisto di non ingenti quantità di materiali, non permette di supporre null’altro di sostanziale. Durante i lavori allo strumento si pose mano e si riparò anche la cassa la quale fu poi ritinteggiata ad opera del decoratore Giovanni Arienta. Ora possiamo ritenere che il dilemma sull’intervento di Amedeo Ramasco, ipotizzato per il 1849, sia stato risolto: siamo certi che nessuna ancia o altro registro in metallo sia stato sostituito, viceversa ne avremmo avuto annotazione con un incremento notevolissimo dei costi. All’epoca è infatti ipotizzabile, per un registro ad ancia per metà tastiera, un costo di circa 120-130 Lire. Nel caso in oggetto le ance presenti (Bruna) erano quattro: Fagotto bassi, Clarinette soprani, Viola bassi e Violoncello soprani. La loro completa sostituzione avrebbe comportato una spesa di almeno 450-500 Lire. La qualità, l’entità e la tipologia del legname acquistato non supporta inoltre l’ipotesi di una ricostruzione del somiere maestro, prevalentemente realizzato in eccellente e ben stagionato legno di noce con un costo a sua volta rilevante. Pertanto le ance ed il somiere che si trovarono nelle mani di Carlo Aletti, in occasione del suo restauro nel 1880, erano gli originali Bruna. Dopo l’intervento del 1848 l’organo di Miagliano non necessitò che di modeste manutenzioni alle corde per il tiro dei mantici fino al 1871, quando Giuseppe Cesa fu nuovamente contattato per una piccola serie di riparazioni: 18 agosto 1871 a Giuseppe Cesa organaro pro riparazioni fatte alli mantici ed all’Organo stesso pagato Lire 20,00 idem a Antonio Gallione fu Giovannimaria per servire detto organaro nelle dette riparazioni pagato Lire 6,0057 conti con il Sig. Prevosto 30 dicembre 1871 3 per spesa di vettura per andare a Varallo per vedere Giuseppe Cesa, e per concertare del trono della madonna Lire 5,60 [30 dicembre 1871 punto] 4 per spese fatte in detto viaggio Lire 6,80 [Ultima annotazione delle uscite del 1871]: rimborsato al Sig. parroco per aver somministrato la pensione a Giuseppe Cesa organaro mentre riparava l’Organo Lire 10,0058. 57 58 Libro dei Conti II, p. 273. Libro dei Conti II, p. 274. 158 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Da quel momento la figura di Giuseppe Natale Cesa scomparve dai libri contabili dell’Amministrazione Parrocchiale di Miagliano. Nel frattempo all’organo della chiesa di Sant’Antonio Abate non venne meno la piaga dei topi59: 5 ottobre 1874 per pasta arsenica per uccidere i topi nel Organo e friggia dei pedali dell’Organo Lire 0,70 21 dicembre 1874 rimedio per uccidere i topi in chiesa e nell’organo speso Lire 0,80. 3.4 La ricostruzione del 1880 Lo strumento fabbricato nel 1785 da Giovanni Bruna compì quasi un secolo di onorato servizio quando, nel 1880 e a cent’anni dall’istituzione della Parrocchia, l’amministrazione conscia della necessità di un profondo restauro decise di intervenire. All’inizio dell’anno l’organaro monzese Carlo Aletti, noto professionista nato a Varese nel 1820 e fondatore, nel 1849, dell’omonima fabbrica d’organi60, fu a Miagliano per valutare e concertare gli interventi possibili. 18 febbraio 1880 per aver pagato a Livorno Antonio oste per spesa fabbricante dell’Organo Lire 9,0061. Due giorni dopo, il 20 febbraio 1880, l’Aletti stese un’accurata relazione in cui propose vari possibili gradi di restauro oppure una ricostruzione che portasse lo strumento ad essere in grado di suonare secondo le esigenze dell’epoca. Così esordì Aletti: Progetto per un nuovo Organo da collocarsi nella Chiesa Parrocchiale di Miagliano L’Organo sarà messo ad uso moderno in ottava distesa da n. 58 tasti e 28 registri, adoperando dell’attuale non altro che le canne di metallo che potranno servire come nuove. Quindi, essendo l’Organo Libro dei Conti II, p. 284. Privilegiata Fabbrica d’Organi di Aletti Carlo, in Monza, Contrada di San Martino 162, come si rileva dall’intestazione della carta utilizzata per redigere il progetto di restauro. 61 Libro dei Conti II, p. 318. 59 60 159 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione in ottava corta bisogna aggiungere a tutti i registri per completare l’ottava distesa, quattro canne nel basso […] così pure si aggiungeranno quattro canne negli ultimi acuti, per mandarlo sino al la ad uso moderno,[…] essendo ora i registri attuali di sole 50 canne. Il documento originale di cui si tratta è conservato nell’Archivio Parrocchiale ed è il primo scritto che ci offra una precisa descrizione della disposizione fonica rilevata con un accurato censimento delle canne antiche riutilizzate. In tale ambito le ance vengono mantenute nella loro configurazione originale62. Qui, per la prima volta, possiamo desumere, seppure parzialmente, quale fosse in origine la disposizione fonica voluta dai Bruna. Diciamo parzialmente in quanto siamo certi che Aletti elenchi le canne che intende riutilizzare, ma è possibile che ne trascuri invece altre, eventualmente lasciate al di fuori del suo disegno. Nella sua offerta di ricostruzione, Aletti intese aggiungere alcuni nuovi registri da concerto: Timpani ai pedali con canne in legno, registro meccanico di Terza Mano, Viola nei bassi, Tromboni o Bombarde ai pedali ancora con canne in legno. Nei registri di ripieno introdusse poi un secondo Principale, bassi e soprani, infine Contrabbassi e Ottave con canne in legno. Ovviamente i somieri del Bruna, essendo in “ottava corta”, non erano di dimensioni e tipologia utilizzabili in tale ottica non potendo alimentare la fonica ampliata come propose Aletti, né tantomeno supportare i registri costruiti ex novo; per cui dovevano essere ricostruiti e nella nuova struttura del tipo “a vento”: Tutti i [nuovi] sommieri saranno eseguiti in noce e pecchia di prima qualità. L’ipotesi di ricostruzione specificò ogni dettaglio per terminare con l’offerta di un nuovo sistema di alimentazione dell’aria, ad un solo mantice di sua speciale invenzione, azionabile con semplicità mediante un singolo manubrio sistema Privilegiato dal R. Governo sino dal 1853. Il costo complessivo venne infine quantificato in L. 2.35063. Per la disposizione fonica del progetto Aletti si vedano le Appendici 1 e 2. Progetto di restauro di Carlo Aletti del 20 febbraio 1880 e conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano. 62 63 160 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Il 16 marzo 1880 l’Amministrazione Parrocchiale valutò le proposte ricevute e deliberò di scegliere la costruzione dell’organo ampliato e portato a ottava distesa, come proposto dall’organaro, chiedendo semplicemente una riduzione del prezzo a L. 2.300, un pagamento di L. 700 dopo il collaudo ed il saldo di L.1.600 in 4 rate annuali con interessi del 5%. Stranamente il Parroco parve non supportare l’iniziativa, come si legge nella lettera di accettazione: Crediamo che la S. V. non vorrà prendersela a male se non vede unito con noi il nostro Vicario qual nemico di opere da lui non progettate. Ma lei non ha che fare che coi qui sottoscritti amministratori. Le firme furono di Bruna Giusto fu Giovanni [illeggibile] Ministro, Bruna Angelo priore de soffraggio, Gallione Alberto priore del corpu domine, Livorno Antonio muratore Tesoriere del legato Mantello64. Con estrema prontezza, il 18 marzo 1880, Aletti rispose agli amministratori miaglianesi confermando il suo assenso ad agire al meglio ed accettando le condizioni di pagamento proposte65. I lavori si svolsero nell’estate 1880 quando rileviamo sul Libro dei Conti II i primi pagamenti per le operazioni necessarie al cantiere mentre Aletti ricevette un acconto di L. 100 in data 20 agosto 188066, evidentemente al termine. Lo strumento venne collaudato poco dopo, il 24 agosto 1880, “dai compositori Vincenzo Capitani e dal figlio Giuseppe, quest’ultimo omonimo cugino del Maestro di Cappella della Cattedrale di Biella”67. La dichiarazione di collaudo di Vincenzo e Giuseppe Capitani costitu- Documento originale conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 65 Documento originale conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 66 Libro dei Conti II, p. 319. 67 Vincenzo Capitani (1816-1883), figura di musicista originario di Lamporo (VC), fu violinista ed organista a Livorno Ferraris (VC) per poi trasferirsi a Biella nel 1859. Nel Biellese fu spesso organista al Vandorno (BI) e a S. Giacomo del Piazzo. Esercitò il suo primo collaudo di organi nel 1880 a Miagliano insieme con il figlio Giuseppe (1843-1890), solo dopo la partenza del nipote Giuseppe al quale era affidato l’incarico ufficiale. Giuseppe di Vincenzo fu a sua volta musicista e compositore, autore di numerosi brani leggeri e ballabili di grande successo. Morì a Torino nel 1890. Per approfondimenti si veda Galazzo 2014, p. 28, Galazzo 2016, pp. 27-37. 64 161 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione isce un documento assai interessante, tuttora conservato nell’archivio parrocchiale di Miagliano e ci riferisce dettagli che consentono alcune considerazioni. Scrissero i Capitani in data 24 agosto 1880: L’antico organo fabbricato dai Bruna e poi riparato da Amedeo Ramasco era d’antico modello in sesta. Evidentemente la figura di Giuseppe Natale Cesa, che ebbe cura dell’organo almeno dal 1838 al 1871 e lo riparò nel 1848, era stata dimenticata e venne citato solo Amedeo Ramasco suo vecchio ma più famoso datore di lavoro. Ma ciò può essere probabilmente dovuto al fatto che i Capitani abbiano riconosciuto la tipologia dei cartellini dei registri che il Cesa si era procurato dal Ramasco stesso. Ci pare nondimeno doveroso rendere qui giustizia al Cesa, valido organaro valsesiano che si guadagnò appieno la stima dei miaglianesi per ben oltre un trentennio. La dichiarazione di collaudo, dopo le lodi alle capacità professionali di Carlo Aletti per l’eccellente lavoro portato a termine, prosegue con un appunto tecnico: Non si può deplorare, dopo questi, a meno di deplorare che l’egregia Amministrazione, nella impossibilità di poter disporre di somma maggiore di quella stanziata pel nuovo organo, non abbia potuto approfittare degli ottimi mezzi dell’egregio Fabbricante Carlo Aletti, per cambiarvi pure tutti gli antichi strumenti ad ancia, che sono la parte non migliore dell’organo, offrendogli così il modo di farsi una meritata riputazione di esperto fabbricante di Organi. In queste affermazioni troviamo un chiaro riferimento alle ance originali Bruna poiché definite “antiche”, quindi mai sostituite, come abbiamo peraltro provato in precedenza, nel corso del secolo. È nostra opinione, infatti, che sia alquanto inverosimile definire antiche delle ance che fossero state sostituite nel 1849 ovvero solo 31 anni prima. Per il collaudo Vincenzo Capitani venne retribuito il 6 gennaio 1881 con Lire 10,25 incluso il servizio del tiramantici68. In seguito la ditta di Monza, nella figura del figlio di Carlo Aletti, 68 Libro dei Conti II, p. 322. 162 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Giuseppe69, intervenne nuovamente sullo strumento di Miagliano per lavori di manutenzione che furono progettati il 26 marzo 189170, due giorni dopo la quietanza di saldo degli interessi dovuti dall’Amministrazione di Miagliano per la costruzione del 188071. Spolverizzatura, intonatura ed accordatura generale a tutto l’Organo, riparazioni occorrenti alla meccanica ristauro alle Canne di Metallo rovinate dai sorci, ricambio di tutte quelle non atte ad essere riadattate come nuove. I lavori furono compiuti nell’estate 1891 quando i figli di Carlo Aletti erano presenti a Biella per eseguire un intervento di riparazione e pulizia all’Organo Giacinto Bruna 1820 collocato nella Parrocchiale della Beata Vergine Assunta di Chiavazza (BI). Questo strumento era stato ricostruito dallo stesso Aletti nel 1884 con un intervento molto simile a quello eseguito a Miagliano. 3.5 La riforma del 1923 Quasi mezzo secolo più tardi, negli anni ’20 del 1900, lo strumento venne “riformato” dal lombardo Cav. Giulio Manzoni il quale aveva fama di essere un rinomato produttore di canne ad ancia e anima nonché organaro in Bergamo72. Per adeguare l’organo alle mutate esigenze in tema di musica liturgica, i registri da concerto, ed in particolare le ance, vennero rimossi in modo irrecuperabile. Essi furono sostituiti da altri di temperamento più consono ad uno stile musicale che avrebbe dovuto meglio uniformarsi alla necessaria meditazione della liturgia seguendo i nuovi canoni nel frattempo fatti propri dalla Chiesa. Si trattò di un’alterazione fondamentale delle caratteristiche dello strumento originale a seguito della reazione, spesso aggressiva, dell’organaria italiana agli eccessi che si vennero a creare nell’800 in tema di musica organistica destinata alle funzioni religiose. Basti qui ricordare come questi strumenti fossero in gran parte ideati per suonare brani Carlo Aletti si avvarrà della collaborazione dei figli fin dal 1886. Documento originale conservato nell’ Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 71 Documento originale conservato nell’ Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta e Libro dei Conti III, p. 23. 72 Primaria Fabbrica Italiana Giulio Manzoni, Forniture Organi da Chiesa, Bergamo, via S. Giacomo, 14, come si legge sulla carta intestata utilizzata per redigere il Preventivo di lavoro all’Organo. 69 70 163 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione per la liturgia che, in Italia, erano ben diversi da quanto si possa immaginare oggi, basandosi sul melodramma e la sua ispirazione, e su ritmi di danza o di marcia che rendevano particolarmente brillanti i brani che accompagnavano la Messa e le funzioni religiose dell’epoca. Ora, se è vero che le chiese erano di conseguenza spesso gremite di fedeli o semplici estimatori che, diversamente, non avrebbero potuto ascoltare musica, è anche vero che ci si era a volte spinti ad estremi paradossali in cui polke e mazurke dominavano durante la Messa. Purtroppo l’adeguarsi dell’organaria italiana al mutato clima musicale a valenza religiosa si trasformò in un attacco indiscriminato a strumenti preziosissimi ed antichi che vennero trasformati senza tanti riguardi eliminando schiere di registri ad ancia, campanelli, grancasse e bande militari necessari ad adeguata esecuzione della musica italiana per organo ottocentesca. Lo strumento di Miagliano non sfuggì a questo destino. Il Preventivo di lavoro all’Organo, di cui possediamo l’originale, venne inviato nel 1923 al Parroco di Miagliano don Bernardo Pivano ed all’Amministrazione Parrocchiale dell’epoca73: Per smontatura e pulitura di tutto l’Organo, correzioni e riparazioni nelle sue parti meccaniche allo stato perfetto e di prontezza intonazione ed accordatura di tutte le canne con accordatura rinnovata al diapason normale essendo prima tutto l’Organo crescente quasi di mezzo tono. Ripassatura alla macchina da vento e mantice Lire 2.300. Vengono poi elencati i nuovi registri che sostituiranno quelli antichi e rimossi: Viola da Gamba nei bassi e nei soprani, Salicionale nei bassi e nei soprani, Bordone nei soprani, Combinazione concerto di violini e Combinazione Celeste, strumenti dal suono dolce e meditativo. Seguono le relative 28 nuove placchette in smalto con nomenclatura registrazione. Il costo totale generale salì a Lire 5.340 cui furono sottratte Lire 90 quale valutazione per la vendita delle storiche e pregiate canne Bruna in lega di stagno74. I Lavori si svolsero a partire dal mese di settembre e vennero annotati sul Libro dei Conti nel novembre 1923: Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 74 Per la disposizione fonica successiva all’intervento Manzoni si veda l’Appendice 3. 73 164 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Settembre – Trasporto canne per l’organo da Bergamo a Miagliano Lire 17,95. Il totale dovuto di Lire 5.250 fu interamente pagato in un’unica soluzione: Venne pagata la somma di Lire 5.250 al Signor Giulio Manzoni il giorno 21 Novembre 1923. In fede D. Pivano Bernardo Parroco di Miagliano75. L’organo così “riformato” venne collaudato il 24 novembre 1923 da don Pietro Magri maestro di cappella del Santuario di Oropa, compositore, organista e concertista di fama76. Magri in data 27 novembre rilasciò un “Atto di collaudo dell’organo di Miagliano” il cui originale, dattilografato in caratteri blu e rossi, è conservato nell’Archivio Parrocchiale. In esso fu lodato il lavoro di Giulio Manzoni e rilevato come lo strumento fosse fin troppo grande e sonoro per una chiesa di modeste dimensioni come quella di Miagliano. Infine: Niente Ance più, dunque, in quest’organo: tutte canne ad anima. E se l’…anima della gamba [si riferisce al registro viola da gamba] come ho detto, è ben forte, eccoti, in contrapposto, un Salicionale e un Bordone dolcissimi, delicatissimi. Ed è il salicionale il registro-base della Celeste così ben riuscita! 75 Libro dei Conti, novembre 1923 e annotazione di pugno di Don Pivano in calce al Preventivo di lavoro. 76 Pietro Magri (1873-1937), originario del ferrarese, iniziò gli studi musicali giovanissimo divenendo organista presso la parrocchiale di Alfonsine (RA) già nel 1885. Studiò teologia a Faenza (RA) dove, nel 1897, fu ordinato Sacerdote. Negli anni successivi fu attivissimo concertista e compositore passando da Venezia, ove fu allievo di L. Perosi, Bari e Vercelli ove insegnò canto e diresse la Cappella della Cattedrale. Nel 1919 accettò la nomina a Maestro di Cappella della Basilica di Oropa (BI) ove rimase sino alla morte avvenuta il 24 luglio 1937. Partecipò a numerose tournées come concertista e direttore in Italia ed all’estero e compose oltre 700 opere che spaziano dalle messe agli oratori, inni, canti, fino a giungere ad alcune operette. Tra gli oratori, famosi sono La reyne des Pyrénèes (1913) e La Regina delle Alpi (1920). Profondo conoscitore della musica organistica e della tecnica organaria, si occupò di restauri, progetti e collaudi di numerosi strumenti seguendo personalmente l’ideazione ed installazione dell’organo della basilica antica di Oropa. Si dedicò alla musica sino alla fine della vita dirigendo a Ginevra, nel marzo del 1937, il suo ultimo concerto. Morì ad Oropa pochi mesi dopo. Per approfondimenti si vedano Monaco 2001, pp. 29-36, Galazzo 1998. 165 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Don Pietro Magri si rallegrò dunque ed approvò ampiamente una ricostruzione che secondo gli ideali filologici odierni sarebbe inaccettabile. Per il suo intervento e per un concerto tenuto in occasione della festa patronale, don Magri venne retribuito secondo un’annotazione sul Libro dei Conti del gennaio 1924: Al Maestro Cav. D. P. Magri per collaudo dell’organo per il concerto in chiesa e per il suono dell’organo nel giorno della festa di S. Antonio Lire 50. Un decennio dopo, nell’agosto del 1933, si decise l’acquisto di un grande “Armonium” ad uso della Chiesa Parrocchiale a Lire 2.15077. 3.6 L’intervento di Italo Marzi 1980 Nel 1978, avvicinandosi il bicentenario dell’istituzione della Parrocchia di Miagliano, il Parroco don Dario Martire contattò l’organaro Italo Marzi di S. Maurizio d’Opaglio (NO) per avere un preventivo di intervento sull’organo Bruna. Lo strumento non subiva infatti una generale manutenzione straordinaria da quasi mezzo secolo, pertanto le due occasioni coincisero negli intendimenti del parroco. I tempi non erano tuttavia maturi per pensare ad un restauro filologico; infatti il preventivo dell’organaro si basò su di un’accurata revisione generale senza alterazioni di sorta alla fonica lasciata da Giulio Manzoni nel 1923. Il 9 settembre 1978 Marzi consegnò alla Parrocchia un documento che comprendeva un’analisi dello stato dell’arte “Rilievi organo chiesa parrocchiale di - Miagliano - (VC)”78 in cui si dettagliavano tutte le caratteristiche tecniche dello strumento, le condizioni in cui si trovava e la disposizione fonica, unitamente ad un preventivo di spesa con l’elenco dei lavori. Marzi intendeva smontare completamente lo strumento, restaurare ogni parte danneggiata dal tempo, riparare le canne in metallo che risultavano lese o presentavano squarci, così come quelle in legno, i somieri, le valvole, sino ad intervenire su ogni più piccolo componente. Al termine l’organo sarebbe poi stato riaccordato “rispettando le Libro dei Conti, agosto 1933. Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 77 78 166 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano caratteristiche foniche di ogni registro e dello strumento”. Il prezzo risultò di Lire 4.200.000 e la garanzia offerta di anni 6. Il lavoro non venne immediatamente autorizzato e solo il 16 novembre 1979 don Martire scrisse a Marzi per chiedere un nuovo incontro in cui verificare l’offerta dell’anno precedente e addivenire ad un accordo con conferma del restauro79. Marzi rispose il 27 novembre 1979 dichiarando la sua disponibilità ad iniziare lo smontaggio dello strumento nel gennaio 1980 per poterlo consegnare finito intorno la metà di maggio del medesimo anno80. Il prezzo aumentò però considerevolmente e passò a Lire 4.800.000 per essere successivamente negoziato e definito in un totale di Lire 5.100.000 incluse le spese di vitto ed alloggio a Miagliano81. Il restauro conservativo venne regolarmente portato a termine all’inizio dell’estate del 1980 anche se i costi lievitarono ulteriormente per l’aggiunta di un registro di Tremolo meccanico come indicato nella nota dei lavori del 2 luglio 198082. I concerti inaugurali furono due (20 luglio e 9 agosto 1980 entrambi con Arturo Sacchetti alla tastiera), e furono promossi dall’Associazione “Festival Internazionale di Musica” nell’ambito della IX edizione e dalla manifestazione “Alla scoperta degli antichi organi del Biellese” che si svolsero tra maggio ed ottobre interessando organi di Bioglio, Pettinengo, Biella, Miagliano, Mottalciata con oltre 30 concerti tenuti anche da solisti ed ensembles di musica classica. Il Maestro Arturo Sacchetti, abile concertista ed assai attivo in quegli anni nel promuovere la musica organistica, stese una relazione di collaudo in cui si rilevano importanti considerazioni. Sacchetti scrisse tra l’altro nella sua “Relazione inerente le operazioni di restauro e atto di collaudo dell’organo della Chiesa di S. Antonio Abate di Miagliano (VC)”83: Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 80 Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 81 Annotazione di pugno di Don Martire, datata 16 dicembre 1979, in calce alla lettera di Italo Marzi del 27 novembre 1979. Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 82 Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 83 Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta. 79 167 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione E’ importante però rilevare il fatto che lo strumento, al momento dell’intervento dell’organaro Marzi, presentava una fisionomia alterata a cagione di poco ortodossi interventi attuati in tempi successivi alla costruzione. E più oltre aggiunse: Gli interventi di Carlo Aletti nel 1880 e di Giulio Manzoni nel 1923 hanno distrutto parte dei registri voluti dal Bruna per cui ci si deve accontentare di assaporare solo in parte la grandezza costruttiva di questo abile organaro biellese. I registri “intrusi” inseriti per compiacere il gusto decadente dell’epoca - salicionale 8 bassi e soprani, gamba 8 bassi e soprani, bordone 8 soprani, flauto 8 bassi, violino soprano, violino soprano dolce, celeste - esteticamente piacevoli ma stilisticamente fuori posto possono essere sostituiti in occasione di un futuro ed auspicabile ripristino. È ciò che avverrà ai tempi nostri, tra il 2014 ed il 2017, con il restauro filologico cui abbiamo accennato in apertura. 3.7 Il restauro filologico 2014-2017. Come anticipato nell’introduzione al presente lavoro, alla fine del 2008 si formò a Miagliano un piccolo gruppo di estimatori di arte, storia, musica ed organaria, con lo specifico intento di promuovere il restauro filologico dell’organo Bruna 1785. I promotori, dopo una consultazione accurata con esperti, avevano ben chiari gli obiettivi da perseguire. Si vennero tuttavia a delineare due correnti di pensiero peraltro entrambe rispettose nei confronti del materiale antico Aletti ancora conservato: l’una che ritenne come prioritario “il rigoroso rispetto dell’assetto fonico venutosi a creare in seguito alla ricostruzione praticata dall’Aletti”84 che avrebbe, in base a quanto precisamente documentato in sede archivistica, previsto il ripristino della gran parte dei registri Bruna soppressi dal Manzoni; l’altra vide anch’essa nel momento 1880 il punto di equilibrio cui rifarsi anche nella fonica, caldeggiando tuttavia la ricostruzione dei registri ad ancia ispirandosi a modelli Ramasco. La Commissione per gli Organi nelle Chiese della 84 Adriano Giacometto, comunicazione personale agli autori del 30.12.2008. 168 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Diocesi di Biella considerò quest’ultima valutazione come la migliore possibile. Venne così formulato un progetto poi inviato alla Parrocchia in data 11 gennaio 2009, quindi sottoposto a concorso. Il preventivo fornito dai fratelli Marzi risultò il migliore in termini di rapporto qualità/prezzo, venne scelto dall’Amministrazione Parrocchiale di Miagliano e trasmesso, per il tramite della preposta commissione diocesana, alla Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Piemonte. Quest’ultima concesse la propria autorizzazione in data 24 agosto 2009. Occorreva quindi ricostruire ex novo, e sulla base di modelli storici originali conservati in altri strumenti integri, tutti i registri asportati nel 1923 da Giulio Manzoni. L’unico vero problema risiedeva nei modelli cui rifarsi per ricostruire le ance (Tromba, Fagotto, Violoncello bassi, Violoncello soprani), Bruna o Ramasco, la cui soluzione venne lasciata, come peraltro raccomandato dalla Soprintendenza, agli indizi riscontrabili nello smontaggio dello strumento e ad ulteriori indagini archivistiche. Queste ultime, discusse nei paragrafi precedenti, vennero confermate anche da quanto rilevato dagli organari che non trovarono traccia alcuna di interventi Ramasco e che procedettero secondo intendimenti di grande equilibrio artistico (Fig. 9). Il lavoro fu condotto a termine in due fasi, fondamentalmente per la necessità di reperimento dei fondi: la prima, conclusasi nel 2014, vide il corpo principale dell’intervento con il restauro completo dello strumento, la ricostruzione dei registri ad ancia Fagotto nei bassi e Tromba nei soprani, la ricostruzione dei registri ad anima Ottavino soprano e dei Cornetti I e II. La Viola nei bassi, inserita da Aletti, non richiese interventi particolari: le canne originali di tale registro, riutilizzate nel 1923 dal Manzoni, vennero ritrovate, sparse ma presenti, e la Viola poté essere reintegrata in originale. I siti ove posizionare i registri che sarebbero stati ricostruiti nelle fase 2017 rimasero temporaneamente vuoti. Si decise pertanto di utilizzare tre dei registri del Manzoni opportunamente intonati in attesa di accantonarli definitivamente: si trattava di Bordone 8’ bassi e soprani e Basso 8p. ai pedali. Con il completamento definitivo, intervenuto nel corso dei primi mesi del 2017, lo strumento di Miagliano ha acquistato ulteriore carattere e colore poiché sono svaniti i registri decadenti del Manzoni temporaneamente riutilizzati e sono stati collocati i registri ad ancia ancora mancanti: Violoncello nei bassi e Corno Inglese nei soprani85 85 Diocesi di Biella, Commissione per l’Arte Sacra e i Beni Culturali Ecclesiastici, Comitato 169 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Fig. 9 Particolare delle ance dei violoncelli ricostruiti. Laboratorio Marzi di Pogno, dicembre 2015. Foto Mario Raviglione. nonché Bombarda al pedale. Infine è stato completato il ripieno con le ultime due file acute trigesima terza e sesta86. Questo strumento restaurato è dunque per metà un Bruna e per metà un Aletti peraltro sulla base e con i parametri del Bruna, uno strumento che potremo chiamare Bruna 1785 - Aletti 1880 e che suona con intonazione da vero strumento ottocentesco come doveva essere stato subito dopo il rifacimento del 1880 (Fig. 10). Si può inoltre considerare che le scuole di pensiero che si erano definite in fase di istruttoria della documentazione hanno trovato entrambe ragione d’essere; tuttavia, il punto 1849 in cui sarebbe intervenuto Amedeo Ramasco è stato definitivamente smentito. per gli Organi nelle Chiese analisi dell’intervento di restauro, 11 gennaio 2009. Documento conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Miagliano. 86 Per la disposizione fonica finale successiva al restauro filologico 2014-2017 si veda l’Appendice 4. 170 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Fig. 10 Flauto in facciata dopo il restauro: le canne sono originali Bruna del 1785. Foto Mario Raviglione. 171 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Appendice 1 Monza 20/2 1880 Progetto per un nuovo Organo da collocarsi nella Chiesa Parrocchiale di Miagliano Censimento delle canne riportato da Carlo Aletti (Documento originale conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano, cartelline di classificazione della documentazione sciolta) Dichiarazione delle Canne di Metallo Istrumentazione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 172 Violoncello basso Violoncello soprano Fagotto basso Trombe soprane Flauto traverso Voce umana Flauto in ottava Ottavino soprano Cornetta 1 e 2’ Cornetta 3 e 4’ Timpani ai pedali Canne nuove di legno Terza mano, meccanica che raddoppia l’armonia del soprano Canne Vecchie Canne Nuove Canne Vecchie 20 30 20 30 30 30 30 30 100 100 Canne Nuove 4 4 4 4 4 4 4 4 16 16 12 420 76 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Istrumentazione Canne Vecchie 420 13 14 Violoncello bassa Instrumento nuovo da aggiungersi Tromboni o Bombarde ai pedali canne di legno Totale istrumentazione Canne Nuove Canne Vecchie 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Registri di Ripieno Principale basso - aggiungere 4 canne di legno nell’interno Principale soprano Principale 2’ basso da aggiungere nuovo Principale 2’ soprano da aggiungere nuovo Ottava bassa Ottava soprana Quinta decima Decima nona Vigesima seconda Vigesima sesta Vigesima nona Tigesima terza Trigesima sesta Contrabassi e ottave di legno nuovi Totale canne vecchie N. Canne Nuove N. Canne Vecchie Totale Canne Canne Nuove 76 24 112 420 20 4 30 4 24 34 4 4 8 8 8 8 8 8 8 24 20 30 50 50 50 50 50 50 50 870 266 870 1,136 173 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Appendice 2 Disposizione fonica successiva all’intervento Aletti del 1880 Violoncello basso Violoncello soprano Fagotto basso Trombe soprane Flauto traverso Voce Umana Flauto in Ottava Ottavino soprano Cornetta I e II Cornetta III e IV Timpani a pedali Terza mano Viola bassa Tromboni o Bombarde ai pedali 174 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1880 1880 1880 Principale basso Principale soprano Principale II bassi Principale II soprani Ottava bassa Ottava soprana Quinta decima Decima nona Vigesima seconda Vigesima sesta Vigesima nona Trigesima terza Trigesima sesta 1785 1785 1880 1880 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1880 Contrabbassi ed Ottave 1880 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Appendice 3 Disposizione fonica successiva all’intervento Manzoni del 1923 Salicionale 8 p. bassi Salicionale 8 p. soprani Gamba 8 p. bassi Gamba 8 p. soprani Flutta Bordone 8 p. soprani Flauto 8 p. bassi Flauto 4 p. soprani Violino soprano Violino soprano dolce Celeste Timpani ai pedali Terza mano 1923 1923 1923 1923 1785 1923 1923 1785 1923 1923 1923 1880 1880 Voce umana 8 p. soprani 1785 Principale 8p. Bassi Principale 8 p. soprani Principale II bassi Principale II soprani Ottava 4 p. bassi Ottava 4 p. soprani Decimaquinta 2 p. Decimanona Decimanona soprani Vigesimaseconda Vigesimasesta Vigesimanona Bassi di 8 p. ai pedali Contrabassi e ottave 16+8 p. ai pedali 1785 1785 1880 1880 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1923 1880 175 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione Appendice 4 Disposizione fonica successiva al restauro finale del 2014-2017 Fagotto bassi Tromba soprani Violoncello bassi Corno Inglese soprani Flauto traverso soprano Ottavino soprani Viola bassi Flauto in ottava Cornetto I (XII) Cornetto II (XV, XVII) RICOSTR. RICOSTR. RICOSTR. RICOSTR. 1785 RICOSTR. 1880 1785 RICOSTR. RICOSTR. Tasto pedale 1880 Timpani 1880 Terza mano Voce umana soprani 1880 1785 176 Principale I bassi Principale I soprani Principale II bassi Principale II soprani Ottava bassi Ottava soprani Decima quinta Decima nona bassi Decima nona soprani Vigesima seconda Due di ripieno (XXVI, XXIX) Due di ripieno (XXXIII, XXXVI) Contrabassi e rinforzi Bombarda ai pedali 1785 1785 1880 1880 1785 1785 1785 1785 1785 1785 1785 RICOSTR. 1880 RICOSTR. L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Bibliografia Cagliano - Salussolia 2002 Ettore Cagliano, Graziano Salussolia, Alice Castello e la sua Chiesa Parrocchiale, Santhià 2002. Forzini 1964 Piero Forzini, I Serpentiero Mastri legnamai di Sagliano Micca, in “Rivista Biella”, V (1964), pp. 181-184. Galazzo 1980 Alberto Galazzo, Una Famiglia Organaria di Miagliano, Biella 1980. Galazzo 1990 Alberto Galazzo, La Scuola Organaria Piemontese, Torino 1990. 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Gli autori hanno pertanto deciso, nell’ambito di uno studio approfondito della storia dell’organo miaglianese, di indagare dettagliatamente il materiale storico conservato nell’Archivio Parrocchiale di Miagliano nell’intento di fare luce sull’ipotizzato intervento del 1849. Gli esiti sono stati discordanti da quanto in precedenza noto. Infatti, Amedeo Ramasco non è risultato intervenire sull’organo di Miagliano in quel periodo; l’organo fu invece riparato per danni emersi durante operazioni di pulitura e manutenzione, nel 1848, dall’organaro valsesiano Giuseppe Natale Cesa in collaborazione con Giuseppe Patarelli. Le dettagliate annotazioni rilevate sul Libro dei Conti ed i costi sostenuti consentono di escludere la sostituzione dei registri ad ancia e del somiere come precedentemente ipotizzato. Sulla base delle attuali conoscenze è dunque possibile affermare che il materiale fonico inventariato e riutilizzato da Carlo Aletti nel suo rifacimento del 1880 era totalmente di fattura Bruna e risaliva a quasi un secolo prima. Durante le ricerche di archivio è inoltre emerso come le 12 formelle lignee che ornano la cantoria di Miagliano non siano state scolpite dal Serpentiere durante la costruzione della bussola di Sant’Antonio Abate, come in precedenza si supponeva, ma acquistate ad Alice Castello (VC) da Giacinto Bruna e successivamente collocate in cantoria durante tali lavori. L’autore è attualmente ignoto. Abstract During the assessments and studies preceding the (recent) philological restoration of the Bruna 1785 - Aletti 1880 organ in the church of Sant’Antonio Abate, Miagliano (Biella province, Piedmont, Italy), controversy arose regarding work carried out on the organ in the past. Some authors believed that local organ-maker Amedeo Ramasco had carried out rather invasive work in 1849, by replacing some of the original reed pipes crafted by 178 L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano Giovanni Bruna in 1785. However, no clear evidence of that work existed. The authors therefore decided, as part of their research into the history of the Miagliano organ, to investigate in detail the historical materials held in the Miagliano parish church archives in order to establish whether the supposed 1849 work actually took place. The previous theories were not confirmed, as no evidence was found that Amedeo Ramasco had worked on the Miagliano church organ at that time. However, it was discovered that the instrument had been repaired in 1848, during routine maintenance and cleaning operations, by another organ-maker from Valsesia, Giuseppe Natale Cesa, in collaboration with Giuseppe Patarelli. The detailed notes found in the parish account book and the low costs recorded demonstrate that the original reed pipes and the wooden wind chest were not replaced, as had previously been speculated. On the basis of current evidence, it can therefore be concluded that the reed pipes and other structures of the ancient organ which were recorded and reused by Carlo Aletti in his 1880 restoration of the instrument were the original ones crafted by Giovanni Bruna a century earlier. In addition, during their research in the archives, the authors discovered that the twelve carved wooden panels of the organ loft in the Miagliano church were not crafted by Serpentiere during the construction of the inner vestibule of the Sant’Antonio Abate church, as previously believed, but purchased by Giacinto Bruna in the parish of Alice Castello (Vercelli province, Piedmont) and later installed in the organ loft. The author is currently unknown. piscopo50@libero.it raviglione.mario@gmail.com 179 Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione 180 Anna Maria Rosso STORIA DI UNA COLLEZIONE. IL MUSEO CAMILLO LEONE DAL 1907 ALLA DIREZIONE DI VITTORIO VIALE* Premessa Tra il 2008 e il 2009 la figura di Vittorio Viale, a trent’anni dalla morte, fu oggetto di approfonditi studi, che ne esaminarono il multiforme impegno come storico dell’arte, archeologo e direttore di musei1. In questo ambito, nel marzo del 2009, il comune di Trino Vercellese, in collaborazione con la Società piemontese di archeologia e belle arti e i musei Leone e Borgogna, organizzò un convegno al quale parteciparono anche funzionari delle Soprintendenze piemontesi2. Il Convegno, oltre a far luce per la prima volta sulle vicende, che legarono i musei vercellesi a colui che ne fu l’ordinatore e il direttore per circa venticinque anni, fu il giusto tributo di riconoscenza per la donazione, nel 1976, un anno prima della morte, della casa natale dove lo studioso aveva allestito un museo didattico di interesse storico-archeologico locale. Gli atti del Convegno non sono stati fino ad oggi pubblicati. Ora la So- * Per aver concesso con grande disponibilità la consultazione e la pubblicazione di documenti e fotografie ringrazio la Fondazione Istituto di Belle Arti e Museo Leone (il presidente Gianni Mentigazzi, Luca Brusotto, Riccardo Rossi); Michela Cometti (Fototeca Fondazione Torino Musei), Patrizia Carpo e il personale della Biblioteca Civica di Vercelli; Rosina Allario Caresana, Silvano Beltrame, Emanuela Corio, Paolo Franchetti, Adriana Roy, Roberto Rubino, Clelia Verzone. Per aver agevolato le mie ricerche e la stesura di questo scritto sono grata ad Antonella Avonti, Mario Bona, Massimo Borghesi, Giovanni Ferraris, Paolo Franchetti, Cinzia Lacchia, Cristina Maritano, Flavio Quaranta, Mavi Serazzi, Bruno Signorelli, Paola Soffiantino, Giorgio Tibaldeschi. Un particolare ringraziamento a Mercedes Viale Ferrero per la cordiale disponibilità. Sigle AIBAV = AMCTo = AML = Archivio Istituto Belle Arti di Vercelli. Archivio Musei Civici Torino. Archivio Museo Leone. Argan 1967, pp. 5-8; Carboneri 1978; Griseri 1979, pp. 190-195; Pagella 2002, pp. 145-160; Irico - Zorgno 2013, pp. 67-79. Essenziale premessa fu il Seminario “Il museo civico di Torino e i musei di Vercelli dalle origini al 1930”, Torino, Palazzina SPABA, 19 aprile 2008. 2 “Vittorio Viale direttore di museo. Le esperienze vercellesi”, Trino e Vercelli 21 marzo 2009. 1 181 Anna Maria Rosso cietà Storica Vercellese, affinché tutto quel materiale documentario, frutto di lunghe ricerche, fosse messo a disposizione degli studiosi, ha proposto la pubblicazione sul suo Bollettino degli interventi riguardanti la storia dei musei vercellesi negli anni della direzione Viale, iniziando dal museo Leone, che ancora oggi conserva traccia quasi intatta, nelle architetture e negli allestimenti, dei suoi principi museografici, del suo metodo di lavoro e delle corrispondenze, che lo legano al museo civico di palazzo Madama, realizzato negli stessi anni. 1. Le vicende della collezione Leone dal 1907 al 1928 Nel giugno del 1928 Vittorio Viale accettò l’incarico di riordinare e riallestire le collezioni del museo: erano passati poco più di vent’anni da quando l’Istituto aveva ereditato, nel 1907, il cospicuo lascito del notaio Leone, costituito dalla sua eclettica collezione - migliaia di reperti archeologici, documenti, opere d’arte decorativa, dipinti -; da una ricca biblioteca e da due antichi e pregevoli palazzi, casa Alciati e palazzo Langosco. A tutto ciò si aggiungevano: terreni agricoli coltivati a riso; titoli e depositi bancari, per un patrimonio complessivo di circa mezzo milione di lire, pur escludendo il valore delle collezioni artistiche3. Oltre a un forte vincolo affettivo per la sua città, ciò che aveva spinto Camillo Leone a lasciare la sua collezione all’Istituto, dopo aver valutato altre alternative, fu la certezza di poter contare sulla serietà e competenza dei suoi amministratori, che fin dalla sua istituzione avevano lavorato nell’ottica della conservazione e della tutela del patrimonio artistico del territorio4. Camillo Leone (1830-1907) divenne socio accademico dell’Istituto di Belle Arti nel 1883 e fu nominato membro del Consiglio di Direzione. Nelle sue Memorie in data 31 dicembre 1878 si legge: “Le mie prime armi, come suole dirsi, vollero le circostanze che io le facessi entrando come membro nella Società dell’Istituto di Belle Arti o più comunemente Gattinara, in luogo e vece del compianto mio antico Rettore del Collegio Dal Pozzo, il benemerito e dotto Canonico Gioanni Barberis”. Su Camillo Leone si vedano: Baldissone 2007; Rosso 2007, pp. 67-95. 4 Uno degli scopi fondamentali dell’Istituto era quello di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi per impedirne il deterioramento” come recita l’art.3 dello Statuto del 1861. Per la storia dell’Istituto: Rosso 1990, pp. 15-43 e Rosso 2017, pp. 115-151. 3 182 Storia di una collezione 1.1 Il primo catalogo e l’apertura al pubblico del Museo L’anima e il motore del primo riordino sistematico delle collezioni fu il cav. Federico Arborio Mella, discendente diretto dei più noti Carlo Emanuele ed Edoardo, socio dell’Istituto dal 1872; dallo stesso anno segretario accademico con importanti mansioni di responsabilità circa le collezioni artistiche; vicepresidente - direttore a partire dal 1901. Pur laureato in Giurisprudenza, aveva seguito le orme del padre e del nonno come architetto-restauratore e ricopriva, come già Edoardo, la carica di Ispettore Onorario agli Scavi e Monumenti, rivestendo quindi anche un ruolo ufficiale e di peso nel mondo culturale piemontese5. Fu soprattutto per suo merito che l’Istituto riuscì egregiamente, per un lungo periodo, a gestire, riordinare, incrementare il lascito del notaio Leone, anche in assenza di un vero e proprio direttore scientifico, ma grazie a quelle che oggi definiremmo “consulenze esterne” di una équipe di specialisti. Personalità di primo piano della cultura piemontese si fecero carico dello studio e dell’allestimento delle principali collezioni, predisponendo le basi sulle quali Viale fonderà il suo lavoro di schedatura. Nel giugno del 1909 il prof. Serafino Ricci, direttore del Gabinetto Numismatico di Brera e docente di Storia dell’Arte all’Università di Pavia, contattato dallo stesso Mella, dopo una visita alle raccolte Leone, si era dichiarato disponibile a riordinare la collezione numismatica e a dare consigli e suggerimenti per l’esposizione anche delle altre collezioni. Il suo lavoro si concretizzerà nell’esposizione delle monete e delle medaglie di maggior pregio in apposite vetrine (ancor oggi esistenti e utilizzate), fatte costruire su modello di quelle del Gabinetto Numismatico di Brera6, e nel “primo contributo”, come ci tenne a sottolineare l’autore, sulla Zecca di Vercelli e le sue testimonianze all’interno della collezione, pubblicato in quello che, nelle intenzioni degli amministratori, avrebbe dovuto essere il primo catalogo del Museo7. Nella premessa il Ricci precisava che non era stato possibile ricostruire compiutamente la storia della zecca di Vercelli attraverso gli esemplari a Titone 2000, pp. 7-44. AIBAV m. 160: verbale adunanza del Consiglio 18 giugno 1909. Le vetrine furono realizzate dalla ditta fratelli Cazzaniga di Cantù. 7 “Museo Camillo Leone - Vercelli. Illustrazioni e cataloghi”, vol. I, Vercelli 1910. Sulla zecca di Vercelli si veda Ordano 19762. 5 6 183 Anna Maria Rosso disposizione poiché “Camillo Leone non aveva alcun criterio direttivo nel formare le sue collezioni” e malgrado si fosse cercato “di arricchire la zecca della città con nuovi acquisti, fatti con fondi posti lodevolmente a mia disposizione dall’Amministrazione del Museo Leone”8. Il Ricci scrisse ad esempio di aver invano cercato di acquistare per il Museo un prezioso scudo d’oro di Carlo II dall’antiquario Mentore Pozzi, che se lo era appena aggiudicato all’asta della collezione Stroehlin di Genova per la sua collezione, che lascerà poi al museo civico di Torino. Che la raccolta non avesse pretese di essere completa lo aveva ammesso lo stesso Leone nella premessa al suo catalogo manoscritto: “Certo non tutte le medaglie raccolte e possedute saranno preziose (ché sono ben lontano di avere una simile pretesa), ma, se non tutte, qualcheduna almeno, spero, che sarà almeno interessante”9. Certamente “interessanti” furono considerate le due monete scambiate, nel 1934, con la tavola di S. Lucia, parte del Polittico di Bianzè10. Il volume si apriva con le “Note biografiche” di Camillo Leone, scritte da Federico Mella, ancora oggi essenziali per la ricostruzione della personalità del collezionista, al quale l’autore era legato, se non da amicizia, da sincera stima e da condivisione di interessi artistici. Il prof. Giulio Cesare Faccio, direttore della Biblioteca Civica di Vercelli, pubblicò invece l’inventario degli Incunaboli e delle Cinquecentine, forse la più preziosa e completa raccolta tra quelle ereditate dal notaio, nel saggio “I Tipografi vercellesi e trinesi dei secoli XV e XVI”11. Il volume fu presentato in occasione del XIII Congresso Storico Subalpino, nel settembre 1910, quando anche parte delle collezioni furono oggetto della visita dei partecipanti12. L’apertura al pubblico del Museo avvenne invece nell’ottobre 1912, stranamente in sordina, nonostante gli onerosi lavori realizzati, e senza una 8 Ricci 1910, pp. 99-190. Dal verbale del Consiglio di Direzione 19 maggio 1910 (AIBAV m. 160) risulta che per la sistemazione della collezione numismatica, compresi acquisti per completarne alcune sezioni, fu stanziata la cifra di lire 15.000. 9 Considerazione riportata alla fine delle “Note biografiche”, scritte da Federico Mella nello stesso volume, pp. 5-26. 10 Si veda l’intervento, esaustivo su questo argomento, di Lacchia 2015, pp. 15-25. 11 Faccio 1910, pp. 29-97. Per notizie biografiche su G. C. Faccio (1875-1965) si veda Rosso 1991. 12 “La Sesia”, 16 e 23 settembre 1910. 184 Storia di una collezione vera e propria inaugurazione, come sottolinea con una condivisibile punta critica, l’articolo comparso su “Il giornale di Vercelli” del 12 novembre 1912, in un momento in cui l’attenzione della città era piuttosto concentrata sull’importante Esposizione Internazionale di Risicultura, alla quale i giornali cittadini avevano dato particolare risalto13. 1.2 Il progetto dell’ing. Felice Delpozzo Il progetto di sistemazione dei locali fu affidato all’ing. Felice Delpozzo , che a partire dal 1909 sottopose al Consiglio tre diverse proposte15. Il riordinamento degli ambienti di palazzo Langosco e delle aree adiacenti era finalizzato all’allestimento delle collezioni e alla sistemazione dei dipinti, che costituivano la pinacoteca dell’Istituto e che al momento si trovavano ancora nel locale occupato dalla Scuola Femminile di Pittura, in palazzo Tizzoni, in condizioni di conservazione precarie, tali da richiederne il trasferimento urgente in sede più idonea16. A tal proposito è interessante ricordare, alla luce delle successive decisioni, la precoce proposta di Federico Mella, presentata al Consiglio fin dal luglio 1908, di trasferire i dipinti nelle sale del progettato ampliamento di palazzo Borgogna, proposta che non ottenne però l’approvazione della Commissione, che aveva avuto l’incarico di studiarla17. 14 13 Su “La Sesia” del 26-27 ottobre 1912 si annunciava l’apertura del museo “completamente riordinato con l’aggiunta di nuovi locali espressamente costruiti nel giardino del palazzo” con orario dalle 10 alle 14 di tutti i giorni. 14 L’ing. Felice Delpozzo (1851-1919) progettò edifici privati e pubblici come le scuole Mazzini, la palestra Vittorio Emanuele III, l’edificio dell’albergo Leon d’Oro, la sede dell’Associazione Generale Operai in via F. Borgogna. Fu apprezzato professionista anche nel campo dell’utilizzo dell’irrigazione per la generazione di energia elettrica e tenne per molti anni la direzione della Società d’Irrigazione Ovest-Sesia. Si veda il Necrologio in “La Sesia”, 12 agosto 1919. 15 I membri del Consiglio di Direzione erano in quell’anno: il conte Carlo Arborio Mella e il marchese Dionigi Arborio di Gattinara (membri nati), il sindaco avv. Giuseppe Fortina, Pietro Masoero, l’avv. Vincenzo Lavini, l’avv. Francesco Patriarca, sotto la guida del cav. Federico Arborio Mella (vicepresidente - direttore). Era presidente dell’Istituto il cav. Francesco di Collobiano. 16 AIBAV m. 160: verbale del Consiglio di Direzione del 18 luglio 1907. La situazione peggiorava nel periodo invernale a causa degli sbalzi di temperatura dovuti al riscaldamento. 17 AIBAV, m. 160: verbali del Consiglio di Direzione del 28 luglio e del 23 dicembre 1908. 185 Anna Maria Rosso Nel primo progetto Delpozzo18 si prevedevano lavori piuttosto importanti, che, se realizzati, avrebbero snaturato non poco la struttura settecentesca del palazzo, come la sostituzione dei soffitti dell’abitazione Leone con altri in cemento armato, provvisti di lucernari, e la conseguente chiusura di tutte le finestre, sia per esigenze di illuminazione sia per ricavare maggiore superficie per l’esposizione dei dipinti. Al posto degli ambienti di servizio - grande cucina, fienile, scuderia - adiacenti al lato ovest del palazzo, il progetto prevedeva la costruzione di un grande salone di forma ottagona, a due piani, destinato all’esposizione delle ceramiche, al pianterreno, e dei dipinti al primo piano. Quest’ultimo avrebbe dovuto servire “di trait d’union fra il ripetuto fabbricato ad uso abitazione ed il piccolo corpo di casa ora occupato (per averne il diritto d’uso per disposizione testamentaria) dalle signorine Giacometti19, dalle quali si spera di poter ottenere il consenso per la permuta dei due locali al piano superiore con altri tre al piano terreno dell’attiguo fabbricato già destinato a Museo (ora occupati tali locali dalle collezioni di opuscoli e dalle ceramiche). Per tal modo dal costruendo salone superiore col passaggio nei 2 locali ora occupati dalle Sig.ne Giacometti (e da ridursi ad uno) si potrà comunicare con l’altra ala di fabbricato già destinato a Museo: con indubbio vantaggio nella vigilanza sui visitatori che, entrando da uno degli attuali ingressi esistenti nel pianerottolo dello scalone principale, potrebbero, compiendo il giro completo dei fabbricati, uscire per l’altro”. Interessante notare come questa parte del progetto, stralciata dalle successive proposte, verrà ripresa e realizzata, anche se con soluzioni architettoniche un po’ diverse, con la sistemazione del Museo di Cavallari Murat e Viale, nel 1939. Stante l’assoluta indisponibilità delle signorine Giacometti ad abban- AIBAV, m. 160: progetto presentato in sede di Consiglio di Direzione il 18 giugno 1909. Dal testamento di Leone del 25 marzo 1899 (rogato Ranno), pubblicato il 24 gennaio 1907: “Alle tre ragazze cioè: Maria, Lorenza e Albertina sorelle Giacometti, poco benignamente lasciatemi in retaggio dal fu loro padre cav. Annibale, lego una pensione annua vitalizia di lire quattrocento per caduna, da pagarsi loro dal mio erede a semestri anticipati col diritto di accrescimento sulle superstiti o superstite in caso di premorienza. Lego pure alle medesime loro vita natural durante l’uso del piccolo alloggio che fa parte della mia casa di abitazione, diviso in due piani, avente accesso dalla porticina che immette nella via di S. Michele. Anche per questi legati, tutte le tasse di successione e qualunque altra tassa imposta ed imponenda saranno a carico del mio erede. Ove qualcheduna delle dette ragazze trovasse di fare un conveniente matrimonio, intendo e voglio che la pensione personale di lire quattrocento le venga pagata”. 18 19 186 Storia di una collezione donare l’alloggio da loro abitato, nonostante le pratiche adoperate per convincerle, sia dal Mella che dal consigliere avv. Patriarca e dallo stesso progettista, il Consiglio e, di seguito, l’Assemblea dei Soci incaricarono l’ing. Delpozzo di redigere un secondo progetto, che prevedesse solamente il riadattamento dell’abitazione del notaio Leone (senza la sostituzione dei soffitti) e la costruzione di nuovi locali nel giardino adiacente palazzo Langosco20. Il nuovo progetto destinava i due piani dei lati ovest e nord all’esposizione di quasi tutte le collezioni e, alla biblioteca, il salone sovrastante l’ingresso. La pinacoteca invece avrebbe trovato collocazione in nuovi locali, da costruirsi nel giardino di casa Leone: un salone ottagonale unito alla facciata interna da due ampie gallerie, illuminate da lucernari, tinteggiate con colori uniformi per dare risalto alle opere e in modo che “l’occhio del visitatore riposi tranquillamente, senza sbalzi di luce e dannose riflessioni”, come dettavano le norme della contemporanea museografia. Approvato solo parzialmente dal Consiglio e dall’Assemblea dei Soci nella primavera del 1910, fu ripresentato e definitivamente approvato con tutte le varianti richieste nel Consiglio successivo, nel quale il direttore Mella sollecitò il pronto inizio dei lavori, così da permettere il necessario e urgente ordinamento “delle numerose e pregevoli collezioni artistiche che oggi giacciono confusamente affastellate”21. Dalla nuova relazione presentata dall’ing. Delpozzo i lavori, notevolmente ridotti rispetto a quelli precedentemente progettati, riguardavano principalmente opere “indispensabili” per adattare i locali del vecchio fabbricato, in cattive condizioni di conservazione, e la costruzione nel giardino di due gallerie “ conservando la costruzione ora esistente ed incorporandola col salone di fondo”. La scomparsa del disegno, in origine unito al verbale, impedisce di verificare la corrispondenza tra il progetto e quanto effettivamente costruito e inglobato nella risistemazione del 1939. A completamento dei lavori, nel 1912, furono sostituiti anche i 28 gradini in granito dello scalone di casa Leone con altrettanti in “chiampo di AIBAV m. 160: verbale del Consiglio di Direzione del 4 dicembre 1909 e relazione del 14 dicembre 1909. 21 AIBAV, m. 160: verbali del Consiglio di Direzione del 19 maggio e del 28 giugno 1910. 20 187 Anna Maria Rosso Verona” e venne rifatta la decorazione della volta “per quanto ancora in buone condizioni di conservazione per poter adottare una tinteggiatura più adatta per le pareti”, con il beneplacito del pittore Ferrero, autore della vecchia decorazione22. Il progettista aveva previsto anche la posa di un impianto di riscaldamento, per raggiungere una temperatura “di setto od otto gradi al massimo durante i più forti rigori invernali”. La Direzione decise poi, dopo ampie discussioni, di rinunciarvi a causa degli alti costi dell’impianto e della sua manutenzione, non prima però di aver richiesto, tramite apposito questionario, informazioni e dati ai più grandi musei dell’Italia settentrionale e centrale. Da tale indagine, che dimostra ancora una volta l’attenzione e la cura dei Consiglieri, in particolare del direttore Mella, dirette alla buona conservazione delle collezioni, risultò che la maggior parte dei musei del nord Italia (e tra questi le pinacoteche di Torino, di Parma e di Bologna, l’Ambrosiana di Milano, l’Accademia e la galleria Pitti di Firenze) non avevano riscaldamento, mentre risultavano riscaldati gli Uffizi, il Poldi Pezzoli, la pinacoteca di Brera e i musei Civici di Torino. Fu interpellato anche Guido Carocci, direttore del museo di S. Marco di Firenze nonché socio accademico dell’Istituto e vecchio amico di Camillo Leone, che si ritenne decisamente contrario, sia per i costi sia per gli inconvenienti causati da una manutenzione non consona23. 2. Le vicende del Museo dal 1912 alla fine degli anni Venti All’apertura del Museo nel 1912 la sistemazione delle collezioni non era del tutto completata, tanto che i relatori della Commissione dei bilanci preventivi per l’esercizio 1915 (Pietro Masoero, avv. Ugo Graneris, prof. Achille G. Cagna) si raccomandavano di completare il lavoro “applicando ai quadri ed ai singoli oggetti esposti un cartellino spiegativo, come ormai si sta adottando in tutti i Musei [...] La gratuità dell’ingresso e l’ordinamento dato rispondono ai criteri istruttivi ed educativi che ispirarono il munifico Donatore del Museo. Sarà completa l’opera ed attirerà certo più visitatori popolari quando, con questi cartellini, sarà facilitata la comprensione e spiegato il valore e l’importanza o l’uso dell’oggetto esposto. In questo 22 23 AIBAV, m. 161: verbale del Consiglio di Direzione 20 marzo 1912. AIBAV, m. 53 e m. 161: verbali del Consiglio di Direzione 24 maggio e 1 luglio 1911. 188 Storia di una collezione modo il Museo impartirà, senza sforzo ed ininterrottamente, un’istruzione altamente educativa, che influirà lentamente, ma sicuramente, sul gusto e sul sentimento della popolazione”24. La cura e l’attenzione scientifica con cui si costruiva il nuovo museo, rientravano, come si è detto, in uno degli scopi fondamentali dell’Istituto, quello di acquistare e provvedere alla conservazione di opere d’arte del territorio, previsto fin dallo Statuto della originaria Scuola gratuita del Disegno del 184125. L’osservazione di questa finalità aveva portato alla formazione dell’importante pinacoteca patria, che negli anni aveva sempre più acquisito una valenza di fonte imprescindibile per lo studio della scuola pittorica vercellese del 50026. Infatti particolare attenzione, nel decennio tra il 1910 e il 1920, si prestò a questa collezione, prima con il suo trasferimento nei locali del museo, appositamente costruiti, poi con la decisione, economicamente impegnativa, di provvedere a una campagna di restauro dei preziosi dipinti, sollecitata dagli “esimi pareri” di Malaguzzi Valeri27 e Alessandro Baudi di Vesme28. Anche Corrado Ricci, in visita al museo nell’aprile del 1916, ebbe parole di particolare apprezzamento e incitò a ultimare il riordinamento della pinacoteca29. Il restauro di diciannove dipinti di antica scuola vercellese fu affidato ai fratelli Porta di Milano, che lavorarono sotto la direzione della Soprintendenza piemontese30. Per il “riordinamento delle collezioni: archeologica, delle terre cotte medioevali e del rinascimento, nonché quella preistorica” avevano disinteressatamente prestato la loro opera altri specialisti piemontesi tra i quali AIBAV, m. 161. Rosso 1990, pp. 18-21. 26 Per la vicende riguardanti la pinacoteca dell’Istituto si vedano Viale 1969, pp. 7-10; Rosso 1986, pp. 67-76; Rosso 1990, pp. 18-21; Lacchia 2003, pp. 48-59. 27 Francesco Malaguzzi Valeri (Reggio Emilia 1867 - Bologna 1928) era all’epoca direttore della pinacoteca di Bologna. 28 Alessandro Baudi di Vesme (Torino 1854-1923) era in quel momento Soprintendente alle Gallerie, ai Musei e agli Oggetti d’Arte per il Piemonte e la Liguria, e direttore della Galleria Sabauda. 29 Corrado Ricci (1858-1934) fu direttore generale delle Antichità e Belle Arti presso l’allora Ministero della Pubblica Istruzione. Si veda anche “La Sesia”, 4 aprile 1916. 30 AIBAV, m. 161: delibera in seduta Consiglio di Direzione 13 febbraio 1915 e scrittura privata del 21 agosto 1916. 24 25 189 Anna Maria Rosso Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta, che di Leone erano stati colleghi come soci della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti31 e, successivamente, gli illustri archeologi Piero Barocelli ed Ernesto Schiaparelli, come si deduce anche da un ampio e documentato articolo comparso su “La Sesia” il 9 luglio 1920. Nell’articolo, non firmato, si descrivevano le collezioni dei reperti romani e preromani, ordinati dal dott. Barocelli32, tra cui quelli provenienti da Pezzana, Palazzolo e Borgovercelli, in parte di proprietà “del nostro Comune, che fece cosa egregia depositandoli nel Museo, dove ne riesce più agevole l’esame per parte del pubblico e degli studiosi”. Qualche giorno prima sullo stesso giornale un trafiletto a firma Federico Arborio Mella invitava i Vercellesi a visitare il Museo riaperto al pubblico e arricchito con i dipinti restaurati e altre raccolte. Barocelli, sospeso il lavoro nel periodo bellico per la sua chiamata alle armi, lo riprese nell’estate del 1919. Stese l’inventario dei reperti preistorici e romani, con particolare attenzione all’individuazione dei bolli e delle iscrizioni sui fittili, e “una breve spiegazione per il pubblico per gli oggetti gallo-romani e romani esposti in modo ancora provvisorio” . Contemporaneamente Ernesto Schiaparelli33, direttore dello stesso museo di Antichità, forniva al museo Leone l’inventario dei reperti egizi, che, al fine di agevolargli il lavoro, gli erano stati mandati a Torino, debitamente imballati. Nel 1920 risultavano esposti anche i frammenti di mosaico pavimentale dell’antica S. Maria Maggiore, acquistati dalla famiglia Treves, che li aveva fino a quel momento conservati nell’atrio della casa di abitazione in via S. Cristoforo34. L’8 febbraio 1921 un grave lutto segnò la vita dell’Istituto: la morte 31 AIBAV, m. 161: verbale 20 marzo 1915. Su Giuseppe Assandria (Benevagienna 18401926) e Giovanni Vacchetta (Cuneo 1863 - Torino 1940) si veda Fessia 1994 e Preacco 2009, pp. 273-280. Nel 1915 Giuseppe Assandria pubblicò per l’Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte un articolo su una colonna miliaria del museo Leone. 32 Piero Barocelli (Modena 1887-Torino 1981) fu Ispettore del Regio Museo di Antichità di Torino dal 1912. Fu poi direttore del museo Preistorico ed Etnografico di Roma e dal 1941 ebbe il prestigioso incarico di Soprintendente alle Antichità di Roma. 33 Ernesto Schiaparelli (Occhieppo Inferiore 1856 - Torino 1928) fu direttore del Museo Egizio di Firenze e, dal 1894, di quello di Torino. Fu docente di Egittologia presso l’Università di Torino. 34 Per notizie storico-artistiche sui mosaici si veda Pianea 1994, pp. 393-420 e Pianea 1996, pp. 191-208. 190 Storia di una collezione di Federico Arborio Mella, la figura che più di ogni altra si era occupata con egregi risultati della formazione del Museo35. Ma la scomparsa dello storico vicepresidente - direttore non interruppe né la feconda attività scolastica, culturale e di tutela dell’Istituto né i lavori per la sistemazione delle collezioni Leone. Negli anni Venti e Trenta amministrarono infatti l’Istituto, come soci effettivi o come membri del Consiglio, e garantirono la prosecuzione delle attività istituzionali, molti esponenti di spicco del mondo delle professioni, dell’arte, della cultura, dell’istruzione, oltre ai membri di diritto delle nobili famiglie Arborio Mella e Arborio di Gattinara. Tra gli altri, gli avvocati Giuseppe Fortina, Giuseppe Laviny, Ferdinando Gandola, Paolo Stroppa, Francesco Patriarca ; lo scultore Francesco Porzio, i pittori Ferdinando Rossaro e Clemente Pugliese Levi; il fotografo di fama Pietro Masoero; l’ing. Ettore Ara; l’ing. Adriano Tournon; il canonico Pastè e mons. Orsenigo; il prof. Achille Giovanni Cagna; il prof. Giulio Cesare Faccio; il prof. Carlo Verzone; l’ing. Giuseppe Leblis. Alcuni di loro, in primis l’avv. Francesco Borgogna, nipote del munifico collezionista, furono anche amministratori del museo Borgogna. Nel 1923 entrarono a far parte dell’Istituto, come Soci effettivi, altri due notabili della cultura vercellese: il prof. Eugenio Treves e il prof. Luigi Galante. 2.1 L’ incarico di direttore a Vittorio Viale Mentre proseguiva l’attività di tutela dell’Istituto con l’acquisizione degli antichi affreschi provenienti dall’ex chiesa del Carmine, importanti decisioni per le sorti future del museo Leone furono prese nell’anno 1928, come risulta dalla relazione morale del vicepresidente Verzone, che comunicava l’avvio degli studi per il restauro di casa Alciati e la fresca nomina di Vittorio Viale, quale esperto per la catalogazione e l’esposizione dei molti oggetti artistici ancora nei magazzini36. Nella seduta del Consiglio dell’11 febbraio 1921 (AIBAV m. 25 bis) il socio anziano avv. Giuseppe Fortina ne fece la commemorazione, tracciandone un intenso ritratto biografico. Nella seduta successiva del 18 marzo il presidente, ing. Cesare Malinverni, comunicava all’Assemblea le generose disposizioni testamentarie del Mella in favore dell’Istituto, “nuova prova dell’immenso suo affetto ed interessamento sempre avuto per questo Istituto”. Si veda Rosso 1986, pp. 67-76. 36 Relazione morale del direttore Verzone, datata luglio 1928 (AIBAV, m. 33). Il prof. Carlo Verzone (1856-1934) fu insegnante presso il regio Liceo e, dal 1885, presso l’Istituto Tecnico “Cavour”, di cui fu preside dal 1900 al 1934. Fu presidente dell’Istituto di Belle Arti dal 35 191 Anna Maria Rosso Dopo l’acquisizione dell’eredità Leone, era stato anche affrontato il problema di affidare la cura delle collezioni a persona competente, pensando in un primo tempo di concentrare nelle stesse mani le mansioni di direttore del museo e quelle di segretario economo. Poi per comprensibili ragioni di difficoltà nel rintracciare una persona, che unisse le cognizioni scientifiche richieste per il riordinamento e la direzione del Museo e la altrettanto necessaria competenza nell’amministrazione complessa di un’opera pia sui generis, quale era l’Istituto di Belle Arti, si decise di assumere intanto un segretario amministrativo e di rimandare la nomina del direttore. La scelta cadde sul rag. Riccardo Cavigiolio, confermato nell’incarico nel 1909 con un dettagliato capitolato lungo dieci pagine, persona colta oltre che capace professionista, che assunse comunque anche l’onere di compilare gli inventari dei beni artistici di proprietà dell’ente e di curare l’archivio e la biblioteca del museo37. Mentre le collezioni lasciate dal notaio Leone venivano ordinate e messe a disposizione del pubblico, sempre più si sentiva l’esigenza e il dovere di compilarne il catalogo scientifico per far luce sul loro valore artistico e storico. La questione, più volte emersa nelle discussioni degli amministratori, fu riproposta durante l’Assemblea annuale dei Soci Accademici dell’aprile 1927 dalle raccomandazioni di mons. Romualdo Pastè, che ebbero un esito concreto solamente un anno dopo. Il prof. Carlo Verzone, al fine di risolvere il problema, divenuto ormai improcrastinabile, di arrivare al più presto alla compilazione dei cataloghi delle collezioni esposte e delle tante che restavano da esporre, e a un loro più efficace ordinamento, comunicava al Consiglio di Direzione di aver individuato la persona adatta: il dott. Vittorio Viale, “nativo di Trino e ora residente a Torino il quale, per gli analoghi studi e lavori già compiuti, come per le buone informazioni su di lui avute da persone di indubbia serietà, risulta possedere i requisiti di competenza ed 1923 al 1926 e vicepresidente-direttore dal 1926 al 1934 (Faccio 1991, pp. 76-77; Facelli 2004, pp. 32-39; Rosso 2017, p. 137). 37 Riccardo Cavigiolio (Casale Monf.1877 - Vercelli1942) tenne l’incarico di segretario-economo dell’Istituto dal 1907, dopo la scomparsa improvvisa dell’avv. Bechis, fino al 1942, anno della sua morte. Per un anno lo sostituì la figlia Angiola, diplomata ragioniera, nata dal matrimonio con la sig.na Maria Restano. Stimato professionista, fu membro del Sindacato Piemontese Ragionieri. 192 Storia di una collezione onestà necessari per poter compiere l’occorrente lavoro”38. Da questo momento fino agli anni Cinquanta la presenza di Viale segnò in modo indelebile la fortuna e le vicende del museo Leone e del museo Borgogna, la cui relazione già stretta fin dall’origine, si approfondì ancor più in seguito ai suoi interventi decisivi nella prima metà degli anni Trenta, che portarono a reciproci scambi di opere e al definitivo assetto di entrambi. Nato a Trino Vercellese nel 1891 e compiuti gli studi liceali a Casale Monferrato, si era laureato in Archeologia e Storia dell’Arte all’Università di Roma nel 1914, anno in cui aveva vinto il concorso per la Scuola Archeologica di Roma e Atene, compiuta nel 1920, dopo l’interruzione degli anni della guerra. Ad essa aveva partecipato come ufficiale di fanteria, ottenendo la medaglia di bronzo alla battaglia di Nervesa (giugno 1918). Negli anni 1923-25 aveva insegnato nei licei “Alfieri” e “D’Azeglio” di Torino. Al momento della nomina a Vercelli, ricopriva il ruolo di Ispettore presso la Soprintendenza alle Antichità delle Marche. L’affidamento dell’incarico procedette a stretto giro di posta. Già a fine settembre il prof. Verzone poté riferire un primo resoconto di Viale sul lavoro fino a quel momento compiuto, al quale aveva atteso “con alacrità e diligenza veramente lodevoli”, da cui la fondata speranza che la desiderata sistemazione potesse avvenire in tempi relativamente brevi. Pochi giorni dopo la nomina, Viale presentò un progetto di massima per la sistemazione delle collezioni, già corredato da interessanti considerazioni, che svelavano fin da quel momento i principi sui quali si sarebbe basato il lavoro futuro: utilizzare parte delle collezioni per creare un museo didattico di storia e arte locale, “per mettere in più luminosa gloria la grandezza della Città”, realizzando in fondo quello che era stato l’intento principale di Camillo Leone39. Proponeva di far eseguire con l’aiuto di un disegnatore “grandi carte archeologiche del Vercellese e di Vercelli” e concretamente aggiun- 38 AIBAV, m. 162: verbale del Consiglio di Direzione 19 giugno 1928. Oltre al vicepresidente - direttore prof. Carlo Verzone, facevano parte in quell’anno del Consiglio di Direzione: il gen. Antonio Dusnasi, il conte Edoardo Arborio Mella, il prof. Giulio Cesare Faccio, l’ing. Giuseppe Leblis, il conte Carlo Arborio di Gattinara, l’ing. Adriano Tournon. Tra le persone “di indubbia serietà”, che avevano suggerito il nome di Viale, potrebbe esserci stato il prof. Arturo Bersano, dal 1925 al 1933 preside del Liceo Ginnasio “Lagrangia”, dove il Verzone aveva insegnato. Il prof. Bersano era stato infatti tra gli insegnanti di Viale, allievo modello, al liceo classico di Casale (Irico - Zorgno 2013, pp. 67-79). 39 AML, cartella “V. Viale. Corrispondenza. Inventari” 193 Anna Maria Rosso geva: “Credo che per l’impresa utilissima si potranno anche ottenere degli aiuti dal Governo”. Spiegava di essersi attenuto ad “un programma minimo e cioè praticamente attuabile nel più breve tempo” senza tener conto dell’aggiunta di nuovi locali, per altro già previsti, come già in fase di studio si trovava il progetto del recupero di casa Alciati. Quello che invece riuscirà a realizzare solo in parte e in tempi molto lunghi, a causa degli impegnativi ruoli ai quali sarà chiamato di lì a poco, sarà la “compilazione di un completo e preciso inventario del materiale esistente”, “primo lavoro, a cui credo si dovrà procedere” . L’andamento dei lavori durante il primo anno è puntualmente documentato da una fitta corrispondenza tra il Viale stesso e il rag. Riccardo Cavigiolio, con il quale si creò una proficua e amichevole collaborazione40. Viale studiava, ricercava, progettava, suggeriva; Cavigiolio sovrintendeva ai lavori quando Viale non era presente e soprattutto lo teneva al corrente di ogni minima novità anche quando gli amministratori dell’Istituto avrebbero propeso per scelte più economiche, ma certo meno idonee: il linoleum al posto del legno; scelte casuali e affrettate per le tappezzerie. Viale con pazienza, ma altrettanta determinazione, impose le sue scelte per l’interesse vivissimo che portava per ogni minimo dettaglio, spingendosi a dare indicazioni molto tecniche e concrete: suggeriva ad esempio di valutare la buona stagionatura del legno per i pavimenti e che la scelta delle tappezzerie fosse preceduta da una prova attenta su una zona limitata della parete per verificarne l’effetto finale. Più laborioso lo studio per la predisposizione di adeguate vetrine per l’esposizione degli oggetti, per le quali era stata stanziata una somma ragguardevole nel bilancio dell’esercizio 1929, oltre alle quindicimila lire per la provvista di pavimenti in legno e tappezzerie41. Dopo lunghe trattative con artigiani locali e torinesi, dopo discussioni e 40 AIBAV, m. 162: verbale del Consiglio di Direzione del 25 settembre 1928. La corrispondenza è conservata in AIBAV, m. 49. 41 AIBAV, m. 162 per verbale Consiglio di Direzione dell’11 dicembre 1928 e m. 25 bis per verbale Assemblea dei Soci del 7 maggio 1929, nella quale il presidente Carlo De Rege Thesauro di Donato si compiaceva che il Consiglio di Direzione “senza ricorrere a finanziamenti straordinari, abbia trovato modo di gradatamente provvedere i mezzi occorrenti per la definitiva e completa sistemazione del Museo”. 194 Storia di una collezione Fig. 1. Museo Leone.Vetrina delle Ceramiche (manifatture italiane XVI-XVIII secolo). Allestimento Viale 1930 circa. Proprietà museo Leone. modifiche, il lavoro fu affidato al falegname vercellese Giovanni Ranghino, che le realizzò, su disegni di Cesare Cerallo (insegnante presso l’Istituto di Belle Arti), vagliati e modificati, quando era il caso, da Viale, che raccomandava “la maggior semplicità e la massima leggerezza nella costruzione compatibilmente alle necessità tecniche e alla architettura del mobile”. Le vetrine, ancora oggi in uso per le collezioni di arte decorativa, erano di due tipi: uno molto semplice con intelaiatura in legno e grandi ante vetrate, l’altro più ricercato di linee barocche42 (fig. 1). AIBAV, m. 49: lettere 19 dicembre 1928 e 8 marzo 1929. AIBAV, m. 53: il lavoro fu affidato al Ranghino (con laboratorio in piazzetta S. Marco) sulla base di un preventivo di 17.350 lire, datato giugno 1929. Dovevano essere realizzate: “una grande vetrina a quattro facciate per grandi vasi apuli per la sala “Antiquarium”; tre vetrine a tre facciate ed una a quattro facciate per la sala delle Antichità vercellesi; una vetrina per una preziosa collezione di oggetti peruviani; due vetrine a tre facciate per il corridoio (ferri battuti); una vetrina in 42 195 Anna Maria Rosso Se la realizzazione dei lavori di sistemazione delle sale procedeva regolarmente, i sopralluoghi di Viale per la schedatura degli oggetti subivano forzate interruzioni per il freddo invernale, già a partire dalla stagione 1928-1929, tanto che l’11 marzo il segretario gli scriveva: “ [...] dato il miglioramento della temperatura, verificatosi in questi ultimi giorni, c’è da ben sperare che dopo Pasqua i locali del Museo - dei quali ogni giorno nelle ore più calde faccio aprire le finestre - siano più ospitali!”. E Viale rispondeva: “Grazie per l’attenzione di far aprire le finestre al primo sole di primavera per fare intiepidire i locali. Spero davvero di trovare alla mia venuta una buona temperatura!”. Il freddo del Museo, che accompagnava e rallentava i lavori, era evidentemente un elemento tanto caratterizzante da essere menzionato anche nella testimonianza di Giovanni Testori, riportato da Enrica Pagella, che ricordava il sodalizio con Viale all’epoca della mostra di Gaudenzio nel 1956 e “le riunioni fatte nello stanzino direzionale del museo Leone, entro il pieno dell’inverno che a Vercelli, quando vuole, sa essere durissimo e inclemente”43. Nel giugno del 1929, riferendo in Consiglio sui lavori in corso, attuati “con molta competenza e diligenza”, dalla cui esecuzione “rifulgerà ancora maggiormente l’alta benemerenza del compianto fondatore del museo, che ha saputo raccogliere, in lunghi anni, una grande quantità di oggetti vari di somma importanza storica ed artistica, facendone poi dono a questo Istituto di Belle Arti, del quale fu per molti anni zelante e intelligente Consigliere di Direzione”, il prof. Verzone comunicava anche che Viale, incaricato del ruolo di Ispettore alle Antichità delle Marche, era in partenza per Ancona. Nello stesso mese di giugno usciva su “La Stampa” un articolo di Goffredo Bendinelli, ordinario di Archeologia dell’Università di Torino, frutto di una visita compiuta al museo nei giorni precedenti. L’articolo, poi ripubblicato anche da “La Sesia” il 21 giugno, metteva in evidenza le caratteristiche e la qualità della collezione Leone a tal punto che la Direzione decise di farne una piccola, elegante pubblicazione44. Dalla descrizione delle sale stile barocco a quattro facciate per vasi di grande valore nel salone delle ceramiche; quattro vetrine in stile barocco per la sala degli oggetti preziosi (ori, lastre, ventagli, placchette ecc.)”. 43 AIBAV, m. 49. Pagella 2002, pp. 145-146. 44 Bendinelli 1930. L’opuscoletto è illustrato dall’unica fotografia conosciuta di Camillo Leone (eseguita da Danesi, Roma), “scontroso umanista e geniale raccoglitore”; il notaio è 196 Storia di una collezione di palazzo Langosco si deduce che il lavoro di Viale, “un giovane valoroso quanto modesto”, costituito da allestimento e schedatura di migliaia di opere, era in corso di completamento, a un anno circa dall’incarico. Risultava terminata la sezione archeologica: l’Antiquarium con reperti di varia provenienza e l’importante raccolta dei vasi italici, posto nel salone d’ingresso al primo piano, e la sala delle “antichità vercellesi” (fig. 2). In una descrizione di poco successiva, in 2. Scheda della sezione archeologica, manoscritta da Vercelli nella storia Fig. Vittorio Viale, anni 1928-1930. e nell’arte del 1930, Eugenio Treves parlava delle raccolte, sia archeologiche che di arti decorative, come appena riordinate da Viale “con dottrina ed amore”45. Quindi il lavoro procedeva velocemente nonostante l’incarico di Ispettore, che lo costringeva lontano da Torino per lunghi periodi. ritratto seduto su una savonarola; spiccano i lunghi, originali baffi. Al mignolo sinistro porta un vistoso anello con pietra, certamente quello che attirava Olga Rossaro, figlia del pittore Ferdinando, da bambina, ogni volta che il notaio, amico del padre, la faceva sedere sulle sue ginocchia, come racconta lei stessa in una lettera (Vercelli, archivio privato) dell’interessante corrispondenza con Giovanni Rosso (1916-2009), autore nel 1978 del volume Ferdinando Rossaro pittore (1846-1927). 45 Treves 1930, pp. 20-23. 197 Anna Maria Rosso Ancor più necessaria in questo momento veniva a essere la collaborazione con Cavigiolio, riconosciuta dallo stesso Viale: ”[...] Di questo il merito è, come sempre tutto suo, ed io La ringrazio per la collaborazione cortese che anche in mia assenza Ella dà alla comune opera della sistemazione del Museo”46, che gli permette di continuare anche da lontano ad interessarsi della sistemazione del museo. Risalgono a questo periodo le trattative per ottenere il deposito del prezioso altare ligneo di Guardabosone, che vide il coinvolgimento determinante anche del soprintendente Pacchioni47. Il precipuo interesse archeologico di Viale in quegli anni emerge, nella corrispondenza, dalle richieste di notizie circa gli scavi effettuati in città, in occasione dei lavori per la costruzione della rete fognaria a porta Milano, della costruzione dell’ospedale Bertagnetta sulla strada per Casale e del nuovo Teatro civico. Con una terminologia che ricorda da vicino quella usata da padre Luigi Bruzza nelle lettere a Camillo Leone di cinquant’anni prima48, raccomandava la necessità di controllo facendo appello a uno degli scopi statutari dell’Istituto, perché “c’è la mania di nascondere i ritrovamenti fatti e invece la cosa è troppo importante per la storia e la topografia di Vercelli”. Anticipava quanto scriverà nel 1971, nell’introduzione al volume “Vercelli e il Vercellese nell’antichità”, dove esaminerà “per tempi e per luoghi” sia i ritrovamenti recenti sia quelli ottocenteschi, “riprendendo gli amati studi giovanili” e avendo nella mente e nel cuore gli studi di padre Luigi Bruzza, di Ermanno Ferrero e di Camillo Leone, da lui definiti “fondatori” dell’archeologia vercellese49. La sua assenza da Vercelli preoccupava non poco gli amministratori tanto che il 13 agosto si inviava a Giuseppe Moretti, soprintendente alle Antichità delle Marche degli Abruzzi e di Zara, la richiesta di concedere allo studioso “una congrua licenza,” che gli consentisse di condurre a termine “il complesso lavoro, che già trovasi in stadio molto avanzato”, fornendo una dettagliata descrizione di quanto già realizzato “con ammirevole operosità e competenza”. Il prof. Moretti rispondeva assicurando che il dott. Viale sarebbe tornato a breve a Vercelli per compiere il lavoro, “che è suo 46 47 48 49 AIBAV, m. 49: lettera di Viale da Ancona del 29 luglio 1929. L’Altare di Guardabosone risulta già al museo nell’aprile del 1930 (AIBAV, m. 49). Rosso 1987, pp. 387-396; Sommo 1994, pp. 403-434. Viale 1971, pp. 7-8. 198 Storia di una collezione impegno ed onore. Ciò faccio tuttavia tanto più volentieri quanto più sono sicuro che un Museo ordinato con la sua ben nota competenza non può riuscire che un’opera in tutto perfetta”50. Quali fossero le linee direttive per l’organizzazione del nuovo allestimento sono testimoniate dagli acquisti, ad esempio, cui provvide fin dal 1929, dei monili in filigrana, futuro nucleo di quella sezione etnografica, che prevedeva anche l’esposizione dei pizzi della collezione Leone e di costumi locali e valsesiani da acquisire. Questi manufatti avrebbero infatti ben figurato in un tipico “museo provinciale”, quale doveva diventare il Leone. Nell’interessante Relazione sui lavori, presentata alla riunione del Consiglio del 20 agosto 1945, Viale scriveva: “Ma non nascondo che nel tracciare quel piano ebbi di mira anche il disegno di fare del museo Leone, a me carissimo per vincoli di patria, un vero modello di Museo Provinciale: impostato cioè sulla moderna concezione che questi musei locali, oltre a essere una raccolta e una esposizione di oggetti rari e curiosi, devono al pari di una scuola, istruire ed educare rivolgendosi con una appropriata sistemazione didascalica, in una attraente varietà di aspetti alla mente ed al cuore di larghe masse di popolo”51 . L’idea di inserire nelle raccolte artistiche anche sezioni di oggetti con valenza provinciale o regionale venne ripresa di lì a poco tempo anche per l’allestimento del museo civico di Torino52. Anche la sezione archeologica si era frattanto arricchita, dopo la cessione ai canonici Lateranensi della basilica e del chiostro di S. Andrea, con la concessione da parte del Municipio di Vercelli e per il diretto interessamento del podestà Tournon, che era anche membro di diritto del Consiglio AIBAV, m. 49, lettere del 13 agosto e 11 settembre 1929. AIBAV, m. 661: relazione del direttore dott. Vittorio Viale sulla risistemazione del museo Leone, presentata durante la seduta dell’Assemblea Generale del 20 agosto 1945. 52 Nella rivista “Torino” del 1931, pp. 3-23, a proposito di “pochi pezzi” di oreficeria vercellese, Viale scriveva: “È anche questa del folklore locale una sezione da formare. Le antiche usanze, i ricchi costumi, gli ornamenti e anche gli umili oggetti creati con vivo senso d’arte un giorno dall’artigianato per il vivere quotidiano, vanno di giorno in giorno perdendosi sommersi dal rapido dilagare delle piatte e “standardizzate” creazioni della modernità. Ora a me pare che sia connaturato al carattere del Museo, e alla sua funzione di raccolta regionale, conservare i pochi superstiti avanzi e tramandarli al futuro”. Per le filigrane del museo Leone si vedano Thellung 1996, pp. 77-81, e bibliografia precedente; Lenti 2007; Rosso 2007, pp. 7-10. 50 51 199 Anna Maria Rosso dell’Istituto di Belle Arti, dell’interessante raccolta di reperti romani e di sculture medioevali del museo Luigi Bruzza53. La nomina di Viale a direttore del Museo Civico di Torino il 10 febbraio 1930 e i successivi, impegnativi lavori per il restauro della nuova sede di palazzo Madama, contribuirono a rallentare nuovamente i lavori a Vercelli, tanto suscitare la preoccupazione dei Consiglieri, che contavano sull’ultimazione dei lavori per l’autunno, consolidatasi in un drastico e forse troppo precipitoso sollecito, dolendosi che “la S.V., per quanto assorbita da altre importanti occupazioni, non abbia trovato il modo di completamente assumere l’incarico, che con illimitata fiducia [...] le era stato conferito”. Viale risponde con altrettanta decisione “sorpreso e amareggiato” per il tono ingiustificato della lettera a fronte di un impegno compiuto con “entusiastica fede, con appassionato lavoro, con indefessa abnegazione [...] per veder realizzata la visione, che io ho avuto, di un museo degno della mia Vercelli, e non ultimo fra i grandi musei italiani”. In realtà Viale, pur assente da Vercelli, aveva continuato a dare indicazioni scritte a Cavigiolio. Ne è testimonianza la lettera del 17 maggio nella quale dava precise direttive sui “cartelli” da applicare alle vetrine delle ceramiche e sui cartellini esplicativi da porre davanti a tutti gli oggetti artistici, ammettendo in effetti che “non sarà certo per chi lo farà lavoro tanto breve, mancano ancora la schedatura, anzi l’inventario, e la numerazione”54 (fig. 3). La questione verrà comunque positivamente risolta se già nel dicembre 1930 il consigliere prof. Faccio proponeva, per affrettare la conclusione dei lavori, di regolarizzare la posizione del dott. Viale proponendogli la direzione del museo con l’obbligo di permanenza a Vercelli di almeno un giornata a settimana. La proposta, dettagliata nella riunione del Consiglio del 27 febbraio 1931, ebbe l’appoggio incondizionato del podestà Tournon, che a sua volta propose di affidargli anche la direzione del museo Borgogna, aderendo alla “saggia direttiva” del Governo Nazionale, che prescriveva che non si disperdessero “le forze di enti che mirano a fini uguali o consimili, ma che esse debbano accordarsi in un’azione organica e unitaria”55. Nell’archivio dell’Istituto è anche conservata la lettera di sollecita accettazione dell’in- AIBAV, m. 25 bis: relazione morale dell’aprile 1930. Sommo 1982, pp. 171-190 e Sommo 1994, in particolare pp. 43-65. 54 La citata corrispondenza è in AIBAV, m. 68. 55 La delibera, stralciata dal verbale della seduta del Consiglio di Direzione del 5 giugno 1931 (AIBAV, m. 163), fu approvata dall’autorità tutoria il successivo 22 luglio. 53 200 Storia di una collezione Fig. 3. Torino, museo Civico di palazzo Madama. Sala delle Ceramiche. Visita del principe Umberto di Savoia (1934?). Accanto alla vetrina è riconoscibile il direttore del museo Vittorio Viale (Archivio Fotografico Musei Civici di Torino). carico, nella quale Viale scriveva al podestà: “Il lavoro lo compirei con lo stesso vivo amore, che ho messo per l’ormai quasi compiuta opera al museo Leone. Credo che con una direzione continua e unica i musei vercellesi possano divenire una magnifica istituzione, degna veramente della nobile città, che Lei con tanto amore e intelligenza regge”56. Nel 1931 uscì il volume di Guido Marangoni “Vercelli, il Biellese e la Valsesia”57. I suggerimenti dell’autore circa l’ordinamento dei due musei vercellesi si concretizzarono nell’ambito del progetto museografico di Vittorio Viale, divenuto proprio in quell’anno direttore di entrambi i musei. Nella seduta del 12 luglio, il direttore Carlo Verzone illustrò la proposta di trasferire in deposito al museo Borgogna i dipinti della collezione Leone e dell’Istituto di Belle Arti, la cui collocazione nelle gallerie del museo, costruite allo scopo nel 1910, era “infelicissima”. La temperatura, che in esse si raggiungeva nella stagione estiva, era tale da causare gravi danni ai dipin56 57 AIBAV, m. 68. Marangoni 1931, pp. 97-99. 201 Anna Maria Rosso ti, per ovviare ai quali sarebbero state necessarie ingenti spese. Il Borgogna avrebbe in cambio ceduto “gli ori, le porcellane ed altri oggetti d’antichità e d’arte da esso posseduti”. In tal modo i due Musei avrebbero assunto carattere più organico e i dipinti avrebbero trovato una sede più idonea, tanto più che l’Amministrazione del museo Borgogna aveva già deliberato di costruire nuovi locali espositivi. La proposta fu approvata all’unanimità58. Nella già citata Relazione del 1945, l’operazione venne spiegata da Viale come la naturale soluzione per una più ordinata lettura delle due collezioni che “secondo le precise disposizioni dei loro generosi fondatori convenivano ad un fine comune: quello di essere mirabile ornamento della città e proficui e vivi strumenti di natura; e che conveniva pertanto dare a ciascun Istituto un suo particolare carattere e indirizzo: di museo essenzialmente antiquario con speciale riferimento alla storia di Vercelli al museo Leone; di vera e propria pinacoteca al museo Borgogna”. Il presupposto quindi di una scelta così forte stava proprio nel considerare i due musei come due entità interdipendenti di un unico progetto culturale, “come un nucleo vitale nel tessuto della città”59. In questo modo si attuavano anche le lungimiranti proposte, emerse più volte nel passato, di alcuni amministratori dell’Istituto, tra cui Federico Arborio Mella e Adriano Tournon60, al quale l’Istituto è debitore della proposta, di grande rilievo per la creazione del nuovo museo, del restauro di casa Alciati. 58 AIBAV, m. 163: verbale Consiglio di Direzione 12 luglio 1932. In AIBAV, m. 49, si trovano gli elenchi delle opere oggetto di reciproco scambio. 59 Argan 1967, p. 6. 60 L’ing. Adriano Tournon (Pavia 20 ottobre 1883 - Torino 13 settembre 1978) entrò a far parte dell’Istituto di Belle Arti nel 1917. Fu membro del Consiglio dal 1920 al 1926, anno in cui si dimise per i gravosi impegni derivati dalla sua nomina a Podestà. Di fatto, proprio per questa nomina, continuò ufficialmente a farne parte, dal momento che lo Statuto prevedeva come “membro nato” il sindaco della città. Ricoprì anche la carica di Regio Ispettore onorario ai Monumenti. L’interessante figura di Tournon non è ancora mai stata studiata in modo approfondito (si veda la recente biografia in Ogliaro 2016, pp. 218-221). In Ordano 2009, in particolare p. 180, l’autore, con la consueta obiettività dello storico, definisce Tournon: “il miglior amministratore che abbia avuto Vercelli nel secolo XX” elencando, oltre all’opera di risanamento della Furia, numerosi interventi attuati nel periodo in cui fu podestà, dal 1927 al 1935. Conclude scrivendo che “all’ing. Tournon l’ingrata città non dedicò neanche un vicolo”. Nel 2012 l’amministrazione comunale del sindaco Andrea Corsaro, dietro suggerimento della direzione dell’Istituto, provvide a dedicargli il Cavalcavia, costruito su suo progetto. Le opere di abbellimento della città e i lavori pubblici, citati da Ordano, voluti da Tournon o da lui stesso progettate, sono dettagliatamente descritti nell’articolo “Il volto e l’anima di Vercelli dalla marcia su Roma ad oggi” nei paragrafi “Crescendo meraviglioso”, “Opere per milioni”, “La ex Furia” in “La Sesia”, 16 maggio 1939, alla vigilia della visita di Mussolini a Vercelli. 202 Storia di una collezione 3. Il restauro di casa Alciati (1930-1934) Già nel 1927 l’ing. Tournon aveva richiamato l’attenzione del Consiglio sull’opportunità di “provvedere al restauro e al ripristino del fabbricato di proprietà del Museo Leone in via G. Verdi, trattandosi di costruzione del Cinquecento che ha molti pregi artistici”, dimostrando fin da allora particolare attenzione per gli aspetti artistici e storici della città. Si trattava di una proprietà del notaio Leone, ereditata dalla madre Rosa Martorelli, antichissimo edificio fatto costruire dagli Alciati, famiglia di piccola nobiltà terriera, all’inizio del Cinquecento. Giovan Battista Martorelli l’acquistò nel 1732 da Giorgio Alciati61. Pesanti lavori di rifacimento ne avevano occultato già nel XVIII secolo le linee originarie. Ridotti gli ambienti a povere abitazioni, nella seconda metà dell’Ottocento e fino al momento del restauro, la casa era stata destinata alla locazione (figg. 4-5). Mentre l’ing. Paolo Verzone, incaricato su indicazione del consigliere Leblis, provvedeva all’esecuzione dei disegni di rilievo dell’edificio, nel bilancio preventivo 1928 veniva già inserito tra le spese straordinarie lo stanziamento di 20.000 lire per il suo restauro62. Furono anche avviate pratiche con i comproprietari, il sig. Giovanni Fortina e il convento di Santa Chiara, per la cessione delle rispettive quote della strada privata (la antica, malfamata “Ruazza”), che univa via Camillo Leone a via Verdi, passando dietro l’edificio in questione, in prospettiva di un ampliamento futuro dei fabbricati del museo attraverso il collegamento di casa Alciati con palazzo Langosco. Non ultimo tra i vantaggi del restauro era quello di consentire l’apertura, in via Verdi di fronte alla sede della Banca d’Italia, di “ un più comodo, grandioso e diretto accesso al Museo”63, anticipando una considerazione di Viale, a proposito di palazzo Madama: “Nulla più richiama il visitatore e meglio lo concilia al museo che un decoroso bell’ingresso”64. Tournon aveva invece proposto l’utilizzo dei locali restaurati come sale di lettura della Biblioteca del Museo e lo spostamento della Biblioteca Civica in un fabbricato da costruirsi sul terreno adiacente65, ritenendo che in questo Si veda il contratto d’acquisto in AML, m. 3-I. Su Paolo Verzone (1902-1986), si veda Verzone 2005 e, in particolare, Re 2005, pp. 127-131. 63 AIBAV, m. 162: verbali delle sedute del Consiglio degli anni 1927-1930. 64 Rivista “Torino” 1931, pp. 16-17. 65 AIBAV, m. 162: verbale Consiglio di Direzione 25 settembre 1928. 61 62 203 Anna Maria Rosso Fig. 4. Casa Alciati, cortile prima dei restauri. Prima metà anni Venti. Al centro, seduta, Sabina Viazzo, già cuoca del notaio Leone. Alla sua sinistra Angiola, figlia del rag. Riccardo Cavigiolio. Collezione privata. modo gli studiosi avrebbero potuto, in una zona centrale della città, “avere a disposizione locali più confortevoli e meglio rispondenti alle finalità comuni che si prefiggono le due Istituzioni”. Una copia del progetto dell’ing. Verzone, costituito dai disegni di rilievo e di restauro, datati 10 gennaio 1930, e da una relazione illustrativa, è conservata nell’archivio dell’attuale ditta Bona, che discende dall’impresa Bona e Bosso, incaricata dei lavori66. La lettura della Relazione descrittiva, molto dettagliata, è utile per avere una precisa idea degli edifici prima del restauro e della consistenza degli interventi. Le modifiche avvenute nei secoli precedenti, soprattutto nel XVIII secolo, furono così pesanti da nascondere le linee della costruzio- 66 AIBAV, m. 50 e m. 51. Il progetto fu approvato nel febbraio 1930; l’approvazione dell’autorità prefettizia (n.4155) è del successivo 15 marzo. La R. Soprintendenza all’arte medioevale e moderna aveva già trasmesso l’autorizzazione ai lavori il 30 luglio 1929 probabilmente sulla base della Relazione, datata 1 giugno 1929. Sono grata all’arch. Mario Bona per avermi concesso la consultazione dei citati disegni di progetto. Alcune tavole furono pubblicate in Verzone 1936. 204 Storia di una collezione Fig. 5. Casa Alciati (fine XV-inizio XVI secolo), il cortile oggi. Proprietà museo Leone. ne originaria, palesi ormai solo più nella struttura del cortile, nonostante l’otturamento di alcune arcate per ricavarne poveri ambienti abitativi. Il prospetto del corpo di fabbrica verso ovest, su via Verdi, presentava caratteri ottocenteschi talmente modesti da suggerire al progettista che “nulla di antico, di caratteristico o di pregevole è possibile rintracciarvi anche con un minutissimo esame”, e le condizioni di abitabilità erano così “infelici” con pavimenti consunti, serramenti rozzi e sconnessi, porte fatte di assi inchiodati, intonaci cadenti da conferire “all’edificio un aspetto di squallore e di povertà ripugnante”. Diverse le condizioni del fabbricato sul lato est, che al pianterreno conservava evidenti tracce antiche: il soffitto a cassettoni, il grande camino in stucco, la decorazione affrescata, le finestre dalla forma originaria. L’ing. Verzone proponeva anche l’utilizzo degli ambienti restaurati per l’esposizione delle sculture medioevali e moderne, “ora disseminate per il Museo”, e dei resti del pavimento musivo dell’antica S. Maria Maggiore. Auspicava a questo proposito che il Comune, come di lì a poco in effetti avvenne, consentisse a cedere in deposito i reperti del Lapidario Bruzza, per incrementare la raccolta Leone. In altre sale avrebbero potuto essere esposti dipinti e oggetti artistici di epoca rinascimentale, adeguati all’epoca della casa. 205 Anna Maria Rosso In attesa che venissero a scadenza i contratti di affitto “di due botteghe e di locali a queste annessi” si decise di iniziare i lavori, affidati alla ditta geom. G. Bona e ing. V. Bosso e ammontanti, per questo primo lotto, a circa 62.000 lire, con la sistemazione del cortile e di alcune stanze già dismesse dagli inquilini. Fu durante l’esecuzione di questi primi lavori che vennero alla luce in ben nove ambienti, disposti attorno al cortile centrale, tracce consistenti di suggestive pitture murali cinquecentesche, concordemente attribuite, allo stato attuale degli studi, al pittore vercellese Eusebio Ferrari. Il ciclo di affreschi risponde a un progetto compositivo unitario: scene di soggetto profano e mitologico si inseriscono nelle riquadrature delle pareti, concluse in alto da un raffinato fregio continuo a motivi vegetali e grottesche. Il grande camino del salone al pianterreno porta dipinto lo stemma della famiglia Alciati67. L’impegnativo restauro delle decorazioni ad affresco, liberate dagli intonaci e da strati di scialbo, fu affidato a Carlo Cussetti (1867-1949), con il quale Viale aveva instaurato un proficuo legame professionale fin dalla sua nomina a direttore dei musei civici torinesi68. Per l’Istituto Cussetti restaurerà anche alcune antiche e preziose tavole di scuola vercellese, come il Polittico di Bianzé, la cui ricomposizione fu oggetto di un’altra importante operazione voluta da Viale in quegli anni69 (figg. 6-7). L’inaugurazione dei musei Leone e Borgogna, ampliamente riordinati, Per le notizie storico-artistiche sugli affreschi si si vedano le schede ministeriali OA (dal n. 00033365 al n. 00033379), redatte dalla sottoscritta nel 1984 su incarico della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici per il Piemonte, sotto la direzione della dott.ssa Paola Astrua, alla quale fui debitrice di preziosi suggerimenti. Pur non ancora studiati in modo dettagliato e nel loro complesso, gli affreschi sono stati oggetto dell’attenzione di tutti gli storici dell’arte specializzati sulla pittura piemontese del XV e XVI secolo, a partire da Giovanni Romano nel 1983-84. Gli interventi più recenti sono quelli di Villata 2003, pp. 61-86; Baiocco Manchinu 2004, pp. 72-77. L’accenno a un riferimento mantegnesco si trova in Agosti 2005, pp. 381-382, nota 104. Gli affreschi furono oggetto di due campagne di restauro negli anni 1994-1995 (Consorzio Restauro Dalla Nave-Perugini di Roma) e nel 2006-2007 (Brancato-Mantelli-Pellegrino S.n.c. Restauri) sotto la direzione di Paola Astrua, funzionario della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici per il Piemonte. 68 “Dai frequenti incontri [...] mi ero ben potuto convincere della sua profonda conoscenza delle tecniche e dei sistemi, della sua capacità non empirica, di vecchio praticante, ma fatta di studio, di esperienza e di prove; del suo religioso rispetto e della sua somma cautela di fronte all’opera d’arte [...] e mi è caro ricordare il restauro che nel 1934 insieme compimmo alle case Alciati e Centori di Vercelli”. (Viale 1948, pp. 219-221). 69 Lacchia 2015, pp. 15-25. In AMCTo, CMS 34: elenco dipinti restaurati da Cussetti. 67 206 Storia di una collezione e di casa Alciati, riportata all’aspetto originario dal lavoro condotto con grande sensibilità artistica e capacità tecniche dal giovane ingegnere, venne fissata per il 15 settembre 1934, anche questa volta, come già successo nel 1910, in occasione del Congresso Storico Subalpino, il XXVII, e alla presenza del conte de Vecchi di Val Cismon e del dott. Ugo Severini, commissario prefettizio dei musei70. I meriti e le capacità di Viale, ma anche degli amministratori che ne avevano sostenuto il progetto, furono evidenziati nell’articolo “I musei di Vercelli riordinati”, pubblicato su “La Stampa” dell’11 settembre 1934, con il significativo sottotitolo di “L’Italia nuova per la sua gloria antica”. L’autore, Marziano Bernardi, evocava “la non sgradita ma confusa” impressione che il visitatore aveva dei Musei prima del loro riordinamento: “oggetti stupendi frammisti e quasi soffocati da un profluvio di costose rigatterie, tele e tavole rare da far invidia a gallerie insigni, ma quasi tutte grossolanamente restaurate o ingenuamente ridipinte, sperdute fra dozzine d’opere insignificanti o brutte addirittura e, peggio, di copie tanto banali quanto inutili”. Il severo giudizio si trasformava in compiacimento per la scelta di creare “una partizione netta e avveduta” tra i due musei e di seguire il rigoroso criterio di “scartare tutto ciò che era scadente per far risaltare le cose veramente degne”. Il critico della “Gazzetta del Popolo”, Emilio Zanzi, riprese i concetti espressi da Marziano Bernardi, a un anno di distanza, in occasione dell’uscita della Guida ai Musei di Vercelli, ennesima fatica di Vittorio Viale, pur particolarmente impegnato a Torino con il trasferimento del museo civico a palazzo Madama e l’organizzazione della Mostra storica di palazzo Carignano, tanto da non poter partecipare all’importante Convegno di Museografia di Madrid71. Anche Zanzi colse l’occasione per lodare “il radicale riordinamento condotto a termine con severità critica, con amore e con molta e scrupolosa cura [...] di due piccole Gallerie d’arte che possono essere additate come esemplari non soltanto per la preziosità e l’importanza di non poche opere, ma specialmente per il modo col quale queste sono presentate e messe nel giusto posto e nella luce più propizia.” E ancora: “Nel cuore della città agricola e industre non ci sono più le strane e tristi gallerie imbot- 70 71 Il 15 maggio 1934 era morto il prof. Carlo Verzone, presidente dei due musei vercellesi. Kannes 2011, pp. 70-79. 207 Anna Maria Rosso 208 Fig. 6. Casa Alciati, sala delle Virtù (1° piano). Affreschi attribuiti a Eusebio Ferrari, primo quarto XVI secolo. Storia di una collezione 209 Fig. 7. Casa Alciati, sala delle Virtù, “La Fede”, prima e dopo il restauro Cussetti. Proprietà Archivio Fotografico Musei Civici di Torino. Anna Maria Rosso tite di roba d’ogni qualità, disertate dal pubblico e ignorate anche dai cultori di arte antica e moderna. I riordinati e accoglienti musei sono diventati due centri di studio e di indagini nei quali i giovani volonterosi potranno trovare ottimo e forte inesplorato materiale”72. Dalle interessanti pagine della Guida, arricchite da un consistente apparato fotografico, esce la ricostruzione puntuale degli allestimenti delle collezioni, descritte sala per sala per la prima volta in modo critico, e dei principali criteri museografici, ai quali ci si era attenuti. La memoria della solenne cerimonia di inaugurazione e le vicende storiche dei due musei furono invece illustrate nella relazione introduttiva del commissario Severini. A completamento del restauro di casa Alciati vennero acquistati per decisione condivisa del direttore tecnico dei lavori, ing. Verzone, e del direttore artistico del Museo, dott. Viale, un soffitto risalente alla fine del XV - inizio XVI secolo con decori ad intarsio del tipo “alla certosina”, dall’antiquario vercellese Pio Dazza, e alcuni mobili antichi. Questi ultimi - due sedie, quattro poltrone Savonarola e due grandi tavoli - provenienti dalla bottega antiquaria del famoso Pietro Accorsi73, avevano il compito di eliminare “nel visitatore il senso di freddezza prodotto dall’attuale mancanza di un qualsiasi arredamento”. Nella relazione, presentata all’Assemblea Generale del 20 agosto 1945, in vista della riapertura del Museo dopo la guerra, Viale suggeriva: “La casa Alciati va lasciata com’è, stupendo e singolare ingresso al museo: occorrerà solo studiare la possibilità di illuminarne suggestivamente gli ambienti, e, con il tempo, di accrescerne di qualche po’ lo scarno ammobigliamento”74. Nei mesi successivi Verzone completò il progetto di risistemazione del Museo con un primo tentativo di collegamento tra la restaurata casa Alciati Zanzi 1935. L’articolo fu ripreso da “La Provincia di Vercelli”, 23 agosto 1935. Il critico trattò ancora l’argomento in “Gazzetta del Popolo”, 24 gennaio 1936, nell’articolo “Vercelli città d’arte. Distruzione dell’antico patrimonio architettonico. La scuola pittorica. Settecento inedito”, nel quale sottolinea i meriti del senatore Adriano Tournon grazie al quale Vercelli “non è più ignorata nel complesso del suo patrimonio d’arte”, ma “ ha saputo richiamare su di sé l’attenzione e l’affetto degli studiosi di tutto il mondo”. Zanzi in quest’occasione ricorda altre due importanti pubblicazioni per la storia dell’arte vercellese, uscite in quegli anni: L’architettura romanica nel Vercellese di Paolo Verzone e la monografia su Vercelli nel Catalogo delle Cose d’Arte e d’Antichità d’Italia di Anna Maria Brizio. 73 Si veda Antonetto - Cottino 1999. 74 AIBAV, m. 53 e m. 661. Il soffitto fu messo in opera nella stanza del primo piano, collocata a nord ovest (oggi Biblioteca delle Cinquecentine). 72 210 Storia di una collezione e palazzo Langosco: la costruzione di un corridoio e di una grande sala ovale (ottagonale in un primo progetto), che avranno vita breve. Sono infatti ben visibili ed evidenziati in giallo, come strutture da demolire, nel progetto esecutivo della sistemazione del 193975. 4. Vittorio Viale e Augusto Cavallari Murat: l’allestimento del 1939 Nell’introduzione alla Guida - Itinerario della mostra Vercelli e la sua provincia dalla Romanità al Fascismo, uscita qualche mese dopo l’inaugurazione, la Federazione dei Fasci di combattimento, che ne fu l’ente promotore, spiegava le ragioni della scelta e la cronistoria della sua organizzazione, a partire dal 3 gennaio 1939, data in cui fu esposta ai rappresentanti dei maggiori enti locali “l’idea di organizzare per la desideratissima venuta del Duce a Vercelli, una mostra che presentasse un quadro completo della ricostituita Provincia, della sua antica e nuova ben delineata unità, del suo saldo temperamento guerriero, della sua fervente fede fascista, dell’attività che in ogni tempo, ed in ogni campo, ha contraddistinto l’operosa vita del suo popolo, e del contributo che, per la sua parte, questa nostra terra ha dato e dà alla storia, all’arte, alla vita della Nazione”76. Dell’ organizzazione della mostra fu incaricato il dott. Viale, il quale propose come “opportunissima” sede il museo Leone. L’opportunità appunto di questa scelta fu evidenziata anche nella lettera indirizzata al ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, nella quale si richiedeva l’autorizzazione a concedere il prestito di alcuni dipinti: “Mi permetto aggiungere, anzi, che questa prima parte della mostra è stata organizzata in modo da costituire già la quasi definitiva sistemazione delle raccolte del Museo stesso. Se si è scelto infatti il museo Leone come sede della mostra, è perché si dava al benemerito Istituto l’occasione e la possibilità di mirabilmente ordinare una grande parte delle sue raccolte. Si viene ad ottemperare così anche alle disposizioni che Voi, Eccellenza, avete dettato nella recente Vostra circolare sulle opportunità di migliorare con nuovi criteri tecnici e museografici la sistemazione dei materiali artistici ed archeologici”77. I disegni con breve relazione illustrativa sono conservati presso il già citato Archivio Bona e in AIBAV, m. 57. 76 Introduzione a Viale 1939, pp. V-VIII. 77 AML, cartella “Segreteria mostra. Provincia di Vercelli dalla Romanità al Fascismo”. 75 211 Anna Maria Rosso Fu questa infatti l’occasione propizia per mettere a frutto l’importante studio di completamento dell’allestimento del museo, che il direttore aveva portato avanti lavorando alacremente per tutto l’anno precedente, giovandosi della collaborazione dell’ingegnere torinese Augusto Cavallari Murat (1911-1989), con il quale aveva stretto un proficuo sodalizio fin dal 1935 all’epoca della mostra storica di palazzo Carignano78. Il giovane e capace tecnico aveva progettato insieme a Viale, nel 1938, l’allestimento della mostra Gotico e Rinascimento, sperimentando soluzioni d’ambientazione innovative e suggestive, applicate in gran parte anche nell’allestimento vercellese79. Una prima bozza di risistemazione dei locali e di una migliore collocazione delle collezioni, “in modo da rendere il Museo uno dei più moderni come ordinamento museografico”, era stata presentata fin dal 1937, in concomitanza anche questa volta con un altro importante impegno di Viale a Torino: l’organizzazione della mostra sul Barocco piemontese80. Una dettagliata presentazione del progetto, completa di disegni, avvenne in occasione della seduta del Consiglio del 22 gennaio 193881. Il direttore ne fece precedere l’illustrazione da un breve excursus storico sulle vicende delle collezioni, dal primo ordinamento dopo il decesso del fondatore, “limitato alla riunione delle collezioni della stessa specie e alla redazione di un sommario inventario delle stesse collezioni”, a quello realizzato sotto la direzione di Federico Mella e inaugurato nel 1912. Evidenziò tre fatti fondamentali, avvenuti sotto la sua direzione, che non solo mutarono “la consistenza sia delle collezioni come dei fabbricati”, ma costituirono essenziale premessa ad un grande progetto di allestimento, che avrebbe valorizzato per sempre le raccolte Leone e gli immobili che le ospitavano: il trasferimento dei dipinti al museo Borgogna; la consegna in deposito da parte del ComuMaritano in corso di stampa. Maritano 2008, pp. 187-212. 80 AIBAV, m. 163: verbali dei Consigli di Direzione del 22 giugno e 6 novembre 1937. Probabilmente a questa prima fase di studio si riferiscono le due planimetrie, conservate in AMCTo (CMS 33 - 2995), che presentano la situazione degli edifici antecedente i lavori del 1939 con molte correzioni, modifiche, appunti a matita di Viale. 81 AIBAV, m. 163: verbali sedute del 21 gennaio e del 21 giugno 1938, nella quale si acconsentiva al prestito di alcuni oggetti, non specificati, per la mostra Gotico e Rinascimento di palazzo Carignano. La mostra sarà meta di una gita d’istruzione degli allievi dell’Istituto di Belle Arti. 78 79 212 Storia di una collezione ne del Lapidario Bruzza; il restauro di casa Alciati, da arredare con mobili d’epoca e non destinata all’esposizione delle raccolte. Per palazzo Langosco Viale riprese il concetto museografico, a lui particolarmente caro e già attuato in palazzo Madama e nelle mostre torinesi, di “ambientare”, in questo caso di “ricreare un ambiente del Settecento”, in quelle sale che portavano tracce evidenti di antiche decorazioni. Le gallerie del pianterreno, già sede espositiva della collezione dei dipinti, opportunamente sistemate con l’apertura di finestre, furono destinate alla sezione archeologica, “da ordinarsi con criteri moderni”. In realtà la sezione archeologica e di storia della città sarà poi collocata nelle sale di collegamento con palazzo Langosco, costruite ex novo. La realizzazione del progetto era finalizzata allo scopo, sottolineava Viale, che il museo diventasse come un libro “chiaro, accogliente e fonte di diletto e di gioia”. In una successiva Assemblea Generale dei Soci il presidente dell’Istituto, Adriano Tournon, riferiva sullo stato degli studi progettuali per la definitiva sistemazione dei fabbricati e avvisava l’assemblea della possibilità che “i locali, sistemati come da progetto” avrebbero potuto costituire “una conveniente sede per una esposizione d’arte antica e moderna, quale è pure allo studio”, suggerendo a noi oggi l’idea che, anche in questa occasione, la figura carismatica del senatore sia stata ancora una volta determinante nella scelta, che verrà fatta di lì a poco. Quello del 30 dicembre 1938, importante per le delibere approvate, fu un Consiglio impoverito dalle dimissioni di due dei suoi membri più attivi, il prof. Eugenio Treves e l’ing. Giuseppe Leblis, “di razza giudaica”, triste presentimento degli imminenti tragici avvenimenti82. I consiglieri approvarono in via definitiva il progetto Cavallari - Viale e il bilancio preventivo del 1939, a conclusione di una dettagliata relazione del direttore Faccio sui precedenti riordini del Museo; sulla decisione di organizzare “una mostra della Provincia di Vercelli nella sua storia e nelle sue opere dalla romanità al fascismo, che dovrà attestare allo stesso Duce che Vercelli era degna L’ing. Giuseppe Leblis (Vercelli 1873 - Auschwitz 1944), nominato socio accademico dell’Istituto nel 1921, fu progettista affermato di lavori pubblici e di costruzioni private. Firmò nel 1915 il progetto di ampliamento del museo Borgogna (Sarasso 1974, pp. 129-138; Cerutti 2004, pp. 70-72). Il prof. Treves (Milano 1888 - Vercelli 1970), socio accademico dal 1923, fu insegnante di letteratura italiana e autore di saggi e novelle. Collaborò con il Palazzi alla stesura del noto vocabolario (Treves 1999 e Montano 2004, p. 80). 82 213 Anna Maria Rosso dell’onore fattole con la ricostituzione della sua Provincia” e sui risvolti positivi di cui beneficerà il Museo: la sistemazione definitiva delle collezioni con il concorso economico dell’Ente Mostra per l’ammontare di 270 mila lire, destinati in parte alle spese per la costruzione degli edifici progettati, in parte agli impianti di illuminazione e agli apparati espositivi, a fronte di un preventivo totale di 756 mila lire. L’eccedenza sarebbe stata coperta con l’accensione di un mutuo presso la Cassa di Risparmio di Vercelli di 500 mila lire. Giusto sottolineare la disponibilità benefica, fin da allora, dell’ente bancario, che stabilì da subito un’elargizione annuale, tale da coprire interamente l’importo degli interessi83. L’ing. Cavallari Murat, presente alla riunione, avvisò che “data l’urgenza e l’eccezionalità di sistemi e procedimento di lavoro (esecuzione in stagione invernale e contemporanea preparazione della mostra) e la speciale “attrezzatura tecnica museografica” era assolutamente necessario che le opere iniziassero immediatamente e che fossero conferite con trattativa privata a ditta specializzata, individuata poi nella Castaudi e Serra di Torino, che già aveva lavorato per le mostre torinesi84. I lavori, di notevole entità, iniziarono a metà gennaio con le previste demolizioni e il 10 febbraio con le nuove costruzioni. La scadenza venne fissata dal Capitolato d’appalto al 30 aprile: l’inaugurazione della mostra, momento centrale della visita di Mussolini a Vercelli, sarebbe avvenuta il 17 maggio. Nella “Relazione generale”, allegata al progetto, così Cavallari Murat descriveva i lavori: “L’attuazione di tale organico piano, con una adeguata ambientazione che tenga presenti le più recenti esperienze della tecnica delle esposizioni e dei musei moderni, richiede l’abbattimento di tre complessi edilizi e la costruzione di due nuovi complessi edilizi, studiati già in previsione della disposizione interna delle raccolte e delle vetrine [...]. Gli edifici da abbattersi sarebbero: le basse tettoie del carbonaio del vicolo Santa Caterina, le recenti salette circolari addossate a casa Alciati e parte della cosiddetta Galleria, le vecchie scuderie e la casetta addossata alla casa I consiglieri che parteciparono erano: il direttore prof. Giulio Cesare Faccio, il marchese Franco Arborio di Gattinara, l’ing. Giovanni Cavalli, il pittore Giovanni Tavallini, il podestà ing. Filippo Melchior. 84 La delibera di approvazione del progetto fu confermata dalla Giunta Provinciale Amministrativa il 31 gennaio 1939, atto 2565. 83 214 Storia di una collezione Leone verso la via San Michele; complessi edilizi indecorosi, o inadeguati, o pericolosi agli effetti della sicurezza del Museo e del suo nuovo piano di Ordinamento”85. L’iniziativa, di notevole valenza politica, ebbe adeguata cassa di risonanza sui giornali locali, che con frequenza aggiornavano la situazione, ponendo l’accento sulle finalità principali: sottolineare la nobiltà storica della nostra provincia, definita “fierissima ed eroica”, “aurea e fascista”; ed evidenziare “il suo contributo alla storia patria nella milizia, nelle scienze, nell’arte attraverso le vicende e gli splendori della romanità” nonché “le realizzazioni del regime fascista [...] segnatamente dalla ricostituzione della provincia di Vercelli ai giorni nostri”86. La valenza della mostra, meta centrale della visita del Duce, era “storico-politica-artistica”, esplicativa di una città che si basava su una vivace attività risicola; su una moderna gestione del lavoro agricolo, ma fiera anche del suo passato artistico, come tutti i giornali di quel periodo sottolineavano con il tipico linguaggio di esaltazione della politica fascista, evidente anche in alcuni titoli: “Vercelli eroica e fascistissima”, “Lo stesso fervore che edifica i Templi ha edificato le case Littorie della nostra Provincia”, “Crescendo meraviglioso”, “Il volto e l’anima di Vercelli dalla marcia su Roma ad oggi”. Man mano che ci si avvicinava all’inaugurazione i toni celebrativi dei fasti del Fascismo si alzavano e, di conseguenza, oggetto degli articoli sulla mostra erano, piuttosto che la risistemazione del Museo, le sale che documentavano, attraverso gli originali allestimenti del pittore Paolucci, le attività agricole e industriali, le numerose opere pubbliche (colonie elioterapiche, scuole, case littorie, ospedale della Bertagnetta, risanamento del rione Furia), i recuperi e restauri di monumenti artistici come il S. Andrea, palazzo Centoris, casa Alciati. Seguiva questa direttiva anche il lungo articolo apparso su “La Gazzetta del Popolo” il 13 maggio 193987. Particolarmente interessante la rara immagine, forse unica, ad illustrazione di un articolo apparso su “La provincia di Vercelli. Foglio d’ordini AIBAV, m. 57. Storia, arte, operosità della provincia di Vercelli, in “La Provincia di Vercelli”, 27 dicembre 1938. 87 Si vedano in particolare gli articoli de “La Provincia di Vercelli”, 21 febbraio, 10 marzo, 7 e 21 aprile, 16 e 21 maggio 1939; “La Sesia”, 3 gennaio, 14 aprile, 16 maggio 1939; “L’Illustrazione Biellese”, maggio-giugno 1939. 85 86 215 Anna Maria Rosso della Federazione dei Fasci di Combattimento”, che documentava lo stato dei lavori in corso: in primo piano sono riconoscibili le impalcature delle nuove costruzioni di raccordo con il prospetto interno di palazzo Langosco88 (fig. 8). Il successivo 7 aprile lo stesso giornale pubblicava la riproduzione del manifesto della mostra, realizzato, come tutto il materiale grafico e pubblicitario, dalla nota ditta torinese Gros Monti89 (fig. 9). Fig. 8. Lavori in corso della manica di raccordo tra casa Dava invece mag- Alciati e palazzo Langosco. Progetto ing. Cavallari Murat, 1939 (“La Provincia di Vercelli”, 10 marzo 1939). giore spazio alla sistemazione definitiva del Museo, “uno dei molti meriti di questa mostra”, anticipandone l’illustrazione qualche giorno prima dell’inaugurazione, l’articolo di Marziano Bernardi, che aveva parole di elogio per Viale, “un maestro in simili difficili imprese”, ricordando gli allestimenti delle grandi mostre torinesi, “indimenticabili per ogni persona colta”90. I lavori edilizi, iniziati “in un’atmosfera di entusiastica volontà e di pun- 88 “La Provincia di Vercelli”, 10 marzo 1939. Ringrazio Silvano Beltrame per questa segnalazione. 89 Nel dopoguerra, in questa azienda iniziò la sua carriera il giovane Armando Testa, che realizzerà nel 1950 il manifesto della mostra sul Sodoma al museo Borgogna (fattura in AIBAV, m. 676). Risulta anche che il pittore Enzo Gazzone nel marzo 1939 avesse vinto, ex aequo con Nicola Edel, un concorso bandito dal Comune di Vercelli per “un cartello pubblicitario” relativo alla mostra (lettera di comunicazione in archivio privato). 90 “La Stampa”, 12 maggio 1939. 216 Storia di una collezione Fig. 9. Biglietto d’ingresso alla mostra “Vercelli e la sua provincia dalla Romanità al Fascismo”, 1939. Azienda arti grafiche Gros Monti, Torino (AML, cartella “Segreteria mostra. Provincia di Vercelli dalla Romanità al Fascismo”). 217 Anna Maria Rosso tiglioso impegno da parte di dirigenti e di maestranze”91, avrebbero permesso di raggiungere due importanti risultati: con il raccordo tra casa Alciati, dove si trovava il nuovo ingresso, e palazzo Langosco si creavano gli ambienti necessari per una più efficace e moderna esposizione delle collezioni; con il congiungimento delle due maniche est e ovest di palazzo Langosco, verso via S. Michele, si sarebbe realizzata la continuità del percorso di visita per le sale espositive del primo piano. Quest’ultimo intervento aveva “preoccupato notevolmente il progettista” in quanto la nuova costruzione doveva risolvere il difficile problema di collegarsi alle costruzioni esistenti e “di completare, quasi fosse un semplice restauro, le belle linee architettoniche di questo eccezionale monumento dell’arte barocca piemontese”. La buona soluzione proposta affrontò e risolse anche il problema urbanistico “di correggere e migliorare lo slargo di via S. Michele e di creare in fondo a questo una decorosa quinta per chi giunge per detta via dal centro cittadino”92 (fig. 10). Non di poco conto furono a questo proposito le trattative per convincere le sorelle Giacometti a rinunciare al diritto d’uso dell’alloggio su tre piani, del quale usufruivano per disposizione testamentaria del notaio Leone, collocato nel lato sud del palazzo, e di accettare in sostituzione i locali del pianterreno dell’ala di levante93. Le caratteristiche tecniche e museografiche degli ambienti del raccordo, frutto dell’azione congiunta di Viale e del progettista, sono descritte dallo stesso Cavallari Murat nel saggio Prove museali a Torino e Vercelli, soffermandosi sull’uso dell’illuminazione e dei materiali e portando come esempio le soluzioni scelte per Vercelli, sovente confrontandole con quelle realizzate per la mostra torinese Gotico e Rinascimento dell’anno precedente, il modello più vicino al quale i curatori avevano attinto94. Molto evidente il concetto di “integrazione ambientale” nelle prime sei Dall’introduzione alla Guida - Itinerario, p. VI. Come ricordava l’allora giovane geometra Giuseppe Benedetti, assunto per coadiuvare l’ing. Cavallari con compiti di sorveglianza e di tenuta della contabilità, nell’imminenza della scadenza le maestranze lavoravano anche di notte per terminare i lavori entro il termine previsto (AIBAV, m. 55). 92 AIBAV, m. 55: “Relazione generale” del progetto di riordinamento e di ampliamento dell’ing. Cavallari Murat. 93 AIBAV, m. 163: verbale della seduta del Consiglio 31 gennaio 1939. Si veda anche, in questo stesso scritto, il paragrafo Il progetto dell’ing. Felice Delpozzo. 94 Il saggio è parte della raccolta di scritti “Come carena viva” (Cavallari Murat 1982, pp. 357-365). Si veda ancora Maritano 2008, pp. 187-212. 91 218 Storia di una collezione Fig. 10. Disegno di progetto del prospetto di palazzo Langosco verso via S.Michele. Ing. Cavallari Murat, 1939 (AIBAV, m. 31). 219 Anna Maria Rosso sale, dove i caratteri architettonici furono studiati per accordarsi alla tipologia degli oggetti esposti. Per il “salone romano”, fulcro della sezione archeologica, si scelse la forma di ampio respiro di un’aula basilicale, esemplificativo oggi, nella scelta dei materiali lapidei, nell’utilizzo dell’illuminazione da fonti naturali, nel diffuso ricorso a grafici e didascalie, dei principi museografici dei curatori. Lo spazio centrale è vuoto in modo che lo sguardo del visitatore sia immediatamente attratto dalla statua di Giulio Cesare, nell’atto del saluto romano, moderna interpretazione dello scultore Michele Guerrisi dell’Augusto di Prima Porta. Marziano Bernardi, nel già citato articolo del 12 maggio, ebbe parole di apprezzamento per lo scultore, la cui statua di Giulio Cesare anziché essere “un ennesimo freddo calco del tardo originale capitolino di età traianea ci dà un’immagine umana, viva e convincente [...] quale può pensarla ed attuarla uno scultore moderno”95. Il marmo levigato dei sarcofagi e degli altri reperti scultorei romani risaltano contro la superficie scabra delle pareti, rivestite di pietra grigia di Luserna (fig. 11). In quattro vani laterali si aprono otto vetrine, dove sono collocati i reperti archeologici del territorio, illuminati dalla luce esterna, filtrata attraverso il vetrocemento. In uno di essi, per ambientare otto pietre miliari, trova posto la ricostruzione di una strada romana, che si dirige simbolicamente verso Roma, indicata sulla pianta dell’Italia, dipinta in prospettiva sul fondo. Innovativo il sistema d’illuminazione, punto focale di ogni allestimento, come spiegano le parole dello stesso Cavallari Murat: “Incorniciatura e illuminazione sono da determinarsi tanto come azione critica estetica quanto come azione tecnologica. se è vero che esse sono pertinenti a due sfere professionali, quelle dei direttori di museo e degli architetti, comunque auspicabile sarebbe che le due figure di operatori coincidessero. Condannabile è che entro le vetrine progettate da altri non letterati, mettano le mani solo i letterati. Ciò balza evidente nell’esame delle esperienze in tema di illuminazione [...]. Tra i sistemi d’illuminazione naturale diurna ed artificiale permanente (cioè usata anche di giorno) si dovrebbe preferire il primo, eventualmente imitandolo esattamente nelle ore notturne [...] dove non basta il sole talora la lampada può portare aiuto integrativo [...] comunque la luce solare va spinta fin dove si può”. 95 Per Michele Guerrisi (1893-1963) si veda Canavesio 2006, con bibliografia precedente. 220 Storia di una collezione 221 Fig. 11. Museo Leone, salone romano. Anna Maria Rosso E più avanti: “Amerei che sempre la luce zampillasse da aperture inedite laddove importa scuotere l’animo dei visitatori ed incatenarne l’attenzione”. Esempio paradigmatico, la sala della “Vercelli cristiana” dove il Crocifisso ottoniano del Duomo, posto nell’ombra di un’absidiola romanica, è illuminato dalla luce naturale radente, proveniente dalla finestra a lato e da tre lampade con superficie altamente riflettente, appositamente studiate. L’effetto di “drammatizzazione della visione” della luce che colpisce il metallo, pensato dal progettista, si ridusse poi di molto per la collocazione di un calco in gesso dorato al posto dell’originale in lamina d’argento96. Anche in questo caso l’ambiente, che riecheggia le semplici linee dell’architettura religiosa romanica, trova ancora una volta preciso riscontro in una sala della mostra Gotico e Rinascimento (figg. 12-13-14). Un’altra soluzione innovativa, adottata per il museo Leone, fu l’illuminazione delle vetrine delle sale archeologiche, in particolare della sala ottagonale, incassate in grandi vani di vetrocemento, sporgenti oltre il perimetro esterno dei muri, da cui penetra la luce naturale. La luce artificiale, proveniente da “lampade elettriche”, è filtrata dal vetro opaline dei fianchi e del “cielo” delle vetrine. Il fondale è in specchio per permettere la visione della parte posteriore degli oggetti, riproponendo una soluzione adottata per le vetrine delle ceramiche di palazzo Madama (fig. 15). L’impostazione scenografica e gli evidenti intenti celebrativi oltreché didattici del salone romano si ispirarono inevitabilmente alla grande Mostra Augustea della Romanità in onore di Augusto imperatore nel bimillenario della nascita, inaugurata il 23 settembre 193797. Come a Roma, anche nella mostra vercellese l’eccellenza del periodo romano nella storia della città doveva essere evidenziata in funzione della sua inaugurazione, quando Mussolini concesse l’onore di una minuziosa visita e “il grandissimo premio del Suo ambito elogio”: “La mostra è particolarmente interessante 96 Cavallari Murat 1982, pp. 361-362. Il calco del Crocifisso fu eseguito dallo stuccatore e formatore Michele Gilardini di Torino in data 28 marzo 1939, di cui esiste fattura nell’Archivio fotografico del Museo Leone (conservata insieme a una fotografia del Crocifisso nella cartella U114 “Foto d’epoca”), comprensiva di altri calchi di lapidi del Duomo, realizzati per la mostra. Si veda Leonardi 2016, pp. 153-159. 97 Liberati Silverio 1983, pp. 77-90. In Conti 1998, pp. 99-120, l’autore prende spunto da una interpretazione minuziosa e originale della sala per arrivare all’analisi storico - filosofica del periodo fascista. 222 Storia di una collezione Fig. 12. Torino, palazzo Carignano. Mostra “Gotico e Rinascimento in Piemonte” (1938). Sala dell’arte romanica, Crocifisso del duomo di Casale Monferrato (Catalogo della mostra, fig. 1). 223 Anna Maria Rosso Fig. 13. Museo Leone, sala della Vercelli cristiana. 224 Storia di una collezione Fig. 14. Museo Leone, sala della Vercelli cristiana, particolare del sistema di illuminazione. Progetto ing. Cavallari Murat, 1939. ed istruttiva, e merita di essere visitata da larghe masse di popolo, che vi troveranno argomenti di meditazione e di studio”98 (fig. 16). Il percorso cronologico della storia di Vercelli proseguiva nella luminosa sala, affacciata sul cortile interno, arricchito da una fontana in pietra, a getti incrociati, dalla essenziale forma rettangolare. Vi erano esposti i resti del mosaico pavimentale di S. Maria Maggiore e il calco del suo portale, testimonianze del fecondo periodo medioevale99. Sulle pareti ingrandimenti fotografici documentavano le costruzioni civili e religiose sorte Viale 1939, p. 1. In AIBAV è conservata lettera datata 16 aprile 1939, nella quale il marchese Franco Arborio di Gattinara, negava il consenso (a un mese dall’inaugurazione) al trasporto al Museo del portale di S. Maria Maggiore, di proprietà della sua famiglia dall’epoca della demolizione della chiesa, e chiedeva di togliere l’impalcatura dal giardino del suo palazzo. Allegava come giustificazione la lettera del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, che non concedeva l’autorizzazione, ritenendo che “la demolizione e la ricostruzione, per quanto condotti con la massima cautela, possano riuscire di danno al pregevole portale”. Con lettera 19 marzo 1979 gli eredi Arborio di Gattinara, Teresa Feltrinelli Arborio di Gattinara e Chiara Arborio di Gattinara, donarono al museo Leone il portale: le difficoltà tecniche ed economiche, che avrebbe richiesto il trasporto, fecero sì che a tutt’oggi l’importante reperto medioevale si trovi ancora ad ornamento del giardino di palazzo Gattinara, ora Perinati, in via Piero Lucca 10. Si veda la pratica in AML, U52. 98 99 225 Anna Maria Rosso Fig. 15. Museo Leone, sala ottagonale. Vetrine dei vasi apuli. Progetto Viale-Cavallari Murat, 1939 (Archivio Fotografico Musei Civici di Torino). 226 Storia di una collezione nel territorio in epoca romanica e gotica, che già avevano avuto una prima rivalutazione con le ricerche di Paolo Verzone sull’architettura romanica nel Vercellese e nel Novarese100. Anche la saletta successiva a forma di campata ad archi acuti “ambientava” la documentazione dell’epoca comunale, utilizzando pezzi originali, come la chiave di volta e le colonnine gotiche delle trifore, al di là delle quali sono inseriti plastici esemplificativi. È questo l’ultimo ambiente, nel percorso generale della mostra, a essere stato progettato per l’esposizione permanente delle collezioni Leone. Le sale successive trattavano temi specifici pensati per la manifestazione: dalla documentazione dell’attività della provincia, ricostituita nel dicembre 1926, e del comune di Vercelli con l’evidenza delle realizzazioni attuate negli anni del fascismo, fino alla presentazione, nelle sale del primo piano di palazzo Langosco, dell’attività agricola, industriale e artigianale del territorio101. L’allestimento del 1939, che ricreava nelle sale del pianterreno la storia della città attraverso un sistematico percorso cronologico, permise a Viale, utilizzando anche la forte impronta ideologica imposta dalla mostra, di evidenziare il carattere territoriale della maggior parte delle opere esposte e di affermare, valendosi della straordinaria capacità di ambientazione di Cavallari Murat, il concetto di Museo come strumento di conoscenza e di istruzione, contrapposto al museo come luogo di studio elitario: altro significativo tassello nel progetto di rivalutazione dell’arte e della storia piemontese, per cui erano nate le grandi iniziative torinesi. La mostra ebbe grande successo di pubblico, dovuto agli sforzi degli organizzatori che cercarono in ogni modo di convogliare masse di visitatori anche da fuori città. Un provvedimento che diede buoni risultati fu la concessione di riduzioni sui biglietti ferroviari per Vercelli, nel periodo tra il 15 settembre e il 15 ottobre. Viale, scrivendo in agosto al segretario della mostra, se ne rallegrava ed insisteva perché si facesse il possibile per approfittare della concessione, avvisando “i grandi quotidiani”, facendo stampare Verzone 1934 e Verzone 1935-1936. L’allestimento di queste sale fu affidato al pittore Enrico Paolucci e all’arch. Gianni Ricci, collaboratore di Viale fin dagli anni del restauro di palazzo Madama. Viale dedicò a Ricci parole di rimpianto e di stima per la capacità di risolvere difficili problemi tecnici “con impareggiabile competenza, con prudenza ed insieme con audacia”, nella commemorazione della morte avvenuta nel 1957 (Viale 1957, pp. 101-105) . 100 101 227 Anna Maria Rosso volantini pubblicitari e organizzando nello stesso periodo altre “manifestazioni dopolavoriste, concerti, rappresentazioni, convegni o altro ancora” per attirare gente. Concludeva sottolineando: “Attendo una prontissima risposta. E per la propaganda faccia, faccia, faccia”102. Il problema della sistemazione dei locali e delle collezioni del Museo Leone fu così in gran parte risolto, ma la grandiosità delle costruzioni, l’uso di sistemi e di materiali all’avanguardia, gli inevitabili imprevisti in corso d’opera, se da una parte consegnarono all’Istituto di Belle Arti un museo esemplare dal punto di vista museografico, dall’altra furono causa di un consistente disavanzo economico rispetto al bilancio di previsione. Il problema emerse in tutta la sua gravità dall’esame della contabilità dei lavori, presentata dal progettista ed esaminata nella difficile seduta del Consiglio del 3 novembre, a conclusione della quale si diede mandato al vicepresidente-direttore prof. Faccio di sottoporre la questione al segretario federale e al podestà. Il colloquio non ebbe l’esito sperato. Il segretario federale prese atto del disavanzo di oltre 200.000 lire103, ricordò “la splendida riuscita della mostra”, la “grandiosità e bellezza dei lavori compiuti per la sistemazione del Museo”, aggiunse l’inquietante “impressione che una parte del Consiglio di Direzione del Museo avesse più subito che favorito i lavori” e suggerì le dimissioni dei consiglieri con la certezza che un Commissario unico avrebbe avuto “maggior agio e più facile modo di affrontare le difficoltà della situazione e di trovare gli aiuti fatti sperare da Enti cittadini”104. 5. Le vicende del Museo dallo scoppio della guerra agli anni Cinquanta Il Consiglio rassegnò le dimissioni il 5 dicembre 1939. Un mese dopo con decreto prefettizio venne nominato Commissario l’ing. Filippo Melchior, che provvide a sanare l’eccedenza di spesa di lire 225.000, stanziate sul bilancio 1940, in parte con le disponibilità dello stesso bilancio, in parte con l’accensione di un nuovo mutuo con la locale Cassa di Risparmio. Per AML, cartella “Segreteria mostra. Provincia di Vercelli dalla Romanità al Fascismo”. L’eccedenza di spesa fu determinata da varianti in corso d’opera e lavori imprevisti per esigenze di adattamenti di vecchie costruzioni e impianti, ma soprattutto dall’uso di materiali più eleganti e più costosi nell’allestimento: i vetri e gli specchi delle vetrine, i marmi e le pietre dei rivestimenti, usati in abbondanza per nascondere le tracce di umidità sui muri, causate dalla fretta nell’esecuzione dei lavori. 104 AIBAV, m. 163: verbali 4 luglio, 3 novembre e 5 dicembre 1939. 102 103 228 Storia di una collezione 229 Fig. 16. Vercelli, 17 maggio 1939. Salone romano del museo Leone. Inaugurazione della mostra “Vercelli e la sua Provincia dalla Romanità al Fascismo”. Alla sinistra di Musssolini, di spalle, è riconoscibile Vittorio Viale (Fotografia proprietà di Roberto Rubino). Anna Maria Rosso l’immaturo decesso di Melchior, la reggenza provvisoria fu affidata al vice prefetto Vittadini fino alla nomina, con decreto 11 giugno 1941, dell’ing. Pietro Monti. Suo precipuo compito fu quello di ripristinare i locali del Museo, dopo la chiusura della mostra, e quindi il riordino delle collezioni, secondo il preesistente progetto di Viale105. Lo scoppio della guerra impedì il completamento dei lavori. Gli oggetti artistici, già imballati nelle casse dove si trovavano fin dall’inizio dei lavori di allestimento della mostra, furono con un paziente e delicato lavoro, trasferiti presso la tenuta Robella di Trino, in luogo segreto, ritenuto protetto da eventuali incursioni aeree. Il commissario Monti durante il suo mandato sostenne l’opportunità di riunire sotto un’unica amministrazione, affidata all’Istituto di Belle Arti, seppur con bilanci separati, i due musei cittadini “con evidenti vantaggi di natura artistica e patrimoniale”. La sua determinazione nel sostenere la proposta, appoggiata dal Commissario del Comune di Vercelli, Angelo Vaccarino, è evidente nella nomina della Commissione della modifica dello Statuto, mai aggiornato dal 1861, necessaria nel caso di realizzazione del progetto106. La Commissione presentò all’Assemblea del 1 febbraio 1945 il testo del nuovo Statuto, sulla base delle modifiche attuate dal Comune su quello del museo Borgogna. Anche Vittorio Viale sostenne la bontà della proposta pur non concordando con Monti circa l’individuazione dell’ente amministratore, ritenendo più adeguato al ruolo il Comune di Vercelli, quale legatario dei beni dell’avv. Borgogna. Da tutti condivisa la finalità di raggiungere quella maggiore unità di intenti e di indirizzo, che già la nomina di un direttore unico nella persona di Viale e il reciproco scambio di oggetti avvenuto nel 1934 avevano in parte realizzato. Le discussioni per raggiungere un accordo proseguirono per alcuni mesi fino a quando prevalse la ferma posizione contraria dell’avv. Mario Borgogna, che interruppe ogni 105 AIBAV, m. 84: verbale Assemblea Generale dei Soci del 28 novembre 1944. Le opere murarie di ripristino dei locali furono eseguite dall’impresa Bona e Bosso di Vercelli. L’ing. Pietro Monti (Torino1899 - Vercelli 1997) fu nominato socio accademico dell’Istituto nel 1945 e nello stesso anno membro del Consiglio. Eletto presidente nel 1974, rimase in carica fino al 1992. Figura storica della vita vercellese, ricoprì importanti cariche: presidente dell’Ospedale Maggiore, membro del Consiglio Superiore dell’Agricoltura, presidente dell’Associazione Ovest Sesia dal 1965 al 1980. Un suo generoso contributo permise negli anni Ottanta il restauro del prospetto di palazzo Langosco verso via Camillo Leone. 106 Della Commissione facevano parte, oltre all’ing. Monti, il prof. G. Cesare Faccio, il marchese Franco Arborio di Gattinara, l’avv. Vittorio Petterino, l’avv. Mario Busca. 230 Storia di una collezione trattativa107. Successivamente a questa vicenda e dopo la nomina del nuovo Consiglio di Direzione dell’Istituto, nel luglio del 1945 Monti rassegnò le dimissioni da commissario. Nel febbraio precedente era stato comunque nominato socio accademico e poco dopo membro del Consiglio dall’Assemblea dell’Istituto, riconoscente per l’opera “saggiamente amministrativa, intelligente e disinteressata svolta durante la sua gestione commissariale non solo, ma anche per il fatto importantissimo di aver egli potuto conservare intatto e senza danni durante i cinque anni di guerra l’intero patrimonio artistico dei due massimi musei cittadini, fatti che da soli gli danno diritto alla riconoscenza dei Vercellesi”. Nonostante gli eventi bellici, le difficoltà delle comunicazioni, i contemporanei gravosi impegni per i musei civici torinesi, Viale continuò a occuparsi del Museo Leone. Tra i molti significativi documenti, che attestano la sua attiva presenza e la costante preoccupazione di arricchire il museo con nuove acquisizioni, vi è la richiesta, inviata al comune di Borgovercelli per il tramite del commissario prefettizio, di concedere in deposito alcuni reperti (armi da taglio e ceramiche) di età barbarica, ad incremento di oggetti simili già nella raccolta Leone, poi esposti nel salone romano. Ritornava l’idea del museo provinciale in un passo successivo della lettera, che esprimeva anche “un altro desiderio, e cioè che durante gli scavi che solitamente ogni inverno si fanno a Borgovercelli nella zona delle tombe, per cavare ghiaia, mi vogliate dare cortese avviso dell’inizio dei lavori, in modo da poter eventualmente ricuperare altri consimili oggetti e così sempre più arricchire la interessante documentazione dell’antica storia locale”108. Altre interessanti osservazioni sul piano della risistemazione del Museo si leggono nella già citata relazione, presentata all’Assemblea dei Soci del 20 agosto 1945, riepilogativa di quanto fatto e propositiva sul da farsi: “Se molto è stato fatto, parecchio tuttavia resta ancora da fare”. L’idea generale era quella di riservare le sale del pianterreno “alla narrazione della storia di Vercelli dalle più antiche età preistoriche al tempo nostro; e destinare poi le sale del primo piano del palazzo Langosco in piccola parte a una ricostruzione dell’ambiente settecentesco (quattro sale dell’ala orientale) e in 107 AIBAV mazzi 84, 513, 661: verbali Assemblea dei Soci 28 novembre 1944 e 1 febbraio 1945; verbale Commissione per riforma Statuto. 108 AIBAV, m. 513. Si veda anche Viale 1971, p. 70. 231 Anna Maria Rosso numero maggiore (dieci sale) ad esposizione delle raccolte numismatiche e d’arte varia antica”109. Delle trenta sale del Museo solo 17 erano state ordinate nei due anni precedenti. Prevedendo una spesa ragguardevole per la sistemazione delle rimanenti tredici, Viale con la consueta concretezza propose di adattarsi “ad un primo modesto programma quale consentono le possibilità del momento” e di riaprire al più presto il museo, anche solo parzialmente, per consentire la ripresa della “sua funzione educatrice”. In realtà l’apertura del Museo avvenne solo al termine dei lavori, che proseguirono con lentezza, ma con costanza, fino al 1950. Si trattò di lunghi interventi di risistemazione delle sale, dopo lo smontaggio della mostra; di ricollocazione delle collezioni sfollate durante il periodo bellico e della loro integrazione con altri oggetti frutto di nuove acquisizioni; di tinteggiatura e di predisposizione di materiali didattici110. In questi anni Viale ebbe il sostegno e la collaborazione dell’avv. Giorgio Allario Caresana, vicepresidente e direttore del nuovo Consiglio, insediatosi, dopo la cessazione del commissariamento, il 17 novembre 1945111. Ma il lavoro immenso per la risistemazione delle raccolte sfollate e i restauri dello scalone juvarriano e della sede della Galleria d’arte moderna, danneggiati dai bombardamenti, lo impegnavano totalmente a Torino tanto da decidere di rassegnare le dimissioni dall’incarico di Vercelli: 109 AIBAV, m. 661. La ricostruzione degli ambienti settecenteschi si basava sulla fiducia che il museo acquistasse l’arredamento delle stanze napoleoniche di palazzo Avogadro della Motta, cosa che non avvenne, probabilmente per motivi di carattere economico. Interessante notare che a partire da quest’Assemblea riprese il suo ruolo di socio effettivo il prof. Eugenio Treves. 110 AIBAV, mazzi 676, 677, 678. Dal verbale del Consiglio del 24 novembre 1947 (AIBAV, m. 661) risultava una situazione economica precaria tanto da richiedere la massima economia sulle spese di riordinamento del Museo, considerando anche l’alto costo dei materiali e della mano d’opera. Con la stessa collocazione d’archivio sono conservati i preventivi di spesa per gli anni 1947-1948-1949, redatti dal tecnico dell’Istituto geom. Argo Gonella, ammontanti in totale a lire 3.500.000 circa. La maggior parte dei lavori furono eseguiti dagli artigiani della Società Vercellese Pittori e Decoratori. 111 Giorgio Allario Caresana (1917-1983) fu nominato socio accademico nel 1945 e nello stesso anno gli fu affidato l’incarico di vicepresidente-direttore del Consiglio dell’Istituto. Dal 1962 ricoprì il ruolo di Ispettore onorario per gli scavi e i monumenti (Archivio Storico Soprintendenza Beni Artistici e Storici del Piemonte, m. 27). Nel 1986 pervenne all’Istituto di Belle Arti, grazie alla generosità della sig.ra Rosina Allario Caresana Corradino, la sezione di storia dell’arte della sua biblioteca, costituita da 1442 volumi e, nel 2000, l’interessante raccolta di documenti e lettere, riguardanti la sua attività come vicepresidente-direttore. 232 Storia di una collezione “Pur avendo molto affetto per i musei vercellesi e per il mio lavoro, e molto desiderio di completare la sistemazione e l’ordinamento, vedo con rincrescimento che non mi è più possibile dare all’Istituto quella regolare attività che gli ho prodigato con appassionato fervore per tanti anni. I musei di Torino esigono e prendono tutto il mio tempo; e d’altra parte le comunicazioni con Vercelli sono divenute così difficili e anche così costose che le mie venute in codesta città non potrebbero essere che molto rare. In queste condizioni, ritengo mio dovere di rassegnare l’incarico di Direttore”. Prometteva comunque di tenersi a disposizione per eventuali opere e consigli finalizzati alla risistemazione del Museo e suggeriva di affidare l’incarico di direttore “come già un tempo, al vicepresidente-direttore dell’Istituto”, che in quel momento era l’avv. Allario, “che ha buona competenza artistica, molto amore per l’arte e per i musei della sua città, e molto buon volere”112. Alla richiesta seguì, solo parecchi mesi dopo, una chiara controproposta, allorché fu presa la decisione di continuare ad avvalersi della competenza specifica del dott. Viale, che accettò con la riserva che non venissero fissati termini per l’ultimazione: “Il mio calendario torinese per i prossimi cinque mesi è purtroppo molto pesante fra sistemazione di musei, mostre e lavori vari; ma io farò il possibile per attendere anche a Vercelli, appena la stagione lo consenta. Non bisogna essere però dei categorici assoluti per lavori di tanta mole: le date valgono come termini di massima”113. Tra le righe della corrispondenza con Allario, come prima con Monti, si legge la grande fatica dell’epoca della ricostruzione postbellica: “C’è qui [a Torino] da fare per tre Viale, non per uno. Gliene scrivo perché è bene che lei lo sappia [...]. Se il lavoro non sarà compiuto a luglio, lo sarà per qualche po’ dopo. Non si tratta di lavori a misura di tanti e tanti operai; una la testa e due le mani, e quel che c’è da fare in due città è immenso, pesante, difficilissimo”. In effetti l’inaugurazione slitterà di anno in anno, non senza inutili polemiche da parte del Consiglio di Direzione, fino al maggio 1950, quando fu AML, Carte Allario, lettera 8 febbraio 1946. AML, Carte Allario, lettere di Viale ad Allario, 5 gennaio 1946 e 5 aprile 1947. Di lì a poco, l’8 novembre 1947, Viale sarà nominato Presidente della SPABA, incarico che terrà fino al 26 marzo 1955. 112 113 233 Anna Maria Rosso consegnato alla città un museo completamente agibile114. Per l’instancabile Viale fu l’occasione per organizzare, in collaborazione con il comune di Siena e con il determinante aiuto dell’avv. Allario, la prima grande mostra sul Sodoma nel IV centenario della morte, allestita al museo Borgogna, compresa nelle manifestazioni decise in contemporanea per dare maggiore risalto alla definitiva sistemazione del Museo115. Tra queste anche la mostra di Arte Sacra, allestita in una delle gallerie, che contemplava l’esposizione degli oggetti più antichi e preziosi del Tesoro del Duomo, come ricordava Anna Maria Brizio nell’essenziale intervento sul Bollettino SPABA116. Fu ancora Marziano Bernardi, come nel 1939, a rendere merito al curatore della mostra, insieme a Enzo Carli; e al direttore del Museo, che per quattro anni “ha indefessamente lavorato a questo allestimento con la sua consumata esperienza di ordinatore di musei, e con quel gusto della presentazione e dell’ambientazione che ogni colto gli riconosce [...]. Un museo esemplare, diretto e amministrato (lo sappiamo dall’avv. Allario Caresana) con pari oculatezza: quale vorremmo avere a Torino”117. Il 16 giugno 1951 Viale accompagnò a Vercelli Bernard Berenson, per il quale preparò un percorso breve (l’insigne critico aveva allora 86 anni), ma intenso, con la visita solo alle cose più notevoli, ai dipinti del Borgogna e, ovviamente, un veloce passaggio anche al Leone. Nel 1951 Viale lasciò ufficialmente la direzione dei musei di Vercelli. In realtà la lista delle iniziative culturali per la città d’origine e per i “suoi” musei fu ancora molto lunga e la corrispondenza con gli amici vercellesi si interruppe solo a pochi mesi dalla morte. In questo lasso di tempo l’avvenimento di maggior peso dal punto di vista della storia e della critica d’arte fu senza dubbio la mostra su Gauden- 114 AML, carte Allario, lettera di Viale ad Allario, 5 aprile 1947. AIBAV, m. 33: verbali Consigli di Direzione del 25 luglio, 28 agosto,14 settembre 1946; m. 661: verbale Assemblea dei Soci del 13 dicembre 1948. Si veda anche in AML, Carte Allario, copia di lettera 2 agosto 1946, interessante anche la parte riguardante la vendita di una porzione (cappella Pettenati) della proprietà del conte Avogadro al sig. Riccardi. 115 AIBAV, m. 662: verbali del Consiglio 22 ottobre 1949 e dell’Assemblea 12 dicembre 1948. Per la mostra sul Sodoma si vedano Carli 1950 e Carli 1979; inoltre l’approfondito saggio, in Lacchia 2012, pp. 293-325, sulla sua organizzazione al museo Borgogna. 116 Brizio 1950, pp. 196 e 190-195; AML, Carte Allario: dichiarazione di ricevuta di 62 oggetti e 24 volumi antichi al Venerando Capitolo Metropolitano, firmata da Viale e da Allario e datata 4 maggio 1950. Il prestito era richiesto fino al 25 maggio. 117 Bernardi 1950. 234 Storia di una collezione zio Ferrari del 1956, che lo vide nel Comitato esecutivo. “Alle cure solerti del dott. Vittorio Viale, direttore dei musei civici di Torino e di Vercelli, si dovette la raccolta delle opere e l’allestimento, approfonditi con la competenza che gli veniva dalla precedente larga presentazione di Gaudenzio alla mostra del Gotico e Rinascimento in Piemonte del 1938”118. Nel 1967, con Nino Carboneri, si occupò dell’organizzazione della mostra di Bernardo Vittone, allestita nella restaurata chiesa di S. Chiara a Vercelli, e del relativo catalogo119. Fu ancora molto attivo sul versante editoriale come autore dei tre volumi della collana “L’Arte nel Vercellese”, diretta da Allario per la Cassa di Risparmio di Vercelli: Opere d’arte preromanica e romanica del Duomo di Vercelli, nel 1967; Vercelli e il Vercellese nell’antichità, nel 1971; Il Duomo di Vercelli con la trattazione delle opere d’arte dal XII al XVIII secolo e della Pinacoteca dell’Arcivescovado, nel 1973. Costante fu la preoccupazione per la non florida situazione dei musei vercellesi, che con malcelato orgoglio considerava sue brillanti creazioni. Nell’autunno del 1969 inviò ad Allario una dettagliata relazione sui principali problemi da risolvere con “provvedimenti di inderogabile urgenza e assoluta necessità”, tra cui la compilazione degli inventari, sulla base delle esistenti schede scientifiche. Allegava un prospetto sullo stato della schedatura, aggiornato al 1950, evidenziando, sezione per sezione, il numero degli oggetti schedati e di quelli da schedare. Dava suggerimenti e semplici soluzioni, con la lucidità e la concretezza che gli erano abituali, per la sistemazione di alcune sale; per il restauro degli affreschi di casa Alciati, che stavano “gravemente guastandosi per il salnitro” e per lo stato di abbandono in cui si trovavano alcuni ambienti. Sottolineava l’importanza di avere locali adibiti a depositi “attrezzati a tale essenziale e importante destinazione. È il primo problema da risolvere ed il primo lavoro da affrontare, perché dal suo compimento sono condizionate altre sistemazioni prospettate, e deriveranno finalmente ordine e anche sicurezza a tanti e tanti materiali del Museo.” Importante poi il richiamo all’obbligo di legge (L. 1080, 22 settembre 1960) per cui ogni museo doveva dotarsi di un “Regolamento”. Ricordava 118 Mallé 1954-1957, pp. 119-124. La mostra fu allestita al museo Borgogna dal 14 aprile all’8 luglio 1956. 119 Carboneri - Viale 1967. 235 Anna Maria Rosso che i due musei vercellesi erano stati classificati dalla Commissione interministeriale, di cui era membro, come un unico museo “con la qualifica di Museo grande”, e che, di conseguenza, sarebbe stato logico stendere un “unico” regolamento120. Terminava con un accorato “grido di dolore”: “Il museo è bellissimo, ha un suo carattere ed una sua attrattiva, quali pochi altri: perché lasciarlo decadere per piccole mancanze?”. Purtroppo le preoccupazioni di Viale si concretizzarono di lì a poco nel grave furto, che il museo Leone subì nel 1972, di tutte le armi da fuoco e delle monete più preziose. Ancora una volta la sua lunga esperienza di direttore e la sua conoscenza profonda delle collezioni, come nessuno più di lui, lo costrinsero ad occuparsi del museo vercellese. Stanco e amareggiato (“per me che sono stato ordinatore del museo, questi furti sono delle vere pugnalate”), accettò di stendere la perizia circa il furto delle monete e di valutare il gravissimo danno subito121. Fu l’ultimo atto di affettuosa partecipazione alla vita di quel museo che sentiva suo, forse più degli altri, perché più vicino alle vicende storiche della sua terra natale, alla quale rimase legato per l’intera vita, “fardello che non ha che il peso degli incantati ricordi dell’infanzia o della prima adolescenza”122. Un Museo, il Leone, che ben rispecchia i principi positivistici, che ispirarono il suo allestimento e ai quali Viale rimase fedele per tutta la sua instancabile attività; un ambito storicistico, che, come sottolineava Andreina Griseri nel 1978123, “amava esattezza di ricerche documentarie e rifuggiva dalle attribuzioni giocate, con agganci alla cultura specialistica di archeologi ed eruditi”. 120 La legge fu varata grazie all’impegno dell’Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali, di cui Viale fu tra i fondatori e per anni vicepresidente. Si vedano in AML, cartella U95, “V. Viale. Corrispondenza. Inventari”, le lettere di Viale ad Allario datate 15 ottobre 1969 e 26 settembre 1971. In quest’ultima comunicava che i Regolamenti dei musei Leone e Borgogna, da lui presentati alla Commissione interministeriale della classificazione e regolamentazione dei musei non statali, erano stati approvati. 121 Si veda la pratica relativa in AML, m. U98. 122 Viale 1965, p. senza numero. 123 Griseri 1979, p. 195. 236 Storia di una collezione Bibliografia Antonetto - Cottino 1999 Roberto Antonetto - Alberto Cottino, Pietro Accorsi. Un antiquario, un’epoca, Torino 1999. Arborio Mella 1910 Federico Arborio Mella, Camillo Leone. Note biografiche, in “Museo Camillo Leone Vercelli. Illustrazioni e cataloghi - vol. I”, Vercelli 1910, pp. 5-26. Argan 1967 Giulio Carlo Argan, Vittorio Viale, in “Studi di storia dell’arte in onore di Vittorio Viale”, a cura e per iniziativa della “Association internationale des critiques d’art”, Torino 1967, pp. 5-8. Assandria 1915 Giuseppe Assandria, Nuova colonna migliaria scoperta a Vercelli nel Museo Leone, in “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 7 (1915), n. 3, pp. 251-253. Baiocco - Manchinu 2004 Simone Baiocco - Paola Manchinu, Arte in Piemonte. Il Rinascimento, Ivrea 2004. Baldissone 2007 Giusi Baldissone, Camillo Leone. Una vita da museo. Memorie 1876-1901, Novara 2007. 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Lo studio, impostato sulla documentazione in gran parte inedita e conservata nel ricco archivio dell’Istituto, è frutto delle ricerche iniziate nel 20082009 in occasione del Seminario “I musei civici di Torino e i musei di Vercelli dalle origini al 1930” e del Convegno “Vittorio Viale direttore di museo. Le esperienze vercellesi”. Abstract The large and varied collection of rare specimens of notary Camillo Leone, inherited by The Institute of Fine Arts of Vercelli in 1907 and merged into the museum that bears his name, was the subject of successive, different outfits before the current arrangement made in1939 by Augusto Cavallari Murat and by Vittorio Viale. In this article, we examine the various stages and the restoration of the historical buildings (Alciati House and Langosco Palace). A peculiar care was devoted to the remarkable and professional skills of Viale who was the museum director from 1928 until the early 1950’s. He went on introducing innovative and strong museum solutions topical even today. The study, set about a large unedited documentation preserved in the rich archives of the Institute, is the result of the research started in 20082009 on the occasion of the seminar “The Civic museums of Turin and the museums of Vercelli from the origins to 1930” and the meeting on “Vittorio Viale museum director. The Vercelli experiences”. rosso.anna1208@gmail.com 244 RECENSIONI E SEGNALAZIONI Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza Archeologia del Piemonte, Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, 30, Torino 2015, pp. 13-446, figg. b. n. 1-171 Come di consueto, si segnalano notizie relative al Vercellese storico o temi e persone legate al territorio, raggruppando le informazioni per epoca. Nel primo contributo, dedicato a dinamiche culturali della preistoria tra Cuneese e Monte Bego, degno di nota il richiamo al ruolo di Carlo Conti nelle raccolta e studio delle rocce incise all’origine dell’interesse degli esperti per l’area a cavallo tra Italia e Francia; le ipotesi del quale sull’antichità delle incisioni lineari, dapprima messe in discussione, vengono rivalutate. Lo studio sottolinea il legame tra la pratica della transumanza piano-alpeggi e le concentrazioni di testimonianze rupestri, in “netto contrasto” con il concetto di “Montagna Sacra” spesso richiamato per definire i luoghi dell’arte rupestre. Un’antitesi forse un po’ forzata, come se si potesse estendere il pensiero - assolutamente contemporaneo - della religiosità come “fatto privato” fin dentro la Preistoria. Interessante la conferma di un legame, quello fra monte e piano, che, anche per il Vercellese, si sta rivelando un fenomeno di lunga durata. Intanto, sul Monfenera (presso Borgosesia, pp. 400-403), le ricerche confermano che la grotta della Ciota Ciara “rappresenta a oggi l’evidenza più completa e antica dell’occupazione preistorica del Piemonte e della vicina Lombardia”. I materiali dalla stratigrafia indagata (oggetto anche di una tesi recensita a p. 442) indicano che la presenza dell’ Homo neanderthalensis fu di lunga durata e che seppe adattare la sua tecnologia alle materie prime disponibili. Ancora per il Neolitico, le recensioni segnalano la proposta di identificare il complesso megalitico di Cavaglià (abbattuto a metà del secolo scorso, p. 435), come parte di una serie di allineamenti di stele aniconiche (i menhir) che rispecchiano le linee di diffusione delle asce in pietra verde (oggetto di un altro articolo, alle pp. 438-439) provenienti dalle Alpi piemontesi. Sempre sul Monfenera, la prosecuzione delle indagini nella Grotta dell’Eremita (pp. 397-400) conferma la frequentazione della cavità nel Bronzo medio e nel Bronzo recente, ma non a scopo abitativo (del sito si occupa anche un articolo oggetto di recensione: p. 434). Mentre contatti tra Vercellese ed Eporediese sono assodati da altri reperti da Montalto Dora (pp. 371-373). Entrando nella Protostoria, sarebbe in245 Recensioni e segnalazioni teressante confrontare la tendenza all’arroccamento degli insediamenti della Liguria interna durante la seconda età del Ferro (pp. 37-86) con quanto succede nel Vercellese. Mentre la frequentazione sporadica dei medesimi siti in epoca romana primo-imperiale pare corrispondere alla diffusione, nel medesimo arco cronologico, dei siti di pianura. Da segnalare, per il Bronzo finale, le affinità tra alcune forme della ceramica della valle Tanaro e quelle della necropoli protogolasecchiana di Morano Po, del Piemonte occidentale e di Viverone; a loro volta messe in relazione con contesti transalpini: segno di contatti e scambi anche a lungo raggio (sul tema si vedano anche gli atti del convegno segnalato alle pp. 430-431 delle Segnalazioni bibliografiche); e, inoltre, un complesso di materiali datato tra XI e X secolo a.C. proveniente da Verrua Savoia, oggetto di uno studio specifico (nota 13 a p. 79). Altre analogie con il Vercellese, sempre tra i manufatti in terracotta, scendono alla seconda età del ferro (275-125 a.C). Mentre su quest’ultima epoca in Valsesia, da segnalare una tesi di laurea (p. 443). In ambito archeometrico, molto interessanti le informazioni raccolte applicando la tomografia computerizzata all’analisi di alcune urne cinerarie golasecchiane da Castelletto Ticino (pp. 87-115). L’areale di quest’ultima cultura viene ora esteso anche alla Bessa e al Biellese (pp. 286-287), differenziandoli dal Canavesano. Passando all’epoca romana, il ritrovamento di una statuetta fittile a Serravalle Sesia (pp. 403-404), suggerisce l’eventualità, sulla scorta della concentrazione di rinvenimenti in loco, che la chiesa di S. Maria di Naula possa essere sorta sul sito di un edificio sacro romano. Mentre un convegno sui manufatti in vetro dotati di bollo (p. 431) riconsidera anche la produzione di Ennione. 246 A Vercelli, il controllo archeologico a lavori pubblici in via Simone di Collobiano ha permesso di ampliare la conoscenza della planimetria del complesso che si va delineando come riferibile alle terme pubbliche imperiali; venne costruito su fabbricati precedenti, sicuramente dopo l’inizio del I secolo d. C. L’esiguità delle indagini che è stato possibile effettuare non permette ulteriori precisazioni cronologiche: alcune caratteristiche architettoniche suggeriscono una datazione al II secolo, ma va approfondito l’esame dei materiali rinvenuti in tutte le indagini sul sito, anche per chiarire la cronologia e il significato di consistenti tracce di demolizioni e apprestamenti precari che “riempiono” il contenitore in muratura fin dalla stessa epoca romana (pp. 405-409). Passando ai manufatti, lo studio del materiale ceramico da raccolte di superficie presso Villa del Foro (AL, pp. 117142) viene condotto attraverso un esame morfo-tipologico da cui emerge uno scarto cronologico tra le classi di ceramica fine (primo-imperiale) e la ceramica priva di rivestimento (medio-imperiale/tardo antica). Quest’ultima, a giudicare dai confronti morfologici richiamati, parrebbe - stranamente - del tutto assente dall’orizzonte primo-imperiale. Forse uno studio degli impasti e delle associazioni forma/impasto avrebbe permesso di definire la sequenza cronologica degli impasti stessi (e, con essi, delle forme), consentendo di identificare, svincolandosi dalle analogie formali di lunga durata, le prive di rivestimento più antiche da quelle più recenti. I confronti tardoantichi per le ceramiche cosiddette comuni inoltre, testimoniano la frequentazione del sito - certo con profondi mutamenti sul piano economico-sociale e una forte contrazione della presenza demica - anche dopo Recensioni e segnalazioni i primi due secoli dell’impero. Sul tema, da segnalare un’importante tesi di dottorato centrata sul Vercellese, recensita a p. 442. In controtendenza l’insediamento rurale di Strevi (AL, pp. 143-172), insediamento che vede un notevole sviluppo tra medio impero e tardoantico, contra i consueti fenomeni di abbandono tra II e inizio del IV. Interessante - un aspetto che si va generalizzando col proseguire delle ricerche - la ripetuta attestazione di tecniche costruttive miste (materiale inorganico e legno) in tutte le fasi del sito. In merito alla “crisi” di IIIII secolo, interessante il caso di Acqui Terme-via Ferraris (ex Palaorto, pp. 227-232): qui sono ripetute esondazioni fluviali a determinare l’abbandono dell’area nord-occidentale della città - tranne gli assi stradali, riutilizzati anche per sepolture - dopo il II secolo d.C. Sepolture di II-IV sec. lungo un asse stradale anche a Fara Novarese (pp. 345-348): qui la continuità d’uso del medesimo tracciato in età successiva pone qualche interrogativo circa il legame tra deposizioni e defunzionalizzazione della strada stessa. A proposito di un cippo miliare di IV secolo (pp. 256-258), torna utile anche per il contesto vercellese l’affermazione del ruolo celebrativo più che funzionale di questi manufatti nel Tardoantico, non necessariamente legati dunque a manutenzioni dei percorsi afferenti. Mentre indagini ad Alba (pp. 288-289) e nella citata Fara, confermano che, in area extra-urbana, tutte le viæ publicæ erano per lo più “semplici massicciate di ghiaia e ciottoli legati con argilla e sabbia”. A Biella, l’avvio della Carta archeologica e il controllo archeologico dei lavori pubblici stanno confermando il “policentrismo” della città fin dalle origini (per il Piano, almeno il IV-V secolo, pp. 273-276). Mentre lungo la cresta che separa l’alta Valsessera dalla Valle Cervo (pp. 277-281), il ritrovamento di un contesto ceramico tardoantico illustra l’esistenza di relazioni fra Alpe e piano. Relativamente alla “decadenza” - dal II-III secolo - di molti insediamenti rurali, di fronte ai limiti cronologici di tale fenomeno collocati, a Ghemme (NO, pp. 348351), tra fine III e V secolo (sulla scorta dei reperti ceramici), ci si chiede come possa una fase di “abbandono” durare più di due secoli. Cosa giustifica un apporto di rifiuti per un arco di tempo così lungo? Dove sta e com’era fatto l’insediamento che produsse gli scarti così a lungo? Anche il rinvenimento di sepolture indica che l’insediamento continuò: con quali caratteristiche? Sicuramente, non edifici su pali, i cui negativi sarebbero stati visti. Dunque occorre pensare ancora a strutture in muratura e/o terra, ovvero a “gabbia lignea”, così superficiali da essere state completamente distrutte dalle azioni successive. Anche altre indagini presso la località sulla sponda sinistra del Sesia (pp. 352-353), paiono suggerire, in quest’area, una tenuta insediativa medioimperiale/tardoantica. Col passaggio all’Altomedioevo si conferma l’adozione di fabbricati su pali, il cui riconoscimento sul campo tuttavia non suggerisce ancora una lettura interpretativa, come ad esempio a Casale-via Paleologi, 4 (Palazzo De Secondi, pp. 250-252). Sul tema, da segnalare una sintesi censita in coda al volume (p. 432). Per il Medioevo, l’analisi petrografica ha permesso di stabilire che il campanile dell’abbazia di Fruttuaria (S. Benigno Canavese, pp. 173-179) riutilizzò come conci lapidei basoli stradali di epoca romana provenienti da Augusta Taurinorum, forse ri-lavorati da maestranze borgognone giun247 Recensioni e segnalazioni te al seguito di Guglielmo da Volpiano, figura legata a S. Genuario di Lucedio. Mentre il modulo dei mattoni utilizzato a Chieri tra XII e XIII secolo (lunghezza 27 cm ca, pp. 365-367) risulta più corto di quello vercellese (v. ad esempio il caso di Bianzè, pp. 396-397). A Casale Monferrato è affiorata - sotto piazza Mazzini - una parte della primitiva S. Maria di Piazza (attestata almeno dal XII sec., pp. 246-249), affiancata - pare - da un battistero ottagonale; poi ricostruita nel Trecento e infine abbattuta nel 1818. Insieme a parte del Casalese, Vercellese e Biellese sono inoltre al centro della recensione di un contributo che evidenzia la relazione, nelle fonti scritte tra XIII e XV sec., tra il termine “motta” e insediamenti su terreni fluviali (p. 433). Mentre i nuclei demici precedenti Pontestura sono oggetto di un articolo recensito a p. 440. Ricerche purtroppo limitate invece, permettono solo una generica datazione bassomedievale (ante fine XV-inizi XVI) per un paio di ambienti portati in luce nel castello di Benna (BI, pp. 271-273), luogo attestato fin dal 999 e dunque potenzialmente foriero di molte più informazioni. Per l’epoca tardo-medievale e moderna, interessante l’accostamento tra micro-toponomastica e petroglifi, cioè figure, segni schematici e iscrizioni incisi su roccia: fra le conclusioni dell’esame delle incisioni del territorio di Usseglio (TO, pp. 181-194) - 248 utili per lavori simili - la necessità di studiare a fondo il contesto culturale locale “prima di arrischiare comparazioni con culture e regioni esotiche”. Spunti “attuali” dallo studio sulle prime forme di tutela del patrimonio archeologico tra Piemonte e Liguria nel XIX secolo (pp. 195-216): ad esempio quando la Giunta di Antichità e Belle Arti (1832-1853) spediva “lettere circolari” alle amministrazioni comunali perché segnalassero “epigrafi e monumenti (nel senso di manufatti) antichi”. Anche oggi servirebbe una lettera circolare che ricordi agli enti locali l’obbligo legislativo di sottoporre a valutazione del rischio e controllo archeologici i lavori pubblici, indipendentemente dalle quote di progetto o dalla coincidenza o meno con “vecchi scavi”. Dall’Elenco dei fascicoli prodotti dalla Giunta, in Appendice, traiamo la notizia dell’Offerta a S.M. di due antiche armature (1833-1834) da parte dello Spedale maggiore degl’Infermi della città di Vercelli sotto il titolo di S. Andrea, di cui al Catalogo dell’Armeria Reale di A. Angelucci (1890). Infine, nell’ambito della mostra “I Greci a Torino. Storie di collezionismo epigrafico”, allestita presso il Museo di Antichità di Torino nel 2014, segnaliamo il risalto dato all’operato del barnabita Padre Bruzza. Catalogo scaricabile al sito: http://www.museoarcheologicotorino.beniculturali.it. Fabio Pistan Recensioni e segnalazioni Medioevo in formazione. Studi storici e multidisciplinarità, a cura di A. Luongo, M. Paperini, Livorno, Debatte, 2015 (Confronti, 8), ill, ISBN 97888-6297-202-4. Il seminario, celebrato a Vercelli tra il 9 e l’11 ottobre 2014, è stato possibile grazie alla collaborazione tra il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, la Società Storica Vercellese e il Centro Studi Città e Territorio di Follonica. La fortunata iniziativa, che con le giornate vercellesi è giunta alla quarta edizione, ha il merito di mostrare quanto sia ricco e nutrito il panorama italiano dei ricercatori giovani e giovanissimi nelle varie branche della medievistica. Ogni giorno, alla fine di ciascuna delle due sessioni, il dibattito è stato moderato, incanalato e arricchito da alcuni discussant di notevole caratura: Beatrice Del Bo, Andrea De Vincentiis, Fulvio Cervini, Fabrizio Crivello, Maria Chiara Lebole, Saverio Lomartire, Jean Claude Maire-Vigueur, Fabio Saggioro. I 23 contributi confluiti nel volume sono stati ripartiti in cinque sezioni: Signorie e insediamenti, Cultura materiale, archeologia funeraria e ambientale, Storia dell’arte e dell’architettura, Metodi e approcci multidisciplinari, Medioevo europeo. Non mancano gli apporti nuovi sul territorio vercellese. Il saggio di Ferdinando Nicosia, Prime indagini intorno alla nascita e sviluppo della signoria episcopale pavese in Rosasco (pp. 27-35), si sofferma sul ruolo del consortile dei signori di Casalvolone, vassalli del vescovo di Vercelli: il luogo di Rosasco è infatti attestato tra le loro pertinenze già nel 1039, ma a partire dal 1164 la loro signoria si sfaldò, fino a che Rosasco entrò stabilmente a fare parte del dominio territoriale della Chiesa pavese. L’analisi della vicenda offre lo spunto per addentrarsi nella prosopografia dei Casalvolone in relazione alla seconda metà del XII secolo, con una ricostruzione innovativa. Il saggio di Nadia Botalla Buscaglia, Produzioni altomedievali nel Vercellese: uno status quæstionis e nuovi spunti di ricerca (pp. 103-109) si incentra sui reperti in pietra ollare. Alcuni manufatti (Alagna Valsesia, presso il Monte Stofful; cava della Gula del torrente Egua, presso Carcoforo) non sono databili con precisione solo sulla base dei segni di lavorazione. Tra il tardoantico e l’alto medioevo si devono datare i frammenti di Borgosesia, realizzati con litotipi differenziati, che autorizzano a ipotizzare una rete di scambi di vasto raggio, incentrati sulla bassa Valsesia. La disponibilità di affioramenti di cloritoscisti permetteva la produzione di vari manufatti, in particolare di olle troncoconiche, molto diffuse nei secoli VI-VII. La studiosa analizza attentamente le tracce di lavorazione e i segni di utilizzo: l’annerimento e la fumigazione tradisce l’uso di alcuni manufatti per la cottura dei cibi. Del resto, contesti stratigrafici rintracciati a Vercelli e a Pertengo documentano che nei secoli a cavallo del primo e del secondo millennio l’utilizzo di questi recipienti era la regola. Altri frammenti, però, attestano probabilmente relazioni con la lavorazione dei metalli (Trino), con la tessitura (Pertengo), con la lavorazione del vetro (Vercelli, Via Mella, VI-IX secolo). Negli scavi del monastero cluniacense di Castelletto Cervo una struttura in ciottoli, ricca di frammenti di manufatti in pietra ollare, è stata interpretata come forgia per la lavorazione dei metalli. Altri frammenti, 249 Recensioni e segnalazioni nello stesso contesto, sono stati correlati a recipienti usati come crogioli. Inoltre a Desana e a Pertengo sono stati rinvenuti frammenti di ruote di macina, il cui litotipo è simile a quello di alcune cave del territorio valdostano, noto fin dall’età preromana per la produzione di macine e mole, che erano trasportate in Piemonte attraverso la valle della Dora Baltea. Simone Caldano Gionata Brusa, I manoscritti agiografici della Biblioteca Capitolare di Vercelli. Con un’appendice di frammenti, in “Analecta Bollandiana”, 134 (2016), I, pp. 100-148. Merita qui notizia la pregevole pubblicazione di Gionata Brusa rivolta alla catalogazione, tra i manoscritti della Biblioteca Capitolare di Vercelli, di una specifica tipologia testuale, quella agiografica, con un’Appendice che seleziona anche frammenti di codice reperiti nella stessa Capitolare e negli archivi vercellesi Storico Civico e di Stato. Ricordiamo che l’A. si era già dedicato alla catalogazione di un’altra tipologia di libri liturgici, Gli Omeliari della Biblioteca Capitolare di Vercelli (“Scrineum Rivista 10”, 2013, pp. 49-190), fornendo dettagliata descrizione codicologica e analisi del contenuto. Con la medesima perizia si era cimentato in precedenza nell’impervia catalogazione propria dei frammenti, rintracciandoli nella stessa Capitolare e nell’Archivio Storico (“Colligere fragmenta ne pereant”. Maculature liturgiche nella Biblioteca Capitolare di Vercelli in “Rivista Internazionale di Musica Sacra”, 30, 2009, pp. 97-136; Maculature liturgiche nel Fondo Notarile Antico dell’Archivio Storico di Vercelli, in “Aevum”, 83, 2009, pp. 431-527, lavori ben recensiti da Gianmario Ferraris nel BSV, 73, 2- 2009). Merito dunque di Brusa, a monte del lavoro di catalogazione, le indagini sistematiche di 250 selezione del materiale compiute a scaffale aperto, pezzo per pezzo, nelle diverse istituzioni vercellesi. Nel presente contributo vengono catalogati 28 testimoni, e precisamente, con i numeri 1-16, in sequenza i codici: Biblioteca Capitolare IV, XII, XXXIV, XLV, XLVII, LXI, LXII, LXIX, LXXIII, LXXVII, CXII, CXX, CXXX, CLVIII, CCV, CCXXVI; con nn. 17-20 i frammenti della Bibl. Capitolare, con nn. 21-27 quelli dell’Arch. Storico Civico, con n. 28 dell’Arch. di Stato. Precisiamo che i nn. 25, 27, 28 sono inediti, non presenti nei lavori sopra citati. La forbice cronologica del materiale raccolto oscilla dal sec. VII-VIII, col ben noto ms CLVIII in onciale repertoriato nei CLA, IV (Brusa, n. 14) fino a rare testimonianze trecentesche, mentre il nucleo più consistente si assesta nel sec. XII e inizi XIII. La datazione topica rinvia all’Italia settentrionale, circoscritta in numerosi casi all’Italia nord-occidentale e talora (nn. 1, 2 e sezioni di 3 e 5) alla stessa Vercelli. Come eccezioni, sono riconducibili alla Spagna il già citato codice n. 14 e alla Francia sezioni dei nn. 5, 6. Nella descrizione fisica del materiale librario Brusa, a differenza della prassi Recensioni e segnalazioni adottata nelle pubblicazioni precedenti, si limita a stringatissimi dati: supporto, numero fogli con indicazione dei bianchi, dimensioni, tipo di scrittura. Quest’ultima indicazione può essere assunta come utile riferimento “tecnico”, ma siamo consapevoli del suo margine di opinabilità. Per quanto concerne le dimensioni, esse sono espresse soltanto in altezza per larghezza, mentre avremmo gradito che anche in questo contributo fossero registrate tutte le misure dello schema di rigatura, che consentono di visualizzare immediatamente la geometria della pagina, anche se ben sappiamo l’aggravio di lavoro che avrebbe comportato. Ma, si sa, i codicologi sono voraci! In ogni caso, anche se i parametri offerti risultano limitati, ciò non significa che Brusa non abbia compiuto un’accurata expertise, ben individuando le differenti unità codicologiche (nel composito n. 5 ne sono presenti 12) o attento a rilevare le perturbazioni che il manoscritto può aver subito nel corso dei secoli, come aggiunte o, viceversa, cadute o inversioni di fogli che compromettono la struttura originaria e quindi l’integrità testuale. Ma l’interesse precipuo dell’A. converge appunto sulla dettagliatissima descrizione e identificazione dei testi, che a fine lavoro sono risultati oltre 500, come sottolinea nel Summary (p. 148). Per la Biblioteca Capitolare, così peculiare e ricca di “tesori”, manca perfino un inventario dopo quello del 1924 a cura di Romualdo Pastè, per di più del tutto inaffidabile (come avevamo sottolineato in una relazione nell’ambito del II Congresso Storico Vercellese, 1992, Per un’indagine sui manoscritti della Biblioteca Capitolare di Vercelli, pp. 293-309: 294-295). Ma se si è rivelata utopica la realizzazione di un Catalogo generale, sono fattibili cataloghi “speciali”, di manoscritti accumunati da particolari caratteristiche, di cui Brusa ha fornito qui un eccellente, significativo esempio. Maria Antonietta Casagrande Mazzoli Rossana Sacchi, Gaudenzio a Milano, Milano, Officina Libraria, 2015 (ma 2016), pp. 179, ill. tavv. [ISBN] 978-88-97737-83-4. Il titolo, di disarmante e armatissima semplicità, si pone quale dichiarazione di intenti e insieme rivendicazione. Non c’è bisogno di sottotitoli esplicativi o evocativi, e non serve nemmeno il cognome del protagonista del libro: non c’è bisogno di dire “Gaudenzio Ferrari”, come è sufficiente parlare di “Raffaello” o di “Tiziano”, perché l’ordine di grandezza è quello di un artista la cui importanza nel panorama del Rinascimento italiano è, senza specificazioni limitative, primaria. Al tempo stesso si specifica che l’argomento del libro è la permanenza e l’attività milanese del pittore valsesiano. La studiosa trae qui le fila di un trentennio di studi, coltivati con strenua fedeltà di tematica e di metodo. In parte si tratta di una canonica raccolta di studi già editi, a partire dal 1989: vanno però sottolineate le apprezzabili scelte da parte dell’Autrice di lasciare i testi invariati, rinunciando a un aggiornamento che, ancorché dichiarato, avrebbe in qualche modo cambiato le carte in tavola della storia della critica (peraltro 251 Recensioni e segnalazioni a detrimento delle novità di impianto dei saggi più datati), e l’inserimento, a mo’ di introduzione e di epilogo, di due testi scritti per l’occasione. Proprio in queste pagine ultime emerge in controluce la continuità e insieme il distacco del Gaudenzio tratteggiato da Rossana Sacchi rispetto a quello degli studi precedenti, frutto di scelte meditate, di scoperte più o meno fortuite, di personali preferenze. Dal difficile punto di vista della produzione ultima del Ferrari, per più di un verso la più ostica, si ripercorre il ruolo di Pierluigi De Vecchi e soprattutto di Anna Maria Brizio e, più accanto a noi, di Giovanni Romano, nel mettere a punto un apprezzamento critico e storico del posto occupato da Gaudenzio nel panorama del Cinquecento italiano (rimane al confronto un poco più in ombra la figura di Giovanni Testori, pur indissolubilmente legata alla ripresa degli studi gaudenziani nel secondo Novecento: ma forse la cosa va interpretata come giustificata reazione a una talvolta smodata sopravvalutazione dello scrittore milanese come storico dell’arte a cui capita di assistere in certa pubblicistica recente). Non per niente il primo capitolo si intitola Ereditare Gaudenzio: una eredità che l’Autrice giustamente rivendica, lungo la direttrice Brizio-De Vecchi, ma che condivide con altri studiosi generosamente ricordati, e accomunati dalla comune vigile passione per il grande patriarca del Rinascimento lombardo-piemontese (esprimo ovviamente gratitudine per essere stato inserito in questo novero di “gaudenziani d’oggi”, dal quale manca forse solo Casimiro Debiaggi). Gaudenzio si stabilisce a Milano (città che conosceva sin dal giovanile apprendistato nella bottega di Stefano Scotto) solo nella seconda metà degli anni trenta del Cinquecento (la prima attestazione nota risale al 1537), dopo un avvicinamento che, 252 dalla Valsesia e poi da Vercelli, aveva toccato Como, Morbegno e la Valtellina, Saronno. Da ogni punto di vista non è più la Milano che aveva conosciuto: con la morte senza figli del debole duca Francesco II Sforza il ducato è passato direttamente sotto il dominio della corona spagnola, amministrato da un Viceré; il panorama artistico, che appena prima del volgere del secolo poneva la capitale ambrosiana alla testa dell’avanguardia rinascimentale, vedeva in quel momento la città priva di pittori di adeguata levatura, morti Cesare da Sesto fin dal 1524, Bramantino nel 1530 e Bernardino Luini nel 1532. In un simile contesto Gaudenzio si inserisce con giustificate ambizioni di primato, ed evidentemente al termine di una accorta strategia di contatti e alleanze, ottenendo committenze presso le famiglie Gallarati, Della Croce, i Trivulzio (gli affreschi della cui cappella in Santa Maria della Pace, strappati e collocati a Brera fin dal 1808, non rappresentano, come diceva Lomazzo, l’estrema opera del maestro, ma certo l’ultima manifestazione della sua più autentica e umanissima poesia), la esclusiva Confraternita di Santa Corona in Santa Maria delle Grazie. Si accorge presto, tuttavia, che la sua maniera larga e luminosa, che ancora risplende negli affreschi di Saronno non è più adeguata a fronte della marea montante del manierismo italiano e internazionale, in cui lo stesso vuoto di produzione locale che ha favorito il suo trasferimento (nel 1539, a conferma di una cesura anche esistenziale, Gaudenzio vende la propria casa a Varallo), insieme al cambio istituzionale e culturale ai vertici del Ducato, attira in città opere di Giulio Romano, Paris Bordon, Moretto da Brescia, Michel Coxcie. Il caso più macroscopico è l’arrivo nel 1542 della pala con l’Incoronazione di spine di Tiziano (oggi Recensioni e segnalazioni al Louvre), inesorabilmente più “moderna” degli affreschi che la circondavano, ultima commovente dichiarazione di fedeltà, e insieme esempio di concezione dell’artista come professionista pronto a ripetere in contesti diversi, con ineccepibile serietà, invenzioni di successo, e non come intellettuale e nobile. Gli sforzi più consistenti per adeguarsi al nuovo gusto Gaudenzio li compie nella pala raffigurante San Paolo, dipinta nel 1543 per la stessa Santa Maria delle Grazie, in cui una singola figura grandeggia, e nel Martirio di santa Caterina, opera complessa e teatrale, in cui l’esibizione di muscolature (concessione alla moda michelangiolesca) e di elaborati contrapposti raggiunge livelli di affannata poesia. Gaudenzio appartiene fatalmente a una generazione diversa, è, per usare macrocategorie, un artista del pieno Rinascimento, non del Manierismo: come riesce ad aggiornarsi senza sforzi su Bramantino, su Raffaello, sul Pordenone di Cremona, su Correggio, anzi introiettando e riproponendo in modo nuovo e personale le opere di questi maestri, ora risulta invece evidente la fatica e, se è lecito dire così, la sostanziale insincerità di queste opere estreme. Ma ciò che davvero rappresenta la caratteristica significativa del libro, al di là dei moltissimi dati archivistici e bibliografici, è proprio il metodo: la storia sociale dell’arte come sempre dovrebbe essere fatta. Gaudenzio è visto in filigrana attraverso i suoi committenti e le sue relazioni sociali, ma anche nella pratica della bottega (dove compaiono numerosi aiutanti e allievi, in primis il socio milanese Giovanni Battista Della Cerva), in un continuo incrociare i dati della ricerca d’archivio, del modus operandi degli atelier rinascimentali e senza mai perdere di vista la realtà stilistica delle opere, anche se non è quest’ultimo il principale scopo delle ricerche gaudenziane di Rossana Sacchi. Edoardo Villata Edoardo Villata, Minimalismo della «Terribilità». I disegni del Pordenone in Ambrosiana, Biblioteca Ambrosiana, Bulzoni Editore, (Collana Fonti e Studi 23), Roma, 2016, pp. 150, ISBN 978-88-6897-026-0, Euro 30. Il volume viene pubblicato in occasione di una piccola ma interessante mostra alla Pinacoteca Ambrosiana dedicata al corpus dei disegni attribuiti al Pordenone (in totale 22) conservati presso Biblioteca Ambrosiana, affiancati da alcuni testi conservati nella stessa istituzione milanese. Ora di fatto il libro si può dividere in due parti, la prima dedicata a delineare lo sviluppo artistico del pittore, dalle prime prove nella terra d’origine, cioè il Friuli, fino alla morte nel 1539. Un primo capito- lo è prevalentemente dedicato alle opere di pittura, a partire dalle opere come l’affresco di Valeriano datato 1506, passando per gli affreschi di Vacile, dove il pittore dimostra di conoscere Bramantino, ma non la coeva pittura milanese nei dettagli. Proseguendo, in breve tempo verrà a conoscenza prima della realtà bresciana, ed in particolare del Romanino, e poi della grande pittura veneziana di Giovanni Bellini e Giorgione. Un punto di non ritorno sembrano essere gli affreschi per la cappella Malchiostro del 253 Recensioni e segnalazioni Duomo di Treviso dove le muscolature possenti e le pose virtuose, insieme ad una crescita dimensionale delle figure stesse, costituiscono una delle sue pagine più rilevanti, che in qualche modo gli permetterà di giungere agli splendidi affreschi del Duomo di Cremona, di fatto crocevia imprescindibile per tutta la pittura padana degli anni venti del Cinquecento. E non è senza significato che a Cremona, Pordenone subentri proprio all’inadempiente Romanino nel 1520-1521. Per giungere a tanto però si deve per forza ipotizzare un viaggio di studio a Roma per conoscere Raffaello e Michelangelo tra il 1518 e il 1519 circa, cosa che sembra trovare conferma in qualche modo anche scorrendo il regesto documentario. Successivamente il pittore lo vediamo a Cortemaggiore dove oltre agli affreschi lascia una Deposizione di toccante patetismo, fino a sfidare il primato veneziano di Tiziano nel concorso per la pala di San Pietro Martire. In questo caso il Vecellio si dimostra “inattaccabile” ma l’occasione per il de Sacchis di una commissione veneziana non tarderà a venire, tanto che nel 1528 gli viene affidata la decorazione del coro della chiesa di San Rocco, purtroppo in gran parte perduta con i rifacimenti successivi. Vale la pena ancora ricordare la decorazione della cupola della chiesa di Santa Maria di Campagna a Piacenza e poi della cappella di Santa Caterina sempre nella stessa chiesa, che costituiscono anch’esse un importante episodio per la diffusione del manierismo in valle padana. Morirà il 14 gennaio del 1539 a Ferrara dove era appena giunto e dove avrebbe certamente scritto un nuovo importante capitolo della sua opera. Il secondo e il terzo paragrafo invece sono dedicati al ruolo della grafica pordenoniana e in questo caso si ribadisce oltre alla elevata qualità complessiva del suo 254 corpus grafico, anche la tripartizione già avanzata da Cohen, cui spetta una monumentale monografia sul pittore pubblicata nel 1996, dove i fogli venivano classificati secondo tre categorie: “i primi pensieri”, di solito eseguiti in modo velocissimo, di getto, “gli studi”, dove la composizione prende oramai forma, spesso eseguiti a matita rossa, e i disegni finiti, veri e propri fogli di presentazione, come possiamo ammirare nel famoso Martirio di San Pietro Martire degli Uffizi. Vale la pena di soffermarsi su una proposta riguardo un disegno conservato al Louvre (n. inv. 5647), che raffigura probabilmente sant’Agostino e che fino ad ora non aveva goduto di grande considerazione. Giudicato da Pouncey una copia da un originale pordenoniano è stato invece attribuito dall'autore al pittore stesso e rivalutato come una primizia giovanile. L’assenza di opere grafiche certe del periodo giovanile rende difficile un giudizio definitivo, tuttavia va rimarcata la qualità piuttosto alta del foglio e l’assenza di qualsiasi spinta in direzione della Maniera. La seconda parte del volume è poi dedicata al catalogo vero e proprio dei fogli conservati in Ambrosiana dove vengono schedate ben quindici prove autografe. Accanto a questi trova posto anche il foglio con Marte e Venere (cod. F268 inf. n. 151), in qualche modo declassato a prova dell’Amalteo. Sono invece molto interessanti i tre studi di cavalli (Cod. F 263 inf. n. 1-3) già considerati opere leonardesche, che Villata sposta in direzione di un seguace di Pordenone; questi piccoli disegni ci permettono inoltre di comprendere come differente fosse la concezione del disegno tra Leonardo e la sua scuola e il de Sacchis: per il primo mezzo principale per indagare il mondo e i suoi fenomeni, per il friulano esercizio al servizio della fantasia. Infine meritano qualche nota anche i due an- Recensioni e segnalazioni geli (cod. F 234 inf. n. 823), per i quali è ribadita la attribuzione a un pittore cremonese, e la estraneità al corpus del friulano. Completano il volume un ricco appara- to iconografico con belle tavole a colori dei dipinti e dei disegni studiati, una ricca bibliografia e l’utile indice dei nomi in fondo. Simone Riccardi Maria Ángeles Sáez García, Isabel de Yosa y de Cardona. Una “puella docta” predicadora del siglo XVI, in “Boletín de la Real Academia de la Historia”, CCXIII (2016), pp. 189-215. In questo saggio pubblicato nella prima metà del 2016 sulla prestigiosa rivista spagnola di studi storici, la studiosa catalana Maria Ángeles Sáez García, esperta di storia della spiritualità femminile del XVI secolo, si sofferma ancora una volta su Isabella Josa di Cardona. Di questo personaggio, la cui particolarissima biografia s’intreccia con le vicende cittadine della Vercelli d’età moderna, la Sáez García si era infatti già occupata in precedenza, durante la preparazione dell’elaborato finale col quale ha ottenuto nel 2015 il Master in Storia della Catalogna. Gli esiti della minuziosa ricerca - confluiti nella tesi dal titolo Isabel de Josa. Una insòlita dona catalana del segle XVI - sono stati ripresi e sintetizzati dall’autrice nelle pagine del “Boletín de la Real Academia de la Historia”, allo scopo di richiamare l’attenzione del pubblico dei lettori su un personaggio storico che non è soltanto una “donna singolare”, ma che è “una donna con un progetto proprio a favore del genere femminile”. Anche nell’articolo, come era avvenuto nella tesi, documentazione d’archivio e fonti bibliografiche vengono messe in dialogo fra loro, per giungere a una biografia che di Isabella Josa - già in altre occasioni divenuta oggetto di pregevoli ricostruzioni, come quella di Marianna Nordio (1993) - mettesse in luce un aspetto molto particolare: quel “suo ingegno” che, “sebben femminile”, le aveva permesso di “penetrare li alti misteri di profondissima scienza”. E tanta conoscenza Isabella Josa aveva saputo mettere a frutto, non tenendola per sé, ma ponendola a servizio delle persone bisognose, in un apostolato attivo a favore delle donne e, tra queste, povere tra i poveri, delle bambine orfane. Preoccupazione primaria di Maria Ángeles Sáez García è ovviare a quella “disconnessione storiografica ‘a quattro bande’ - la spagnola, la romana, la vercellese, la milanese” (la nobildonna spagnola fondò a Milano la Casa di Santa Maria del Soccorso, per ospitare le donne “irregolari”) - che ha sempre reso impossibile la realizzazione di una biografia di Isabella Josa solidamente fondata su materiale documentario. I tentativi di ricostruire la sua vita e le sue opere non sono mancati - sostiene la studiosa -, ma spesso si sono concretizzati in “un cumulo di errori e confusioni”, relegando questa figura femminile in un passato a tratti leggendario. Basti pensare, a titolo d’esempio, che il primo a citare Isabella Josa in una sua opera fu l’umanista andaluso Alfonso García Matamoros, cattedratico di Retorica all’Università di Alcalá, che la descrisse come una “lottatrice”, paragonandola a Diotima (figura sapienziale che nel Simpo255 Recensioni e segnalazioni sio esprime la concezione di amore-Eros propria di Platone) e a santa Paola Romana (discepola di san Gerolamo, che rinunciò alle proprie ricchezze e al proprio status per seguire gli ideali religiosi di preghiera e carità, fondando un monastero). Attraverso numerosi esempi, Sáez García dimostra che questo profilo tratteggiato da Matamoros incise profondamente sugli autori che, nei secoli successivi, fecero riferimento a Isabella Josa nelle proprie opere: da Pérez de Moya (che la inserisce in un paragrafo del suo Varia historia de santas e ilustres mujeres en todo género de virtude del 1583, dedicato alle donne sagge) a Jerónimo Pujades (che, nella Crónica Universal del Principado de Cataluña del 1644, la presenta come terziaria francescana, divenuta predicatrice in virtù delle sue preziose doti spirituali), da Gottfried Hercklitz (per il quale Isabella Josa, nominata nella Dissertationem de cultu heroinarum del 1700, era dottoressa in Teologia e modello di donna colta) a Benito Feijoo (che nel Theatro crítico universal del 1778 sottolineò l’aspetto “pubblico” dell’erudizione di Isabella). Al di là dell’alone leggendario che talvolta avvolse la figura di Isabella Josa, su un elemento particolare tutte le fonti concordano: fu una donna di straordinaria cultura. Non si conosce nulla di preciso riguardo alla formazione di Isabella, ma non è difficile supporre che fu istruita da un precettore privato, come tutte le ragazze appartenenti alle famiglie benestanti. La sua preparazione, però, si elevò ben oltre ciò che di consueto era riservato alle donne, ossia l’apprendimento della lettura, che consentiva di accedere ai testi devozionali e ai libri liturgici; ebbe infatti accesso alla biblioteca giuridica del padre, Vicenç Orrit, dottore in Diritto civile e canonico e cattedratico presso lo Studium Generale di Lérida, facendo 256 tesoro di un ambiente familiare tanto vivace dal punto di vista culturale. I primi documenti d’archivio nei quali compare traccia di Isabella Orrit (questo era il cognome da nubile della nobildonna) sono i capitoli matrimoniali che attestano le sue nozze con Guillem Ramón de Josa y de Cardona, nel 1509. Dalla breve unione, che fu bruscamente interrotta dalla morte di Guillem Ramón nel 1517, nacquero tre figli: Maciana, Guillem Ramón e Anna. La giovane vedova si ritrovò sola a dover gestire l’ingente patrimonio familiare, amministrandolo con saggezza, nell’interesse dei suoi figli. Ma, oltre a garantire la propria famiglia, Isabella sentì la necessità di impiegare le proprie doti intellettuali a vantaggio del prossimo: cominciò, così, a dedicarsi all’insegnamento (rivolto in special modo alle bambine orfane) e alla predicazione (le fonti testimoniano che predicò nella Cattedrale di Barcellona). Fu in questi anni che Isabella Josa di Cardona - la cui esperienza di fede ben si accorda con l’ansia di rinnovamento spirituale d’inizio Cinquecento - maturò il desiderio di offrire la propria vita al servizio di Dio e del prossimo. In questo percorso di ricerca interiore un contributo fondamentale fu certamente quello di sant’Ignazio di Loyola, che con la sua predicazione e il suo esempio di vita aveva attratto attorno a sé un gruppo di pie donne di Barcellona disposte ad ascoltarlo e a seguirlo; al circolo delle iñigues prese parte anche Isabella Josa, che, a quanto risulta dalla corrispondenza di sant’Ignazio, come le altre fornì al fondatore della Compagnia di Gesù il sostegno economico necessario affinché portasse a termine i suoi studi universitari, prima in Spagna e poi a Parigi. A differenza di un’altra delle iñigues, Isabella Roser, con la quale alcuni autori l’hanno talvolta confusa, Recensioni e segnalazioni Isabella Josa non nutrì mai il desiderio di diventare una monaca “gesuitessa”; infatti, quando la Roser decise di recarsi a Roma, nel 1543, per fondare il ramo femminile della Compagnia di Gesù (l’Ordine ottenne l’approvazione di papa Paolo III nel 1545, ma nel 1547 fu sciolto su richiesta dello stesso sant’Ignazio), Isabella Josa l’accompagnò, ma non ne condivise il progetto. Isabella di Cardona era attratta da un’altra idea d’ispirazione ignaziana: fondare una comunità di nobildonne che vivessero una “religiosità pratica”, dedicandosi alle opere di carità al di fuori del convento. In questa forma vitae la nobildonna spagnola avrebbe potuto spendere fino in fondo, a servizio dei poveri e dei peccatori, la propria solida formazione intellettuale e spirituale, ossia quelle doti umane e cristiane che aveva maturato fin dagli anni del suo apostolato a Barcellona. Le fonti storiografiche relative agli anni trascorsi a Roma, infatti, riferiscono dell’intensa attività di catechesi in cui Isabella fu impegnata e del clamore che tale attività suscitò in certa parte del clero, scandalizzato che una donna potesse predicare in pubblico. Lo scontro tra chi sosteneva che “mulier quamtucumque docta in conventu viros docere non presumat” e chi invece riteneva che “predicar no podía la mujer, pero leer bien podía” si concluse con l’intervento di papa Paolo III, che autorizzò la nobildonna spagnola a leggere pubblicamente testi che proclamavano la dottrina cristiana e le verità di fede. Quando, nel 1547, l’esperienza delle “gesuitesse” fallì, Isabella Roser fece ritorno in Spagna, mentre Isabella Josa si stabilì a Vercelli. Lo storico vercellese Giovanni Battista Modena, suo contemporaneo, racconta che la nobildonna era già stata a Vercelli durante il suo viaggio di andata verso Roma e che qui si era fatta conosce- re e amare dagli abitanti per la sua fervente predicazione e per le opere di carità a favore delle bambine orfane. Già nel 1543, infatti, Isabella di Cardona avrebbe contribuito alla fondazione della Compagnia di Betania (della quale faceva parte anche il padre dello stesso Modena), a favore degli orfani. Vercelli, piazzaforte controllata dagli spagnoli, era a quel tempo profondamente segnata dai continui conflitti bellici; la città ospitava masse di “miserabili” che spesso soccombevano alle troppo precarie condizioni di vita, lasciando sola una moltitudine di bambini, privati degli affetti più cari e, con questi, di ogni speranza di vita. Non resta difficile comprendere cosa abbia spinto Isabella Josa, sempre attenta alle necessità dei più indigenti, a cercare di dare sollievo alle “povere figlie orfane, che andavano vagando senza custodia per la Città con pericolo della loro onestà, e di mal costume”. Per accogliere le orfane e prendersi cura della loro educazione era necessaria una casa, alla sussistenza della quale non sarebbero bastate né la benevolenza di alcuni tra i più influenti cittadini vercellesi né le elemosine raccolte da Isabella durante la sua predicazione. Fu per questo motivo che la nobildonna spagnola si adoperò affinché sia il vescovo Pietro Francesco Ferrero sia il duca Carlo III di Savoia garantissero al nascente orfanotrofio di S. Maria di Loreto - ufficialmente riconosciuto nel 1556 - le necessarie tutele economiche e legali. La stessa Isabella Josa fu la prima governatrice dell’orfanotrofio, coadiuvata da due vicegovernatrici, che si occupavano dell’istituto in assenza della fondatrice (che, quasi contemporaneamente, nel 1555, aveva fondato a Milano la Casa di Santa Maria del Soccorso, per sottrarre al degrado, all’abbandono e alla prostituzione tutte le donne provenienti da settori marginali della 257 Recensioni e segnalazioni società). Isabella stilò personalmente gli articoli delle Costituzioni del Collegio (giunte fino a noi in una copia del 1645), che non solo illustrano efficacemente la struttura e il funzionamento dell’istituto, ma consentono di intuire quale concezione della vita e della società avesse la fondatrice: il Collegio era considerato come una “famiglia”, una società di tipo matriarcale, che la governatrice reggeva non soltanto esercitando la propria autorità, ma soprattutto offrendo alle piccole orfane il buon esempio da seguire e curando la loro formazione cristiana e la loro educazione. Si trattava - come si è detto - di un progetto a favore delle donne, nel quale una donna, Isabella Josa, assunse il ruolo di protettrice e di garante di altre donne. La personalità di Isabella che le fonti ci restituiscono appare estremamente singolare e complessa. Figlia, madre, sposa, vedova, predicatrice, fondatrice, dotta, teologa e donna d’intensa spiritualità, Isabella Josa di Cardona sembra lo stampo femminile di omologhe figure maschili del suo tem- po. Resta da verificare - conclude Maria Ángeles Sáez García - che non si tratti di un “modello-eccezione” elaborato dopo il Concilio di Trento e, al contempo, quale sia stata l’effettiva ricaduta spirituale di tale modello sulla società della prima metà del Cinquecento. Chiunque desideri conoscere più da vicino la figura di Isabella Josa non può prescindere dal leggere il contributo della Sáez García. Di estremo interesse non solo perché indica al lettore come districarsi in una documentazione a tratti limitata e inesatta, e come discernere quali siano le fonti davvero affidabili, il saggio offre preziosi spunti per ricerche future, che consentirebbero di mettere in luce i processi attraverso i quali donne come Isabella Josa di Cardona scelsero di lasciare le proprie certezze di vita per dedicarsi al servizio di Dio e del prossimo, restando nel mondo senza essere del mondo. Daniela Piemontino Mercurino. Cardinale e Gran Cancelliere di Carlo V e la famiglia Arborio Gattinara, Atti del Convegno Internazionale di studi storici (Gattinara, 3-4 ottobre 2015), Associazione Culturale di Gattinara, Gattinara, 2016, pp. 259, ISBN 978-88-6565-053-0. Gli atti del convegno tenutosi a Gattinara il 3 e il 4 ottobre 2015 raccolgono quattordici interventi di vario genere. Come ricorda il presidente del Comitato organizzatore Maurizio Cassetti nell’introduzione, l’Associazione Culturale di Gattinara ha avviato, almeno a partire dagli anni ’80 del Novecento, un fruttuoso spolvero e riordino di materiali riguardanti la famiglia Arborio Gattinara, in particolare inerenti al borgo e al consortile. 258 La natura composita degli interventi fa sì che, in poco più di duecento di pagine, l’ausilio di fonti documentarie e un ricco apparato iconografico offrano al lettore una visione d’insieme sulla storia dell’antico consortile. Gli autori sono storici di professione, storici locali ed eruditi, per cui i contributi risentono delle singole formazioni. Il volume, più che parlare del gran cancelliere, attesta il prestigio conferito alla famiglia Recensioni e segnalazioni da Mercurino. È presente una ricostruzione della genealogia del consortile degli Arborio, con brevi schede biografiche per ogni rappresentante e con la riproduzione di pregevoli alberi (Enrico Scribante, Genealogia della famiglia Arborio Gattinara - prima di Mercurino, pp. 7-13, Fulvio Caligaris, Genealogia della famiglia Arborio Gattinara - dopo Mercurino, pp. 15-53). Ricevono attenzione anche i membri della famiglia appartenenti al clero e all’ordine di Malta (Giuseppe Parodi Domenichi di Parodi, I vari prelati di casa Arborio Gattinara, pp. 83-89, Carlo Angelino Giorzet, 1500-1650 Un secolo e mezzo di storia della “Religione di S. Giovanni Gerosolimitano” ovvero dei “Cavalieri di Malta”, pp. 181-219). Sono altresì confrontate le trasformazioni delle armi gentilizie nel corso dei secoli (Mario Coda, Lo stemma della famiglia Arborio Gattinara, le sue varianti e gli stemmi delle alleanze matrimoniali, pp. 91-101). Vi è un accenno alle situazioni conviviali, che ebbero il merito di favorire l’esportazione di prodotti locali (Sandro Orsi, Il banchetto nell’epoca di Mercurino, pp. 103-105). La localizzazione del marchesato lungo la Sesia, cioè sul confine dei territori sabaudi con lo Stato di Milano, rendeva i sistemi difensivi di imprescindibile importanza. Gli interventi trattano dei castelli di Lenta, di Ghislarengo, di Arborio, di Greggio, di Albano e delle residenze gattinaresi della famiglia, nelle quali sono rilevabili apprezzabili forme di autorappresentazione (Gabriele Ardizio, “A volo d’uccello”: i castelli degli Arborio Gattinara, pp. 7181, Andrea Caligaris, Fulvio Caligaris, Le architetture legate a Mercurino e alla sua famiglia, pp. 107-135). Accanto a tali interventi, si trovano studi che proiettano Mercurino nel contesto internazionale dell’impero di Carlo V. Il gran cancelliere possedeva una precisa idea di impero che derivava dalla sua formazione di uomo tardo rinascimentale. In più contributi emerge la peculiare caratteristica dell’Arborio di adattare, di volta in volta, i propri schemi mentali alle circostanze, virtù che gli permise di destreggiarsi in più ambiti (Rebecca Ard Boone, Mercurino di Gattinara and Imperial Humanism, pp. 55-69, Juan Carlos d’Amico, Gattinara e l’idea imperiale: tra profezie, translatio imperii e realismo politico, pp. 137-161, Manuel Rivero Rodriguez, Il Gran Cancelliere e la sopravvivenza del suo progetto imperiale dopo la sua morte: il discorso di Carlo V a Roma nel 1536, pp. 163-179). Una delle questioni che interessò la monarchia spagnola nel Cinquecento, fu quella relativa all’eredità di Cristoforo Colombo: le pretese dei discendenti dovevano essere accortamente contenute. Dalla documentazione emergerebbero alcune informazioni sull’origine dell’esploratore (Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro, Mercurino Arborio di Gattinara e la questione colombiana, pp. 221-229). Alcuni scritti tratteggiano aspetti del carismatico gran cancelliere (Federico Scribante, Illustrazione della tesi “Mercurino Arborio Gattinara”, pp. 3-5, Mario Cappellino, Spigolature storiche sul cardinale Mercurino Arborio di Gattinara nel 550° della sua nascita, pp. 231-233). Michela Ferrara 259 Recensioni e segnalazioni Il Marchesato di Novara feudo silenzioso. Economia e alimentazione nella Novara del XVI secolo, a cura di Giancarlo Ardenna, Giovanni Ballarini, Giampietro Morreale, Mario Tuccillo, Accademia Italiana della Cucina - Delegazione di Novara, Novara 2016, pp. 174, ill. ISBN 978-88-97398-17-2. Nel Cinquecento era alle porte una rivoluzione alimentare: l’ancora recente scoperta delle Americhe e dei loro prodotti, le nascenti coltivazioni di riso e di mais avrebbero segnato indelebilmente il destino delle future generazioni. Il volume offre una fotografia del mondo culinario precedente a tali stravolgimenti attraverso lo studio delle mense povere e benestanti. Per tutto l’Antico Regime, e non solo, l’alimentazione costituì un problema costante. In mancanza di efficaci mezzi per favorire la resa agricola, la popolazione si trovava, in presenza di guerre o di eventi naturali catastrofici, in situazioni di strettezze che non di rado sfociavano nelle carestie, che a loro volta favorivano la diffusione di pestilenze. Un approvvigionamento adeguato era indispensabile alle soldatesche, così come ai coltivatori, che costituivano la maggior parte della popolazione. Spesso, però, era difficile godere di un’alimentazione regolare. Il volume si articola in quattro capitoli. Il primo, di Giancarlo Andenna, Un marchesato per un prestito. I Farnese a Novara (1538-1603) (pp. 13-61), offre un inquadramento storico: papa Paolo III Farnese, grazie alla sua influenza e ai suoi rapporti con l’imperatore Carlo V, riuscì a far ottenere al figlio Pier Luigi, dietro un prestito di 225 mila scudi, il marchesato di Novara. Il saggio si concentra quindi sull’amministrazione del feudo sotto il dominio dei Farnese, e in particolare pone l’accento sull’approvvigionamento di beni alimentari come grano, sale, vino, carne e pesce. Gli attriti fra gli 260 ufficiali del marchesato e il decurionato locale rivelano i conflitti d’interessi esistenti fra le élites novaresi, quelle milanesi e quelle italiane. I seguenti capitoli trattano prevalentemente di alimentazione. Il saggio di Giampietro Morreale, Gli ultimi fuochi del Medioevo. Economia e alimentazione nel Cinquecento novarese (pp. 63-121), parla dei cambiamenti che stavano avvenendo nel Cinquecento, un periodo in cui la cucina stava per abbandonare i gusti tipicamente medievali per approdare in quelli moderni: le nuove preferenze avrebbero portato a una tavola meno speziata e dai sapori meno agrodolci. Attraverso l’analogia, l’autore paragona diverse situazioni del passato all’attualità. Sulla base di fonti tributarie, Morreale determina le tipologie di alimenti più diffusi nei diversi ceti. Mario Tuccillo, nel capitolo Cibi, vino, osterie e trattorie nella città che vive un’epoca di grande fermento (pp. 123-155), discute della diffusione degli alberghi a Novara. La demolizione di edifici per far posto alle nuove mura, costrinse numerosi bottegai a trasferirsi in sedi più periferiche. Una serie di riproduzioni di mappe aiutano a ricostruire la topografia della vecchia città e di quella progettata. L’autore parla delle specialità che proprio allora si stavano perfezionando: i biscottini e la paniscia, che all’epoca non prevedeva l’aggiunta del riso perché il cereale non era ancora abbastanza diffuso. L’ultimo saggio, di Giovanni Ballarini (Alla luce di un “picciol lume di cucina”. Recensioni e segnalazioni A tavola con Ranuccio e Francesco Farnese. Riflessioni sulla cucina farnesiana, pp. 157-174), si sofferma invece sui cuochi alle dipendenze dei Farnese: Sante Lancerio, Vincenzo Cervio, Bartolomeo Scappi e Carlo Nascia. Riporta inoltre quanto contenuto nel trattato di cucina da cui prende nome il titolo del capitolo, composto dal cuoco Antonio Maria Dalli a fine Seicento, il quale offre testimonianza dello sfarzo della cucina di corte. Il filo rosso che collega i quattro scritti dà vita a un felice rimando all’interno dei testi. Tenendo conto che il volume tratta più che di storia di cucina, il primo capitolo ha la funzione di chiarire il contesto storico. Nei capitoli di argomento squisitamente culinario, emerge una certa difficoltà nel rintracciare informazioni adeguate: i ricettari coevi tendevano a nascondere i segreti dei cuochi, gli elenchi di cibarie delle osterie o dei conventi non spiegavano di certo le modalità di consumazione. I piatti quotidiani erano, più che descritti nei documenti, rappresentati nell’arte figurativa. A corollario del volume vi sono infatti riproduzioni di opere d’arte in cui venivano rappresentate botteghe, lavoranti e cibi. Sono altresì riprodotte fonti documentarie, dove si trova una svista grossolana nella collocazione di una miniatura (p. 151). Il secondo aspetto affrontato nel volume, quello economico, apre la strada a ulteriori approfondimenti. La presenza di merci provenienti dall’estero presuppone infatti l’esistenza di reti commerciali, di accordi interstatali e di rapporti fra mercanti. Michela Ferrara Les Sénats des états de Savoie. Circulations des pratiques judiciaires, des magistrats, des normes (XVIe-XIXe siècle), a cura di Françoise Briegel e Sylvain Milbach, Atti del convegno di Ginevra (9-10 ottobre 2014), pubblicati con la collaborazione della Deputazione Subalpina di Storia Patria, Roma, Carocci, 2016, p. 302 ISBN 9788843079537. Il convegno sui Senati sabaudi, di cui questo volume pubblica gli atti, è stato preceduto da un convegno sul Senato di Chambéry. Proprio quest’ultima occasione d’incontro, come chiariscono i curatori nell’introduzione, ha rivelato agli studiosi la necessità di approfondire gli altri Senati sabaudi, ossia quelli di Torino, di Nizza, di Casale, di Cagliari e di Ginevra. Mentre il Senato di Torino si caratterizza per stabilità e per durata nel tempo, gli altri hanno percorsi discontinui. Dopo la pace di Cateau-Cambrésis, Emanuele Filiberto riconferma in via ufficiale nel 1559 il Senato di Savoia, con sede a Chambéry, e nel 1560 il Senato di Piemonte, con sede a Torino. Il Senato nizzardo, istituito nel 1614 da Carlo Emanuele I, risentirà a lungo dell’occupazione francese del 1792-1814. Il Senato di Cagliari nasce nel 1720, con l’acquisizione della Sardegna. Il Senato di Casale, ereditato dal ducato del Monferrato, viene sospeso da Vittorio Amedeo II nel 1729, con l’ufficiale occupazione sabauda, per essere ripristinato nel 1838. Anche Pinerolo, per un breve periodo, vanta un senato. L’arco temporale preso in considera261 Recensioni e segnalazioni zione è molto ampio, non tanto perché fra Cinquecento e Ottocento cambiano considerevolmente i confini degli Stati sabaudi, quanto piuttosto perché si verifica la fine dell’Antico Regime. I quindici contributi esaminano, a partire dal governo di Carlo II, l’acquisizione di nuovi territori e i riordinamenti in materia di giustizia. La rivoluzione francese e l’occupazione napoleonica segnano un forte momento di rottura; con la Restaurazione, si assiste a un ridimensionamento del potere senatoriale. Il volume si articola in tre parti: la prima riguarda il territorio, la sovranità e le giurisdizioni sabaude, la seconda tratta della circolazione delle idee e delle pratiche giudiziarie nei diversi territori e l’ultima affronta la circolazione dei magistrati all’interno degli Stati sabaudi e all’estero. Gli interventi tengono conto delle specificità locali e delle tensioni fra le diverse identità territoriali. Ad esempio, la giurisdizione del ducato d’Aosta spetta in un primo momento al Senato di Chambéry, ma, nel corso del Cinquecento, il Senato di Torino assorbe quest’area, segno che la convivenza fra gli organi istituzionali non era affatto pacifica. Un rapporto costantemente conflittuale si ha con le Camere dei conti, a Chambery si trova infatti quella savoiarda e a Torino quella piemontese. Le Camere esercitano la giurisdizione civile e penale sulle questioni che riguardano le gabelle e i relativi appalti. Nonostante i tentativi di separazione dei poteri, attuati a partire dal Seicento, non si giunge mai a una definizione chiara degli ambiti di giurisdizione. Nel corso del tempo si assiste a mirati interventi di razionalizzazione. Nel 1632, 262 Vittorio Amedeo I introduce l’obbligo di motivare ogni sentenza con brevi argomentazioni. Si inaugura quindi un periodo di composizione di codici di decisioni; i molti che vedono la luce nel Seicento sono a cura di Ottaviano Cacherano d’Osasco, di Antonio e di Gaspare Antonio Tesauro, di Antoine Favre e di Giovanni Antonio della Chiesa. Con la diffusione dei grandi tribunali, le motivazioni delle sentenze si abbreviano a favore di una semplificazione. Le Regie Costituzioni del 1729 accordano un carattere di fonte di diritto alle decisioni del Senato. I senatori e i giuristi trovano il proprio posto all’interno di una determinata gerarchia, che varia a seconda del rango, del grado di nobiltà e del ruolo ricoperto. Le carriere più luminose sono percorribili solo da quei magistrati che vantano uno specifico cursus honorum e un considerevole prestigio sociale. Pochi e scelti sono coloro che ricoprono le cariche di presidente. I viaggi giudiziari aprono la questione del livello di acculturamento dei magistrati. I contributi concordano nell’affermare che l’occupazione francese segna l’inizio del declino delle istituzioni di Antico Regime. Declino che culminerà, in pieno Ottocento, con la separazione politica dei territori transalpini da quelli cisalpini. Il convegno ha costituito un importante momento di confronto fra storici e storici del diritto. Gli interventi non hanno esaurito gli studi sui Senati sabaudi, ma hanno mostrato quanto questo terreno di studi sia fertile e permetta di comprendere in che misura convivessero giurisdizioni differenti all’interno di uno Stato composito. Michela Ferrara Recensioni e segnalazioni Piemonte, bonnes nouvelles. Testimonianze di storia sabauda nei fondi della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino nel 600° anniversario del Ducato di Savoia, a cura di F. Porticelli, A. Merlotti, G. Mola di Nomaglio, Centro Studi Piemontesi, Torino 2016, pp. 209, ill. [ISBN] 97888-8262-256-5. Con il convegno Savoie, bonnes nouvelles. Studi di storia sabauda nel 600° anniversario del Ducato di Savoia (Torino, 20-22 ottobre 2016) il Consiglio regionale del Piemonte e il Centro Studi Piemontesi hanno celebrato la ricorrenza articolando un vasto ed eterogeneo programma di comunicazioni e inaugurando la bella mostra di cui il catalogo in oggetto - dal titolo quasi gemello - offre testimonianza. Il volume è articolato in undici sezioni a ciascuna delle quali corrispondono le schede dei documenti e dei libri esposti secondo un percorso che, dal tema delle origini di Casa Savoia, si snodava e si snoda attorno ai nuclei della santità dinastica, della gestione territoriale, dell’esercito, della transizione da contea a ducato e da ducato a regno, della cerimonialità, dell’assistenza. Sfogliandolo si ritrovano i testi fondanti dell’autorità e del mito di una famiglia regnante che, come ogni dinastia europea fra Medioevo e Ottocento, elaborò i suoi modelli di autorappresentazione e si dotò di strumenti culturali idonei a rafforzarli e a divulgarli. Divulgativo, volutamente, è anche il tono dei brevi testi di accompagnamento affidati però tutti a specialisti quali i tre curatori e Paolo Cozzo, Claudio Rosso, Enrico Genta, Roberto Sandri Giachino, Paola Bianchi, Franca Varallo, Bruno Signorelli e Angelo Giaccaria; a firma loro e di alcuni altri collaboratori sono anche le schede. Da rilevare il fatto che il patrimonio presenta- to è parte costitutiva dell’attuale Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino grazie al salvataggio della Biblioteca del Regio Ateneo operato da Giuseppe Matteo Pavesio nel settembre del 1800 per evitare le spogliazioni napoleoniche. Si parte dalle origini dinastiche che, come spiega Merlotti citando il medievista inglese Charles W. Previté-Orton e Francesco Cognasso, restano comunque nebulose (sassoni o no?) e legate al nome di Umberto Biancamano; a creare il capostipite Beroldo furono le Chroniques de Savoy di Jean Cabaret d’Orville commissionate dal primo duca Amedeo VIII nel 1416 (scheda n. 1) e di lì fino a Cibrario, passando per Pingone, Guichenon, Monod, fu un fiorire di genealogie, di trattati e di apologie volti a fissare il rango dei Savoia fra l’Impero asburgico e le monarchie europee. Il culto dei santi di famiglia - primo fra tutti il beato Amedeo - e della Sindone sostanziò il ruolo di principi cristiani dei duchi di Savoia, inducendoli a sponsorizzare nuove canonizzazioni (come quella dell’Infanta Francesca Caterina promossa da una biografia di Maurice Arpaud: scheda n. 11) e a favorire gli ordini cavallereschi dei Santi Maurizio e Lazzaro e dell’Annunziata (schede 21-22). A rappresentare lo Stato che si ingrandiva e spostava verso est i propri orizzonti nonostante la natura transalpina ecco l’impresa del Theatrum Sabaudiae (scheda n. 23) e gli strumenti giuridici, dagli appunti manoscritti di Pierre Mellarède 263 Recensioni e segnalazioni (scheda n. 46) alla celebre raccolta delle leggi di F. A. Duboin (scheda n. 89); ecco i lavori di ingegneria militare e le cartografie. Sul piano culturale, l’Università, il Collegio dei nobili, quindi la Reale Accademia delle Scienze favorirono gli studi scientifici - rappresentati fra l’altro da una copia del Sidereus Nuncius di Galileo (scheda n. 61) - e il gusto per il collezionismo erudito e per l’architettura (in primis i nomi di Juvarra e Vittone), mentre la corte, dai balletti di Cristina e Filippo d’Agliè, si aggiornava secondo modelli sempre più francesi e imperiali, fede dei quali sono le descrizioni delle nozze dei sovrani settecenteschi. Si ricordano infine gli interventi contro il pauperismo (con il noto La mendicità sbandita di André Guevarre del 1717, scheda n. 85). Risulta impossibile, com’è ovvio, dar conto delle 103 opere schedate e descritte. Basti dire che le teche della Nazionale valorizzavano in particolar modo pergamene, codici miniati, anche qualora danneggiati dal noto incendio del 1904, mappe e vedute, alcuni oggetti e legature di pregio. Diverso ma complementare al patrimonio della Biblioteca Reale di Torino, il nucleo della Nazionale dialoga costantemente anche con altre istituzioni cittadine descritte nella sezione finale del Catalogo: l’Archivio di Stato di Torino, i Musei Reali, La Venaria Reale, Palazzo Madama e il Museo Civico d’Arte Antica, il Museo Storico Nazionale di Artiglieria, il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, la Soprintendenza per i beni e le attività culturali di Piemonte e Valle d’Aosta, la Fondazione 1563 della Compagnia di San Paolo, l’Archivio storico della città di Torino, la Biblioteca della Regione “Umberto Eco”, la Fondazione Luigi Einaudi, la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, la Ca dë Studi Piemontèis, gli Amici di Villa della Regina, l’Associazione Dimore storiche italiane. Tutte insieme hanno costituito una rete che ha sostenuto le celebrazioni per i seicento anni del ducato sabaudo e che da tempo si prefigge di mantenere, studiandole, «le molte eredità di una Dinastia» (p. 149). Alice Raviola Il caso Beccaria. A 250 anni dalla pubblicazione del “Dei delitti e delle pene”, a cura di Vincenzo Ferrone e Giuseppe Ricuperati, il Mulino, Bologna 2016, pp. 426. ISBN 978-88-15-26598-2. “Ogni qual volta l’umanità è in pericolo Beccaria torna d’attualità”: così scrive uno dei curatori, Vincenzo Ferrone, nell’introduzione alla raccolta di saggi dedicata al grande illuminista lombardo. Il volume trae origine dal convegno internazionale “Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria a 250 anni dalla pubblicazione”, organizzato il 27-28 novembre 2014 a Torino dall’Accademia delle Scienze e dalle fondazioni “Luigi Firpo” e “Luigi Einaudi”. Il conve264 gno si è mosso lungo le due direttrici della ricognizione dei più recenti studi storici internazionali su Beccaria e della verifica dell’attualità del suo pensiero giuridico. La riscoperta storiografica di Beccaria - sulla cui importanza si sofferma nella relazione introduttiva Giuseppe Ricuperati - ad opera di Franco Venturi e di Luigi Firpo nel secondo dopoguerra era stata consacrata proprio da un grande convegno internazionale, tenutosi nell’ottobre 1964 all’Accademia Recensioni e segnalazioni delle Scienze di Torino. Le riflessioni di Venturi su Beccaria erano iniziate nel 1953 con la pubblicazione del saggio Beccaria in Russia sulla rivista Il Ponte, fondata e diretta a Firenze da Piero Calamandrei, erano proseguite nel 1958 con un grande profilo del filosofo milanese in apertura del primo volume degli Illuministi italiani e avevano trovato la degna conclusione nella monumentale opera Settecento riformatore. Il contributo di Firpo si era focalizzato soprattutto sul piano filologico e bibliografico con ricerche molto accurate sulle edizioni italiane del Dei delitti e delle pene e con dotte incursioni sul terreno iconografico e nell’ambito dei contesti editoriali. Sulla capacità delle pagine di Beccaria di suscitare ancora oggi spunti e reazioni critiche su questioni cruciali offre importanti elementi di riflessione la relazione di Philippe Audegean (maitre de conférences nell’Università Sorbonne Nouvelle-Paris 3) sul tema dell’assenza di ogni riferimento alla funzione rieducativa e riqualificante delle pene. Nell’intervento di Carlo Capra è dimostrato con chiarezza come il gruppo di giovani intellettuali illuministi raccolti intorno alla rivista Il Caffè abbia avuto una funzione decisiva nella nascita, nella stesura e poi nella diffusione e nella difesa iniziale del pamphlet di Beccaria. Sara Bersezio compie invece un’intelligente rivisitazione critica della traduzione del Dei delitti e delle pene fatta in Francia dall’abate Andrè Morellet su incarico di Voltaire. Accusata da Diderot di aver tradito lo stile appassionato di Beccaria, quella traduzione era stata invece pensata per orientare le scelte dell’opinione pubblica francese a favore delle riforme penali, parlando soprattutto - proprio grazie alla nuova struttura del testo e al titolo Traité des délits et des peines - agli avvocati e ai magistrati, in altri termini al mondo della giustizia dell’ Ancien Régime. All’inizio della seconda parte del libro, intitolata “Tortura giudiziaria e pena di morte”, Adriano Prosperi indaga le fonti remote della proposta di Beccaria di abolire la pena di morte, individuandole nella rottura epocale e definitiva del secolare nesso tra religione e giustizia in Occidente. Nel suo intervento Pietro Costa nota come il piccolo libro di Beccaria non abbia certo vinto la battaglia per l’eliminazione della pena di morte, che anche ai giorni nostri continua - con terrificante spettacolarità - ad essere inflitta. Ma senza quelle pagine utopiche e coraggiose la strenua lotta tra favorevoli e contrari non sarebbe nemmeno cominciata. La limpida relazione di Renato Pasta fa emergere i punti più importanti del dibattito avvenuto nel Granducato di Toscana e alimentato da alcune delle idee salienti di Beccaria in merito al superamento del processo inquisitorio, alla invocata mitezza e proporzionalità delle pene, alla pubblicità di ogni fase del processo e alla tutela dei diritti della difesa considerati finalmente nel novero dei diritti naturali dell’uomo. Elisabeth Salvi e Michel Porret ricostruiscono la presenza delle idee dell’illuminista italiano nel dibattito europeo durante l’età della Restaurazione cogliendo bene le reazioni favorevoli e le critiche nel mondo liberale dei giuristi e degli specialisti, profondamente diviso sul tema della pena di morte e del difficile equilibrio da stabilire tra la difesa della sicurezza collettiva e i diritti individuali. Lungo la strada della netta separazione dell’intreccio tra diritto e teologia si muove l’indagine di Franco Motta sulle radici intellettuali della lotta alla tortura giudiziaria. Egli individua il momento culmine e la chiave di volta di quella lotta nelle opere - assai apprezzate da Beccaria - di Christian Thomasius, il De crimine magiae 265 Recensioni e segnalazioni del 1701 e il De tortura ex foris Christianorum proscribenda del 1705. Svelando il legame tra il “disincantamento” del mondo e la negazione della stregoneria e di ogni forma di superstizione, Thomasius aveva dimostrato la completa insussistenza giuridica del crimine di stregoneria e quindi dei metodi terribili e violenti da sempre usati per estorcere verità confessate solo per far cessare i tormenti. Stregoneria, magia e tortura giudiziaria uscivano così di scena insieme e non certo per caso. Nella terza parte del volume spicca la lectio magistralis di Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto nell’Università di Roma Tre. Riflettendo sulla straordinaria attualità del pensiero di Cesare Beccaria, Ferrajoli ne pone in luce tre aspetti: il primo riguarda la teorizzazione di un modello garantista di diritto penale e processuale basato sulla minimizzazione della violenza punitiva; il secondo si riferisce all’elaborazione teorica del “potere limitato” con una particolare attenzione al potere di punire, perché è proprio su questo terreno che diventa drammatico e violento il conflitto tra autorità e libertà, tra i poteri dello stato e i diritti del cittadino; il terzo concerne - oggi che il garantismo è in crisi - il ruolo pragmatico del libro di Beccaria, critico nei confronti del diritto del suo tempo e progettuale sul diritto futuro. Completano il discorso sull’eredità di Beccaria nell’attuale dibattito sulla giustizia in Italia gli interventi di Pietro Buffa, Gian Carlo Caselli, Guido Neppi Modona e Laura Scomparin. Il punto di vista di Buffa è quello della “pratica carceraria” nel sistema penitenziario italiano: ricompare l’attualità di Beccaria là dove contesta le atrocità e gli orrori delle prigioni. Gian Carlo Caselli, già Procuratore della Repubblica di Palermo e Torino, svolge alcune considerazioni sul 266 “giudice indifferente ricercatore del vero”, figura che Beccaria contrappone a quella che caratterizza il “processo offensivo”, in cui il giudice “diviene nemico del reo […] e non cerca la verità del fatto”. Caselli osserva come il giudice non debba essere indifferente al risultato e contrappone, sul terreno specifico del contrasto alla mafia, la figura del ”giudice di lotta” (“non indifferente al risultato”) al “giudice burocrate”, preoccupato solo di “tenere le carte a posto”. Per Caselli il magistrato non deve essere “indifferente”, nel senso che, pur rispettando le regole, deve cercare di ottenere risultati positivi nel caso concreto (la “lotta” diventa così “impegno responsabile”): il magistrato che agisce così non è “nemico del reo” e non smette di ricercare “la verità del fatto”. Guido Neppi Modona affronta il tema dell’utilità sociale delle sanzioni nella concezione penalistica di Beccaria, che pone in primo piano l’esigenza che non siano punite le azioni “indifferenti”, ma solo quelle che l’utilità sociale impone di sanzionare, per mezzo di leggi chiare, semplici, poco numerose, tali che in esse tutti i cittadini possano riconoscersi. L’attualità del pensiero dell’autore del Dei delitti e delle pene è sottolineata dal proliferare ancora oggi di norme dettate da interessi particolari di classi, ceti e corporazioni, e dalla permanenza nell’ordinamento giuridico di leggi speciali. Neppi Modona giudica severamente il ricorso all’amnistia, all’indulto, alle sanatorie e ai condoni (provvedimenti che vanificano la certezza della pena) e indica in Beccaria colui che ha previsto che l’insieme di questi fattori avrebbe generato sfiducia nei confronti della legge e della giustizia penale da parte dei cittadini. Laura Scomparin, professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Torino, evidenzia l’attualità della rifles- Recensioni e segnalazioni sione di Beccaria in ordine alla teoria delle prove. Interrogandosi sul grado di certezza necessario per arrivare a una sentenza di condanna, Beccaria afferma che “la morale certezza della prova è più facile sentirla che esattamente definirla”. Il concetto sembra anticipare quello della formula “oltre ogni ragionevole dubbio”, affermatasi nel nostro ordinamento prima a livello giurispruden- ziale e poi consacrata nel testo normativo. Il “ragionevole dubbio” è sicuramente un concetto più facile da “sentire” che da “esattamente definire”. Di fronte a diffuse derive autoritarie, l’insegnamento di Beccaria mostra ancora oggi, dopo duecentocinquant’anni, la sua impressionante attualità. Arnaldo Bobba Carlo De Giuli, Casalino: un paese da scoprire, Comune di Casalino, Novara 2015, pp. 112, ill. Il sintetico volume di Carlo Degiuli vuole essere uno schietto e sincero contributo alla storia del paese natale visto con gli occhi di chi l’ha sempre vissuto, senza però rinunciare alla ricerca delle fonti archivistico-bibliografiche. Il Degiuli, avendo infatti curato lungo molti anni la biblioteca del piccolo comune risicolo, ha potuto accedere ad alcuni documenti utili per poter tracciare con più precisione la storia del comune che affonda le sue radici nell’antichità. Il libro, è suddiviso in quattro parti: il paese, la storia, i tesori di Casalino, gli uomini illustri. Nella parte sul paese e sulla storia l’autore oltre a spiegare l’etimologia del comune sito a metà strada tra Vercelli e Novara, traccia a grandi linee la sua evoluzione storica da avamposto militare a mite borgo risicolo; per fare ciò descrive il plurisecolare susseguirsi delle opere idrauliche propedeutiche all’evoluzione agricola. Tra i primi capitoli la tesi, già formulata da Paolo Zenone (1962), della possibile collocazione nel territorio comunale del luogo del grande scontro tra Cimbri e Romani (la battaglia dei Campi Raudii del I sec. a.C.), fondata però sul non dimostrato (anzi) progressivo spostamento della Sesia nel corso dei secoli, oltre che sui numerosi ritrovamenti archeologici riconducibili a scontri militari. Nella terza parte, relativa ai “tesori” del paese, sono descritti alcuni monumenti che sicuramente meriterebbero più attenzione. Oltre al castello e al ricetto, è dato giusto rilievo all’antica chiesa romanica di San Pietro, già studiata da Paolo Verzone e da altri studiosi europei. Spazio è dato anche alla “parete dei Santi”, scoperta nel 1995 da don Agostino Temporelli sotto uno scialbo d’intonaco più recente; si trova nella cappella dell’Annunciata attigua alla parrocchiale ed è un bell’esempio di ciclo di affreschi del XV-XVI secolo. Chiudono infine l’opera delle brevi note biografiche su alcuni eroi di guerra del luogo. Analizzando i punti di forza e di debolezza del saggio, è sicuramente da apprezzare l’intento di richiamare l’attenzione su Casalino, che potrà servire da spunto di ricerca su nuovi aspetti, ad esempio su edifici o chiese storiche, spesso a torto considerate di minore interesse ma che invece meritano maggior considerazione. La pubblicazione rientra difatti nel “piano strategico per il tu267 Recensioni e segnalazioni rismo 2015/2017” del Comune di Casalino e si affianca a un’altra più recente sugli usi e le tradizioni locali qui recensita (C. De Giuli, Casalino. Frazioni e Cascine. Documenti & memorie). Non si possono però tacere i limiti evidenti del volume, tra tutti la mancanza di una bibliografia aggiornata ed ordinata, per cui le fonti consultate o citate diventano impossibili da verificare per chi volesse approfondire i vari argomenti. Si fatica inoltre a tracciare un filo logico che leghi le varie parti in un più armonico saggio. François Dellarole Carlo De Giuli, Casalino. Frazioni e Cascine (Documenti & memorie), Novara 2016, pp. 130, ill. Il volume di Carlo De Giuli, dedicato ai dintorni di Casalino, costituisce il pendant dell’altro volume, qui recensito, sulla cittadina (C. De Giuli, Casalino: un paese da scoprire). L’idea di un legame tra i due volumi è chiaramente espressa dalla stessa impaginazione editoriale e costituisce sicuramente uno dei pregi maggiori dei testi: a significare che qualsiasi indagine su una realtà, quale quella presentata dall’autore, non possa prescindere da un coinvolgimento dei legami con il territorio circostante, con le tradizioni, con i dialetti. A questi ultimi De Giuli insieme ad Anna Maffei dedica un capitolo indipendente, “il nostro dialetto”, che insieme alla sezione dedicata alle cascine, costituiscono le parti in cui emerge maggiormente il coinvolgimento emotivo dell’autore. La descrizione dell’organizzazione della vita in cascina con le sue gerarchie e le sue dure e misere realtà, ma pur sempre umane, non può non stupire chi quotidianamente vive una campagna oramai “meccanizzata” se non abbandonata e quindi desolata. Rappresenta perciò un invito a riscoprire un passato non troppo lontano ma presto dimenticato. De Giuli dedica la prima parte del testo 268 alle frazioni di Cameriano, Ponzana, Orfengo e Isola di Peltrengo, con i loro castelli e loro chiese, di cui sono descritte le varie vicende storiche e architettoniche. Nel corpo del testo l’autore inserisce anche piante delle strutture, relazioni ed inventari, uno scrupolo pregevole per una pubblicazione principalmente divulgativa, che rientra nel progetto “Piano strategico comunale per il Turismo 2015-17” del Comune di Casalino. Comprensibile la volontà dell’autore di restituire la realtà storica nel modo più oggettivo e vivo possibile inserendo direttamente i documenti del passato, ma una tale narrazione non è corredata da uno solido corpo di note che precisino l’ubicazione e il carattere dei documenti citati, né compare in fondo al testo una bibliografia almeno indicativa. Perché certamente l’autore invoglia il lettore ad interessarsi di questa realtà così caratteristica, ma tali assenze limitano ogni eventuale approfondimento o ricerca. I luoghi descritti sono corredati anche da una discreta documentazione fotografica, ma va detto che, almeno in alcuni casi, le immagini sono di bassa qualità e tali da risultare sgranate. Di certo qualche ulteriore didascalia aiuterebbe l’immaginazione del lettore ad orientarsi meglio, soprattutto se chi legge non conosce i luoghi che sono descritti. Recensioni e segnalazioni Ovviamente queste ultime osservazioni nulla tolgono a un testo scritto con la passione di chi crede (giustamente) che la storia sia fatta di nobili e di umili, di geografie politiche e di tradizioni rurali che hanno pla- smato la campagna e che continua a destare fascino ancora oggi, a maggior ragione per realtà piccole e periferiche e spesso neglette, ma non per questo meno degne di interesse. Dario Michele Salvadeo Irene Cabiati, Il Canale Cavour, Museo Regionale di Scienze Naturali, Centro Stampa Regione Piemonte, Torino 2016 [2014?], 194 pp. ill. Il catalogo fotografico è stato realizzato in occasione del centocinquantesimo anniversario del Canale Cavour per la mostra Il Canale Cavour 150 anni di benessere, promossa dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino in collaborazione con le Associazioni di Irrigazione Est e Ovest Sesia. Una seconda edizione è stata proposta a corredo della mostra presentata al Museo Borgogna di Vercelli, 150° del Canale Cavour. La grande impresa delle acque, tenutasi dal 2 ottobre al 13 novembre 2016, nella quale sono stati esposti per la prima volta una serie di documenti storici conservati a Novara presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour dell’Associazione d’Irrigazione Est Sesia e una sequenza di foto storiche dagli archivi di Ovest Sesia e dall’Archivio Tarchetti-Masoero del Museo Borgogna. Sono stati inoltre esposti due bozzetti inediti realizzati nel 1908-1909 da Attilio Gartmann per la fontana dell’agricoltura, restaurati per l’occasione dal Museo e provenienti dal CREA - Unità di ricerca per la risicoltura di Vercelli. Alle immagini storiche della mostra è stata affiancata una selezione di fotografie di Irene Cabiati, fotografa e giornalista, pubblicate nel presente volume e raccolte durante la sua esplorazione, da Chivasso a Galliate, lungo gli argini del Canale. La storia della costruzione viene pre- sentata nel catalogo per tappe cronologiche insieme a dati tecnici e numerici fino a toccare l’attuale gestione delle acque. La seconda parte del volume è dedicata alle immagini fotografiche alternate alla riproduzione di documenti e planimetrie storiche. Le immagini restituiscono la complessità e la monumentalità della grande impresa di ingegneria idraulica che si estende per 86 km e che ancora oggi svolge la sua fondamentale funzione di irrigazione. Il catalogo ha il merito di valorizzare un vero e proprio monumento architettonico, costruito in pietra e mattoni nell’arco di soli tre anni, dal 1863 al 1866, con l’impiego di quattordicimila badilanti, che alimenta ancora oggi una rete irrigua di oltre 20 mila km tra il vercellese, il novarese e la Lomellina e che ha reso questo territorio il maggior centro di produzione risicola d’Europa. Una storia che si intreccia con la storia d’Italia all’epoca dell’Unità quando il primo ministro del Regno, Camillo Benso Conte di Cavour, fu promotore dell’impresa ma non ne vide la realizzazione. Il fascino del paesaggio attraversato dal Canale suggerisce infine la possibilità di promuovere una vocazione turistica, storica e culturale del territorio non più solamente legato ad una secolare tradizione agricola. Alessia Meglio 269 Recensioni e segnalazioni Giorgio Bertaggia e Gianfranco Ferraris, Vercelli Militare. Ricordo. Interni Cittadini, Edizioni Effedì, Borgomanero, 2016, pp. 164, ill. Per i vecchi vercellesi che scorrono le pagine della nuova emerita opera storico-divulgativa di Giorgio Bertaggia e di Gianfranco Ferraris coautori, il volume è un ritorno alla Vercelli del tempo passato; per tutti gli altri lettori è un’altra occasione per incuriosire e invogliare alla conoscenza della città. In forma grafica moderna, vengono presentate immagini e informazioni su beni identitari della città, con stralci estratti, più o meno integralmente, da pubblicazioni precedenti e senza pretendere di aggiungere novità agli argomenti trattati come gli stessi autori sottolineano nell’Introduzione I. Il primo argomento, di Giorgio Bertaggia, Vercelli Militare, è ordinato accuratamente in più parti: una prima riferita alla Caserma “Conte Saint Robert, al primo Distretto Militare, al Casermone del Rione Aravecchia, agli Ospedali Militari; una seconda ai Reggimenti di guarnigione a Vercelli nella Caserma di Porta Milano già S. Giuseppe poi Umberto I, in seguito Medaglie d’Oro al V.M. Fratelli Garrone; una terza ai Reggimenti di guarnigione a Vercelli nella Caserma già S. Giacomo, poi Conte di Torino, in seguito Jamiano e per ultimo Ten. Col. G. Trombone De Mier Medaglia d’oro al V.M.; una quarta agli Squadroni e ai Corpi che furono di stanza nella Caserma Gen. Eusebio Bava; una quinta alla Caserma Casermette Cappuccini, poi Medaglia d’Oro V.M. Mario Morgantini, in seguito Medaglia d’Oro al V.M. Aldo Maria Scalise ed infine una sesta all’Aeroporto di Vercelli e all’Aviazione dell’Esercito a Vercelli. Il secondo argomento, di Gianfranco Ferraris, Interni Cittadini, è invece composto da quattro parti riguardanti complessi270 vamente 38 siti cittadini (chiese e istituzioni) con l’aggiunta di preziose fotografie del Rione Furia demolito (la “Furia” poco alla volta sbriciolata come giustamente scrive l’autore) a cominciare dal periodo fascista: sono gli scorci di Corso Carlo Alberto, Via Cavour, Via Dante Alighieri, Via Cesare Balbo, Via Goffredo Mameli, Via Carlo III di Savoia, Vicolo Caccianotti e Vicolo San Salvatore. In mezzo, di Giorgio Bertaggia, il Ricordo dei Caduti vercellesi nel corso della Grande Guerra 1915-1918 (sei lapidi e la Sala delle Medaglie d’Oro) e specificatamente l’omaggio ai dodici intrepidi insigniti di Medaglia d’Oro al V.M., effigiati unitamente alle menzioni delle medaglie d’oro. Come già osservato dal Presidente della Società Storica Vercellese Giovanni Ferraris nella chiara Prefazione dell’opera, la rilevanza del primo capitolo sta nella descrizione-illustrazione in successione dei corpi militari di stanza nelle caserme cittadine finora mai esaminati in modo organico nella storia di Vercelli e l’importanza del secondo capitolo nella rievocazione delle vestigia cittadine; a queste valutazioni si può aggiungere il valore per l’educazione alla lettura critica dell’ambiente. La “convivenza” tra il nuovo che avanza e la conservazione e la valorizzazione delle strutture antiche non possono essere disgiunte dalla storia e dalle iniziative locali per non ripetere gli errori disastrosi compiuti nell’ex Ospedale Maggiore e al rione Furia, tenuto conto che oggi sono proprio le caserme dismesse ad essere le componenti insediative che maggiormente richiedono attenzione e prudenza negli interventi interferenti. Recensioni e segnalazioni Se proprio si vuole trovare nell’opera una menda questa potrebbe essere individuata nelle didascalie delle immagini non sempre presenti o non comunicanti il genere (cartolina, fotografia, ecc.) a cui va aggiunta l’assenza, nella Parte Quarta dell’indice del Secondo Capitolo, della Riseria Felice Lombardi, Rione Canadà, presentata a p. 153. Doriano Beltrame La Sinistra Sociale. Storia, testimonianze, eredità, a cura di Giorgio Merlo e Gianfranco Morgando, Edizioni Studium, Roma, 2016, pp. 241. [ISBN] 978-88-382-4403-2. Il volume La sinistra sociale. Storia, testimonianze, eredità, promosso da Giorgio Merlo e Gianfranco Morgando, con prefazione di Antonio Mazzi, restituisce l’approfondito ritratto di una corrente storica della Democrazia Cristiana, Forze Nuove, e in particolare del suo leader carismatico, Carlo Donat-Cattin, che ha scritto una pagina importante della nostra storia recente grazie alla sua passione politica, i suoi modi schietti e diretti, il suo coraggio nelle scelte spesso scomode non solo per i suoi avversari politici ma per gli stessi compagni di partito. Parlamentare della Repubblica per otto legislature e a lungo titolare di delicati incarichi di governo, Donat-Cattin ha legato il suo nome soprattutto al ministero del Lavoro e della previdenza sociale (dicastero che ebbe come suo primo interprete e titolare il “nostro” Mario Abbiate) di cui portò la responsabilità in una delle stagioni più difficili del nostro Paese. Nei giorni in cui lo stato di conflittualità sociale sembrò molte volte oltrepassare i limiti della normale dialettica democratica - si pensi alla stagione dell’Autunno Caldo - egli spese le sue capacità di mediazione e le sue doti di equilibrio che erano frutto di una lunga esperienza sindacale e di un’attitudine personale all’ascolto. Ecco il motivo di una pubblicazione che ricordasse attraverso molti protagonisti dell’epoca, non solo provenienti dalla sinistra democristiana ma anche dal mondo socialista e comunista, la proposta di un modello partecipativo, sicuramente utile per fornire un contributo alla politica contemporanea, dominata dalla personalizzazione dei leader e da un progressivo decadimento dei partiti e delle rispettive classi dirigenti. Tre sono le sezioni in cui è articolato il libro. Nella prima, “La sinistra sociale tra storia ed eredità”, è illustrata con due corposi saggi degli autori Merlo e Morgando, la vicenda di Forze Nuove, che non fu una meteora nella vita politica italiana, né una parentesi nella storia della Democrazia Cristiana, bensì una grande scuola di proposta, dibattito, confronto che ha trovato linfa vitale nell’interpretazione del popolarismo d’ispirazione cristiana, al riparo da tentazioni integralistiche o ingerenze clericali. In quest’ottica, il magistero torinese del card. Pellegrino costituì un punto di riferimento ineludibile per individuare una nuova modalità di rapporto tra fede e politica, capace di sottrarsi alle secche del confessionalismo per aprirsi ai fermenti e alle speranze sollecitate dal Concilio Vaticano II. La seconda sezione, “La sinistra sociale e la politica. I 271 Recensioni e segnalazioni protagonisti”, presenta testimonianze di autorevoli esponenti del mondo politico, sindacale e culturale che vissero quella stagione, come Gennaro Acquaviva, Sergio D’Antoni, Franco Marini, Emanuele Macaluso, Diego Novelli, concordi - pur nella diversità delle rispettive appartenenze - nel non relegare la figura di Donat-Cattin in un museo della Prima Repubblica, dovendo invece essere studiata e apprezzata per il suo alto magistero maturato sul campo e nel vivo della battaglia politica, senza nostalgia ma con memoria. La terza e ultima sezione, “Alle origini della sinistra sociale. L’esperienza piemontese”, non solo ha visto il ricordo di politici come Guido Bodrato e Gianfranco Astori, capaci di analizzare in prospettiva storica il rapporto tra Roma e il Piemonte (regione che è stata il luogo principale d’incubazione della sinistra sociale democristiana) ma soprattutto ha posto l’attenzione sull’esperienza di uomini di Chiesa come mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, e don Cesare Massa, segretario provinciale della DC vercellese prima di diventare esponente qualificato del clero eusebiano. Quest’ultimo ha evidenziato il suo inserimento negli organismi diocesani dell’Azione Cattolica, fin da giovane, e i rapporti umani che riuscì a instaurare per la ricerca di un orientamento comune, facendo tesoro delle correnti culturali che erano maturate soprattutto nella vicina Francia. Emmanuel Mounier - com’è noto - era stato il massimo teorico del personalismo, con la sua dottrina della superiorità della persona e quindi della società sullo Stato, la preminenza della persona e del lavoro sul capitale, la priorità della persona e dell’etica sulla politica, rompendo la tradizionale identificazione fra cristianesimo e mondo aristocratico-borghese. Tali premesse aprirono la strada alle prime ipotesi di dialogo con forze di formazione ideologica diversa, soprattutto a sini272 stra, orientando il cammino verso una nuova società laica e aconfessionale, cui sarebbe stato ulteriore interprete Jacques Maritain. Per il filosofo francese - grande amico di Paolo VI - non vi era alcuna incompatibilità tra religione e civiltà, dovendo anzi quest’ultima nascere in prospettiva religiosa, per cui la nuova cristianità, permeata di un nuovo umanesimo, avrebbe dovuto essere frutto dell’impegno del credente grazie al recupero della sua ispirazione evangelica. Per quegli uomini, imbevuti di cultura francese, il centro-sinistra corrispondeva alla forma migliore per realizzare quella “carità politica” su cui avevano a lungo riflettuto, ove il partito potesse far nascere una comunità di cittadini a servizio dell’uomo e dei suoi valori, rigettando in egual misura il collettivismo marxista, mortificatore di libertà, e il capitalismo senza regole, tale da ridurre l’uomo a merce. Dopo aver letto queste pagine, è possibile percepire con chiarezza come siano state difficili quelle battaglie e quanto sia da apprezzare ancor oggi la lungimirante intuizione di coloro che le guidarono. L’aver compreso che il tema della solidarietà non fosse da confinare a paternalistica benevolenza, che fosse cioè una questione di giustizia e non di carità, e che la rappresentanza del mondo del lavoro non diventasse patrimonio esclusivo di questa o quella parte politica, dovendo essere difesa con determinazione ed equilibrio nell’interesse di tutta la comunità nazionale, non fu cosa da poco. Nel segno di questa consapevolezza ha agito un’intera generazione di uomini, non solo laici ma anche religiosi, che ha lasciato un segno tuttora riconoscibile, seppur minoritario, nella cultura del nostro Paese. L’averne sintetizzato il pensiero e l’azione in un volume collettaneo non è stata impresa da poco e di ciò va dato merito a Giorgio Merlo e Gianfranco Morgando. Per queste Recensioni e segnalazioni ragioni, quali che siano gli orientamenti politici di ciascuno, non si è lontani dal vero affermando che l’esperienza del cattolicesi- mo sociale abbia segnato in profondità - arricchendola - la vita politica italiana. Flavio Quaranta Giorgio Dell’Oro, Carta e potere. La carta “lombarda” e l’Europa dagli Asburgo ai Savoia. Acqua, stracci, carta, colla e penne (secoli XVI-XIX), Gallo edizioni, Vercelli, 2017, p. 248, ill. ISBN 978-88-97314-27-1. L’ultimo libro di Giorgio Dell’Oro, studioso impegnato da anni in un’intensa attività di ricerca archivistica e bibliografica volta a ricostruire le trasformazioni politico-istituzionali, sociali e religiose che hanno coinvolto in età moderna lo Stato di Milano e i territori limitrofi appartenenti al Ducato sabaudo, illustra la storia della manifattura della carta in area lombarda, tra il 1559 e la prima metà dell’Ottocento. Come rileva l’autore nella sua Introduzione al volume, già esistono numerosi e pregevoli studi sulla produzione della carta tra Cinquecento e Novecento, ma spesso questi hanno limitato la propria indagine a ristrette aree di tale produzione o a suoi usi specifici, sfiorando solo marginalmente tematiche che si rivelano di estremo interesse sia per gli “addetti ai lavori” sia per i lettori che sono semplicemente incuriositi dalla storia della carta e che dal libro ricaveranno tutta una serie di informazioni sulla sua fabbricazione, ma anche sul mondo delle relazioni sociali e degli interessi commerciali che gravitavano attorno ad essa, sul suo consumo da parte di privati e istituzioni, sul legame in un certo senso inaspettato tra l’affermazione delle potenze occidentali e l’attività produttiva cartaria. «Fino alla metà del XIX secolo» - fa notare Giorgio Dell’Oro - «chi aveva la carta - e tutti gli elementi ad essa collegati: acqua (o meglio, forza idrica e mulini), stracci, colla, inchiostro e penne - aveva il Potere». Ripercorrendo la storia della carta “lombarda” (ossia prodotta nei territori che in età moderna non coincidevano con i confini regionali a noi oggi noti e che comprendevano vaste aree delle odierne regioni Piemonte, Veneto ed Emilia), l’autore è riuscito a far emergere le differenti evoluzioni politiche e istituzionali che hanno caratterizzato lo Stato di Milano e lo Stato sabaudo: mentre, in particolare tra Quattro e Settecento, nel Milanese si risentì profondamente delle vicende politico-territoriali che lo privarono di importanti aree produttive (Liguria, Bergamasca e Piemonte Orientale) e non si investì in miglioramenti tecnologici, nei domini dei Savoia si scelse di proteggere il settore cartario con normative e incentivi e di promuoverne la crescita, avvertita dai sovrani come un elemento-chiave per esercitare un efficace controllo sui propri territori. Il libro illustra con dovizia di particolari sia gli elementi collegati alla produzione della carta (acqua, stracci e colla) sia l’uso che di questa e dei suoi derivati si fece nei secoli presi in esame. Il primo capitolo si apre con la descrizione del processo che consentiva di trarre dall’acqua derivante dalla rete idrica lombarda la forza necessaria a mettere in moto i mulini (nello Stato di Milano concentrati soprattutto nella Pianu273 Recensioni e segnalazioni ra padana, dove i grandi fiumi assicuravano agli impianti un flusso d’acqua costante) che azionavano le macchine «veramente mirabili, e stupende» adoperate nella preparazione dell’impasto che costituiva la base per la lavorazione della carta. Tale impasto era composto da stracci, che, dopo essere stati bagnati e lasciati fermentare nella lascivia per cinque o sei settimane, erano deposti in tini e sfilacciati. Oltre a ripercorrere una dopo l’altra le varie fasi della preparazione dei fogli di carta, l’autore tratteggia le figure dei lavoratori ad esse collegate e i sacrifici fisici che questi dovettero sopportare: i mugnai, molti dei quali diventavano «sordi et balordi come asini» per il continuo rumore prodotto dai mulini, e i follatori, ai quali spettava l’ingrato compito di «raschiar via tutte le lordure» dagli stracci e di suddividerli in base al colore, al materiale e alla presenza di impurità. Fino all’affermazione della cellulosa nel secondo Ottocento, gli stracci costituirono la materia prima per la produzione della carta. Se oggi, nell’immaginario comune, si pensa a questi manufatti tessili come a qualcosa di inutilizzabile, nell’età moderna essi ebbero un valore tutt’altro che trascurabile e rappresentarono il fulcro di un commercio su scala internazionale: mercanti/artigiani appartenenti all’Arte degli Stracci (la corporazione degli Stracciaroli, nata a inizi Cinquecento proprio in correlazione con lo sviluppo della manifattura della carta), raccoglitori e rivenditori ambulanti, ma anche zingari e fuorilegge, parteciparono a questo fiorente commercio - e a un parallelo mercato illegale - nei diversi paesi d’Europa (Francia, Inghilterra, Spagna, Stati italiani), negli Stati Uniti, in Africa settentrionale e in Medio Oriente. In Italia gli stracci erano ampiamente disponibili soprattutto nelle città del centro-nord 274 (Stato di Milano, Stato sabaudo, Repubbliche di Genova e di Venezia), laddove erano situati i grandi istituti ospedalieri e caritativi, principali luoghi di raccolta di manufatti tessili quali indumenti, bende, lenzuola, che, dopo opportuni trattamenti (lavaggio con semplice acqua - nel caso di biancheria appartenuta a malati ordinari - oppure «spurgo disinfettante coll’esposizione ai vapori di zolfo», pulitura con liscivia di ceneri di legno, con cloruro di calce, con soda o con potassa - riservata ai tessuti entrati a contatto con malati contagiosi -), venivano destinati al mercato degli stracci. Questo era oggetto di torbide contrattazioni, condotte tra appartenenti all’Arte dei Pattari (che detenevano un monopolio definito in un documento di metà Seicento come un «illecito, peccaminoso e criminoso»), mercanti, infermieri e lavandai impiegati negli ospedali, che si appropriavano di indumenti e di biancheria per venderli illegalmente, trascurando i possibili rischi di contagio. L’operazione grazie alla quale la carta di stracci, ridotta in fogli, era resa impermeabile all’inchiostro, quindi adatta a divenire un supporto scrittorio, era la collatura. A partire dal Trecento, a Fabriano si sostituì la tradizionale colla a base di amido usata nel mondo arabo con la collaforte di derivazione animale. Questa era ricavata dagli scarti della macellazione, soprattutto dei bovini (cuoio, tendini, cartilagini, …), raramente degli ovini, mentre del tutto evitati erano i residui dei maiali, in quanto troppo grassi. I mastri cartai custodivano gelosamente i segreti della lavorazione della colla, che era assai delicata e complessa. Un’attenta selezione delle parti dell’animale da utilizzare come materia prima (tendini e orecchie producevano la colla migliore, inodore e trasparente, a differenza delle frattaglie, che andavano completamente evitate), la Recensioni e segnalazioni loro accurata bollitura, il bagno in acqua e calce per trasformare il tutto in gelatina: da queste operazioni dipendeva la produzione di una buona colla, che non macchiasse né rendesse maleodorante i fogli di carta. Se fino a tutto il Cinquecento le cartiere lombarde si servirono di colla da loro autonomamente prodotta, nel secolo successivo esse risentirono della carenza di scarti della macellazione, carenza che nel Milanese era dovuta alla diminuzione dell’allevamento bovino, al decremento della compravendita di bestiame causato dalla continua emergenza bellica, alla contrazione demografica e alle politiche mercantili dei domini sabaudi ed elvetici, che, grazie a leggi adeguate e a un’efficiente rete viaria, a discapito delle fiere milanesi attrassero verso le proprie fiere un numero sempre maggiore di mercanti forestieri. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, nello Stato di Milano la diffusione della carta e dei suoi derivati (utilizzati per realizzare oggettistica di vario genere, come valigie, bauli e cartoni) accrebbe in modo esponenziale, al punto da rendere necessario un intervento normativo che ne regolasse la produzione e la vendita e assicurasse al governo la supervisione sui prezzi e un costante gettito fiscale. La sostituzione della costosa pergamena con la più economica carta di stracci fu la risposta adeguata al crescente fabbisogno di uffici e istituti voluti dal principe per accentrare il potere nelle proprie mani. Carta ordinaria (carta bergamina) e di formato particolare (come, ad esempio, la carta reale mezzana e imperiale, impiegate per i Libri di Tasse), ventagli per soffiar via dalle pagine la sabbia utilizzata per far asciugare l’inchiostro in eccesso, cartoni per filze e faldoni, carta bollata: questi furono solo alcuni dei prodotti cartacei utilizzati regolarmente dalle istituzioni civili ed ecclesiastiche. Come attestano le fonti consultate dall’autore, la carta fu sistematicamente adoperata anche nella vita quotidiana: cartapesta (usata come isolante nelle abitazioni) e tappezzerie di carta colorata (spesso pericolose per la salute, specialmente quelle verdi, che erano trattate con l’arsenico), carte adoperate nelle attività artistiche e musicali e nelle decorazioni, carte di cui si servivano quei professionisti il lavoro dei quali era basato sulla scrittura (contabili, notai, avvocati, …). Tutto un mondo sociale, dunque, che assieme a quello delle professioni legate alla produzione e alla vendita della carta Librai, Stampatori (Arte “della carta nera”), Cartai (Arte della “carta bianca”), Merciai, Battiloro (realizzavano copertine con caratteri dorati), Imballatori (utilizzavano la carta da pacchi per confezionare imballi per il trasporto delle merci e per ricoprire i telai delle finestre, quando ancora non venivano usati i vetri), solo per citarne alcune - emerge dalla documentazione consultata da Giorgio Dell’Oro e prende vita tra le pagine, nelle quali la narrazione storiografica è supportata da vivaci inserti iconografici. Usi della carta, ma anche abusi ad essa correlati: «malitie, inganni et frode» - recitano le fonti riportate dall’autore - «che sogliono commettere li venditori, rivenditori, mercanti, negozianti et altre diverse sorti di persone circa il comprar, haver, tener, fabricare, vendere et contrattar». Frequentemente, nel Milanese ma non solo, carte di poco pregio, «adulterate, putride, marcite, guaste», erano vendute per buone, e pesi, bilance e stadere venivano manomesse per frodare i clienti. La carta con la quale i bottegai avvolgevano i prodotti era non di rado spessa e pesante e utilizzata in quantità eccessiva, in modo da incrementare il peso delle merci e vendere ai clienti «papero in 275 Recensioni Vita della Società e segnalazioni Storica luogo delle vettovaglie». Anche gli ufficiali comunali, con la complicità di alcuni delinquenti, spesso commettevano abusi, estorcendo «robbe et denari» a commercianti e negozianti che, spaventati, il più delle volte si rifiutavano di testimoniare contro di loro. Il volume si conclude con una riflessione sul nesso, sottolineato fin dal titolo, tra produzione della carta e capacità degli Stati moderni di organizzare e controllare i propri territori, ossia di esercitare il potere. A questo proposito, l’autore evidenzia le differenze fra quanto si verificò nello Stato di Milano e ciò che avvenne invece nel Ducato sabaudo, dove, soprattutto dopo l’integrazione della Valsesia (che arrivò a possedere fino a sei cartiere) a inizio del Settecento, si avviarono alcune realtà protoindustriali che, anche grazie all’introduzione di grandi innovazioni tecniche, assunsero un ruolo-chiave nello sviluppo del secolo successivo. Fin dal Cinquecento i sovrani sabaudi furono consapevoli di quanto quel continuo “dialogo” a distanza che essi mantenevano coi funzionari posti a controllo dei propri territori fosse reso possibile proprio grazie alla disponibilità di carta di buona qualità e prodotta autonomamente; per questo motivo, predisposero la riorganizzazione dell’apparato produttivo cartario ed emanarono specifiche norme e incentivi che garantissero la produzione interna, preservandola dalle crisi produttive che eventi catastrofici, come guerre o epidemie, avrebbero potuto causare. Il libro di Giorgio Dell’Oro ha il pregio di non rivolgersi esclusivamente a studiosi e specialisti, ma a chiunque sia intenzionato a conoscere più da vicino la carta, materiale che tutti quotidianamente teniamo tra le mani, ma del quale non tutti abbiamo ben presente né la storia della sua fabbricazione né i molteplici risvolti sociali, politici ed economici ad essa collerrati. Carta e potere si presta dunque a una lettura a più livelli: è consigliabile a coloro che sono spinti dalla curiosità di sapere come, da chi e con quali mezzi si producesse la carta nella “Lombardia” d’età moderna, ma anche a quanti sono interessati a sondare le molteplici declinazioni del Potere politico nei secoli che hanno visto la nascita e lo sviluppo degli Stati occidentali. Daniela Piemontino Deborah Guazzoni, La partecipazione piemontese al Congresso Internazionale di Educazione Fisica di Parigi del 1913, in “Studi Piemontesi”, dicembre 2015, vol. XLIV, fasc. 2, pp. 475-487. Mario Abbiate: le intuizioni oltre il suo tempo, Torino, Nuova Trauben, 2015, pp. 364, ISBN 978-88-9931-203-9. Vercellesi illustri. Il coraggio dei primi imprenditori, Vercelli, Vercelli Viva, 2015, p. 183, ill. Pier Angelo Perotti, Briciole bicciolane. Vocaboli e modi di dire vercellesi, Ed. Effedì, Vercelli, 2016, pp. 82, ISBN 978-88-98913-70-1. Pier Emilio Calliera, Dove il tempo si è fermato. Archeologia, tradizioni, natura e personaggi del “Borgo Antico” raccontati con passione da un cantore della risaia: le prime 66 storie, Santhià, Ed. Solidago, 2016, p. 212, ill. 276 Recensioni e segnalazioni Romildo Tessari, Raus,Vech, Comomitti. I lavori di due anni di prigionia sotto il regime tedesco, a cura di Y. Andreone e S. Balzaretti, Vercelli, Gallo, 2016, pp. 44 [2], ill. Stemmario Civico Piemontese, a cura del Consiglio regionale del Piemonte, Torino, Consiglio regionale del Piemonte, 2016, 2 volumi, ill. ISBN 978-88-9607-498-5. 277 Recensioni e segnalazioni 278 Vita della Società Storica VITA DELLA SOCIETÀ STORICA 18 novembre 2016 PRESENTAZIONE DEL VOLUME “ROMANICO PIEMONTESE - EUROPA ROMANICA” Nel 2014 la collaborazione tra il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, la Società Storica Vercellese e il Centro Studi Città e Territorio di Follonica ha portato all’organizzazione della quarta edizione del seminario Medioevo in formazione, con l’apporto di un numeroso e “agguerrito” drappello di giovani medievisti, che hanno esposto le loro relazioni tra il 9 e l’11 ottobre. Il 12 ottobre, presso il Dugentesco, è stato celebrato il convegno in oggetto, sempre in collaborazione con il Centro maremmano. Nell’occasione sono stati tenuti interventi riguardanti il Piemonte, la Toscana, la Sicilia e la Castiglia: una molteplicità di affondi, quindi, che hanno affrontato una selezione di problematiche connesse alla vasta espansione del c.d. “romanico” nel territorio europeo. La presentazione degli Atti (“Romanico piemontese - Europa romanica. Architettura, circolazione di uomini e idee, paesaggi”, a cura di Saverio Lomartire) si è svolta a Vercelli, nella Sala delle Colonne (aula A1 dell’Università del Piemonte Orientale), alla presenza di alcuni Autori, di esperti e di appassionati della materia. Gli indirizzi di saluto sono stati affidati alla Direzione del Dipartimento di Studi Umanistici dello stesso Ateneo e al prof. Giovanni Ferraris, Presidente della Società Storica Vercellese. Il volume è stato presentato dal prof. Carlo Tosco del Politecnico di Torino e dal prof. Andrea Augenti dell’Università degli Studi di Bologna. Sono stati passati in rassegna i singoli contributi, mettendone in luce le principali peculiarità. In particolare il prof. Augenti, che pochi giorni prima era 279 Vita della Società Storica Il pubblico in sala e, in primo piano da sinistra, i relatori Carlo Tosco e Andrea Augenti. stato intervistato dal prof. Alessandro Barbero e dalla prof. Eleonora Destefanis presso la Cripta di Sant’Andrea, in occasione del suo volume Archeologia dell’Italia medievale, ha messo in luce il ruolo importante di Vercelli nella medievistica italiana, sia per la presenza di studiosi di rilievo nel locale Ateneo, sia per l’organizzazione di numerose e importanti iniziative: congressi, conferenze, presentazioni di volumi. Infine è intervenuto il prof. Saverio Lomartire, curatore del volume, che ha sottolineato l’importanza del ruolo degli studiosi giovani per il progresso della disciplina. Simone Caldano 280 Vita della Società Storica 25 novembre 2016 CONVEGNO SU PAOLO VERZONE (Vercelli 1902 - Torino 1986) Nonostante le pessime condizioni meteorologiche, la giornata di studi in onore del massimo studioso piemontese di storia dell’architettura medievale del XX secolo, che a Vercelli nacque e operò per alcuni anni, è stata celebrata nell’Aula Magna del Seminario Arcivescovile con un’importante partecipazione di pubblico. Il convegno è stato introdotto dai saluti del prof. Giovanni Ferraris, presidente della Società Storica Vercellese, e dello scrivente. Il prof. Ferraris ha evidenziato il ruolo di Verzone in relazione ai cantieri urbani di Vercelli tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, spesso progettati e diretti in collaborazione con l’arch. Giuseppe Rosso, tra cui si devono ricordare almeno il Teatro Civico e la sistemazione del chiostro e della cripta di Sant’Andrea. Lo scrivente ha illustrato le motivazioni dell’iniziativa: di primo acchito un nuovo convegno dedicato a Paolo Verzone potrebbe sembrare superfluo, tuttavia si è ritenuto che fosse doveroso, in occasione del trentennale della morte, mettere a fuoco i diversi aspetti della sua attività scientifica riguardante l’Italia settentrionale. È poi seguita la prolusione della prof. Donatella Ronchetta, già del Politecnico di Torino, collaboratrice di Verzone per molti anni, che ha offerto al pubblico un dettagliato profilo biografico e scientifico del Maestro e ha presieduto la sessione mattutina, incentrata sull’analisi dell’apporto di Verzone nel panorama degli studi di storia dell’architettura. Il dott. Simone Caldano (primo da destra) e il prof. Giovanni Ferraris aprono il convegno (foto di Alessandro D'Alfonso). 281 Vita della Società Storica La prolusione della prof. Donatella Ronchetta; a destra, il prof. Carlo Tosco (foto di Alessandro D'Alfonso). Carlo Tosco ha contestualizzato la sua opera nel panorama della storiografia pionieristica, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, sull’architettura romanica e ha messo in luce la precocità e la sagacia di alcune sue letture, all’epoca sostanzialmente poco ascoltate. Saverio Lomartire ha messo a fuoco l’apporto di Verzone in merito allo studio dei sistemi voltati delle chiese piemontesi e lombarde tra XI e XII secolo. Lo scrivente si è soffermato sugli studi che Verzone dedicò al Piemonte, in particolare sulle ricognizioni del Novarese (1932) e del Vercellese (1936). Luigi Carlo Schiavi, partendo dalle Questioni santambrosiane, ha proposto letture innovative di alcune problematiche connesse al complesso cantiere di Sant’Ambrogio di Milano. Enrica Bodrato e Chiara Devoti hanno illustrato la consistenza dell’Archivio Verzone, che si conserva al Politecnico di Torino, in relazione ai monumenti medievali, offrendo al pubblico un prezioso fascicolo che riporta l’elencazione delle buste. La sessione pomeridiana, presieduta da Giovanni Ferraris, è stata dedicata ad approfondimenti innovativi su alcuni casi di studio indagati da Verzone. Eleonora Casarotti ha esaminato la chiesa di San Remigio di Pallanza con un’approfondita lettura stratigrafica, mai tentata in precedenza. Francesca Garanzini si è soffermata sulle importanti indagini archeologiche alla chiesa pievana di San Lorenzo e al battistero di Settimo Vittone. La relazione di Gabriella Pantò è stata incentrata sul 282 Vita della Società Storica La relazione del prof. Luigi Carlo Schiavi (foto di Alessandro D'Alfonso). La relazione della dott. Gabriella Pantò (foto di Alessandro D'Alfonso). 283 Vita della Società Storica Le relazioni della prof. Chiara Devoti e della dott. Enrica Bodrato (foto di Alessandro D'Alfonso). romanico vercellese, riletto sulla base delle indagini del sottosuolo e delle superfici laterizie, analizzate attraverso la mensiocronologia. L’ultima relazione è stata tenuta da Elena Frugoni, che ha illustrato il restauro della chiesa già vallombrosana di San Benedetto di Muleggio: un cantiere che ha restituito alla città di Vercelli una pagina fondamentale della sua storia. Gli Atti del Convegno, ora in lavorazione, conterranno anche un saggio di Fulvio Cervini, che non ha potuto presenziare a causa del maltempo, sugli studi dedicati da Verzone alle testimonianze altomedievali della Liguria. Era presente anche la sig. Clelia Luce Verzone, figlia di Paolo, che ha seguito attentamente i lavori del convegno. Simone Caldano 284 Vita della Società Storica 25 novembre 2016 PRESENTATO IL BOLLETTINO STORICO n. 87 E UN PREZIOSO VOLUME D’ARTE VERCELLESE Venerdì 25 novembre nel Museo del Duomo, gremito di soci e simpatizzanti, Giorgio Tibaldeschi, direttore responsabile del “Bollettino Storico Vercellese”, ha presentato il n. 87 del periodico giunto al quarantacinquesimo anno di vita, contenente nove saggi che, come amava ripetere il presidente Rosaldo Ordano: “Vanno fuori dalla cinta daziaria della città”, questa volta arrivando fino all’Oriente con Walter Haberstumpf, che illustra la presenza di nobili, prelati e condottieri vercellesi in Oriente nei secoli XIII e XIV. Dopo essersi soffermato sui singoli studi, il direttore ha sottolineato a proposito dell’ultimo saggio (Segnalazioni e novità per Edoardo Arborio Mella a Casale, Galliate e Vercelli, di Simona Mortara, Viviana Gili e Patrizia Zambrano, quest’ultima docente presso l’Ateneo vercellese): “Questo è uno dei pochissimi casi in cui una docente universitaria, con grande sensibilità, guida gli allievi migliori anche nel loro percorso post laurea”. Oltre ai nove saggi, il fascicolo è arricchito dalle Recensioni e segnalazioni, in buona parte redatte da studiosi che non appartengono alla redazione del Bollettino; tra questi Simonetta Castronovo, Conservatore di Palazzo Madama, che firma la recensione del volume “Tabula ornata lapidibus diversorum colorum”. La legatura preziosa del Codice C nel Museo del Duomo di Vercelli”, curato da Saverio Lomartire, presentato nella stessa occasione da Fabrizio Crivello, docente presso l’Università di Torino. Nella sezione dedicata alla Vita della Società Storica, il Bollettino ricorda la conferenza di Sabrina Balzaretti in ricordo di Miriam Clelia Ferrari (1966-2009) che aveva studiato lo scomparso ospedale di S. Brigida degli Scoti nella sua tesi di dottorato di ricerca in Storia Medioevale, poi pubblicata in uno dei “Quaderni” della Società Storica Vercellese. Balzaretti ha anche voluto ricordare che i genitori di Miriam hanno donato la sua biblioteca personale alla Società Storica. Il significativo fondo librario, specializzato in storia, è quindi stato aggiunto al fondo “Giulio Cesare Faccio”, lasciato dalla figlia Maria Luisa, “Giovanni Rosso”, e al fondo “Rosaldo Ordano” pervenuto lo scorso anno. Chiude il Bollettino un ricordo di Luigi Polo Friz, uno dei soci fondatori della Società Storica Vercellese, scritto dal Vice Presidente Mario Ogliaro. Giovanni Ferraris, Presidente della Società Storica Vercellese, dopo aver salutato il numeroso pubblico, ha infine ricordato che è di prossima presentazione il volume con gli atti del convegno Paesaggi fluviali della Sesia. Storia, archeologia, valorizzazione, curato dal prof. Riccardo Rao. Timoty Leonardi, conservatore dei manoscritti e dei volumi antichi della Biblioteca Capitolare di Vercelli, ha quindi introdotto il volume del prof. Saverio Lomartire, responsabile del Comitato Scientifico del Museo del Duomo, nato da una precedente scheda del prezioso Evangelistario (codice “C” della Biblioteca 285 Vita della Società Storica Da sinistra: G. Tibaldeschi e S. Lomartire (foto P. Mazzone). Capitolare di Vercelli), redatta per la mostra di Milano (“La bellezza della Parola. Il nuovo Evangeliario Ambrosiano e capolavori antichi”) del 2011. Le due coperte in oro, smalti e pietre preziose e pietre dure, erano ben note agli studiosi, che avevano formulato diverse ipotesi sulla loro provenienza e sulla datazione. Lomartire propende per l’XI secolo e ritiene che le due coperte siano nate insieme, nella stessa officina, per una medesima opera: “E’ un oggetto che si trova a Vercelli, ma presumibilmente non è stato eseguito a Vercelli, pur essendo comunque di area lombarda in senso lato, opera pregevolissima appannaggio di pochissimi musei”. Il prof. Fabrizio Crivello, docente di storia dell’arte medievale all’Università di Torino, ha presentato quindi il volume, una pubblicazione scientifica nata nell’ambito del progetto MEMIP/09, finanziato dalla Regione Piemonte, relativo allo studio di un’importante serie di manufatti medievali in metalli preziosi, smalti, avori, che ha interessato l’Università del Piemonte Orientale, l’Università di Torino, il Polo dei Musei Reali di Torino-Galleria Sabauda, il Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama e la Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare di Vercelli. In particolare, ha sottolineato, “I due piatti dell’XI secolo hanno influenzato la produzione artistica dello Scriptorium vercellese: possono essere 286 Vita della Società Storica Da sinistra T. Leonardi, S. Lomartire in parte coperto da G. Ferraris. In primo piano le due coperte dell’Evangelistario di Vercelli (foto P. Mazzone) citati il Sacramentario 142, coevo e stilisticamente affine all’Evangelistario e il Rotolo di Vercelli, tre opere di altissimo livello che testimoniano come alla fine del XII secolo a Vercelli si cercasse di conservare memoria del fasto del secolo precedente, l’età aurea del vescovo Leone”. Il pomeriggio si è infine concluso con l’annuncio di un prossimo appuntamento al Museo del Duomo: la conferenza del prof. Marco Giuseppe Rainini dell’Università Cattolica di Milano, sul restauro della pergamena conservata in cattedrale Rota dominice orationis, avvenuto nell’ambito del progetto: Adotta una pergamena. Piera Mazzone 287 Vita della Società Storica 1 dicembre 2016 RICORDATO IL PROF. GIOVANNI ROSSO ALL’UNIVERSITÀ DELLA TERZA ETÀ Giovedì 1 dicembre 2016, presso il Seminario, l’Università della Terza Età di Vercelli ha ricordato il prof. Giovanni Rosso, scomparso il 20 novembre 2009, nel centenario della nascita. La relazione introduttiva è stata fatta da Giovanni Cattaneo che lo ha ricordato come “una risorsa intellettuale, morale e pedagogica di Vercelli, cui attingere, nel nostro tempo complesso e complicato, per non smarrire quel nucleo di senso e di impegno religioso, etico e civile”. Laico profondamente impegnato nella scuola, al punto di lasciare una promettente carriera di dirigente d’ufficio, Rosso ha dedicato un buon quarantennio di direttore didattico non solo a formare gli insegnanti quanto piuttosto a formare l’istituzione scolastica, dando vita (e anima) alla “scuola speciale” con l’obiettivo della promozione umana integrale. Giovanni Cattaneo ne ha ricordato ancora il ruolo attivo nell’Associazione Italiana dei Maestri Cattolici (AIMC) e nel Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC), dove ha portato la sua sensibilità e la sua cultura, ricca e schietta, mai imposta. Hanno poi preso la parola Anna Maria Rosso che lo ha ricordato come studioso solerte, frequentatore del Museo Leone, raccoglitore e illustratore di memorie storiche e artistiche. Sulla stessa linea anche Giovanni Ferraris, presidente della Società Storica Vercellese, che ha voluto sottolineare i contributi di Giovanni Rosso al “Bollettino Storico Vercellese”. Giorgio Tibaldeschi ha ricordato Giovanni Rosso prendendo le mosse da un loro casuale (ma è proprio così?) incontro in Ospedale nei suoi ultimi giorni di vita. Giovanni è stato un grande amico, ha detto, dotato di un calore umano che ha subito fatto cadere la barriera legata alla differenza di età, fin dai primi incontri in Biblioteca, in Archivio di Stato o presso la sede della Società Storica. Frutto di questo continuo scambio d’idee e documenti, il lavoro scritto a quattro mani su un cavaliere di Malta vercellese del 500, il cui busto marmoreo campeggia ancora nel nostro Duomo. Di particolare interesse, un vero lavoro di pioniere, la monografia sul Cimitero di Biliemme ancora oggi protagonista (in negativo) di sottrazioni di opere d’arte e di trascuratezza; un’opera, ha detto ancora Tibaldeschi, che si dovrà completare ed arricchire dando vita ad un volume di grande impegno che ricordi quanto Rosso ha fatto per la tutela delle memorie cittadine. Dopo la sua scomparsa, una parte dei libri di Giovanni Rosso è stata donata alla Società Storica dalla figlia Cristina. Tra le sue carte è emerso un semplice appunto, privo di data e vergato con grafia incerta: “I libri di casa, i fascicoli personali sono il mio archivio e mi bastano per le ultime ricerche. Chi li avrà in mano dopo di me non avrà una libreria, ma la mia vita”. 288 Vita della Società Storica 8 dicembre 2016 UN GIORNO MEMORABILE PER ROVASENDA L’8 dicembre la Biblioteca di Rovasenda è stata intitolata al prof. Arnaldo Colombo, scomparso prematuramente un anno fa. Alberto, Anna, Danila, Flavio, Liliana, Vittorio, cugini ed eredi legittimi hanno donato al Comune tutta la ricca biblioteca e l’archivio documentario, ritenendo giusto che rimanessero nel paese dove Arnaldo ha trascorso tutta la sua operosa esistenza. Il sindaco Giuseppe Delmastro e il vice sindaco Graziella Erbetta, a nome dell’Amministrazione Comunale hanno accolto la donazione, destinando una sala dello stabile comunale che al pianterreno ospita la Scuola Materna, e hanno intitolato l’intera biblioteca ad Arnaldo Colombo. La giornata è iniziata con lo scoprimento e con la benedizione della targa bronzea apposta all’esterno dell’edificio, sul lato d’ingresso, con il bassorilievo del volto di Arnaldo Colombo e la possente mole della torre e del castello: “Biblioteca Civica Prof. Arnaldo Colombo, cantore della Baraggia e della risaia”, opera dell’artista Denise De Rocco, realizzata dalla Fonderia Perincioli di Quarona. Al primo piano, in una sala stracolma di autorità, amici, colleghi ed estimatori, è stata fatta la presentazione ufficiale. Il ricordo di Arnaldo è stato costruito utilizzando come base la vasta bibliografia delle opere pubblicate, suddivise per argomenti. Grande protagonista nella vita e nelle opere di Colombo è stato il paesaggio, la piana allagata, ma soprattutto quell’habitat unico chiamato Baraggia, del quale ormai purtroppo è sopravvissuto solo qualche lacerto. La Biblioteca di Arnaldo Colombo, che racchiude una vita di studi e di ricerche, è stata collocata in una Sala della Biblioteca Comunale, ordinata secondo grandi serie che rispecchiano gli argomenti di studio. Sono stati conservati anche tutti i quaderni di scuola, e i libri scolastici. Latino, greco, l’epica classica in edizioni meticolosamente commentate e annotate, per trarne quegli insegnamenti universali che attraversano il tempo, gli hanno trasmesso quella “pietas” che seppe infondere nei suoi personaggi come componente essenziale della storia umana, non improntata a quell’Homo homini lupus, ma ad un fraterno sorreggersi per raggiungere la vera meta, oltre il successo e oltre i riconoscimenti pubblici. Flavio Colombo ha spiegato perché gli eredi abbiano voluto eternare la memoria del cugino, come esempio per le generazioni future: “Il mio sogno è che Arnaldo continui a vivere tra i suoi rovasendesi e alle sue opere venga attribuito il giusto valore”. Colombo, come socio fondatore della Società Storica Vercellese nel 1972, è stato poi ricordato dal presidente Giovanni Ferraris, che con il direttore del Bollettino Storico Vercellese, Giorgio Tibaldeschi, ha comunicato che continuerà ad inviare la rivista e le pubblicazioni alla Biblioteca di Rovasenda, per dare continuità ad una ricerca storica che non si esaurisce: “Di questa terra di Baraggia si potrà sempre leggere, augurandoci che le parole poetiche di Arnaldo Colombo siano un baluardo affinché essa non scompaia”. 289 Vita della Società Storica La targa in memoria di A. Colombo, opera dell’artista Denise De Rocco, realizzata dalla Fonderia Perincioli di Quarona. Maria Grazia Passino Cappellaro, presidente dell’Università della Terza Età di Borgosesia dove Arnaldo, pochi giorni prima di morire tenne la sua ultima conferenza, dedicata al Biundin, il brigante di risaia, e vice presidente della Società Valsesiana di Cultura, ha confermato l’invio del De Valle Sicida, rivista alla quale Colombo collaborò. La presenza numerosa ed attenta di numerosi amici, colleghi, autorità e studiosi, ha rappresentato un grande tributo di affetto reso ad una persona indimenticabile. Al termine è stato scoperto un busto bronzeo di Arnaldo Colombo, che ne riflette la pacatezza e il sorriso luminoso, velato da una vena di malinconia: tratti caratteriali che lo accomunavano al grande scrittore delle Langhe Cesare Pavese, che Arnaldo Colombo lesse, studiò ed approfondì dal punto di vista critico. La giornata celebrativa certo non esaurisce l’omaggio al prof. Colombo, ma apre una nuova stagione di rilettura critica delle sue opere, che meritano di essere maggiormente conosciute e diffuse. I tanti appunti lasciati da Arnaldo, redatti nella sua bella calligrafia, saranno una miniera da scoprire. Questa Biblioteca potrà accogliere gli studenti ed incentivarli a conoscere la storia per diventare cittadini consapevoli. Piera Mazzone 290 Vita della Società Storica 20 gennaio 2017 LA SOCIETÀ STORICA ALL’EVENTO “DIALOGHI SULLA MIA CITTÀ” “Dialoghi sulla mia città”, questo il titolo della bella serata tenutasi venerdì 20 gennaio nella splendida cornice del Teatro Civico di Vercelli. Nobile lo scopo dell’iniziativa: la raccolta di fondi a sostegno di Norcia, una tra le città protagoniste del recente sisma che ha colpito duramente il centro Italia. La Società Storica Vercellese, sempre presente nella vita sociale cittadina, è stata una delle realtà animatrici dell’evento. Ma cosa ha spinto l’amministrazione comunale a farsi promotrice di uno spettacolo incentrato sulla capitale del riso collegandolo a Norcia? Bisogna fare una premessa: nel corso degli ultimi mesi è in fase di realizzazione un video promozionale su Vercelli, realizzato con tutto ciò che le nuove tecnologie possono offrire. Questo video vuole dare un’immagine diversa, più dinamica e al passo con i tempi del capoluogo bicciolano, visto con occhi differenti dal solito. Un gruppo di cittadini e associazioni sta realizzando il filmato tramite droni di ultima generazione, sia di terra sia d’aria, gli stessi utilizzati dalle forze di Protezione Civile (tra cui quelle del Vercellese) impegnate nelle operazioni di soccorso delle zone terremotate. Da questo input ha preso il via l’organizzazione della serata che ha voluto dare così sia un aiuto concreto a Norcia sia rendere grazie ai tantissimi volontari che quotidianamente s’impegnano per la sicurezza di tutti. Per raccontare una città bisogna partire dalla sua storia. Ecco dunque che la Società Storica Vercellese ha aderito con entusiasmo all’iniziativa, raccontando tramite brevi e piacevoli interventi alcuni episodi di storia cittadina, con l’ausilio di immagini proiettate sullo schermo. Il presidente Giovanni Ferraris e il direttore del Bollettino Storico vercellese, Giorgio Tibaldeschi, sono stati intervistati da Andrea Cherchi in un vero e proprio salotto allestito sul palco del Teatro Civico. Lo storico parte sempre dalle fonti - ha ricordato il prof. Ferraris - e per tracciare la storia della città si deve partire dunque dall’epoca romana. L’importanza delle vie di comunicazione tra la pianura padana e le terre d’oltralpe hanno fatto la fortuna di Vercelli sia in epoca romana che durante il glorioso periodo comunale. La “Via Romea”, quella che oggi (impropriamente) si preferisce chiamare “Francigena”, testimonia ancor oggi l’eccezionale posizione strategica della nostra città. Ferraris ha proseguito, illustrando le vie di comunicazione, i diversi assedi cui le fortificazioni cittadine sono state sottoposte nel corso dei secoli, portando la narrazione alle due guerre mondiali, all’industrializzazione e alle sfide dei giorni nostri. Il dott. Tibaldeschi, invece, ha voluto porre l’accento su alcuni elementi della storia cittadina spesso travisati, come la politica da grande potenza del Comune (con la distruzione di Biandrate e la deportazione dei suoi abitanti) e la liberazione dei servi della gleba, considerato un atto di civiltà mentre altro non è che un episodio di una lunga guerra civile. Più pacifica l’istituzione dell’Università nel 1228, che aveva pure un suo canto di cui è stata proposta la messa in musica facendolo 291 Vita della Società Storica Il “salotto” della Società Storica. Da sinistra: Giovanni Ferraris, Giovanni Cibrario, Andrea Cherchi, Giorgio Tibaldeschi (foto Davide Vella). tornare inno dell’attuale Università di Vercelli. Passando attraverso la stregoneria e l’attività dell’Inquisizione, la relazione ha toccato il nostro Risorgimento, con i moti del 1821 e del 1831, la sfortunata campagna del 1848-1849, la guerra di Crimea e infine la poco sentita guerra contro l’Austria del 1859 che al danno dell’allagamento delle campagne ha aggiunto a Vercelli la beffa della perdita del rango di provincia. Deborah Guazzoni, anch’essa collaboratrice della Società Storica, ha egregiamente tratteggiato l’epopea industriale bicciolana che affonda le sue radici nel XIX secolo, quando con la rivoluzione industriale furono impiantati i primi opifici in città. Da allora, e durante tutto il Novecento, il paesaggio urbano, ma soprattutto la vita di molte persone furono scanditi dai ritmi dell’industria: Sambonet, il “fabricòn” dell’Isola, le fabbriche tessili (Pettinature Lane, Faini, Bocchio), le officine meccaniche, l’industria chimica (con gli scarti di lavorazione, via Trento divenne popolarmente la “strà rusa”). Di particolare importanza la “Caffè Rossa”, le cui scatole di latta sono oggetti da collezione, celebre in tutta Italia e pluripremiata per il suo caffè di cicoria. Uno spazio d’onore è stato però riservato alla Chatillon, l’industria che diede pane e lavoro a migliaia di vercellesi per quasi un secolo, dagli anni ’20. La speranza di oggi - ha concluso Guazzoni - è rappresentata dall’appro292 Vita della Società Storica Il “salotto” della Società Storica. Da sinistra: Giovanni Ferraris, Giovanni Cibrario, Andrea Cherchi, Giorgio Tibaldeschi, Deborah Guazzoni (foto Davide Vella). do di Amazon, che darà uno boccata d’ossigeno all’asfittica economia locale. Nel corso della manifestazione si è inserita in diretta la telefonata tra il sindaco di Norcia e quello di Vercelli, accompagnata da un fragoroso applauso dei presenti che hanno espresso così la loro solidarietà al comune terremotato; a febbraio, è stato annunciato, sarà consegnato nelle mani del primo cittadino nursino il ricavato delle diverse iniziative organizzate in questi mesi. Alla cultura e alla beneficienza si sono ancora unite diverse “eccellenze vercellesi”: le ballerine di Freebody Dance, la soprano Simona Zambruno, l’attore Gianluca Mischiatti accompagnato da Elisabetta Godino. Ad esse si sono affiancati l’Aeroclub (con dimostrazione dell’uso dei droni), la Protezione Civile, il Gruppo Storico dell’Associazione Nazionale Carabinieri, l’A.N.A., “La Sesia”, Brokken Egg, di SKenè e molti altri, sotto la regia di Alex Zarino, le scenografie di Valeria Facelli, il coordinamento di Andrea Vecco. 293 Vita della Società Storica 7 febbraio 2017 “I PAESAGGI FLUVIALI DELLA SESIA FRA STORIA E ARCHEOLOGIA” Martedì 7 febbraio 2017, presso la Cripta di S. Andrea (Vercelli), gentilmente concessa dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, la Società Storica Vercellese ha presentato: I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia, volume di studi curato da Riccardo Rao (Università di Bergamo), che inaugura la nuova collana: Storie di paesaggi medievali, relativa a studi e riflessioni interdisciplinari sui paesaggi medievali. Il volume è stato stampato con i contributi della Società Storica Vercellese e del Dipartimento di lettere, filosofia, comunicazione dell’Università degli Studi di Bergamo. Oggi la storia dei fiumi è un tema à la mode, di attualità tra chi si occupa di ricerca scientifica, collegato alle tematiche ambientali. Nuova e foriera d’insolite aperture la chiave dell’interdisciplinarietà, che fa dialogare letture storiche, archeologiche e geografiche, permettendo di sondare un campo di ricerca assai più vasto ed articolato. Dodici studiosi hanno lavorato su un tema comune, approfondendolo attraverso l’utilizzo dei peculiari strumenti di ricerca. Il libro, in cui l’immagine di copertina riproduce un particolare del fiume Sesia nei pressi della Grangia di Gazzo, in una carta del 1622 conservata nell’Archivio dell’Ospedale Mauriziano di Torino, offre moltissimi spunti per gli studi ed è caratterizzato dall’uso di un metodo che permette di mettere a confronto discipline ed epoche diverse, infrangendo i confini disciplinari tradizionali, trasformandosi in uno strumento fruibile anche al di fuori dello stretto ambito accademico. “Un libro di storia del territorio e di storia dell’ambiente oggi è uno strumento per il governo del territorio: analizzare il territorio storico ci permette di coglierne debolezze e fragilità. È importante divulgare queste conoscenze e farne patrimonio comune, essendo necessario che tutti abbiano consapevolezza della storia del territorio in cui vivono per capire le trasformazioni subite e le trasformazioni che noi imponiamo: possiamo costruire l’ambiente, ma dobbiamo essere consapevoli di farlo. La funzione sociale degli studiosi è importantissima”. Nelle parole del relatore, prof. Dario Canzian, docente di Storia Medievale presso l’Università di Padova, titolare anche di un corso di storia ambientale, emerge la consapevolezza della conoscenza e salvaguardia delle vere specificità del territorio fluviale, e la necessità di comprendere le dinamiche che mettono in consonanza le diverse zone fluviali. Canzian sintetizza il contenuto dei saggi con una metafora molto efficace: “Questo libro non parla solo del fiume e delle trasformazioni del suo ambiente, ma si allarga ad un tema molto più vasto, includendo le relazioni che si instaurarono tra individui e comunità, organismi politici e ambiente, è l’idea del fiume come membrana vivente”. I paesaggi che sono a contatto con l’acqua sono caratterizzati da una certa dinamicità: “L’acqua è mobile e costringe a cambiare”: così la Sesia ha plasmato il territorio valsesiano e vercellese, ed è diventata un elemento identitario importante. 294 Vita della Società Storica Il tavolo dei relatori. Da sinistra: Riccardo Rao, Giovanni Ferraris, Dario Canzian. Il curatore del volume, Riccardo Rao, ha infatti ricordato Rosaldo Ordano, il compianto presidente della Società Storica Vercellese, che molto aveva scritto sulla Sesia, per il quale la vercellesità si identificava nella Sesia, e, parlando di paesaggio perduto, mostrava di aver compreso come la Sesia storica fosse molto diversa dal fiume che vediamo oggi, ricordando quindi che era molto importante salvaguardare il più possibile ciò che era rimasto. Multidisciplinarietà e diacronicità si armonizzano nel volume: la Sesia è asse di struttura di un territorio, area di produzione, area integrata di bassa pianura che si collega con i pascoli più elevati, trasformandolo in una “palestra”, un esercizio di conoscenza topografico e geografico, in cui anche le vicende apparentemente marginali, come quelle che riguardano un piccolo borgo come Biandrate, in realtà si rivelino fondamentali. I confini del distretto comunale di Vercelli, studiati da Alessandro Barbero vanno ben oltre la Sesia, ma il fiume mantiene il suo valore icastico e simbolico. Un tema molto importante trattato nel volume da B. M. Fracchia, è La gestione del territorio e delle infrastrutture in Alta Valle Sesia nel quadro delle riforme di Vittorio Amedeo II di Savoia, che analizza una figura che finora era stata poco studiata, quella dell’Intendente, che faceva da tramite tra la Comunità e il sovrano. Tra i sogni del curatore del volume Riccardo Rao e del Presidente della Società Storica Vercellese c’è sempre quello di allestire una mostra cartografica con tutte le carte storiche disponibili, alcune delle quali sono dei veri oggetti d’arte, come ha ricordato Giovanni Ferraris, che ha chiuso i lavori del pomeriggio ringraziando il pubblico molto numeroso ed attento e preannunciando che a fine anno il Congresso Storico vercellese sarà dedicato a Vercelli tra Quattro e Cinquecento. Piera Mazzone 295 Vita della Società Storica 29 marzo 2017 IL LIBRO “I PAESAGGI FLUVIALI DELLA SESIA” PRESENTATO A STROPPIANA Presso la sala della SOMS di Stroppiana, la sera di mercoledì 29 marzo 2017 è stato presentato ad un attento pubblico locale e dei paesi circostanti il volume “I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia. Territori, insediamenti, rappresentazioni” che il nostro illustre collaboratore prof. Riccardo Rao ha curato per la collana “Storie di Paesaggi Medievali” pubblicata dall’editrice “All’Insegna del Giglio” di Firenze. Come riferito altrove in questa rubrica, il volume, che ha fatto seguito ad analogo convegno organizzato dalla nostra Società il 13-14 aprile 2014, era stato presentato per la prima volta a Vercelli il 7 febbraio 2017. La presentazione stroppianese è stata organizzata nell’ambito della rassegna “Le pagine parlate” a cura del Comune, della Pro loco e della Società Operaia di Mutuo Soccorso, un’istituzione storica del paese che risale alla metà del secolo diciannovesimo. Nei locali di via Mazzini della stessa SOMS, è stato il curatore del volume Riccardo Rao, docente di Storia Medievale all’Università di Bergamo, a illustrare i contenuti del volume seguito da un breve intervento di Giovanni Ferraris, presidente della Società Storica Vercellese, che ha proposto alcune immagini illustranti la sua ipotesi sull’espansione della diocesi di Vercelli in sponda sinistra della Sesia come esposto nel suo contributo al volume. Da sinistra: Giovanni Ferraris, Giovanni Barberis, Riccardo Rao, Franco Scansetti. 296 Vita della Società Storica Dopo le parole di benvenuto del sindaco, Pino Carenzo, e del presidente della SOMS, Niccolò Coppo, la serata è entrata nel vivo con una prolusione del giornalista stroppianese Giovanni Barberis che ha avuto come argomento la “Strà scüria”, una via romana in mezzo alla campagna stroppianese che portava verso la Sesia, il cui nome ara forse dovuta al fatto che si snodava sotto la poca luce che filtrava da una folta foresta. Rao, anche riprendendo argomenti che aveva trattato nel volume sul villaggio scomparso di Gazzo, ha quindi analizzato i paesaggi disegnati dalla Sesia a partire dall’antichità fino al Medio Evo, tra territori, castelli, porti, boschi, incolti. E ponti: in particolare quello di Mantie - scoperto intorno al 1970 - i cui resti sono chiaramente riaffiorati durante una secca nell’estate del 2015. Infine, remo in spalla, è intervenuto come ospite speciale il caresanese Franco Scansetti, figlio di “Ste-u”, uno degli ultimi “barcarö”, che fino agli anni ‘50 del secolo scorso, traghettarono su barche a chiglia piatta coloro che da Caresana dovevano raggiungere la Lomellina. L’interesse del pubblico è stato particolarmente vivo: si parlava di storia del suo territorio e riecheggiavano antichi ricordi localmente trasmessi attraverso le generazioni. Tant’è, che in chiusura, sono andate presto esaurite le copie del volume che si erano portate e la Società Storica ha avuto modo di reclutare nuovi soci. 297 Vita della Società Storica 7 aprile 2017 PRESENTATO A SAN GERMANO IL NUOVO “QUADERNO” DELLA SOCIETÀ STORICA VERCELLESE Il nuovo volume pubblicato dalla Società Storica Vercellese nella collana “Quaderni”, dedicato a “Il Convento Agostiniano di S. Maria della Consolazione in San Germano Vercellese” è stato presentato venerdì 7 aprile, nell’Auditorium del Corpus Domini di San Germano. Gianni Mentigazzi, presidente del Museo Leone e della Casa di Riposo di San Germano, dopo aver ringraziato il pubblico molto numeroso, la relatrice, l’autore e i coautori del volume, ha suggerito di dedicare un articolo del Bollettino Storico Vercellese: “alla prima donna notaio d’Italia, Elisa Resignani, originaria di Trieste, che nel 1928 esercitò per un breve periodo a San Germano”. Dopo aver portato il saluto del presidente Giovanni Ferraris, Mentigazzi ha ricordato la scoperta del manoscritto seicentesco con il “Racconto del Convento di S. Germano”, fatta da Mario Coda nella Biblioteca del Santuario di Oropa. Antonio Corona lo trovò subito molto interessante e ne pubblicò una breve parafrasi nel 2004, tornando sull’argomento nel successivo 2016: Un Maestro, un Medico e un Pellegrinaggio Sangermanesi (2016). Lavorando alla contestualizzazione del manoscritto, Antonio Corona chiese all’amico Giorgio Tibaldeschi di annotarlo con la consueta acribia. Vincendo le iniziali resistenze, Tibaldeschi iniziò una ricerca d’archivio che ha dato risultati interessanti, arricchendo la storia di San Germano di una nuova fonte. Il manoscritto racconta la nascita e la crescita del Convento in modo dettagliato, offrendo uno spaccato della vita del paese, descrivendone le vicende dalla distruzione durante l’occupazione spagnola nella prima guerra di successione del Monferrato, alle difficoltà causate da incomprensioni e liti tra i Religiosi e la Comunità del paese. Il convento era molto piccolo (non ebbe mai più di quattro-sei frati) e venne soppresso nel marzo 1798, portando quindi alla dispersione del suo archivio. Per studiare le vicende del convento agostiniano, si è quindi dovuto cercare e trovare altre fonti alternative, con risultati soddisfacenti. A San Germano - ha detto Tibaldeschi - esistono due tesori ancora da scoprire. Uno è la medaglia d’argento collocata nella prima pietra, quando il convento fu rifondato nel 1627; la medaglia, coniata nell’anno santo 1575, raffigura una porta santa di Roma e l’effigie del giovane Carlo Emanuele I. Il secondo tesoro è la pala d’altare dipinta dal Moncalvo (o forse da sua figlia Orsola), che raffigura la Madonna con Bambino e l’offerente Aurelio Corbellini; dopo la soppressione, quest’ancona era ancora negli anni venti dell’Ottocento in una collezione privata a Crescentino e sarebbe importante poter ritrovare un pezzo della storia artistica del paese. Nella sua relazione, Tibaldeschi ha segnalato anche l’antichità della dedicazio298 Vita della Società Storica Il tavolo dei relatori. Da sinistra: Giorgio Tibaldeschi, Piera Mazzone, Antonio Corona, Mario Coda, Gianni Mentigazzi. ne a San Vito, titolare di un oratorio poco distante dal paese, già oggetto di grande devozione, poi abbandonato e crollato definitivamente nel 1951. Si conoscono pochissime dedicazioni a questo santo: quella di San Germano (documentata almeno dall’ultimo quarto del sec. XIII da una via sancti Viti), una presso Santhià (dove gli scavi archeologici hanno messo in luce un piccolo vicus di epoca romana), un’altra nel Novarese. Nel volume è stata riprodotta un’acquaforte degli anni Sessanta, realizzata dal pittore Enzo Gazzone, che raffigura la chiesa di San Vito, accanto ad una malinconica fotografia del 2010, scattata da Antonio Corona, che ne ritrae l’attuale desolazione. Carla Gazzone, figlia di Enzo, ha ricordato che questa era una delle prime opere di suo padre, che soggiornò spesso alla cascina San Vito, gestita dal dott. Perazzo, ritraendo il “San Vito piccolo”, come erano chiamate le poche giornate di terra, coltivate per servire da sostentamento al custode della chiesa. Mario Coda, autore del ritrovamento e della trascrizione del manoscritto, è intervenuto durante la presentazione per spiegare la sua tesi sull’autore, basata sia sulla grafia, che su alcuni tratti stilistici caratteristici dello storico biellese Carlo Antonio Coda. Antonio Corona, “lo Storico” di San Germano, autore di una lunga serie di libri dedicati al suo paese e ai personaggi che vi ebbero i natali, invece ritiene che il “Racconto” riporti dati così precisi da non poter essere stato scritto che da una persona del paese, o molto vicina ad esso, e precisamente dal frate agostiniano Aurelio Corbellini, autore della nota “Vite dei Vescovi di Vercelli” (1643) e di varie raccolte di poesie. 299 Vita della Società Storica Nel testo San Germano è definito “Sempre luogo riguardevolissimo per l’acutezza degli ingegni e territorio cosi fertile che produce quanto è necessario al vivere umano” e compaiono i nomi di personaggi direttamente o indirettamente implicati nella storia del convento, esponenti delle famiglie sangermanesi più influenti, ma soprattutto emergono preziosi micro toponimi, alcuni dei quali tuttora presenti sul territorio, che dimostrano una precisa conoscenza della gente sangermanese da parte dell’autore del manoscritto. Nell’ultima parte del volume, intitolata: “I protagonisti del Racconto del convento”, Antonio Corona offre delle sintetiche schede che racchiudono le informazioni essenziali per contestualizzare luoghi e personaggi. Piera Mazzone 300 Vita della Società Storica 26 aprile 2017 PRESENTATO IL LIBRO “CARTA E POTERE” Venerdì 26 aprile, nella suggestiva cornice del “Corridoio delle Cinquecentine” (in fase di riallestimento per la mostra “Cinque secoli di assedi e fortificazioni”) del Museo Leone, è stato presentato il nuovo libro di Giorgio Dell’Oro Carta e potere. La carta “lombarda” e l’Europa dagli Asburgo ai Savoia. Acqua, stracci, carta, colla e penne (secoli XVI-XIX), stampato da Gallo artigrafiche di Vercelli. La presentazione, affidata al Museo Leone e alla Società Storica Vercellese con intervento dell’editore, ha visto in dialogo i relatori Dino Carpanetto (Università degli Studi di Torino), Daniela Piemontino (Università del Piemonte Orientale) e l’autore. Il primo ha illustrato le vicende legate alla fabbricazione della carta, dalla raccolta degli stracci (per secoli la materia prima), all’evoluzione delle tecniche di lavorazione, sottolineandone l’importanza strategica prima ancora che la carta raccogliesse e diffondesse le idee. In particolare è così emerso il progressivo decadimento tecnologico dell’Italia a vantaggio di nazioni più dinamiche, soprattutto dell’Olanda vittima di un vero e proprio spionaggio tecnologico da parte degli informatori inglesi. Il tavolo dei relatori. Da sinistra: Daniela Piemontino, Giorgio Dell’Oro, Dino Carpanetto, Giovanni Ferraris. 301 Vita della Società Storica Daniela Piemontino ha invece messo in evidenza le fonti iconografiche, quali strumenti in grado di comunicare più velocemente e chiaramente i dettagli di una procedura complessa (la produzione della carta in età moderna) che un testo descriverebbe in modo assai più vago e lento. L’illustrazione, quindi, se ben studiata, è in grado di restituire il preciso contesto materiale, politico e culturale in cui è nata. “Carta e potere” descrive le diverse fasi della lavorazione della carta, le professioni ad essa collegate, gli strumenti utilizzati, che rappresentano la base di partenza della libertà di pensiero, costituendo il supporto materiale di quella “arte di istruire e di illuminare gli uomini che, dopo l’arte di governare bene”, scriveva D’Alembert, “è il più nobile appannaggio della condizione umana”. Un’ampia recensione del volume, curata da D. Piemontino, è pubblicata in questo stesso fascicolo del “Bollettino Storico Vercellese”, nell’apposita sezione. 302 Vita della Società Storica RICORDO DI GIACOMO FIORAMONTI Giacomo Fioramonti, nato nel 1925 e morto poco prima di compiere i 92 anni nei primi giorni di maggio, ha avuto una lunga vita, colmata di valori, dando molto agli altri, condividendo saperi e sapori, probità e onestà intellettuale. Ingegnere, brillante relatore alle conferenze presso il Museo Etnografico di Romagnano, melomane raffinato, aveva lavorato a lungo a Novara presso la De Agostini e poi quale amministratore delegato alla Sant’Andrea macchine tessili. Dopo la pensione era tornato a Romagnano, servendo il paese come vice sindaco e assessore e donando a quel Museo la sua ricca e selezionata biblioteca personale. A Romagnano aveva dedicato la sua ultima Conversazione sul periodo napoleonico, nata dalle indagini condotte presso l’Archivio Storico Comunale, lasciando il desiderio incompiuto di una storia del luogo. Nella Società Storica Vercellese, cui aveva aderito alcuni anni dopo la fondazione nel 1972, grazie alla sua grande amicizia con il compianto presidente Rosaldo Ordano, aveva ricoperto il ruolo di “probo viro”, eletto in occasione dell’assemblea di Guardabosone nel 2000. Un suo studio, con alcune importanti memorie legate alla guerra del 1943-1945, era stato preso in esame per la pubblicazione sul “Bollettino Storico Vercellese”, ma poi rinviato in attesa di tempi migliori. Piera Mazzone 303 Finito di stampare nel mese di maggio 2017 presso Gallo Arti grafiche - Vercelli