Quaderno di storia del penale e della giustizia, n. 1 (2019), pp. 179-197
ISSN (print) 2612-7792 / ISBN 978-88-6056-621-8 / © eum 2019
Michele Pifferi
Paure dello straniero e controllo dei confini. Una prospettiva storico-giuridica
1. La storica paura dell’immigrazione di massa
Le riflessioni di Roberto Cornelli sulla paura della criminalità, le cause
sociologiche e culturali che la generano ed alimentano, l’utilizzo politico che
ne viene fatto, il rapporto tra il sentimento individuale e collettivo e le scelte
legislative o di politica criminale, offrono utili chiavi di lettura allo storico del
diritto per avviare un dialogo diacronico interdisciplinare. In questo contributo cercherò, in particolare, di rileggere alcune esperienze storiche in tema
di ius migrandi e criminalizzazione degli immigrati alla luce di interpretazioni
orientate dalla logica della paura. Cornelli individua nella letteratura sulla
paura della criminalità quattro tesi esplicative che rinviano, rispettivamente,
al «legame tra paura, rischio e politiche» ed al fatto che queste ultime «sono
solitamente innescate non tanto dal potenziale di pericolo contenuto in un
certo evento, quanto dal coagularsi di insicurezze di vario tipo attorno a quel
fenomeno che, a seconda dei periodi, presenta le caratteristiche più idonee ad
attrarre l’attenzione pubblica»; al senso di declino della civiltà o di scontro di
civiltà generato dal confronto con nuovi ‘barbari’ che genera nella collettività
forti incertezze e paure per il futuro; ad inquietudini collettive «riformulate
in una domanda di sicurezza capace di espandersi ad ogni aspetto della vita
sociale»; ed, infine, alle ricadute negative di tali paure sulla tenuta del sistema democratico con una conseguente «restrizione dei diritti, sia generale che
selettiva per alcune categorie di persone»1. Nessuna di queste tesi, tuttavia,
sembra rispondere all’interrogativo del perché proprio la paura della criminalità (e, nel nostro caso, della criminalità connessa al fenomeno migratorio)
prevalga nei sentimenti e nei discorsi pubblici: Cornelli ricorre, mutuando
un’espressione di Carlo Ginzburg, al tema della «“circolarità della produ1 R. Cornelli, La politica della paura tra insicurezza urbana e terrorismo globale, «Criminalia»,
2017, pp. 239-240.
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zione sociale della paura”»2, spostando così l’attenzione dalla paura come
strumento nelle mani dei gruppi dominanti per conservare il loro potere alla
paura come «un prodotto e, al tempo stesso, un elemento caratterizzante una
“mentalità collettiva”, trasversale e diffusa, un “universo simbolico” che dà
le coordinate per percepire, sentire e agire e che ha forti relazioni con l’ordine
istituzionale»3.
Mi pare che tali argomenti possano essere utilmente impiegati per comprendere come la cultura giuridica abbia affrontato il fenomeno dell’immigrazione di massa in età moderna, soprattutto nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, costruendo regole per i controlli dei confini e legittimando
modelli di cittadinanza esclusiva in evidente contraddizione con il modello
di stato sociale e con le garanzie costituzionali riservate ai cittadini. Il tema
della paura, del suo impatto sulle politiche securitarie e della sua dimensione
collettiva, sarà qui assunto come strumento di analisi e comprensione delle
logiche giuridiche che hanno portato, in diversi momenti e contesti storici, a
rappresentare il soggetto migrante come pericoloso, fattore scatenante di paure sociali e pertanto oggetto principale di campagne politiche costruite sulla
promessa di una più rigorosa difesa dei confini, seguite da una spesso scarsa
volontà o capacità di realizzarla. Il fatto che oggi «i migranti siano indicati
come “classe pericolosa” e si utilizzi ogni strumento disponibile per tentare
di tenerli fuori dai confini fisici e giuridici delle democrazie occidentali»4 è un
dato corroborato da una ricca letteratura scientifica, che va dagli studi giuridici e sociologici sulla crimmigration5 o la border criminology6, ai lavori che
criticano la natura penale della detenzione degli stranieri nascosta dietro un’etichetta amministrativa7. Studi recenti hanno mostrato come, in molti stati oc2 R. Cornelli, La paura nel campo penale. Una riflessione sull’intreccio tra paura, violenza e ordine
come tratto costitutivo delle società moderne, «Questione Giustizia», <http://www.questionegiustizia.
it/articolo/la-paura-nel-campo-penale_07-09-2016.php>, settembre 2016.
3 Ibidem.
4 Cornelli, La politica della paura cit., p. 257; cfr. anche A. Ceretti, R. Cornelli, Oltre la paura.
Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Milano, Feltrinelli, 2013, in particolare cap. 3,
pp. 85 ss., dove si sostiene che «Paura, disgusto e odio sono sentimenti sociali che, in certi contesti,
si accumulano e convergono su (s)oggetti prescelti perché altri possano dotarsi di una legittimazione
socio-politica» (p. 95).
5 Cfr. il pionieristico lavoro di J. Stumpf, The Crimmigration Crisis: Immigrants, Crime, and
Sovereign Power, «American University Law Review», 56, 2, 2006, pp. 367-419; per una revisione
aggiornata del concetto, con particolare riferimento alla situazione italiana, cfr. A. Spena, La crimmigration e l’espulsione dello straniero-massa, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 47, 2,
2017, pp. 495-513.
6 Cfr. ad es. M. Bosworth, Border Criminologies: How migration is changing criminal justice, in
M. Bosworth, C. Hoyle, L. Zedner (eds.), Changing Contours of Criminal Justice, Oxford, Oxford
University Press, 2016, pp. 213-226; S. Pickering, M. Bosworth, K. Franko Aas, The Criminology of
Mobility, in S. Pickering, J. Ham (eds.), The Routledge Handbook on Crime and International Migration, London-New York, Routledge, 2015, pp. 382-395.
7 Solo a mo’ di esempio, cfr. M. Bosworth, Immigration Detention, Punishment and the Transfor-
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cidentali, le paure dell’eccessivo numero di immigrati o della loro composizione, in termini di paese di provenienza, religione e condizione economica, sono
fondate su percezioni sbagliate dei dati reali: i pregiudizi e la disinformazione
sulla vera portata del fenomeno migratorio sono, tuttavia, molto radicati nelle
popolazioni native, inducono a credere che le garanzie dello stato sociale siano minacciate da una loro estensione ai non cittadini, suscitano timori di un
peggioramento della situazione economica ed occupazionale, alimentano forti
sentimenti di ostilità verso gli stranieri e la loro accoglienza, sono manipolati e
fomentati dai partiti politici che fanno del contrasto all’immigrazione il punto
chiave dei loro programmi elettorali8. La paura fondata su falsi presupposti
e stereotipi, ulteriormente incrementata dal corto circuito mediatico9, porta
all’adozione di politiche restrizioniste ed all’emanazione di norme particolarmente rigide sul controllo dei confini.
Le conclusioni cui giungono queste ricerche si prestano ad un confronto
con il passato, su come la migrazione di massa abbia rappresentato, almeno a
partire dall’età moderna caratterizzata dall’accentramento del potere politico
nello stato, un problema di difficile soluzione dal punto di vista giuridico. Lo
spostamento di ingenti quantità di persone da un paese ad un altro ha storicamente generato sentimenti di paura, in relazione alla tenuta di istituzioni
ancor fragili, alla capacità dei sistemi democratici di integrare i nuovi arrivati
senza perdere i propri caratteri tipici, al rischio di perdita della propria identità razziale, religiosa e culturale, al peggioramento del proprio standard di vita
causato dall’abbassamento salariale o da crisi occupazionali dovuti all’ingresso di manodopera non qualificata, al senso di insicurezza sociale provocato
dall’aumento della criminalità degli immigrati.
mation of Justice, «Social & Legal Studies», 28, 1, 2019, pp. 81-99; M. Bosworth, Inside Immigration
Detention, Oxford, Oxford University Press, 2014; tr. it. La “galera amministrativa” degli stranieri
in Gran Bretagna. Un’indagine sul campo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, con in appendice A.
Pugiotto, Di qua dalla Manica: la “galera amministrativa” degli stranieri in Italia, pp. 363 ss.; G.
Campesi, G. Fabini, La detenzione della “pericolosità migrante”, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 47, 2, 2017, pp. 515-531; M. Pelissero, Il vagabondo oltre confine. Lo statuto penale
dell’immigrato irregolare nello Stato di prevenzione, in M. Meccarelli, P. Palchetti, C. Sotis (a cura di),
Ius peregrinandi. Il fenomeno migratorio tra diritti fondamentali, esercizio della sovranità e dinamiche
di esclusione, Macerata, eum, 2012, pp. 35-85.
8 Il riferimento è, in particolare, allo studio di A. Alesina, A. Miano, S. Stantcheva, Immigration
and Redistribution, «NBER Working Paper», n. 24733, <http://www.nber.org/papers/w24733>,
june 2018, che prende in esame Francia, Germania, Italia, Svezia, Inghilterra e Stati Uniti; alla ricerca
curata da M. Valbruzzi, Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione, Istituto Cattaneo, <http://www.
cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/08/Analisi-Istituto-Cattaneo-Immigrazione-realt%C3%A0-epercezione-27-agosto-2018-1.pdf>, agosto 2018; ed a B. Duff, The Perils of Perception. Why We’re
Wrong About Nearly Everything, London, Atlantic Books, 2018, cap. 4.
9 Alesina, Miano, Stantcheva, Immigration and Redistribution, cit., p. 36: «The more natives are
misinformed, the more they become averse to immigrants and redistribution, and the more they may
look for confirmation of their views in the media. As a result, the media has an incentive to offer information supporting these views».
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Molte delle dinamiche che sembrano oggi governare l’approccio politico
e giuridico alla migrazione sono rinvenibili in esperienze passate: il déjà-vu,
come cercherò di mostrare in sintesi con qualche esempio, più che favorire
possibili soluzioni sembra confermare l’irriducibilità del problema. In un ordine giuridico statuale fondato sui diritti di cittadinanza, come emerso in modo
definitivo – almeno nel mondo occidentale – da fine Settecento, i confini non
possono essere aperti e porosi, specie per movimenti di massa: la migrazione
è, per tale tipo di concezione politico-giuridica inter-statuale, intrinsecamente
problematica, fonte di insanabili contraddizioni, sostanzialmente irrisolvibile
pena il rischio di crollo del sistema stesso. Non è un caso che l’approccio delle
teorie critiche del diritto a tale problema proponga oggi con insistenza un
radicale cambio di prospettiva, un rovesciamento del consolidato paradigma
dell’ottocentesco stato di diritto, uno scardinamento della tradizionale distinzione giuridica cittadini/non cittadini10.
A preoccupare non è la libertà di migrare dell’individuo (oggi diremmo
il diritto umano di migrare), ma la dimensione collettiva del fenomeno. Già
Ugo Grozio, agli albori del moderno giusnaturalismo nel Seicento, pone la
questione in termini di proporzioni e, mentre ammette condizionatamente la
discessio singulorum, nega con fermezza la possibilità di migrazioni di gruppo,
poiché se ciò fosse consentito «iam civilis societas subsistere non possit»11.
Analogamente, a fine Ottocento, nel dibattito italiano in merito alla natura
10 Cfr. ad es. E. Rigo, Soggetti e spazi in trasformazione: appunti per una critical migration theory,
in M.G. Bernardini, O. Giolo (a cura di), Le teorie critiche del diritto, Pisa, Pacini, 2017, pp. 133-149,
secondo la quale «l’indicazione non può che essere quella di rovesciare la prospettiva e invocare la
necessità del diritto, non a partire dalle regole già date (e sovente smentite) dello Stato di diritto, ma da
come i soggetti incarnati di volta in volta rivendicano e negoziano la loro appartenenza» (pp. 144-145);
D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2017; A.
Mbembe, The idea of a borderless world, «Chronic Chimurenga», October 2018, tr. it. Mondo senza
frontiere, «Internazionale», 23/29 novembre 2018, n. 1283, anno 26, pp. 102-106.
11 H. Grotius, De iure belli ac pacis libri tres, Amsterdam, apud Iohannem Blaeu, 1646 [rist.
anast. Washington D.C., Carnegie Institution of Washington, 1913], lib. II, caput V, §. XXIV An
civibus a civitate discedere liceat, per distinctionem explicatur, pp. 157-158: le sole giustificazioni alla
restrizione della libertà individuale di abbandonare la patria sono le esigenze di giustizia economica
e le emergenze belliche. Pufendorf (S. Pufendorf, De iure naturae et gentium libri octo, Amsterdam,
apud Andream ab Hoogenhuysen, 1688 [rist. ananst. Carnegie Institution of Washington, Oxford,
Clarendon Press, 1934], lib. VIII, cap. XI, § 4, p. 919), diversamente, non vede ragioni sufficienti
per limitare l’immigrazione collettiva, «si enim singulis licet pro arbitrio migrare, cur non idem liceat
pluribus, quibus sedem fortunarum eodem tempore transferre commodum est?». In realtà, sostiene il
giurista tedesco, l’emigrazione di massa può sì rendere una città desolata, ma questo non elimina certo la
societas civilis inter homines che anzi persiste e rifiorisce altrove senza soluzione di continuità, secondo
un processo storico e naturale per cui la corruptio di una comunità diventa il fattore di generatio di
un’altra. Anche Barbeyrac (H. Grotius, Le droit de la guerre et de la paix, nouvelle traduction par J.
Barbeyrac, Amsterdam, Pierre de Coup, 1724, t. I, liv. II, ch. V, nt. 5, p. 307) critica la negazione assoluta
del diritto di emigrare en foule, che ritiene invece del tutto lecito quando il governo è tirannico, quando
una moltitudine di cittadini che esercitano una particolare professione non riesce più a mantenersi con
il proprio lavoro o quando si è costretti dalla miseria.
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
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civile o politica del diritto d’incolato, Ferdinando Laghi considera il diritto
di soggiorno dello straniero un diritto naturale e privato, comprimibile dallo
stato solo in caso di necessità e nelle ipotesi tassative previste dalla legge12.
In piena sintonia con lo spirito cosmopolita e umanitario che anima l’art. 3
del codice civile del 1865, tale interpretazione è comunque pensata per uno
stato come il Regno d’Italia di forte emigrazione ma di scarsa immigrazione
e, soprattutto, soggetto ad arrivi individuali e controllabili ma non ad
immigrazione di massa. Lo stesso autore, infatti, prevede che uno dei quattro
casi in cui l’espulsione può ritenersi legittima è «l’invasione di stranieri, i
quali, per loro numero, per le loro speciali condizioni economiche o morali
o politiche, produrrebbero moltissimi danni allo stato che li ospitasse»:
mentre, dunque, il singolo godrebbe del diritto naturale e civile d’incolato,
l’immigrazione in massa può invece essere vietata per il prevalere del diritto di
esistenza e di sviluppo dello stato, minacciato da una «invasione di stranieri
superiore alla capacità economica del territorio» e dall’arrivo di gruppi che
hanno «costumi e tendenze in aperta opposizione alla nostra civiltà, ai nostri
sentimenti morali, religiosi, politici»13.
2. L’Alien invasion, la concorrenza salariale e il benessere a rischio
I motivi che inducono ad avere paura dell’onda di immigrati possono assumere natura diversa, ma è storicamente possibile individuarne alcuni ricorrenti ed avvertiti come particolarmente gravi. Il primo fa riferimento al timore
di un impatto negativo dell’immigrazione sull’economia nazionale, il tasso di
occupazione e il livello salariale dei residenti: quando l’arrivo di una ingente
12 F. Laghi, Il diritto internazionale privato nei suoi rapporti colle leggi territoriali, I, Bologna,
Zanichelli, 1888, p. 285: «Il diritto di soggiorno non nasce esclusivamente dal fatto della unione sociale
sopra un territorio; ma logicamente preesiste a tale unione: è quindi un diritto privato, non un diritto
politico». Nello stesso senso cfr. anche F. Bianchi, Un quesito sull’art. 3 del Codice civile italiano, Siena,
1881, pp. 9-11; B. Cipelli, Questione: Se lo straniero possa prendere residenza…, «La Legge. Monitore
giudiziario ed amministrativo del Regno d’Italia», p. III, 15, 1875, pp. 247-253. Il diritto di espulsione,
affidato alle valutazioni del potere politico, è visto invece da Laghi (Laghi, Il diritto internazionale cit.,
p. 302) come «una minaccia continua alla libertà e sicurezza degli stranieri, e un imbarazzo per la stessa
autorità politica»: sarebbe troppo rischioso far dipendere l’espulsione da una valutazione della pericolosità dello straniero, poiché «i motivi di pubblica sicurezza e di ordine pubblico sono cose tanto vaghe
ed elastiche, in materia di polizia, che possono colorare qualunque più ingiusto decreto di espulsione».
Per un’analisi più approfondita di tale dibattito sia consentito rinviare a M. Pifferi, Controllo dei confini
e politiche di esclusione tra Otto e Novecento, in E. Augusti, A.M. Morone, M. Pifferi (a cura di), Il
controllo dello straniero. I “campi” dall’Ottocento ad oggi, Roma, Viella, 2017, pp. 84-90.
13 Laghi, Il diritto internazionale cit., p. 312. L’autore considera, pertanto, legittimo il provvedimento con cui il governo statunitense ha vietato per venti anni l’ingresso di cinesi, poiché «se realmente,
come affermano i pubblicisti americani, l’immigrazione chinese [sic] è così enorme, e se i cinesi immigranti sono così sordidi ed immorali, come si descrivono, non si può negare a quello stato civilissimo il
diritto di difendersi da una simile perniciosa invasione». Ibidem.
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quantità di manodopera non qualificata e disposta a lavorare a condizioni
contrattuali decisamente peggiori di quelle accettate dai residenti sembra poter incidere negativamente sullo standard of living di questi ultimi, l’immigrazione si trasforma da risorsa per lo sviluppo della prosperità nazionale
in minaccia concreta di una crisi economica. Esempi di tale dinamica sono
visibili chiaramente nei casi degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e dell’Argentina.
Tali paesi, dopo una lunga fase di open door policy, se non di vero e proprio
sostegno dell’immigrazione, nella fase in cui l’arrivo di nuova forza lavoro
(più o meno qualificata) era ritenuta necessaria per il popolamento e lo sviluppo economico-industriale della nazione, adottano poi, tra fine Ottocento
ed inizio Novecento, politiche restrizioniste di segno completamente opposto.
Negli Stati Uniti i sindacati, i cui iscritti appartengono in larghissima maggioranza alla popolazione nativa o a stranieri comunque già naturalizzati, sono
tra i protagonisti della svolta restrizionista. Nonostante studi recenti sostengano che l’immigrazione, tra il 1910 e il 1930, abbia avuto un effetto positivo
sul tasso di occupazione e sulla posizione professionale dei nativi, sia perché
l’afflusso di stranieri avrebbe portato ad un aumentato degli investimenti e
della produttività delle imprese, sia perché, per complementarietà, i lavoratori
americani avrebbero abbandonato occupazioni più esposte alla competizione
dei migranti per specializzarsi in lavori nei quali avevano una posizione di
vantaggio ai quali gli stranieri non avevano accesso14, la percezione era a quel
tempo ben diversa.
Il sociologo americano Henry Pratt Fairchild, nella seconda decade del
Novecento, spiega perché «free immigration is not only a menace, but a source of actual injury to the United States»15. Il positivo contributo della forza
lavoro immigrata, argomento sostenuto dalle parti politiche e sociali contrarie
a qualsiasi misura restrittiva degli ingressi, è, infatti, smentita dal fatto che gli
stranieri hanno piuttosto soppiantato i lavoratori nativi: al posto di un unito
e omogeneo corpo di lavoratori è stato introdotto un medley di diversi gruppi
razziali, ciascuno con proprie abitudini, lingua, religione, gelosi gli uni degli
altri e disprezzati dai natives. I segni del «process of degradation» sono dati
dal fatto che «instead of a uniformly intelligent body of working people, endued by nature and inheritance with American ideals and ambitions, we have
a laboring class but little higher in scale of education than that of the most
illiterate country of Europe»16.
14 M. Tabellini, Gifts of the Immigrants, Woes of the Natives: Lessons from the Age of Mass
Migration, «Harvard Business School BGIE Unit Working Paper», n. 19-005, in «SSRN», <https://ssrn.
com/abstract=3220430> o <http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3220430>, gennaio 2019.
15 H.P. Fairchild, The Paradox of Immigration, «The American Journal of Sociology», 17, 2,
1911, p. 263.
16 Ivi, pp. 262-263; anche dal punto di vista demografico, Fairchild sostiene che gli immigrati «are
not additions to our population, but supplanters of native childern, to whom they deny the privilege
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
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La paura di perdere il lavoro a vantaggio dei nuovi arrivati o di vedersi
ridurre drasticamente il salario si combinano, nell’esperienza americana e in
particolare nei confronti degli immigrati cinesi, con un crescente razzismo
biologico17: i coolies vengono percepiti e rappresentati come la più pericolosa
minaccia per i lavoratori e i cittadini natives, tanto che il Congresso, adottando nel maggio 1882 il Chinese Exclusion Act che proibisce l’ingresso di
«skilled and unskilled laborers and Chinese employed in mining»18, inaugura
un regime giuridico fortemente discriminatorio nei confronti della popolazione asiatica19. Due cartoons rappresentano in modo chiaro il sentimento
prevalente dell’opinione pubblica, confermando già allora quel corto circuito
mediatico indicato da Cornelli. Un’illustrazione pubblicata nel marzo 1882
dalla rivista The Wasp raffigura, da un lato, la mostruosa caricatura di un
cinese con undici mani intento a svolgere diverse attività lavorative – calzolaio, sarto, muratore, industria del tabacco –, mentre, dall’altro lato, i giovani
americani restano disoccupati e, di conseguenza, hanno davanti a loro un futuro di criminalità, come dimostra il poliziotto che conduce un ragazzo verso
la casa di correzione e il penitenziario di San Quintino20. Poco più di un mese
prima dell’emanazione del Chinese Exclusion Act, la rivista Puck pubblica
un’altra illustrazione nella quale alcuni lavoratori, tra cui un irlandese, un
francese, un ebreo, un afroamericano e un veterano della guerra civile, stanno
erigendo un muro contro l’arrivo dei cinesi, i quali a loro volta salpano dalla
costa del loro paese grazie alla distruzione della muraglia che prima ne ostacoof being born», appunto perché, piuttosto di rischiare un abbassamento del loro tenore di vita e per la
paura della disoccupazione o di un peggioramento delle opportunità lavorative, gli americani scelgono
di fare meno figli, a differenza degli immigrati. Gli stessi argomenti sono sviluppati in modo più esteso
in H.P. Fairchild, Immigration. A World Movement and Its American Significance, New York, The
Macmillan Company, 1913, specie pp. 302-310.
17 Sul tema cfr. tra gli altri, D.J. Tichenor, Dividing Lines. The politics of immigration control in
America, Princeton, Princeton University Press, 2002, specie pp. 87-113; E. Lee, American Gatekeeping:
Race and Immigration Law in the Twentieth Century, in N. Foner, G.M. Fredrickson (eds.), Not Just
Black and White: Immigration, Race, and Ethnicity, Then to Now, New York, Russell Sage Foundation,
2004, pp. 119-144; sullo sfruttamento giuridico di una inventata identità razziale come strumento
di nation building, rinvio a M. Pifferi, Ius peregrinandi e contraddizioni dell’età liberale. Qualche
riflessione sulla “falsa” libertà di migrare in Italia e negli Stati Uniti, in M. Meccarelli, P. Palchetti,
C. Sotis (a cura di), Ius peregrinandi. Il fenomeno migratorio tra diritti fondamentali, esercizio della
sovranità e regimi dell’esclusione, Macerata, eum, 2012, specie pp. 263-273.
18 An act to execute certain treaty stipulations relating to Chinese, emanato il 6 maggio 1882, Sec.
15.
19 Sull’argomento la letteratura è vasta; cfr., ad es., K. Calavita, The Paradoxes of Race, Class,
Identity, and “Passing”: Enforcing the Chinese Exclusion Acts, 1882-1910, «Law & Social Inquiry»,
25, 2000, pp. 1-40; E. Lee, At America’s gates. Chinese immigration during the exclusion era, 18821943, Chapel Hill-London, University of North Carolina Press, 2003; J. Pfaelzer, Driven Out. The
Forgotten War Against Chinese Americans, Berkeley, University of California Press, 2008; C. McClain,
Chinese Immigrants and American Law, I, New York-London, Taylor & Francis, 1994.
20 What Shall We Do With Our Boys?; G.F. Keller (1846-1927 ca.), «The Wasp», March 3, 1882
[Fig. 1].
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MICHELE PIFFERI
Fig. 1
lava la partenza21. Usando la malta fornita dal Congresso, nativi ed immigrati
‘buoni’, ovvero capaci di integrarsi positivamente nella società statunitense,
costruiscono il muro con mattoni in cui si leggono le parole pregiudizio, non
reciprocità, paura, legge razziale, lotta ai bassi salari, non-americanità, concorrenza e invidia22.
La paura del yellow peril, alimentato dal timore per la difficile integrazione
del cinese, diverso per lingua, religione e abitudini sociali, retoricamente rappresentato come incline ad un lavoro in condizioni di schiavitù, abile nell’aggirare o violare le leggi, infedele, criminale, scarsamente civilizzato, sporco
e portatore di malattie23, diviene il sentimento sociale prevalente attorno al
21 Il riferimento è probabilmente alle conseguenze del Burlingam Treaty del 1868, accordo
commerciale e diplomatico tra Stati Uniti e Cina che rendeva libera l’immigrazione dei cinesi sul suolo
americano.
22 The anti-Chinese wall. The American wall goes up as the Chinese original goes down; F. Grätz
[1840 ca.-1913 ca.], «Puck», v. 11, n. 264, March 29, 1882 [Fig. 2].
23 Sulla formazione e il funzionamento di questi stereotipi, cfr. S. Hea Kil, Fearing Yellow, Imagining White: Media Analysis of the Chinese Exclusion Act of 1882, «Social Identities. Journal for the
Study of Race, Nation and Culture», 18, 2012, pp. 663-677; M. Griffiths, The Convergence of the
Criminal and the Foreigner in the Production of Citizenship, in V. Hughes, B. Anderson (eds.), Citizenship and Its Others, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2015, pp. 72-88; R. Mayer, “Island is not far”:
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
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Fig. 2
quale si identificano e uniscono quei lavoratori che innalzano il muro dell’esclusione. I ‘primi’ arrivati, rappresentanti della good immigration, incarnano
l’identità nazionale americana che si sta formando su base razziale in contrapposizione allo straniero da respingere, esponente ora di una bad immigration:
chi prima è stato amalgamato nel melting pot virtuoso, deve ora collaborare
a respingere gli stranieri non assimilabili perché troppo diversi. Nonostante
qualche giudice cerchi di temperare la severità della normativa, in particolare
rifiutandosi di non riconoscere l’habeas corpus ai detenuti nel centro di Angel
Island24, in California la necessità di limitare gli arrivi dalla Cina è un tema
centrale nel dibattito politico. Partendo dall’esclusione dei cinesi e poi allargandola ad altri profili razziali, legislatori e corti25 contribuiscono con il loro
Zur Konstruktion von Insularität, Ausschluss und Exil auf Angel Island, 1910-1940, in D. Bischoff,
S. Komfort-Hein (eds.), Literatur und Exil. Neue Perspektiven, Berlin, De Gryter, 2013, pp. 283-295.
24 Cfr. C.G. Fritz, A Nineteenth Century “Habeas Corpus Mill”: The Chinese Before the Federal
Courts in California, «The American Journal of Legal History», 32, 1988, pp. 347-372; L.E. Salyer,
“Laws Hars as Tigers”: Enforcement of the Chinese Exclusion Laws, 1891-1924, in S. Chan (ed.),
Entry Denied. Exclusions and the Chinese Community in America, 1882-1943, Philadelphia, Temple
University Press, 1991, pp. 57-93.
25 Per riferimenti ai leading cases, cfr. G.L. Neuman, Strangers to the Constitution. Immigrants,
188
MICHELE PIFFERI
linguaggio e le loro argomentazioni, alla realizzazione di un progetto politico
e sociale finalizzato a «preserve the integrity and purity of the white race»26,
esplicitamente volto ad escludere l’immigrazione non di singoli ritenuti non
desiderabili ma di interi gruppi identificati come inferiori e non assimilabili in
funzione di caratteri antropologici e razziali. La seconda ondata migratoria
spaventa l’opinione pubblica americana perché proviene da razze – quella cinese ed alcune del sud-est Europa – molto più arretrate rispetto ai protagonisti
dei primi flussi27. L’esito di tale percorso è l’introduzione del sistema delle
quote nel 1921 e 192428, insistentemente richiesto dall’Immigration Restriction League fin dalla fine della prima guerra mondiale, «to be ready to meet a
possible large immigration of inferior quality after the war», come integrazione del literacy test, «to provide adequate restriction after the protective effect
of the reading test […] shall have passed away, owing to the spread of elementary education in the backward countries of Europe and western Asia»29.
L’Inghilterra, con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, adotta
un analogo cambio di segno nella immigration policy, anche in questo caso
dettato dalla paura che l’eccessiva e unrestricted immigration tolga occupazione e diminuisca il benessere degli English workers. È, in questa circostanza,
il massiccio arrivo di ebrei russi che fuggono dalle persecuzioni zariste e si
dirigono verso l’East End di Londra a fomentare un sentimento collettivo di
timore. Il giornalista Arnold White, antisemita tra i più attivi propugnatori di
misure contro l’immigrazione di ebrei russi, tedeschi o polacchi30, si chiede se
Borders, and Fundamental Law, Princeton, Princeton University Press, 1996; L. Dinnerstein, The
Supreme Court and the Rights of Aliens, «This Constitution», 8, 1985, pp. 24-35; R.J. Vecoli, Immigration, Naturalization and the Constitution, «Etudes Migrations», 85, 1987, pp. 75-101.
26 Rice et al. v. Gong Lum et al., 139 Miss., 1925, p. 780.
27 Dagli anni Ottanta dell’Ottocento, nella descrizione/costruzione dell’immigrazione come un
problema, diviene luogo comune la distinzione tra ‘vecchia’ (fino al 1883) e ‘nuova’ immigrazione,
positiva la prima, proveniente da Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, Belgio, Danimarca, Francia,
Germania, Olanda, Norvegia, Svezia e Svizzera, negativa invece la seconda, proveniente dai paesi del
sud-est Europa; cfr. ad es. J.W. Jenks, W.J. Lauck, The Immigration Problem. A Study of American
Immigration Conditions and Needs, 3rd ed., New York-London, Funk & Wagnalls Company, 1913,
pp. 25-26.
28 Il Johnson Quota Act (o Emergency Quota Act) del 19 maggio 1921 consente un numero di
nuovi ingressi calcolato in base alla quota del 3% degli stranieri della medesima nazionalità censiti
negli Stati Uniti nel 1910; il Johnson-Reed Act del 26 maggio 1924, comprensivo del National Origins
Act e dell’Asian Exclusion Act, restringe la quota al 2% con riferimento al censo del 1890, per ridurre
drasticamente l’immigrazione dal sud e dall’est Europa; vieta inoltre l’ammissione di stranieri «ineligible
to become citizens», provvedimento diretto a bloccare l’ingresso di cinesi e giapponesi; su quest’ultimo provvedimento e la sua funzione di «invention of national origins», cfr. M.M. Ngai, Impossible
Subjects: Illegal Aliens and the Making of Modern America, Princeton-Oxford, Princeton University
Press, 2004, specie pp. 21-55. La National Origins Formula è stata abrogata dall’Immigration and
Nationality Act del 3 ottobre 1965.
29 Publication of the Immigration Restriction League, The League’s Numerical Limitation Bill, n.
69, Boston, 1918, p. 1.
30 Cfr. S. Terwey, British Discourses on “the Jew” and “the Nation” 1899-1919, in W. Bergmann,
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
189
«the existing pauper immigration is sufficient to constitute a present danger
to the community», e con una retorica in cui combina motivi economici e
discriminazioni razziali, sostiene con convinzione che si debbano porre limiti
legislativi alla pauper immigration. Certo ci sono dubbi etici legati all’idea di
fratellanza, oltre alla consuetudine inglese di essere terra d’accoglienza per
rifugiati e perseguitati politici o religiosi di altri paesi, ma se la scelta deve
essere tra «renewed suffering abroad and renewed suffering at home», White
si schiera con coloro «who prefer the welfare of their own blood, race and
language, to the happiness of strangers»31. Tra i vari aspetti che caratterizzano l’alien invasion, termine di per sé già evocativo della paura generata
dal fenomeno migratorio, Wilkins indica quello economico come uno dei più
gravi: «the unlimited influx of cheap, destitute, foreign labour, cannot but
exercise a prejudicial effect upon the wages of the native working-classes»32.
Sono, in particolare, il settore tessile della piccola sartoria e quello calzaturiero ad essere colpiti negativamente dalla competizione al ribasso prodotta
dall’arrivo di forza lavoro non particolarmente qualificata ed a basso costo,
che ha di fatto quasi escluso dal mercato del lavoro le donne e gli uomini inglesi. Il rischio paventato dell’effetto della «foreign immigration upon our labouring population», se il governo insistesse nel non regolamentare gli arrivi
con controlli e restrizioni, è quello della «degradation of all the native labour
employed, to the level of the foreign labour which is brought into competition
with it», perché nella lotta tra chi è abituato ad uno standard di vita elevato e
chi ad uno inferiore, il secondo può certamente prevalere sul primo e prendere
il suo lavoro33.
La forza comunicativa di tali argomenti, il senso collettivo di paura per
il proprio futuro che essi sono capaci di generare nell’opinione pubblica inglese, assumono poi il linguaggio della politica e la forma del diritto34. Nel
1905 il Parlamento inglese approva l’Aliens Act, che, per la prima volta nel
Regno Unito e in analogia ai provvedimenti statunitensi, limita gli ingressi
degli stranieri non desiderabili e ne disciplina il procedimento di espulsione.
Le categorie di undesirable da respingere sono tuttavia identificate in mo-
U. Wyrwa (eds.), The Making of Antisemitism as a Political Movement. Political History as Cultural
History (1879-1914), «Quest. Issues in Contemporary Jewish History. Journal of Fondazione CDEC»,
3 July 2015, <www.quest-cdecjournal.it/focus.php?id=298>, gennaio 2019.
31 A. White, The Invasion of Pauper Foreigners, «The Nineteenth Century», 23, 1888, pp.
414-422, cit. pp. 415, 418.
32 W.H. Wilkins, The Alien Invasion, London, Methuen & Co., 1892, p. 68.
33 Ivi, p. 77.
34 A proposito dell’“odio razziale” e della percezione dello straniero altro come “diabolico”, scrivono Ceretti, Cornelli, Oltre la paura cit., p. 111: «Talvolta la discriminazione prende forza addirittura
dalla legge, piegata all’obiettivo di distinguere tra coloro che godono di diritti e gli altri che ne godono
in misura minore o non ne godono affatto».
190
MICHELE PIFFERI
do vago35, così come la facoltà attribuita al Segretario di Stato di emettere
ordini di espulsione è definita in termini poco tassativi36. Le ambiguità che
caratterizzano tale legge, con confini confusi tra competenze amministrative
e giurisdizionali, tra pene ed atti amministrativi, tra rispetto del rule of law e
deroghe alle tradizionali garanzie, sembrano frutto di una scelta consapevole,
funzionale a conciliare le posizioni restrizioniste di chi teme le conseguenze
socio-economiche dell’immigrazione, offrendo l’immagine più simbolica che
effettiva di una legge in grado di contenere gli arrivi, con quelle favorevoli a
conservare la tradizionale libertà di movimento per agevolare il commercio e
il libero mercato37.
3. Il welfare state in pericolo
Gli esempi paradigmatici di Stati Uniti e Inghilterra descrivono logiche che
sono riscontrabili anche in molti altri paesi. La costruzione retorica, e quindi
di conseguenza politica e giuridica, dell’immigrazione come un ‘problema’
fa leva costantemente sulla paura di una crisi economica e occupazionale: lo
si vede nella svolta delle politiche migratorie in Argentina, che dalla costituzionalizzazione degli aiuti all’immigrazione a metà Ottocento38 arriva poi
all’emanazione di leggi restrittive ad inizio Novecento, motivate dalla paura
35 Secondo la legge (Sect. 1.3.(a-d)) sono undesirable: le persone che non sono in grado di dimostrare di potersi procurare il necessario per mantenere decentemente se stessi e le loro famiglie; lunatici, idioti, o chi ha altre malattie che fanno presumere che possa diventare un peso per la società; i
condannati in un paese con cui esiste un accordo di estradizione purché non si tratti di reati politici; se
è emanato un ordine di espulsione previsto dalla Sect. 3 della legge stessa.
36 La prima (Sect. 3.1.(a)(i)) si verifica quando il Secretary of State o una corte, anche di sommaria
giurisdizione, certificano che lo straniero è stato condannato dalla stessa corte per un reato grave, per
una contravvenzione o per ogni altra offesa per la quale la corte può imporre la reclusione; tale ordine
di espulsione può aggiungersi o sostituirsi alla condanna. La seconda circostanza, più problematica,
si verifica quando il Secretary of State o una corte di giurisdizione sommaria certificano, entro dodici
mesi dall’ingresso dello straniero nel paese, che questi, nei tre mesi precedenti all’indagine, ha ricevuto
sostegno economico da una parrocchia, è stato visto vagare senza mezzi di sostentamento o è vissuto
in condizioni insalubri a causa di sovraffollamento (Sect. 3.1.(b)(i)), oppure è entrato nel Regno Unito
dopo l’entrata in vigore della legge ed è stato condannato da un paese straniero con cui esiste un accordo di estradizione per un reato di natura non politica (Sect. 3.1.(b)(ii)). Cfr. H.S.Q. Henriques, The
Law of Aliens and Naturalization Including the Text of the Aliens Act 1905, London, Butterworth
& Co., 1906, pp. 159-164; N.W. Sibley, A. Elias, The Aliens Act and the Right of Asylum, London,
William Clowes & Sons, 1906. La legge prevede, inoltre, la possibilità della detenzione amministrativa
dello straniero fatto sbarcare condizionalmente in attesa di accertare i requisiti d’ammissione, di quello
nei confronti del quale è stato emesso un ordine di espulsione in attesa di esecuzione, e di quello nei
confronti del quale la corte ha emesso una certificazione ai sensi della Sect. 3.1.(b)(i): sui profili critici
di tale misura rinvio a M. Pifferi, L’espulsione e la detenzione dello straniero tra Otto e Novecento,
«Quaderni Costituzionali», 36, 4, 2016, pp. 851-853.
37 In questo senso cfr. H. Wray, The Aliens Act 1905 and the Immigration Dilemma, «Journal of
Law and Society», 33, 2006, pp. 302-323.
38 Cfr. gli artt. 20 e 25 della Costituzione del 1853.
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
191
della diffusione dell’anarchismo, delle lotte sindacali e del conflitto di classe e sostenute da teorie criminologiche di stampo positivistico39. Lo si vede,
però, anche nell’esperienza storica di inizio Novecento di alcuni paesi europei,
nei quali l’ingresso di consistenti gruppi di stranieri genera un sentimento di
paura motivata da differenti ragioni (religiose, etnico-nazionalistiche, sociali),
ma comunque sempre rafforzato e costruito sui rischi economico-sociali della
competizione salariale tra immigrati e nativi e sul timore di un abbassamento
del livello di benessere40.
Scrive Cornelli, rileggendo Bourdieau, che l’odierno «progetto di “cittadinanza esclusiva”» è spiegabile con la crisi del modello di stato sociale di
inizio Novecento: mentre, ad inizio del secolo scorso, lo Stato aveva esteso le
protezioni sociali e i diritti garantiti, «il recente incrocio tra la crisi del welfare
e l’urgenza della questione migratoria ha riportato il baricentro delle politiche
sulla tutela dell’ordine pubblico, ed è proprio il timore di perdere la propria
condizione di benessere, ridotto sempre più in termini di incolumità personale, a riproporre il trade-off tra libertà e sicurezza attraverso l’esclusione degli
ultimi arrivati»41. La ricerca storico-giuridica sembra offrire, tuttavia, un quadro più complesso, nel quale lo stato sociale non succede cronologicamente
allo stato liberale, né si contrappone contenutisticamente ad esso, ma può
essere inteso «come una strategia interna alla governamentalità liberale»42.
Anche nell’apogeo welfarista l’immigrazione di massa ha sempre rappresentato un problema, anzi, era forse il suo campo di tensione più irriducibile che ne
svelava tutte le intrinseche contraddizioni43: pensato per disciplinare in modo
diverso e armonico il rapporto tra libertà e sicurezza, tra libero mercato e
tutele dei lavoratori, il welfare state era però misurato sui cittadini, calibrato
su grandezze macro-economiche delimitate dai confini nazionali. L’irrompere
entro tali confini di masse di lavoratori stranieri in cerca di occupazione a bas-
39 Sul caso argentino cfr., ad es., F. Rotondo, Italiani d’Argentina. Dall’accoglienza alla
difesa sociale (1853-1910), «Historia et Ius», 12, 2017, paper 13, <http://www.historiaetius.eu/
uploads/5/9/4/8/5948821/rotondo_12.pdf>, maggio 2019, pp. 1-40; D.S. Castro, The Development
and Politics of Argentine Immigration Policy 1852-1914, San Francisco, Mellen Research University
Press, 1991, specie pp. 187 ss.
40 Cfr. in questo senso L. Lucassen, The Immigrant Threat. The Integration of Old and New
Migrants in Western Europe since 1850, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 2005, che esamina
i casi degli immigrati irlandesi in Inghilterra, dei polacchi in Germania e degli italiani in Francia.
41 Cornelli, La politica della paura cit., p. 252.
42 Il riferimento è alla rilettura ‘foucoultiana’ dello stato sociale offerta da P. Costa, Lo stato sociale come problema storiografico, «Quaderni fiorentini», 46, 2017, I, pp. 41-102 (cit. p. 87); cfr. anche
D. Garland, The Welfare State. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2016.
43 Ho cercato di sviluppare queste riflessioni in M. Pifferi, Ius peregrinandi e contraddizioni dell’età
liberale. Qualche riflessione sulla “falsa” libertà di migrare in Italia e negli Stati Uniti, in Meccarelli,
Palchetti, Sotis (a cura di), Ius peregrinandi cit., pp. 255-275.
192
MICHELE PIFFERI
so costo, a forte rischio povertà e potenzialmente in grado di rivendicare quei
diritti sociali su cui si reggeva il delicato equilibrio tra diverse classi, scatena
la paura di una crisi economica, il timore di un impoverimento della classe dei
lavoratori-cittadini, lo spettro di una lotta demografica tra nativi e immigrati,
l’incubo di un’invasione che minaccia l’identità culturale, razziale, religiosa
dei paesi ospitanti.
4. Suicidio della razza e criminalità degli immigrati: le costanti retoriche
della paura
I linguaggi, le pratiche sociali, le opzioni politiche e gli strumenti giuridici
in cui queste paure prendono forma sembrano, anch’essi, ripetersi storicamente. Penso, in particolare, alla traduzione della paura dell’immigrazione in
termini di conflitto razziale ed al processo di criminalizzazione dei migranti
come (immaginario) strumento di difesa della sicurezza pubblica.
Con riferimento al primo tema, gli Stati Uniti sono, ancora una volta, un
caso esemplare. The Great Fear of the Period: That Uncle Sam May Be Swallowed by Foreigners è il titolo di un’illustrazione pubblicata da un editore di
San Francisco tra il 1860 e il 1869, nella quale è rappresentata la paura che
l’identità americana sia ingoiata dagli stranieri non assimilabili perché troppo
diversi, culturalmente e biologicamente44. Un irlandese ed un cinese, archetipi
di immigrati non desiderabili, prima divorano lo Zio Sam e poi si amalgamano in un soggetto ibrido che non presenta però più alcun tratto di americanità:
il problema è risolto, recita ironicamente la didascalia, nell’annientamento
della vera, tipica, cittadinanza americana, le cui componenti, tuttavia, non sono ancora precisate ed anzi si formeranno negli anni successivi proprio attraverso un processo di definizione identitaria per contrapposizione agli stranieri
da escludere e respingere45. L’idea che gli immigrati stiano per soppiantare
44 The Great Fear of the Period: That Uncle Sam May Be Swallowed by Foreigners, San Francisco:
White & Bauer, between 1860 and 1869 [Fig. 3]; per un commento di altri cartoons in tema d’immigrazione, rinvio a M. Pifferi, Diritto individuale o pericolo sociale? Scienza giuridica ed emigrazione tra
Otto e Novecento, in A.C. Amato Mangiamieli, L. Daniele, M.R. Di Simone, E. Turco Bulgherini (a
cura di), Immigrazione marginalizzazione integrazione, Torino, Giappichelli, 2018, pp. 36-56.
45 Gli Immigration Acts che si susseguono dal 1875 al 1924 estendono le categorie degli undesirable
aliens, trasformando in norme, regole di ammissibilità e condizioni di rimpatrio l’idea che il melting
pot non possa più funzionare nei confronti di tutti. I provvedimenti escludono via via l’ammissibilità
dell’ingresso (per ragioni economiche, condizioni mentali, problemi fisici, orientamenti politici o
inclinazioni morali) di prostitute e criminali, poveri, lunatici, idioti, epilettici, imbecilli, feeble-minded
persons, coloro che probabilmente diventeranno un peso sociale, lavoratori a contratto, poligami,
ammalati di una pericolosa malattia contagiosa, anarchici, comunisti, mendicanti di professione, minori
di sedici anni non accompagnati dai genitori, analfabeti e altri ancora. Cfr., per un elenco dettagliato,
C.C. Foster, The Development of the United States Immigration Law Selection System and the
Immigration Bar, «Houston Journal of International Law», 5, 1983, specie pp. 193-202.
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
193
Fig. 3
il ceppo etnico nativo si diffonde nella cultura statunitense. Fin dagli anni
Sessanta dell’Ottocento, sostiene Hunter, l’American type si è distinto dai
tipi europei, è superiore fisicamente e mentalmente, perché la popolazione
americana ha vissuto libera da guerre importanti per decenni, non ha subito
poteri oppressivi, ha goduto di un’uguaglianza di opportunità senza pari e
non ha sostanzialmente conosciuto la povertà. È naturale, dunque, che molti
guardino «with apprehension upon the great hordes of foreign immigrants
from eastern Europe, Asia and southern Italy, because they are convinced
that the American type is surely degenerating in consequence»46. Il più grave
46
114.
R. Hunter, Immigration the Annihilator of Our Native Stock, «The Commons», 9, 1904, p.
194
MICHELE PIFFERI
effetto dell’immigrazione è «the annihilation, which is progressively taking
place, of the native stock of the country», poiché, a differenza di quanto si
sosteneva nella fase dell’open door policy, gli immigrati non sono «additional
inhabitants», ma «their coming displaces the native stock»47: una «unlimited
immigration» conduce al «race suicide», mettendo a repentaglio tutte quelle
caratteristiche nazionali che hanno distinto gli Stati Uniti dagli altri paesi,
«our love of freedom, our religion, our inventive faculties, our standard of
life»48. Anche in questo, conta poco che il discorso sul suicidio della razza
americana non abbia un riscontro statistico effettivo e si fondi su dati falsati49:
non serve a proporre soluzioni per una migliore gestione del fenomeno migratorio, ma a generare ed alimentare il sentimento di paura su cui è possibile
fondare le politiche restrizioniste e selettive degli ingressi.
Nell’unrestricted immigration viene individuata anche la causa del crescente numero di reati, poiché la società americana non è più in grado di ‘digerire’ l’orda di nuovi arrivi da tutta Europa. Il Congresso, attraverso decise
misure limitative degli ingressi, ha il dovere di preservare la nazione dal pericolo dell’immigrazione incontrollata e deve «enforce a discrimination as to
who shall be admitted into social and political fellowship»50. Secondo Boies,
portavoce di idee ormai largamente condivise, occorre introdurre criteri più
selettivi per la concessione della cittadinanza americana, prevenire fraudolente naturalizzazioni, elaborare politiche che insistano «upon a thorough and
complete Americanisation»51. La paura della contaminazione con tradizioni
47
Ivi, p. 115.
Ivi, p. 117.
49 Nello studio di V. Fouka, S. Mazumder, M. Tabellini, From Immigrants to Americans: Race
and Assimilation during the Great Migration, «HBS Working Paper Number: HBS Working Paper» n.
19-018, May 2018, <https://www.hbs.edu/faculty/Publication%20Files/19-018_b6563a83-4253-46ada437-a781894fecfe.pdf>, maggio 2019 si sostiene che la percezione di (certe categorie di) stranieri
immigrati varia in base ai momenti e alle condizioni sociali; in particolare, l’emigrazione interna di
afro-americani dagli stati del sud verso le città del nord-est, ha modificato la percezione degli immigrati
bianchi europei prima considerati non assimilabili, facendoli percepire come simili ai nativi rispetto
ai nuovi ‘estranei’ rappresentati dalla popolazione di colore. Cfr. anche R. Abramitzky, L. Platt
Boustan, K. Eriksson, A Nation of Immigrants: Assimilation and Economic Outcomes in the Age of
Mass Migration, «Journal of Political Economy», 122, 3, 2014, pp. 467-717; R. Abramitzky, L. Platt
Boustan, K. Eriksson, Cultural Assimilation during the Two Ages of Mass Migration, «NBER Working
Paper Series - Working Paper 22381», <http://www.nber.org/papers/w22381>, maggio 2019.
50 H.M. Boies, Prisoners and Paupers. A Study of the Abnormal Increase of Criminals, and the
Public Burden of Pauperism in the United States; the Causes and Remedies, New York, G.P. Putnam’s
Sons, 1893, p. 49, da dove è tratta anche l’immagine degli immigrati come “cibo indigesto”. Cfr.
anche A.B. Lewiston, The Alien Peril, «Metropolitan Magazine», 10 giugno 1904, pp. 279-292;
secondo R. Ferrari, Crime and Immigration, «Journal of the American Institute of Criminal Law and
Criminology», 4, 1913-1914, p. 540, vi è il rischio di dare alle «inferior races» una «political weapon»
come la cittadinanza, che non sanno usare e con la quale potrebbero distruggere le istituzioni; è, dunque,
necessario irrigidire i requisiti per la concessione dell’american citizenship e rinunciare all’utopia del
suffragio universale che si è rivelato «an expansive experiment and a ruinous failure».
51 Boies, Prisoners and Paupers cit., p. 60.
48
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
195
culturali diverse accentua la radicalizzazione, in alcuni casi l’invenzione, dei
“veri” valori del popolo americano, attraverso l’esaltazione di fattori identitari come la bandiera, la lingua inglese, la religione cristiana52. Non è più
realistico pensare ad una spontanea assimilazione degli immigrati perché sono ormai troppi e troppo diversi tra loro; occorrono, allora, strumenti che
favoriscano l’apprendimento dei valori dell’“americanismo”, uniti a controlli
sulla capacità di diventare good citizens. L’integrazione deve avvenire senza
mettere in pericolo la democrazia americana. In realtà, però, la paura percepita e fomentata dalla stampa non trova corrispondenza nella situazione
reale: le valutazioni sui numeri dei detenuti partono da dati falsi o falsificati,
le percentuali dei condannati immigrati sono artificialmente gonfiate, le statistiche riportate non si basano su un’effettiva conoscenza del fenomeno. Chi
si approccia con metodo corretto al problema, confrontandosi con le cifre
vere della popolazione carceraria, non può non denunciare lo scarto esistente
tra l’infondato sentimento popolare e l’oggettività dei numeri, che rivelano
posizioni «contrary to the popular impressions, and contrary to the apparent
showing of the census on a superficial view»53.
Il rapporto della Dillingham Commission, istituita nel 1907 dal Congresso
per svolgere una «full inquiry, examination, and investigation […] into the
subject of immigration»54, afferma chiaramente che «no satisfactory evidence
has yet been produced to show that immigration has resulted in an increase in
crime disproportionate to the increase in adult population»55. Le statistiche,
al contrario, rivelano che gli immigrati sono «less prone to commit crime than
are native Americans»56: se è possibile riscontrare una più diffusa delinquenza
giovanile tra gli aliens, è provato anche che la seconda generazione tende a
commettere tipologie di crimini diverse da quelle dei genitori e ad uniformarsi
alla criminalità dei nativi57. Nonostante la lacunosità dei dati raccolti renda
«largely conjectural»58 ogni interpretazione dei nessi tra immigrazione e cri52 La critica è diretta ai gruppi di immigrati che rivendicano «the right to retain their native
language, and to organize their churches, schools, and society in their native manner, after their native
traditions». Ibidem.
53 H.H. Hart, Immigration and Crime, «The American Journal of Sociology», 2, 1896, p. 370;
cauto anche H.P. Fairchild, Immigration cit., p. 331, che riconosce l’«utter inadequacy of the data for
making any deductions as to the influence of immigration upon crime in the United States».
54 An Act to regulate the immigration of aliens into the U.S., 20 febbraio 1907, 34 Stat. 898,
Chap. 1134, sec. 39 (p. 909). Sul lavoro della commissione, cfr. R.F. Zeidel, Immigrants, Progressives,
and Exclusion Politics. The Dillingham Commission, 1900-1927, DeKalb, Northern Illinois University
Press, 2004; K. Benton-Cohen, Inventing the Immigration Problem. The Dillingham Commission and
Its Legacy, Cambridge, Harvard University Press, 2018.
55 Reports of the United States Immigration Commission (1907-1910), vol. 36, Immigration and
Crime, (Senate Document No. 750, 61st Cong., 3rd sess.), Washington, 1911, p. 1.
56 Ibidem.
57 Ivi, p. 14.
58 Ivi, p. 1: mancano, infatti, notizie che incrocino in modo comparato i dati sull’età, il sesso, la
196
MICHELE PIFFERI
minalità, resta indimostrato l’argomento restrizionista fondato sulla paura
securitaria59. Altri, più complessi, problemi sono quelli legati alla diversa tipologia dei reati prevalentemente commessi da immigrati (violenza personale
e delitti contro l’ordine pubblico, mentre i reati contro il patrimonio continuano ad essere perpetrati perlopiù da nativi60), delle cultural offences rispetto
alle quali l’apparato della giustizia americana è ancora sprovvisto di adeguati
metodi conoscitivi e di opportune misure di contrasto o correzione61, della
diffusione di modelli di criminalità organizzata ignoti alle forze dell’ordine
statunitensi che vanno conosciuti e poi contrastati con nuovi e più efficaci
strumenti repressivi62. Questi ultimi approcci critici emergono lentamente nel
secondo decennio del Novecento soprattutto grazie al contributo dell’American Institute of Criminal Law and Criminology63, ma servono a ben poco nel
controbattere l’infondata ma diffusa convinzione che gli stranieri rappresentino un grave rischio per l’ordinata e tranquilla società americana.
Nell’indagare, oggi, quali sono le cause o i meccanismi che orientano le
politiche della paura, Cornelli sottolinea che «non è mai il fatto in sé a spingere ad agire politicamente ma come viene costruita e veicolata l’inquietudine, a quali urgenze culturali, economiche e sociali si salda, quali interessi
intercetta, quali condizioni trova per esprimersi»64. Una conferma a questa
affermazione viene dallo studio storico-giuridico dello ius migrandi di cui si
è cercato qui di offrire qualche spunto. L’immigrazione ‘di massa’, ovvero
il fenomeno considerato non come scelta individuale ma come movimento
di gruppi, è da sempre considerata problematica, pericolosa, destabilizzante:
razza dei criminali stranieri o americani con la tipologia di offese commesse in un certo periodo.
59 Cfr. anche I.A. Hourwich, Immigration and Crime, «The American Journal of Sociology», 17,
1912, pp. 478-490.
60 Cfr. Reports of the United States Immigration Commission (1907-1910), p. 2.
61 Cfr. ad es. G. Abbott, Immigration and Crime. Report of Committee “G” of the Institute,
«Journal of the American Institute of Criminal Law and Criminology», 6, 1915-1916, pp. 522-532:
«Crimes and misdemeanors are frequently committed by immigrants in entire ignorance of the law,
because of an adherence to national customs which, innocent in a rural district, are dangerous in the city
and have therefore been prohibited» (cit. pp. 528-529); G.C. Speranza, Crime and Immigration. Report
of Committee “G” of the Institute, «Journal of the American Institute of Criminal Law and Criminology», 4, 1913-1914, pp. 523-527. Per più estese considerazioni sul tema rinvio a M. Pifferi, La doppia
negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento, in O. Giolo, M. Pifferi (a cura di), Diritto contro.
Meccanismi giuridici di esclusione dello straniero, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 64-72.
62 Sul punto cfr. A.C. Train, Courts, Criminals and the Camorra, New York, C. Scribner’s sons,
1912.
63 Sul ruolo dell’istituto nello studio dei rapporti tra immigrazione e criminalità, mi permetto di
rinviare a M. Pifferi, Il Journal of the American Institute of Criminal Law and Criminology e il riformismo della criminologia americana ad inizio Novecento, in L. Lacchè, M. Stronati (a cura di), Una
‘tribuna’ per le scienze criminali. La cultura delle Riviste nel dibattito penalistico tra Otto e Novecento,
Macerata, eum, 2012, in particolare pp. 280-281.
64 Cornelli, La politica della paura cit., p. 245.
PAURE DELLO STRANIERO E CONTROLLO DEI CONFINI. UNA PROSPETTIVA STORICO-GIURIDICA
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la paura che genera diviene strumento di un dibattito politico che di quella
paura si nutre, e che dunque non può essere semplicemente risolta ma deve
continuare ad essere alimentata. Il diritto vive di questa contraddizione: le
misure adottate per riportare sicurezza e tranquillità devono apparire efficaci,
ma possono non esserlo. Spesso incoerenti con l’assetto costituzionale delle
garanzie e delle libertà, le leggi sul controllo dei confini hanno bisogno della
paura per legittimare il loro carattere extra ordinem, derogatorio, eccezionale,
ed i contrappesi ordinamentali alle scelte sicuritarie del legislatore sono stati
in passato, come appaiono essere oggi, troppo deboli.