Tavola Rotonda conclusiva della Giornata di Studio
“L’incastellamento in Liguria X-XII secolo”
Rapallo, 26 aprile 1997
A cura di
Fabrizio Benente
Università degli Studi di Genova
Riccardo Francovich: Io vi assicuro che sarò brevissimo nelle mie conclusioni, anzi vi proporrei,
se siete d’accordo, di farmi dire due parole introduttive a questo dibattito, in modo che, se le parole
che vado a dire in forma conclusiva sono contestabili, diventeranno l’oggetto della discussione.
Io inizierei subito col ringraziare i nostri ospiti che ci hanno coperto di informazioni importanti,
quantitativamente rilevanti, ed anche nuove. Devo dire che, venendo qui, ad un incontro
sull’incastellamento, mi immaginavo di trovarmi di fronte alla discussione di un modello, del
modello di incastellamento toubertiano, infatti il termine incastellamento entra nella letteratura
storiografica proprio a seguito della forte presenza dell’ipotesi toubertiana di incastellamento, che lo
fa entrare nel nostro linguaggio, altrimenti si parlava di castelli di prima generazione, di seconda
generazione. Il termine incastellamento è, quindi, introdotto dalla storiografia francese.
Ma cosa dice il Toubert ? Dice che i castelli nascono tra X e XIII secolo per iniziativa dei
signori. Nascono su siti non abitati e vengono popolati con una operazione di ammassamentum
hominum, che esporta la gente dall’insediamento sparso di tradizione romana, li colloca all’interno
di questi castelli e inizia un quadro di politica di riorganizzazione fondiaria fondamentale. Nasce, in
questo modo, un’urbanistica di villaggio, grazie all’iniziativa ed al ruolo signorile.
Rispetto a questa ipotesi tutta storiografica, si sono avute delle ampie discussioni basate
sull’interpretazione di una serie di evidenze archeologiche, soprattutto nell’ Italia centrale. Il
modello presentato da Toubert è fortissimo dal punto di vista interpretativo, è veramente l’unico
grande modello; io credo che la sua contestazione, che emerge, anche in modo sostanziale, dagli
interventi di questa giornata, ha trovato dei momenti di critica soprattutto nel lavoro che abbiamo
svolto nell’ambito dell’Italia centrale. Noi non abbiamo contestato il ruolo dei Signori nella
riorganizzazione delle campagne, della struttura agraria, ma abbiamo detto che i castelli non
nascono su aree non abitate, nascono su aree precedentemente popolate. Quando nasce la crisi del
sistema insediativo romano e tardoromano si ha uno spostamento della popolazione, tutti i castelli
che noi abbiamo scavato oblitarano, tranne rare eccezioni, un insediamento che è altrettanto esteso
come il villaggio fortificato che si sviluppa per iniziativa signorile; questo è un dato essenziale.
Mi pare di capire che la stessa cosa succede in una parte della Liguria, ma in una parte
soltanto. Mi pare che il modello che è stato costruito per alcune parti della Lunigiana ed alcune parti
del Levante Ligure, con i lavori di Mannoni, vada sostanzialmente in questa direzione. Nel caso di
Filattiera, sebbene leggermente smagliato rispetto ad un singolo sito, l’insediamento, il campo
fortificato, il castello vecchio e lo spostamento feudale nel San Giorgio, ci danno una continuità
dell’insediamento che, in alcuni casi, è verticale e non si sposta.
Il caso di Monte Castello, al centro di discussione, non si capisce per quale motivo, mi pare
un modello invece estremamente possibile e serio, affidabile dal punto di vista archeologico; è un
modello che va esattamente in questa direzione, cioè l’iniziativa signorile fra X e XI secolo si va a
sovrapporre ad una situazione di precedente popolamento, nella quale vi è il ruolo probabilmente
spontaneo della popolazione agricola.
Si è avuta anche, probabilmente, una gerarchizzazione, nel lungo periodo, come è stato
verificato archeologicamente, quindi un modello sostanzialmente omogeneo ad una buona parte
dell’Italia centrale. Il modello, viceversa, che riscontriamo nella parte centrale della Liguria, e mi
pare di capire, nella parte orientale, di cui ci ha parlato Benente, ed anche quelli presentati da
Varaldo.... (non registrato). Andora, addirittura, ha un gap fra VI e X secolo. Benente ci presenta
una situazione nella quale l’insediamento incastellato di iniziativa signorile non scuote le forme del
popolamento precedente. Mi pare allora, che si ponga un problema serio di discussione complessivo
delle forme di popolamento altomedievale. Io credo che questo aspetto vada indagato, insieme alla
discussione dei modelli dei castelli che vivono e sopravvivono, le diverse tipologie dei castelli, che
ci sono state così ben illustrate: il castello a controllo della viabilità, il castello che riorganizza le
strutture del mondo agrario, il castello che controlla traffici e commerci nei suoi porti.
Accanto a queste pluralità di forme di castello, che hanno anche delle forme iniziali e
originali, si pone il problema dello studio delle forme di insediamento altomedievale. Questo mi
sembra un punto assolutamente centrale, e in questo senso, allora io pongo delle domande:
l’archeologia globale, che è un modello per la comprensione delle società che sono fortemente
strutturate, cioè delle forme materiali delle organizzazioni sociali strutturate, forse ha bisogno di
una serie di approfondimenti di “ tipo stratigrafico “ su quelle aree di popolamento che persistono
insieme alle forme dell’insediamento incastellato.
Questo mi sembra uno dei problemi centrali e le domande e i modelli storiografici che
stanno a monte del lavoro archeologico, devono offrirci gli strumenti per pianificare una ricerca
archeologica che non necessariamente vada a confermare o smentire modelli già noti, ma che
formi un suo modello autonomo che poi si confronta con il modello storiografico. Io sono
preoccupatissimo quando si ha questa tendenza a flettere l’informazione archeologica rispetto al
modello storiografico, io credo che gli archeologi debbano costruire un modello autonomo rispetto
al modello storiografico. Come mai Molassana, che viene attestata nel X secolo, come ci ricorda il
Prof. Pavoni, non ha un riscontro a livello di cultura materiale di X secolo ? Esiste un logica, come
dire, autonoma e perversa per le fonti scritte e per le fonti materiali che seguono logiche
assolutamente autonome di conservazione. Noi dobbiamo lavorare su dati quantitativi significativi
per costruire queste modelizzazioni che poi vanno messe a confronto per spiegare un fenomeno così
complesso, cioè il fenomeno dell’incastellamento. Quest'ultimo, a mio avviso, è il più grosso
cambiamento che si verifica nell’area mediterraneo-europea in tutte le epoche: cioè il passaggio da
una civiltà di pianura ad una civiltà di “sommità”, che è quella che poi rimane per lunghissimo
tempo e, in alcuni casi, rioccupa le forme dell’insediamento preromano che però era
quantitativamente meno rilevante.
Quindi, mi pare che, il caso ligure sia un caso di una ricchezza straordinaria perché è
possibile verificare una serie di modelli che sono, in qualche modo, fino a questo momento,
conflittuali tra di loro. Dov’è questo confine fra il persistere dell’insediamento rurale che inizia nel
VI-VII secolo in poi, e quelle aree dove l’insediamento è sparso e dove l’incastellamento si colloca
in una forma autonoma? Questi sono interrogativi a cui può rispondere, e ciò è chiarissimo, soltanto
una ricerca archeologica mirata. Io non so se con queste mie affermazioni ho deviato rispetto ai
punti centrali del convegno, certo non si può discutere di tutti i temi oggi trattati.
Colette Bozzo Dufour: Quale rappresentante degli storici dell’arte sono, decisamente, in una
posizione modesta, in questo consesso. Io ho apprezzato le ricerche condotte in Liguria dalla
Soprintendenza e dall’Istituto di Studi Liguri e le novità concrete che ne sono derivate e sulla cui
base si può lavorare. Noi storici dell’arte siamo accusati di non essere concreti, forse non è proprio
così o almeno non è così per tutti.
Noi partiamo dai dati archeologici: più sono aggiornati metodologicamente meglio è. Oggi
si è dato un esempio, per quanto ho potuto sentire, notevole di questa articolazione e di questo tipo
di approccio. Io pongo solo un quesito: l’architettura è un’articolazione dello spazio: spazio interno
definito da murature, spazio esterno definito dalla scala con cui si legge questa architettura, che può
essere scala di tipo minore o maggiore. I castelli, in particolare, si pongono in una scala ampia ed
interessante che è la scala paesistica. Quindi nello studiare un castello, l’ubicazione è fondamentale,
ma va rapportata, quanto a scale, al proprio territorio; territorio che può essere definito
morfologicamente e storicamente.
A questo punto la ricerca degli spazi è una ricerca che ancora l’archeologia non ha
considerato ed è un peccato, perché ci si occupa della struttura esterna, si è arrivati a studi
sofisticatissimi sulle murature, che consentono l'acquisizione di dati storici precisissimi, ma come
sono articolati questi spazi ? Così come c’è una storia delle murature c’è anche una storia degli
spazi; prendiamo, ad esempio, le coperture e le articolazioni delle volte. Dove questa storia degli
spazi è stata fatta e mi riferisco, ad esempio, all’opera di Cadei per i castelli federiciani e dove è
stata scoperta l’importanza di una cultura architettonica armena, che ancora non si conosceva e che
pure le fonti citavano, ebbene là è uscito molto di più.
Qui siamo in una fase preliminare, io capisco che quando c’è un rudere è impossibile creare
uno spazio, ma cercare di fare delle proiezioni in modo di restituire l’immagine più verosimile
possibile degli spazi che diano un ulteriore informazione e fare un’archeologia dello spazio che sia
tridimensionale non bidimensionale, come quella che può essere l’archeologia di una muratura, mi
sembra che potrebbe essere un’apertura che, forse, potrebbe dare nuove informazioni.
Inoltre, il castello è proprio tipico della gestione del suolo, sia esso possesso diretto, sia esso
a livello, sia esso qualsiasi altra forma di affidamento. Quindi se c’è qualcosa che segna, che
illustra il potere è proprio il castello, accanto ad altre manifestazioni architettoniche, ma il castello
per sua natura è comunque l'immagine del potere. Questa immagine tridimensionale del castello
non interessa ancora, forse perché è difficile recuperarla, ma se nell’ambito dell’archeologia si
finalizza il recupero dell’immagine anche con sistemi di proiezione computerizzati, io penso possa
essere utile e possa ravvicinare finalmente gli storici dell’arte agli storici e agli archeologi senza
nessuna diatriba e con dignità di cittadinanza per ogni disciplina che mantiene la propria identità
all’interno di una comunità.
Concludo dicendo che da qui arriva la funzione dell’immagine architettonica che, nel caso
del castello, è ovviamente celebrativa, ma ci sono tantissime forme di celebrazione e anche questo è
un senso, un contenuto che in fondo il castello veicola.
Riccardo Francovich: Io credo che l’uso dell’informatica possa, in qualche modo, servire a
ricomporre i diversi saperi, il sapere storico, quello storico-artistico e il sapere archeologico. Io
credo che, in realtà, la storia sia una sintesi, altrimenti rimaniamo all’interno delle nostre specialità.
Romeo Pavoni: Mi sembra che la storia debba essere necessariamente una storia integrale, cioè
tenere conto di tutti gli apporti disciplinari, perché, altrimenti, il risultato non potrà che essere
parziale. Il problema è costituito, a questo riguardo, dai livelli raggiunti dalle varie discipline, cioè
se questi livelli sono più o meno omogenei. Se non c’è omogeneità nella maturazione delle varie
discipline, non si possono neanche integrare i risultati relativi. Un altro aspetto, che mi sembra da
sottolineare, è quello che è stato detto all’inizio, certamente il modello di Toubert può andare bene,
ma il suo modello è uno dei tanti, che ha la sua validità perché è stato riscontrato in una particolare
area geografica, e lì funziona, ma quando si tratta di applicarlo altrove il discorso diventa
problematico. Quindi è ovvio che ci sono vari modelli e per individuarne altri occorre un lavoro di
approfondimento locale, cioè prima di trarre delle conclusioni generalizzanti occorre una indagine
locale che accerti dove ci sono delle analogie, dove ci sono delle differenze, il grado di analogia ed
il grado di differenza rispetto al modello già esistente, che, in fondo, è il modello laziale e vedere
poi se questo modello è esportabile.
Abbiamo visto come quest’ultimo, in alcune zone della Liguria, può essere assimilabile alla
zona studiata dal Toubert, ma in altre no, e quindi bisogna vedere, anche spazialmente, quanto sia
applicabile in altre aree geografiche. Quindi si tratta di elaborare più modelli, ma non astrattamente
per il piacere della teoria, ma elaborarli partendo dall’esame concreto della realtà dell’indagine,
indagine che, tornando a ciò che ho detto prima, dovrebbe essere il più possibile integrale ed
interdisciplinare.
Si pone un altro problema: le varie discipline, pur collaborando, dovrebbero avere una
propria autonomia, ma questo è uno dei temi a cui si è già accennato; per cui l’archeologia deve
elaborare i propri moduli senza essere condizionata dalle conclusioni elaborate altrove dagli storici
o viceversa. Però questa operazione non è sempre possibile, almeno a livello attuale, perché , se noi
prendiamo l’altomedioevo del Ponente ligure, per un periodo che va dal VI fino al secolo X- XI,
avremo, si e no, dieci documenti; quindi noi dobbiamo, per fornire un modello non archeologico,
ma storico, prima di elaborarlo ricorrere all’apporto di altre discipline che potranno essere
l’archeologia, la storia dell’arte, la glottologia, la toponomastica, l’onomastica, ma non siamo in
grado, sulla base della documentazione scritta, di elaborare un modello autonomo che possa poi
integrarsi con quello di altre discipline.
Un altro problema, anche se di minore rilievo, è che non dobbiamo dimenticare, quando si
parla di continuità di insediamento o di cesura, che bisognerebbe immedesimarci nella realtà di
allora, che poteva essere completamente diversa. Infatti, quando vedo le immagini del castello di
Orco, che è un sito piccolo e ridotto, mi colpisce il fatto che dal documento di Federico I sembra
uno dei centri più importanti dell’area savonese, assieme a Pia e Perti. Invece in fotografia sembra
una fortezza insignificante, non solo, ma in un trattato internazionale, quello di pace tra i Marchesi
ed il Comune di Noli, è prevista proprio una clausola che si riferisce alla cessazione delle ostilità
degli uomini di Pia, Perti ed Orco, allora le possibilità sono due: o quest’ultimi contavano molto di
più di quanto non sembri dalle fotografie o la scala di valutazione dell’importanza di un castello è
diversa da quella che noi abbiamo oggi. Noi possiamo considerare anche la differenza demografica
che c’è stata nel passaggio dall’alto al basso medioevo, prima ancora alla crisi demografica
dell’Impero Romano. Dobbiamo quindi pensare che se, ai giorni nostri, possiamo considerare una
battaglia di 5000 uomini come una semplice scaramuccia, in realtà durante la guerra greco-gotica,
5000 uomini potevano costituire un vero esercito, quindi la scala numerica è completamente
stravolta. E con ciò ho terminato.
Giovanni Murialdo: Questa mattina, nell’introduzione al tema dell’incastellamento oggetto di
questo convegno, Fabrizio Benente ha menzionato un concetto critico espresso in passato, che mi è
particolarmente caro e che, in un certo senso, è riaffiorato nelle considerazioni del Prof. Pavoni.
Ritorniamo al concetto del castello che non può essere “decontestualizzato”. Non possiamo, infatti,
soprattutto nella fase attuale e futura della ricerca, misurare unicamente il castello nella sua struttura
materiale, in particolare per quanto riguarda i castelli di X-XI secolo, ma anche per quelli
successivi. Essi vanno sempre letti non solo sotto il profilo funzionale riguardante la loro
destinazione, con i relativi aspetti di tipo strutturale, e la loro ragione d’essere, ma essi vanno
inseriti nell’ambito del territorio al quale appartengono, col quale intessono un rapporto per il quale
può essere fuorviante l’attribuzione di un semplice -e semplicistico- ruolo di controllo di vie di
comunicazione, o, in Liguria, di valli perpendicolari alla linea costiera in relazione con l’oltregiogo.
Un castello può essere anche di piccole dimensioni e sprovvisto di più o meno complesse strutture
di difesa, non importa; conta il suo ruolo, spesso desumibile dalla documentazione scritta come
parte integrante di uno studio del territorio attuato con i criteri dell’”archeologia globale”. Non
conta solo come è fatto il castello, di quali murature è dotato, quante torri ha, conta quello che è il
suo impatto sull’area circostante in un determinato momento e l’interazione che esiste col territorio
che gravita intorno ad esso. Nonostante che l’analisi stratigrafica e archeometrica, finora peraltro
attuata in Liguria solo in un numero limitato di casi, costituisca una fase fondamentale per la
definizione delle strutture fortificate nella loro cronologia ed evoluzione diacronica, essa deve
costituire una fase preliminare utile alla comprensione dell’interazione tra castello e territorio,
connessa all’esercizio del potere e sicuramente più complessa rispetto a quella semplicemente
militare. Occorre ridimensionare il concetto di studio del castello come opera fine a se stessa, così
radicato in noi, anche per la prioritaria attenzione che ha finora ricevuto negli anni passati la
struttura materiale, la struttura architettonica del castello rispetto all’interazione con le dinamiche
territoriali. In questo convegno, abbiamo visto tutta una serie di esempi che ci dimostrano come
esista una incerta correlazione tra i connotati materiali delle strutture fortificate ed il loro effettivo
ruolo nelle diverse fasi tra la tarda antichità ed il medioevo. Nel periodo di apparente massima crisi
delle strutture fondiarie, viarie, urbane di epoca romana, troviamo un castello, come quello di
S.Antonino di Perti, che presenta uno sviluppo murario di circa 120 metri ed è sproporzionatamente
grande rispetto a quella che noi pensiamo potesse essere la popolazione locale e le sue esigenze di
difesa. Il castello di Orco, invece, menzionato in un diploma imperiale del 1162, è un cocuzzolo di
un’altura dove non sono presenti cinte murarie, eppure è menzionato, ripeto, in un diploma
imperiale tra i principali castra dell’area savonese. Questi castelli sui quali è imperniato il controllo
del territorio sono quindi in molti casi di piccole dimensioni, ma accanto ad essi troviamo castelli
con grandi cerchie murarie. Ho avuto recentemente il piacere, nell’ambito di una tesi di laurea in
archeologia, di esaminare il castello di Pomo, vicino a Quiliano. Si tratta di un grandissimo castello,
con recinti che racchiudono ampie superfici, ma che finora è in larga misura sfuggito ad una
approfondita valutazione critica, sebbene possieda una documentazione d’archivio molto
interessante, nella quale non soltanto vengono menzionate le vicende del castello stesso e chi ne
deteneva il controllo, ma che anche definisce il territorio e le strutture economiche agricole che
gravitavano su di esso.
A questo punto dobbiamo fare un’altra considerazione, e si tratta di una considerazione
metodologica: le risorse, innanzitutto umane e poi anche materiali, finanziarie, economiche, di cui
attualmente disponiamo dove dobbiamo indirizzarle? Dobbiamo, in questa fase, continuare a
scavare castelli oppure dobbiamo iniziare a conoscere più capillarmente ed in un modo più
sistematico, per le varie aree regionali o subregionali, il territorio e gli esempi che sono ancora
conservati o di nuova individuazione?
Riccardo Francovich: Io ringrazio il Prof. Murialdo per questo suo intervento perché ripropone un
problema essenziale che è quello della valutazione della risorsa archeologica a nostra disposizione.
Noi, in Toscana, abbiamo lanciato, da tre anni, un progetto sul censimento dei castelli toscani,
censimento che non è un semplice elenco, ma un'elaborazione di dati che sono assolutamente
impressionanti, perché abbiamo indicazione di circa tremila insediamenti fortificati, di cui circa
duemila abbandonati.
Credo che in Toscana si sia intervenuti su circa dodici castelli in cui in
un paio in forma estesa, in altri casi sono stati fatti interventi in piccolissima scala. Ciò vuol dire
mettersi nelle condizioni di valutare prima di intervenire; il lavoro a monte è prioritario. Questo è
un problema che ha posto questa mattina la Dott.ssa Spadea: ovvero questo lavoro ci serve non
soltanto per tutelare il patrimonio, infatti in Toscana abbiamo costruito una delle più grosse carte
archeologiche, in termini di migliaia di ettari, ma abbiamo anche creato uno strumento su cui poi
valutare e bilanciare l’intervento. Sui castelli, topograficamente individuati, noi possiamo far
convergere le informazioni topografiche e quelle storiche che sono ben schedate.
Per esempio, ci possiamo accorgere che la media della distanza tra un castello e l’altro,
nell’area della media collina toscana, è di 2,3 KM, e si va via via smagliando per arrivare ad un
massimo di 3,5 KM, nelle parti meridionali della Toscana. Ci accorgiamo, quindi, che se lavoriamo
insieme ai geografi, e non solo agli architetti, si realizza un lavoro quantitativamente rilevante, ma
che deve essere fatto.
Colette Bozzo Dufour : Se si prende in considerazione, già all’inizio, un progetto di questo tipo,
anche se ci sono delle discrepanze di livelli di conoscenza, si può impostare la ricerca in modo
estremamente completo e non lacunoso o parziale o monografico. Perché non si analizzano gli
spazi per esempio? Perché è impossibile ricostruirli? Non è vero, qualche volta è possibilissimo
quando si può, se non ci sono murature non si analizzano. Io devo ancora vedere una ricerca che
analizzi le strutture, gli spazi, le coperture. In fondo ci sono ancora dei ruderi con delle indicazioni.
Perché questi non vengono mai analizzati ?
Tiziano Mannoni: Giovanni Murialdo ha fatto vedere le ricostruzioni della torre bizantina, basate
su un minimo di elementi che sono però sicuri, per esempio le finestre ed i fori dei solai. Quindi,
quando sia possibile, una ricostruzione normalmente si fa: ricordo che l’ISCUM ha pubblicato
ricostruzioni in un periodo in cui venivano ancora considerate fantasie didattiche. Ma chi di noi,
qui, sa dire veramente come fosse fatto un insediamento rurale o fortificato dell’VIII-IX secolo?
Riusciamo a risalire al massimo al X secolo. Purtroppo non possiamo ancora ricostruire un
insediamento del periodo compreso tra il VII ed il X secolo, perché mancano sia le fonti descrittive,
sia le fonti archeologiche. Non abbiamo neppure la continuità cronotipologica della ceramica, e,
spesso, gli insediamenti sono stati realizzati con materiali molto deperibili; per cui anche le tracce si
sono conservate solo in qualche brano di sequenza stratigrafica sigillato da strutture più recenti.
Bisogna vedere se ci siano altri mezzi per colmare questa lacuna. Per esempio: per quanto riguarda
il toponimo castellione, problema a suo tempo attentamente studiato, posso dire che non conosco un
castellione che abbia dei ruderi, quindi ho l’impressione che si tratti di fortificazioni terragne o
lignee; ho il dubbio, cioè, che si tratti di una fortificazione arroccata la cui reale struttura ancora ci
sfugge. Se vogliamo fare una storia che abbracci tutta la problematica dell’incastellamento,
abbiamo bisogno di chiudere questo anello e quindi di avere nuovi dati, scavando integralmente, per
esempio, siti caratterizzati soltanto dal toponimo, ed adeguate morfologie.
Giovanni Murialdo: Penso che gli strumenti per datare contesti archeologici anteriori all’XI secolo
esistano, forse li usiamo poco e male. Ad esempio, in queste fasi, che noi datiamo con molta
difficoltà perchè vengono meno le sigillate africane e non sono ancora iniziate le ceramiche
importate, in queste fasi urbane ma soprattutto extraurbane- per extraurbane intendo aree rurali
fortificate o meno così come edifici religiosi con fasi occupazionali abitative altomedievali- quante
volte abbiamo fatto analisi in C14 o ottenuto altre datazioni assolute? Quasi mai: le poche volte in
cui analisi con C14 su livelli altomedievali sono state effettuate, come nei casi di Monte Castello e
del trave ligneo proveniente dall’area contigua alla chiesa di S.Paragorio di Noli scavata da
Alessandra Frondoni e datata all’VIII secolo, sono stati posti dei punti di riferimento sicuri, che
potranno fornire termini di confronto più precisi per una comprensione di fasi storiche attualmente
molto difficilmente definibili sotto il profilo archeologico.
Quindi noi abbiamo gli strumenti, ma non li usiamo sistematicamente per coprire con datazioni
assolute questo arco di tempo per il quale non appaiono idonee cronologie basate quasi
esclusivamente su tipologie ceramiche, in molti casi fondate su pochi reperti o rese incerte dalla
residualità dei materiali archeologici, tipica di siti multistratificati con fasi occupazionali di età
imperiale o tardoantica.
Riccardo Francovich: L’insediamento sparso altomedievale e dei secoli centrali dell’alto
medioevo, che si dice persistere in concomitanza di forme di incastellamento, mi pare che debba
essere ancora individuato. Questo è il dato sostanziale ed è per questo che io mi permetto di
sottolinearlo. Benente ha sottolineato questa discrasia fra l’insediamento signorile e l’insediamento
sparso; però quest’ultimo non si vede, allora c’è un equivoco nella lingua italiana e nell’uso
storiografico di questo termine.
Quando il mio amico Wickam sostiene che esiste
l’insediamento sparso, mi va benissimo, ma è un insediamento sparso agglomerato e d’altura. Noi
abbiamo mirato le campagne topografiche, la ricognizione di superficie, e da ciò risulta che la
continuità per la ceramica esiste, infatti a Montarrenti, ad esempio, è stata trovata ceramica del 700,
datata al C14. Abbiamo indirizzato la ricerca a cercare l’insediamento sparso, e di solito dovrebbe
essere di pianura o di collina, ma non lo troviamo. Quello che invece sta emergendo con chiarezza,
è che le forme insediative sparse sono sotto le forme vincenti di insediamento, questo è il punto
chiave, sostanziale, cioè il paesaggio attuale si va a formare nei secoli centrali dell’altomedioevo.
Dove si impianta l’insediamento rurale attuale esistono le forme di insediamento altomedievale, e
sono schiacciate da questo, bisogna scavarle attentamente.
Tiziano Mannoni: Infatti, a questo proposito, vediamo che i villaggi, posti a mezza costa
nell’Appennino, si trovano in Liguria, una volta su dieci, sopra alle tracce di insediamenti
tardoantichi, o romano-imperiali, i cosiddetti “insediamenti a tegoloni”. E’ chiaro che, se si trattasse
di un solo caso, si potrebbe dire che sia stato abbandonato e successivamente ripopolato; ma,
quando si verifichi molte volte, viene da pensare ad una continuità insediativa. La continuità è però
solo un’ipotesi interpretativa, perché non sappiamo come si presentassero nella loro fase intermedia,
tra i tegoloni e le prime case in muratura che sono addirittura del Quattrocento-Cinquecento. Non
sappiamo che cosa ci fosse in mezzo a queste due fasi, oppure troviamo soltanto dei paleosuoli che
non siamo in grado di datare archeologicamente, e di collegare a qualche precisa funzione.
Quindi, il problema è che gli strumenti dell’archeometria vengono bene quando si abbia una
qualche struttura da datare. Il battistero ambrosiano di Milano è stato sistemato, in questi ultimi
mesi, utilizzando termoluminescenza e C14, poiché non era più possibile farlo con la stratigrafia del
sottosuolo. Il castello Aghinolfi, il torrione famoso che tutti pensavamo, in base alla tecnica
muraria, che fosse più tardo, invece si è rivelato del X-XI secolo, in base alle datazioni con il C14,
così come è stato possibile datare il focolare della “caserma” bizantina della fortificazione di Monte
Castello in Lunigiana, in relativa scarsità di reperti mobili. Il problema sussiste, invece, quando si
tratti di tracce di un insediamento ubicato in aperta campagna, o tra le fondazioni di edifici
tardomedievali non riconducibili a strutture vere e proprie: non conviene in genere datare, con una
tecnica così costosa, materiali che non abbiano riferimenti funzionali ben precisi.
Maria Luisa Ceccarelli Lemut: Io vorrei fare un altro tipo di discorso, da storica, ovviamente
sono perfettamente convinta della necessità, avendola sperimentata, della collaborazione tra storia,
archeologia, ma non solo, direi anche toponomastica, storia dell’arte ed altre scienze. Però ciò che
volevo dire riguardava temi propriamente storiografici, ossia un aspetto che è in parte venuto alla
luce in queste relazioni e che mi sembra dovrebbe essere tenuto presente: il tema della Signoria: Il
ruolo del castello nella formazione della Signoria.
In Liguria, mi sembra, siamo in presenza di un incastellamento e di una signoria debole,
almeno in buona parte della Liguria, però un fatto, su cui bisogna insistere, è sul come si forma il
territorio del castello, e per questo la lettura attenta delle fonti dovrebbe dare delle indicazioni,
perché in Toscana ciò avviene. E’ importante vedere quali sono le determinazioni territoriali
adoperate, quanto sopravvive la formulazione altomedievale in loco et fundo, da che cosa viene
sostituita, se si fa riferimento al districtus, che tipo di districtus si intende, e se si fa riferimento alla
curtis, bisogna ricordare che questo termine nel XII secolo aveva un significato profondamente
diverso rispetto al X secolo. Non si tratta, infatti, dell’azienda agraria carolingia. Inoltre, un altro
aspetto da sottolineare è il rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, ossia la pieve. Per quanto
riguarda, ad esempio, il tipo di castello citato nella relazione di Benente, è stato posto il problema
dei rapporti tra l’incastellamento e l’organizzazione della cura d’anime, se i castelli sono in grado di
attrarre le pievi.
Mi sembra che questo non avvenga in Liguria, e ciò è un indizio notevole della debolezza del
castello. Il castello non ha un ruolo effettivo di inquadramento territoriale, sociale , economico.
Un’altra cosa che vorrei dire è che cercherei di evitare la terminologia "feudale" perché non ha
nessun rilievo, piuttosto si può parlare di "signorile". Nella formazione di forme signorili, che poi in
parte abortiscono, quale ruolo ha l’esercizio di poteri pubblici, nel senso di coloro che detenevano
l’esercizio dei poteri pubblici, cioè i Conti ed i Marchesi che sono spesso i promotori
dell’incastellamento in molte aree, perché cercano di esercitare questi poteri, che non riescono più
ad esercitare nel comitatus o nella marca, nei territori di loro proprietà. Bisognerebbe sapere,
infine, quanti, di questi poteri pubblici riesce ad ereditare il Vescovo.”
Riccardo Francovich: “ Un grazie alla professoressa Ceccarelli perché questi chiarimenti mi
sembrano fondamentali. Tra l’altro l’individuazione delle aree di Signoria forte e Signoria debole
sono chiavi di lettura essenziali per le forme di insediamento, la geografia che ci ha proposto, a
questo proposito, Wickam è molto interessante soprattutto in relazione all’esperienza di
riconoscimento, che è stata fatta in ambito pisano, dal gruppo di riferimento della professoressa
Ceccarelli.
Romeo Pavoni: Il problema della Liguria è dato dal fatto che, per il periodo altomedievale abbiamo
fonti solo per la Lunigiana, e sono fonti spesso di tipo politico - vescovile, per Genova abbiamo
documenti abbondanti, ma si tratta di documenti di natura privata. Per questo periodo a Genova
abbiamo il Registro Arcivescovile, però vi sono contenuti soprattutto livelli. Quindi dobbiamo
cercare di spremere al massimo l’esigua documentazione relativa a questo periodo. Dalla lettura dei
documenti, di questo periodo, non si ricava l’immagine di una signoria debole, la Signoria, almeno
da quei pochi esempi di mia conoscenza, non sembra debole, forse non si è ancora cristallizzata e
non è ancora fortemente collegata con un preciso distretto territoriale, ma quando il vescovo, alla
metà del secolo XI, si accorda con Rodolfo di Casola, per incastellare la pieve di Soliera, Rodolfo
di Casola fa partecipare all’accordo una serie di testi che sono dei veri e propri vassalli, testi che
prendono il nome dalla località che tengono in feudo. Quindi, questa Signoria feudale esiste, anche
se è in fieri, dal punto di vista territoriale, perché abbiamo nella Pieve di Soliera il dominio dei
Signori di Burcione, che sono minacciati dal vescovo, infatti l’accordo tra il Vescovo e Rodolfo di
Casola è in funzione anti Burcione, possiamo dire che la Signoria è forte ed è anche in grado di
lottare in maniera intersignorile.
Per quanto riguarda la struttura del castello, se è forte dal punto di vista militare, io non
saprei dirlo, nel senso che l’archeologia da questo punto di vista ha dato poche informazioni, però
se questi castelli sono così menzionati qualche utilità, dal punto di vista militare, avrebbero dovuto
averla anche nel secolo XI. I castelli non avevano ancora, però, la forza di inquadrare un territorio,
di inquadrarlo in un preciso districtus; anche il termine districtus compare nel XII secolo, io potrei
cavarmela dicendo che questa è la conseguenza dell’azione politica genovese, ma mi sembra troppo
comodo.
Io non tendo ad attribuire sempre gli eventuali progressi che si fanno in vari campi
all’espansione comunale genovese, in effetti i genovesi organizzano il territorio per castelli e per
distretti, però mi sembra un po’ totalizzante attribuire ciò ai genovesi, poiché troviamo questa
stessa organizzazione del territorio in aree in cui i genovesi non arrivano. Quando troviamo
applicato il termine districtus o il termine dongione, nell’alta Val di Magra o nell’alta Val Aulella,
dove i genovesi sono soltanto un interlocutore lontano quindi sorge un dubbio. Poi è ovvio che la
curtis del XII secolo non è la curtis carolingia; voglio dire che, quando ho fatto il discorso
dell’accentramento, nel castello della curtis o della curia, volevo dire che si venivano ad identificare
due centri di amministrazione che prima potevano essere in luoghi diversi. Ovviamente, poi,
l’amministrazione è diversa, specialmente quella economica, abbiamo un’economia monetaria
molto più forte nel XII secolo rispetto al X o al IX secolo, però non dobbiamo dimenticare che,
forse questo sarà tipico della Liguria.,
Quando Genova acquista dei castelli, ancora nel Duecento, e fa redigere l’inventario dei
diritti che acquista - mi viene in mente il castello di Pareto o il castello di Taggia o di Andora - c’è
tutto l’elenco dellepertinenze relative funzione militare e amministrativa - economica, che è una
funzione analoga alla curtis, però mutatis mutandis: un centro amministrativo applicato al XII
secolo, ma non al IX.
Fabrizio Benente: Ritengo che, su base regionale, l’analisi dei fenomeni dell’incastellamento, dello
sviluppo della signoria rurale ed della loro interazione con lo sviluppo delle entità comunali ed
urbane, abbia ampi margini di sviluppo e che i metodi di analisi siano ancora perfettibili. In
questa fase, è ovviamente imprescindibile un confronto con il “modello toubertiano”, o con gli altri
modelli d’incastellamento documentati nell’Italia Centro Settentrionale, ma questi modelli non
possono essere trasferiti integralmente in aree in cui il controllo del territorio si è attuato secondo
tempi e modalità estremamente differenti. Incastellamento, accentramento, controllo del territorio e
sviluppo dei poteri signorili si configurino in Liguria in maniera assai differenziata e, secondo me,
strettamente correlata allo sviluppo e all’effettivo potere dell’entità urbane. Nell’area del Finale,
studiata da Giovanni Murialdo, tra XII e XIII secolo, si sviluppa una signoria “forte”, che si impone
su base territoriale riorganizzando in maniera decisiva un habitat destinato ad essere per lungo
tempo fortemente contrassegnato e controllato dai Del Carretto. L’analisi di Pavoni mostra che,
all’interno della diocesi di Luni, si sviluppano precocemente aree di signoria forte, legate
all’iniziativa del vescovo, ma anche all’iniziativa obertenga. Lo sviluppo dei poteri signorili segna
una sorta di “rivoluzione permanente” e gli insediamenti d’altura, fortificati ed accentrati diventano,
in questo modo, caratteristica predominante delle forme di popolamento. Ben diversa è la
situazione all’interno della diocesi di Genova, dove il precoce sviluppo, in senso comunale, della
città e la forte volonta di una definizione territoriale del districtus Ianue, convivono e si scontrano
con i tentativi di sviluppo di poteri signorili, che hanno uno scarso impatto sull’organizzazione del
territorio. La signoria assume qui i comnnotati di signoria “debole” e la costruzione dei castelli si
sovrappone ad un habitat sparso preesistente senza comportare grosse modifiche.
Mi sembra, ora opportuno tornare all'analisi del territorio che ho preso in esame; i problemi sono
molti, io avevo anche anticipato che l’analisi è appena iniziata e quindi un bilanciamento tra i dati
ricavabili dalle fonti scritte e dall’analisi delle fonti archeologiche è ancora da fare. Tuttavia direi
che certi problemi emergono abbastanza chiaramente e non possano essere ignorati e, in assenza di
un lavoro diretto da parte degli storici, gli archeologi devono formulare automamente i loro modelli
storiografici, tenendo conto di tutte le fonti a disposizione. Per btrevità vcercherò di rispondere per
punti.
Non si tratta, quindi, di attribuire gemnericamente all’espansione comunale genovese i fenomeni
relativi all’organizzazione del territorio, ma di valutare l’impatto di questa espansione sulle strutture
presistenti, partendo da una lettura critica di una messe di fonti scritte pienamente disponibili
all’analisi.
Per quanto riguarda il problema dell’organizzazione dell' habitat, forse ci siamo confusi sui
termini. Come ho indicato nel corso della mia relazione e come ha sottolineato prima Mannoni, le
tracce archeologiche degli insediamenti romani nell'area del Tigullio sono spesso prossime ad
insediamenti di mezza costa, documentati nei secoli centrali del medioevo. Un habitat
prevalentemente organizzato su insediamenti aperti formatisi in prossimità delle strutture pievane,
su villae e case sparse nei massarici è ampiamente documentato da una messe di documenti di XI
secolo, che precedono lo sviluppo della signoria territoriale e delle forme di incastellamento. Tali
strutture sembrano sopravvivere, come elemento caratterizzante dell'habitat, fino al momento in cui
Genova si impone politicamente su questo territorio, creando nuovi poli di organizzazione demica.
Il processo signorile di costruzione dei castelli sembra avere scarsa interazione con il tipo di
insediamento citato dalle fonti di X-XI secolo. I castelli che nascono per iniziativa dei domini locali
sono, in alcuni casi fortificazioni di preesistenti proprietà fondiarie (ad es. Nascio, Zerli), in altri
casi sono posti in posizione strategica, controllano il territorio, ma, salvo alcune eccezioni, non
mutano, non riorganizzano, non accentrano l'habitat e soprattutto non interagiscono con le strutture
religiose, con le pievi. La signoria in questa zona ha sicuramente connotati di signoria debole e
soccombe nel corso del XII secolo, o sopravvive legandosi a Genova.
Per quanto riguarda
la struttura castrense e l'affermarsi del termine "dongione" nei
documenti della seconda metà del XII secolo, ritengo che esso vada riferito all'affermarsi di un
nuovo tipo di organizzazione della struttura materiale del castello, caratterizzato da un ridotto
fortificato in muratura che può o meno racchiudere una torre, come ha già indicato il Settia.
L'analisi archeologica conferma inoltre, nella seconda metà del secolo, l'affermarsi di tipologie
costruttive, basate sull'introduzione delle tecniche murarie antelamiche. E' chiaro che l'affermarsi di
nuove strutture e tipologie murarie non è prerogativa della presenza politica genovese, ma è
sicuramente da ricondurre a maestranze che si sono sviluppate ed operano in ambiente
prevalentemente urbano.
Nei documenti si esplicita, in diversi casi il formarsi di strutture incastellate per iniziativa
diretta (Rivarola, Sestri Levante, Chiavari) o indiretta (Monleone, Caloso, Figarolo, Levaggi, ecc)
di Genova. In questi documenti si specifica che l'autorizzazione ad incastellare viene concessa con
un chiaro scopo di popolamento: Per l'edificazione del castello di Levaggi., ad esempio, viene
concesso un poggio cum tanta terra ut fossatum et castrum et burgum possint aedificari" quanti
andranno ad abitarvi. Mi sembra di poter osservare una politica genovese che mira alla creazione
diretta o indiretta di nuovi centri demici, difesi da castelli, in cui si possa accentrare popolazione,
emancipandola dai signori locali e dai diritti che questi esercitano sul territorio. Nei trattati tra
Genova e i signori di Lavagna, di Nascio, ecc, si afferma piuttosto chiaramente che coloro che
andranno ad abitare in queste nuove fondazioni dovranno essere lasciati liberi dai vincoli signorili.
Secondo me, queste sono chiare tracce di una politica genovese che si attua in questa zona specifica.
Tale politica ha come scopo l'emancipazione dei rustici e l'erosione del potere signorile e si attua
con la creazione di borghi difesi da castelli e, quindi, con una parziale riorganizzazione dell'habitat.
Si creano, cioè, nuovi aggregati demici, in cui, nella seconda metà del secolo, con lo stabilirsi dei
regimi consolari, si completa il piano di penetrazione politica e di controllo territoriale genovese. A
voler ben osservare, vi è anche un crescendo di questo fenomeno che, in questa zona della Liguria
Orientale, prende l'avvio con la costruzione del castello di Rivarola. I successivi casi di Sestri
Levante e Chiavari rappresentano tappe di un progressivo perfezionamento di un idea di
insediamento-tipo, creato da Genova. Direi, anche, che la lottizzazione di Chiavari è il risultato, non
di un processo innovativo, ma di una serie di tappe che partono dalla prima metà del XII secolo
proprio con Rivarola.
Colette Bozzo Dufour: E’ giustissimo il riferimento alla politica genovese a cui faceva cenno
Benente, ma esiste anche una politica ecclesiastica che è particolarmente evidente nelle fondazioni
ecclesiastiche del Levante, parlo del XII secolo, che si rivela attraverso le dedicazioni. Tema
terribilmente scottante, poichè sappiamo che bisogna prenderle cum grano salis, ma finora dove c’è
una dedica genovese, ad esempio San Lorenzo, San Giovanni eccetera, stranamente c’è lo zampino
di Genova, nella cultura architettonica e, questo è interessante, infatti vi è la presenza di maestranze
antelamiche o qualcosa del genere. E mi sembra di vedere che, nall’ambito delle assegnazioni
antelamiche, per altro accertate della Liguria di Levante, ci siano delle piccole differenze rispetto
all’antelamico prestigioso di Genova al punto da far pensare che si tratti di famiglie antelamiche
rivierasche di cultura un pochino più bassa.
Riccardo Francovich: “ Nel chiudere questo incontro, mi sembra che la pluralità degli interventi
sia stata esauriente e che questa Giornata di studio sia stata un successo, e perciò vorrei ringraziare
gli organizzatori. “