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La cultura ebraica italiana nel dopoguerra (1945-1965)

2010, Anna Foa, Elio Toaff, un secolo di vita ebraica in Italia, Zamorani, Torino 2010, pp. 57-66

La cultura ebraica italiana nel dopoguerra (1945-1965) Gadi Luzzatto Voghera La ricerca storica ha iniziato da qualche tempo a interessarsi della situazione materiale e spirituale dell’ebraismo italiano negli anni successivi il secondo conflitto mondiale. La nota dominante che pervade tali studi è nello stesso tempo cupa e ottimistica. Cupa, poiché si prende atto con sconforto del colpo inferto dalla Shoah al debole e diviso ebraismo italiano: il repentino tramonto dell’idea stessa di emancipazione come era emersa nel corso del secolo XIX, cui si aggiunge la constatazione che non poca parte della leadership delle comunità ebraiche aveva partecipato con convinzione all’ondata di consenso al regime fascista, si andavano assommando alla dolorosa perdita di circa il venti per cento della popolazione, annientata nelle camere a gas, cui dovevano aggiungersi altre perdite e gravi tensioni. Si pensi alle migliaia di espatriati, molti dei quali non ritornarono in Italia dopo la guerra disperdendosi nelle Americhe o andando a fondare la vivace comunità italiana di Palestina. Si pensi alla tragica perdita di un quarto del corpo rabbinico, cioè della principale fonte di cultura ebraica a disposizione delle comunità dai tempi della prima emancipazione. Si pensi infine alle cospicue perdite materiali sia personali (i superstiti avevano dovuto rinunciare alla gran parte dei propri beni a causa delle leggi razziali e della “persecuzione delle vite”), sia comunitarie (la distruzione delle sinagoghe di Livorno e di Padova, forse i due principali luoghi simbolo della cultura e della spiritualità ebraica italiana dell’epoca contemporanea). Tuttavia non è raro individuare negli studi e nelle ricostruzioni sull’atmosfera che pervadeva l’ebraismo italiano dell’immediato secondo dopoguerra anche una diffusa nota di ottimismo, dovuta ad alcuni segnali di novità che promettevano sviluppi inattesi nel breve e nel lungo periodo. Tali segnali erano certo legati all’atmosfera di vitalità e fiducia proveniente dall’Yishùv palestinese: il sionismo, la rinascita nazionale e spirituale della nazione ebraica, e la sua materializzazione umana – che per le comunità italiane annichilite dalla guerra era rappresentata dalle divise e dai giovani volti dei soldati della Brigata Ebraica che risalivano la Penisola riaprendo le sinagoghe e riattivando le scuole – costituiva un segnale di speranza che non tardò ad e- 58 GADI LUZZATTO VOGHERA mergere come punto di riferimento essenziale. Non a caso, il più importante strumento di informazione politica e culturale dell’ebraismo italiano dalla fine della guerra alla metà degli anni Sessanta fu il settimanale «Israel». Curato dall’avvocato Carlo Alberto Viterbo, questo strumento – dichiaratamente organo ufficiale del movimento sionista (la sua sede fiorentina era stata devastata da una squadra di fascisti ebrei negli anni Trenta) – di fatto svolse una doppia funzione: collegamento e informazione fra le comunità e le famiglie ebraiche italiane, e espressione politica e culturale di un nuovo orgoglio nazionale che indicava il nuovo stato d’Israele come unica possibile risposta al tramonto dell’emancipazione ottocentesca e al tentativo di sterminio subìto nel recente conflitto. Il sionismo e il forte legame di comunicazione che si istituì fra Israele e l’ebraismo italiano costituirono probabilmente il più importante supporto per una ripresa della vita culturale ebraica italiana. A questa esperienza, tuttavia, vanno aggiunti altri elementi non meno significativi che contribuirono a sorreggere un risveglio anche culturale del martoriato ebraismo italiano. Innanzitutto il paradosso delle scuole ebraiche: l’antisemitismo fascista, nella sua cieca ferocia, aveva preteso l’istituzione di scuole ebraiche separate (generalmente di alto livello, grazie al lavoro cui vennero costretti importanti docenti universitari cacciati dai ruoli pubblici e relegati all’insegnamento negli istituti organizzati dalle comunità più importanti della Penisola) favorendo in tal modo l’attivazione di un processo di ri-acculturazione ebraica che diede un forte impulso alla rinascita delle comunità. A questa esperienza si andava sovrapponendo l’incontro con le decine di migliaia di profughi ebrei (si parla di oltre 26 000 rifugiati) che affollavano i campi di raccolta predisposti dagli Alleati in Italia. Quella presa di contatto dell’ebraismo italiano con le diverse realtà europee (in particolare provenienti dal mondo ashkenazita), incontro che era stato intensamente propugnato nelle pagine dei periodici ebraici italiani fra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, si era repentinamente materializzato in un confronto umano certo difficile, ma che non mancò di lasciare i suoi segni. Un quadro quindi piuttosto articolato, che va collocato in un più generale sguardo alle dinamiche che interessarono il multiforme ebraismo italiano nei secoli XIX e XX. In particolare si possono individuare alcuni grandi temi che ne hanno condizionato i percorsi di trasformazione: il primo di questi è senz’altro rappresentato dall’Emancipazione e dalla na- LA CULTURA EBRAICA ITALIANA NEL DOPOGUERRA (1945-1965) 59 scita fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento di un nuovo modello di cittadinanza religiosa che la storiografia ha negli ultimi anni indicato con il brutto, ma significativo nome di “israelitismo”. L’ebraismo italiano, come altre analoghe esperienze europee, aveva elaborato una nuova cultura religiosa fondandola sulla certezza dell’inevitabile trionfo del modello di emancipazione proposto dal liberalismo borghese, che sembrava aver retto anche ai primi anni del regime fascista. La legislazione razziale del 1938 e la persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei in Italia (per decisione del fascismo, ma con l’aperta connivenza della monarchia dei Savoia e della gran parte degli apparati amministrativi dello Stato), e la conseguente sostanziale assenza di una consistente reazione da parte della società italiana nel suo complesso (non ci fu traccia in Italia degli scioperi antidiscriminazione inscenati dai portuali di Amsterdam, o di aristocratici che si appuntassero al petto la stella gialla come fecero i monarchi di Danimarca), decretarono la fine dell’emancipazione degli ebrei in Italia. L’esperimento, durato circa un secolo, aveva certamente lasciato tracce profonde nell’elaborazione di un nuovo tipo di ebraismo – l’ “israelitismo” appunto – che sarebbe sopravvissuto a lungo nelle sue strutture culturali portanti. E tuttavia deve essere chiaro che dopo il secondo conflitto mondiale si avviò per gli ebrei un nuovo e inedito percorso sul piano della acquisizione delle libertà civili e di una nuova coscienza di cittadinanza: se si vuole, si potrebbe parlare di terza emancipazione, che si va ad aggiungere alla prima breve e travagliata esperienza degli anni 1797-1815 e al secondo momento segnato dalle rivoluzioni del 1848. Il secondo tema è legato alla nascita dello Stato d’Israele. Il sionismo, inteso sia come movimento politico, sia come strumento di rinascita culturale in reazione all’affievolirsi dei legami fra gli ebrei e la loro tradizione, lingua e cultura, era stato certo presente in Italia, ma sostanzialmente in forme piuttosto deboli e marginali. Il dopoguerra al contrario si apriva con i soldati “palestinesi” che portavano i primi germi di una nuova visione ebraica del mondo alle provate comunità israelitiche italiane: nuove speranze, un inedito orgoglio nazionale (che faceva a pugni con i dogmi dell’israelitismo), una lingua ebraica rinnovata e nuovi strumenti di istruzione e di auto-educazione, che aprivano la strada a una autentica Bildung ebraica che non avrebbe tardato a lasciare il segno. Un terzo elemento di enorme rilevanza – la Shoah (che all’epoca tut- GADI LUZZATTO VOGHERA tavia non era conosciuta sotto questo nome) – fu naturalmente sorgente di nuove forme di elaborazione culturale alle quali non mancheremo di accennare e che tuttavia tardò molto prima di affermarsi nel ruolo centrale che oggi le viene comunemente riconosciuto. Sono note a questo proposito le difficoltà che incontrò la narrativa di Primo Levi ad affermarsi sia in Italia, sia nel più ristretto cerchio delle comunità israelitiche. In questo senso la “cultura della memoria” – in Italia come in Israele o negli Stati Uniti – è un fatto che comincia a concretizzarsi solo verso la metà degli anni Sessanta e di fatto esula per motivi cronologici da queste brevi riflessioni. Emancipazione, Sionismo, Shoah. E poi, naturalmente, la Storia. L’eredità della storia della presenza ebraica in Italia era stata fin dall’epoca della prima emancipazione uno dei terreni privilegiati su cui si erano esercitati rabbini e studiosi nell’intento programmatico di saldare la tradizione ebraica al grande fiume della storia nazionale italiana. Non sarà inutile a questo proposito citare da un lato le parole di Yosef Hayim Yerushalmi, per cui MOMIGLIANO: MANCANO I DATI IN NOTA DELLA CITAZIONE i tentativi moderni di ricostruire il passato ebraico nascono nello stesso momento che vede una brusca frattura nella continuità della tradizione, e di conseguenza una costante diminuzione della memoria collettiva. In questo senso, se non per altri motivi, la storia diviene quel che mai era stata: una fede per gli ebrei assimilati. E d’altra parte ricordare le riflessioni di Arnaldo Momigliano che sosteneva in un passaggio ampiamente discusso che la formazione della coscienza nazionale italiana degli ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo. È un fatto che la riflessione sulla storia della presenza ebraica in Italia e l’analisi dei rapporti con il potere religioso (la Chiesa) e civile (impero, principati, repubbliche) liberata dopo la tragedia della Shoah dall’ipocrisia di una narrazione necessariamente “pacificata” e nazionale, andava sempre più assumendo un suo carattere di necessità per tentare di ricucire un tessuto di convivenza civile che poteva apparire, dopo il 1945, definitivamente strappato. Su questi pilastri portanti della cultura ebraica l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (UCII) decise già nel 1946 di attivare un lavoro cul- YERUSHALMI: MANCANO I DATI IN NOTA DELLA CITAZIONE 60 LA CULTURA EBRAICA ITALIANA NEL DOPOGUERRA (1945-1965) 61 turale, con l’intento di riconnettere i brandelli di un mondo frammentato e disorientato come quello ebraico italiano. Fu quindi invitato a tornare a Roma dalla Palestina – dove si era rifugiato nel 1939 per sottrarsi alle attenzioni del regime fascista – il rabbino e giornalista Dante Lattes, unanimemente considerato il Maestro dell’ebraismo italiano. La ripresa delle pubblicazioni della «Rassegna Mensile di Israel» – che lo stesso Lattes aveva fondato assieme ad Alfonso Pacifici nel 1925 per affiancare uno strumento di alta cultura al settimanale «Israel» fondato nel 1915 – voleva essere il segno di una continuità con il passato anteguerra e di una volontà di riscatto. Nel ventennio successivo si andò costruendo attorno alle pagine della prestigiosa rivista un vero e proprio progetto culturale che non tardò a produrre importanti risultati. È probabile che al successo dell’impresa contribuissero diversi fattori: certamente lo straordinario entusiasmo unito a una sorprendente capacità di lavoro dell’ormai anziano maestro livornese, a cui si aggiunse la capacità di far convivere nel medesimo mensile l’insieme degli elementi che abbiamo proposto a fondamento della rinascita culturale. È evidente – e per molti versi vincente – lo sforzo di coniugare elementi di continuità con il passato (un diffuso clima di “israelitismo” che si ritrova nella pubblicazione ad esempio di certe poesie dal tono risorgimentale, unite al recupero di alcune delle figure di spicco dell’emancipazione ottocentesca), con momenti di autentica rottura politico-culturale fondata sulla traduzione di un numero consistente di contributi letterari, filosofici e politici provenienti da Israele. Sfogliando gli indici della «Rassegna Mensile di Israel» si riesce a ricomporre un affresco culturale che si sforzava di strappare l’ebraismo italiano al suo tradizionale isolamento per fargli respirare l’aria delle grandi trasformazioni che – specie dopo la Shoah – andavano sempre più interessando le comunità ebraiche della Diaspora e del neonato stato d’Israele. Un’operazione condotta rispettando il legame con la tradizione e con la storia dell’ebraismo italiano, in un continuo sforzo di recupero e valorizzazione delle tracce della presenza ebraica nella Penisola. Accanto alla «Rassegna», l’UCII volle avviare un lavoro capillare di alfabetizzazione ebraica, affidando allo stesso Lattes la responsabilità di pubblicare una nutrita serie di volumi da diffondere in maniera capillare fra le famiglie italiane. Nel biennio 1948/49 veniva diffuso in fascicoli il Commento alla Parashà settimanale, ideato per «stimolare i lettori allo studio della Bibbia, suscitare in loro la curiosità appassionata per le sue idee, per il 62 GADI LUZZATTO VOGHERA suo insegnamento, per i suoi problemi, per il suo mondo, secondo la secolare tradizione d’Israele». Un modo tutto italiano di ritessere la tela della conoscenza ebraica. Qualche anno dopo, nel 1957/58, analoga impresa veniva riservata alla diffusione e commento dei Libri profetici della Bibbia, considerati eredità d’Israele, ma anche «patrimonio più universale, precursori della religione dominante e perfino della Rivoluzione francese e del socialismo». L’intento, palese, era quello di radicarsi nella coscienza ebraica per interloquire da uomini liberi con le culture altre, e financo con le ideologie attorno alle quali si andava radicalizzando nel secondo dopoguerra il confronto politico culturale. Accanto a queste pubblicazioni, riesumando la vecchia Casa editrice Israel che negli anni fra le due guerre aveva fornito i primi strumenti letterari all’assimilato ebraismo italiano, Lattes e l’UCII andavano pubblicando traduzioni di testi non italiani e alcuni lavori di ricerca storica troppo importanti per trovar posto nelle poche pagine della «Rassegna» e non adatti ad essere ospitati da case editrici non ebraiche. Dovettero in effetti passare molti decenni prima che il mondo editoriale italiano venisse travolto dalla passione per la produzione ebraica che attualmente lo pervade. La stessa «Rassegna Mensile di Israel», che già negli anni Trenta aveva fatto da palestra ad alcuni storici (fra gli altri Arnaldo Momigliano, Vittore Colorni, Attilio Milano, Roberto Bachi, Gino Luzzatto), aveva continuato alla ripresa delle pubblicazioni a dedicare una nutrita serie di interventi all’esercizio di una vera e propria nuova storiografia ebraica italiana. Lo stesso Elio Toaff, cui dedico con reverenza queste mie riflessioni, pubblicò già nel 1949 una ricerca storica sull’uso dell’organo a Livorno nell’Ottocento. L’attenzione alla storia si realizzò attraverso un lavoro capillare e non particolarmente appariscente, che tuttavia andò fornendo nel corso dei primi due decenni la base documentale e metodologica sulla quale si fondò nei fatti la nuova stagione di ricerche storiche che conobbe i suoi sviluppi più compiuti a partire dagli anni Settanta. Non è un caso se dai numerosi lavori pubblicati sulla «Rassegna» prese spunto Attilio Milano per la pubblicazione nel 1963 per Einaudi della sua Storia degli ebrei in Italia; la medesima esperienza che aveva favorito due anni prima la pubblicazione da parte di Renzo De Felice della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Se nel 1955 Attilio Milano poteva avviare con impegno la stesura di una prima bibliografia degli studi soprattutto di storia relativi agli ebrei in Italia, le analoghe esperienze avviate LA CULTURA EBRAICA ITALIANA NEL DOPOGUERRA (1945-1965) 63 negli anni Sessanta da Giorgio Romano e negli anni Settanta e Ottanta da Daniel Carpi e Aldo Luzzatto hanno conosciuto crescenti difficoltà per l’aumento esponenziale della produzione storiografica. Attualmente l’impresa sarebbe impensabile, e non pare azzardato far risalire le radici di tanto interesse anche all’intenso lavoro editoriale avviato dalla «Rassegna». Tra continuità e fratture, è decisamente il primo elemento che prevale nell’opera di formazione di una nuova classe rabbinica nell’Italia del dopoguerra. Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento la figura del rabbino aveva assunto sempre più il ruolo di guida spirituale e di fonte di sapere, ed aveva dovuto sobbarcarsi il peso di una straordinaria molteplicità di competenze da mettere a disposizione della collettività ebraica: maestro, responsabile dell’istruzione nelle comunità, ma anche pastore, storico, ebraista, giureconsulto, cantore, giornalista, archivista. Di sicuro la ricca tradizione italiana legata alla formazione del rabbinato moderno (si pensi ai collegi rabbinici di Padova, Livorno e Vercelli, e poi al collegio italiano nelle sue diverse sedi di Roma e Firenze) pretendeva anche dopo la guerra una nota di continuità, specie dopo l’irreparabile perdita nei campi di sterminio di circa un quarto del corpo rabbinico in servizio, a cui si aggiungeva lo choc della conversione del rabbino capo della comunità ebraica di Roma Israele Zolli nell’autunno del 1944. Era il rabbino la figura attorno cui andava ricostruita la cultura ebraica, e lo capì bene Dario Disegni quando volle aprire a Torino una scuola rabbinica intitolandola al suo maestro Shemuel Zvi Margulies. In pochi anni quella sede (che ospitò studenti italiani, ma anche provenienti dalla Grecia e perfino dalle comunità etiopiche) produsse un numero significativo di giovani che andarono a costituire il nerbo del rabbinato italiano del secondo dopoguerra che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, fa sentire la sua eredità. In questo contesto assume particolare significato l’impresa di proporre e produrre una nuova traduzione critica della Bibbia ebraica che lo stesso Disegni volle intraprendere in tarda età e che venne edita per i tipi di Marietti negli anni Sessanta grazie alla collaborazione di giovani e meno giovani esponenti del rabbinato italiano, fra cui Alfredo Sabato Toaff, Menachem Emanuele Artom, Ermanno Friedenthal, Elio Toaff, Elia Samuele Artom e Alfredo Ravenna. Accanto alla scuola Margulies di Torino veniva riaperto – per precisa volontà di Elio Toaff che nel 1953 era divenuto rabbino capo di Roma prove- 64 GADI LUZZATTO VOGHERA nendo dall’esperienza veneziana – il collegio rabbinico italiano di Roma che al pari di quello torinese fu base e fondamento della ricostruzione culturale e spirituale dell’ebraismo in Italia. Ma la cultura ebraica in Italia nel secondo dopoguerra non doveva limitarsi al solo ambito istituzionale. Certo, l’attenzione che la società nel suo complesso dedicava alle vicende storiche e alle tradizioni della comunità ebraica in Italia era decisamente scarsa. Si pensi all’episodio di “trapianto” delle sinagoghe di Conegliano e di Vittorio Veneto che nei primi anni Cinquanta vennero smontate dai locali originari ed esportate in Israele senza che nessuna autorità pubblica si ponesse il problema di trattenerle in Italia e valorizzarle in loco. Come è noto, la sinagoga di Vittorio Veneto è ora parte del Museon Israel a Gerusalemme e la sinagoga di Conegliano è stata rimontata nei locali della comunità ebraica italiana di Rechov Hillel a Gerusalemme ed è usata per le funzioni religiose. Oggi un simile episodio sarebbe impensabile, e tuttavia è sintomatico di una certa percezione di estraneità con cui all’epoca veniva sostanzialmente percepita la cultura ebraica in Italia. Eppure non erano pochi né di scarso rilievo i figli di quella cultura che si andavano esprimendo con opere che lasciarono il segno. Proviamo ad azzardarne un breve elenco, sicuri di far torto ai molti che resteranno esclusi. Ma come dimenticarsi innanzitutto di Primo Levi, la cui opera Se questo è un uomo cadde vittima del medesimo disinteresse che si segnalava poco sopra, nonché della scarsa predisposizione della società italiana ad affrontare già nel 1946 il nodo della persecuzione razziale e dello sterminio degli ebrei. Il suo libro, rifiutato da Einaudi, venne riconosciuto per il capolavoro che è solo nel 1958. Nella seconda metà degli anni Cinquanta cominciava a farsi sentire anche in Italia una nuova attenzione per le vicende legate alla Shoah: a Milano, dopo un primo momento di raccolta di materiale documentario a Venezia a cura di Roberto Bassi, nel 1955 nasceva il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) per volontà della Federazione dei Giovani Ebrei Italiani (FGEI), con il dichiarato intento di attivare iniziative pubbliche per una riflessione sul significato dello sterminio degli ebrei in Europa. Che questa iniziativa non fosse solo un episodio legato all’intraprendenza di qualche ragazzo entusiasta, ma uno dei più visibili sintomi di una nuova attenzione che la società italiana mostrava verso la condizione ebraica, è dimostrato fra l’altro dall’emergere di nuove opere letterarie che, al pari di quelle di LA CULTURA EBRAICA ITALIANA NEL DOPOGUERRA (1945-1965) 65 Primo Levi, iniziarono a riscuotere non poco successo [probabilmente, come nota Guido Lopez, sull’onda del successo dell’edizione italiana del Diario di Anna Frank (1954) e dell’opera storica di Leon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei (1955)]. Si pensi a Giorgio Bassani, le cui Storie ferraresi e poi Il giardino dei Finzi-Contini appariranno in rapida successione nella seconda metà degli anni Cinquanta. A questo si aggiungerà nel 1963 il fortunatissimo Lessico familiare di Natalia Ginzburg (la quale com’è noto era stata fra coloro che avevano generato il rifiuto einaudiano di pubblicare Primo Levi nel 1946). Sempre per i tipi di Einaudi nel 1961 era uscito Il segreto, un romanzo scritto da Giorgio Voghera sotto lo pseudonimo di Anonimo Triestino, che proponendo un percorso intimistico fortemente influenzato dall’opera di Italo Svevo e più in generale dalla psicanalisi poneva all’attenzione del lettore italiano l’ambiente ebraico della città Giuliana di inizio secolo. Naturalmente, nel soffermarci solo sulla narrativa si potrebbe arricchire il panorama letterario ebraico che caratterizzò i primi due decenni del secondo dopoguerra con altre figure di assoluto rilievo: Carlo Levi, Alberto Moravia, Giacomo Debenedetti, più tardi Elsa Morante. E sarebbe altrettanto agevole ampliare il panorama culturale agli ambiti scientifico (si pensi a Emilio Segré, premio nobel per la fisica nel 1959) o a quello politico (da Umberto Terracini, presidente dell'Assemblea Costituente, ai vari Emilio Sereni, Leo Valiani, Vittorio Foa, Rita e Mario Montagnana, Ugo Della Seta, Lucio Luzzatto, Silvio Ortona, Giorgina Arian Levi, Maurizio Valenzi), ma si tratterebbe di allargare il ragionamento a un ambito in cui si rischia di sostituire al tema dell’elaborazione culturale ebraica quello più generale dell’importante contributo che il mondo ebraico continuò a dare, anche nel secondo dopoguerra, alla civiltà italiana. Andremmo fuori tema, e ci inoltreremmo in un percorso che per ragioni di spazio non possiamo far altro che accennare. Non ci si potrà esporre, a conclusione di questo breve quadro generico dedicato alle linee di sviluppo della cultura ebraica in Italia nei primi due decenni del secondo dopoguerra, alla tentazione di trarre delle conclusioni. Non sembrano soddisfacenti né le ipotesi (fortemente presenti nell’ebraismo degli anni Sessanta) di un progressivo rapido ripiegamento e impoverimento culturale, né quelle che all’opposto vedrebbero nel collegamento con la realtà israeliana una decisiva svolta di innovazione e svecchiamento. Probabilmente convivono entrambe le valutazioni. Dovrebbe tuttavia prevalere nella valutazione sulle trasformazioni in atto in quel periodo una particolare at- 66 GADI LUZZATTO VOGHERA tenzione ai mutamenti di sensibilità nei confronti dell’esperienza ebraica che stavano negli stessi anni maturando nella Penisola. In particolare suggerirei di prestare particolare attenzione al già segnalato rinnovato interesse a partire dalla fine degli anni Cinquanta attorno alla Shoah e alla persecuzione antiebraica in Italia, ma ancora di più mi riferisco alle conseguenze che si aprirono nella società italiana con il Concilio Vaticano II. Il mutamento dello sguardo con cui la Chiesa di Roma decideva di guardare all’ebraismo attivò dalla metà degli anni Sessanta un percorso che incise profondamente sull’attenzione che la società civile andò via via sviluppando verso le diverse forme dell’esperienza ebraica. Una richiesta di confronto e di dialogo che nei decenni successivi contribuì alla vera e propria esplosione di attività culturali che ancora oggi caratterizzano la vivace realtà ebraica italiana. Bibliografia di riferimento Y.H. Yerushalmi, Zakhor, Storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche, Parma 1983. A. Momigliano, Pagine ebraiche, Einaudi, Torino 1987. La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990). Repertorio bibliografico, in «Quaderni di libri e riviste d’Italia» n. 27, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1992. A. Luzzatto, Autocoscienza e identità ebraica, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, Annali, 11, Gli ebrei in Italia, vol. II, Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997, pp. 1829-1900. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Franco Angeli, Milano 2003. G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia post fascista, Laterza, RomaBari 2004. A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2009.