Università degli Studi Roma Tre
Dipartimento di Scienze della Formazione
NELLA STESSA COLLANA
1. B. SFERRA, La storia senza frontiere. Per una didattica interculturale della storia, 2016
2. G. LOPEZ, M. FIORUCCI (a cura di), John Dewey e la pedagogia democratica
del ‘900, 2017
3. F. BOCCI, M. CATARCI, M. FIORUCCI (a cura di), L’inclusione educativa. Una
ricerca sul ruolo dell’assistente specialistico nella scuola secondaria di II grado,
2018
4. L. BIANCHI, Imparando a stare nel disordine. Una teoria fondata per l’accoglienza socio-educativa dei Minori stranieri in Italia, 2019
5. G. ALEANDRI (a cura di), Lifelong and lifewide learning and education: Spagna
e Italia a confronto, 2019
6. M. D’AMATO (a cura di), Utopia. 500 anni dopo, 2019
7. F. POMPEO, G. CARRUS, V. CARBONE (a cura di), Giornata della ricerca 2019
del Dipartimento di Scienze della Formazione, 2019
8. F. BOCCI, C. GUELI, E. PUGLIELLI, Educazione Libertaria. Tre saggi su Bakunin, Robin e Lapassade, 2020
9. LISA STILLO, Per un’idea di intercultura. Il modello asistematico della scuola
italiana, 2020
10. FABIO BOCCI, ALESSANDRA M. STRANIERO, Altri corpi. Visioni e rappresentazioni della (e incursioni sulla) disabilità e diversità, 2020
11. MARIALUISA LUCIA SERGIO, ELENA ZIZIOLI (a cura di), La Convenzione
Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 2020
12. MICHELE PELLEREY, MASSIMO MARGOTTINI, ENRICA OTTONE (a cura di),
Dirigere se stessi nello studio e nel lavoro. Competenzestrategiche.it, strumenti
e applicazioni, 2020
Pedagogia interculturale e sociale
13
ESQUILINO, ESQUILINI.
UN LUOGO PLURALE
a cura di
VINCENZO CARBONE – MIRCO DI SANDRO
2020
Direttori della Collana:
Marco Catarci, Università degli Studi Roma Tre
Massimiliano Fiorucci, Università degli Studi Roma Tre
Comitato scientifico:
Marco Catarci, Università degli Studi Roma Tre
Massimiliano Fiorucci, Università degli Studi Roma Tre
Giuditta Alessandrini, Università degli Studi Roma Tre
Anna Aluffi Pentini, Università degli Studi Roma Tre
Gabriella D’Aprile, Università degli Studi di Catania
Silvia Nanni, Università degli Studi L’Aquila
Nektaria Palaiologou, University of Western Macedonia
Edoardo Puglielli, Università degli Studi Roma Tre
Donatello Santarone, Università degli Studi Roma Tre
Alessandro Vaccarelli, Università degli Studi L’Aquila
Coordinamento editoriale:
Gruppo di Lavoro Roma Tr
Impaginazione e cura editoriale: Start Cantiere Grafico
Elaborazione grafica della copertina: Mosquito mosquitoroma.it
Caratteri tipografici utilizzati:
Domain Display Black, Futura Std Heavy, Futura Std Book, Futura Bold, Futura Std Bold, Futura Std Book Oblique (copertina e frontespizio)
Adobe Garamond Pro (testo)
Edizioni: Roma Tr
©
Roma, dicembre 2020
ISBN: 979-12-80060-77-8
http://romatrepress.uniroma3.it
Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International Licence (CC BYNC-ND 4.0) che impone l’attribuzione della paternità dell’opera, proibisce di alterarla, trasformarla o
usarla per produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale.
© è svolta nell'ambito della Fondazione Roma TreL'attività della Roma Tr
Education, piazza della Repubblica 10, 00185 Roma
Collana
Pedagogia interculturale e sociale
La collana si propone come uno spazio per approfondire teorie ed espe-rienze
nel vasto campo della pedagogia interculturale e sociale. Vengono dunque proposti volumi che danno conto di riflessioni teoriche e ricerche sul campo in
due ambiti principali.
Un primo settore riguarda il campo della ‘pedagogia interculturale’, con contributi sugli approcci intenzionali di promozione del dialogo e del confronto
culturale, indirizzati a riflettere sulle diversità (culturali, di genere, di classe sociale, biografiche, ecc.) come punto di vista privilegiato dei processi educativi.
Il secondo ambito concerne il campo della ‘pedagogia sociale’, con parti-colare
riferimento alle valenze e responsabilità educative sia delle agenzie non formali
(la famiglia, l’associazionismo, gli spazi della partecipazione sociale e politica,
i servizi socio-educativi sul territorio, ecc.), sia dei contesti informali (il territorio, i contesti di vita, i mezzi di comunicazione di massa, ecc.).
Tutti i volumi pubblicati sono sottoposti a referaggio in ‘doppio cieco’.
Il Comitato scientifico può svolgere anche le funzioni di Comitato dei referee
Indice
Prefazione
13
Premessa dei curatori
17
PRIMA SEZIONE
TERRITORIALIZZAZIONI ESQUILINE
Introduzione
Vincenzo Carbone
23
23
CAPITOLO 1
Esquilino, città plurale
29
CAPITOLO 2
Esquilino, geografie del mutamento
57
CAPITOLO 3
I vólti e i risvòlti dell’Esquilino
75
CAPITOLO 4
“Situare” i luoghi esquilini
117
SECONDA SEZIONE
ESQUILINO COME LABORATORIO DI PRATICHE URBANE
Introduzione
Vincenzo Carbone – Mirco Di Sandro
199
199
CAPITOLO 1
Un rione diviso. Disuguaglianze sociali nello spazio dell’Esquilino
Mirco Di Sandro
207
CAPITOLO 2
Lingue immigrate tra senso dei luoghi, pratiche discorsive e regimi
di alterità
Maurizia Russo Spena
CAPITOLO 3
Esquilino come spazio del politico: dalla lotta al degrado alla piazza
di Roma Meticcia
Margherita Grazioli
235
259
CAPITOLO 4
Cinesi all’Esquilino. Pratiche di luogo, relazioni situate e tendenze
evolutive
Tiziana Banini e Carmelo Russo
CAPITOLO 5
Per una scuola in Comune. Esperienze di collaborazione tra scuola
dell’infanzia, famiglie e territorio nel Rione Esquilino
Veronica Riccardi e Alessandra Casalbore
CAPITOLO 6
Con-dividere un cortile. Razza classe e genere in una scuola del centro di Roma
Giovanni Castagno
CAPITOLO 7
Contrastare il gioco d’azzardo nel rione Esquilino. Quando a intervenire è la comunità
Isabella Giacchi, Gianguido Santucci, Giovanna Domenici,
Giovanni Maria Vecchio
CAPITOLO 8
L’Esquilino ai tempi del Covid-19: le forme dell’esclusione e della
solidarietà. Note di campo
Vincenzo Carbone
CAPITOLO 9
Studenti alla conquista dell’Esquilino
Mirco Di Sandro
283
311
337
363
395
415
CAPITOLO 4
Cinesi all’Esquilino. Pratiche di luogo,
relazioni situate e tendenze evolutive
Tiziana Banini – Carmelo Russo1
1. Introduzione
Luogo di frontiera e di attraversamento, in continua trasformazione: ricorrono spesso queste immagini nella narrazione dell’Esquilino, XV Rione di Roma
Capitale. In effetti esso è sempre stato uno spazio liminare, di transito, di passaggio dalla città alla non-città (costituiva fin dall’epoca serviana la regione posta
al margine orientale dell’Urbe), dalla vita alla morte (in antichità era utilizzato
come luogo di sepoltura e per l’esecuzione di pene capitali) (Banini, 2019a), al
punto da incarnare nel suo stesso nome l’idea di ciò che non è (o non è più):
Esquilino, termine dall’origine incerta, farebbe infatti riferimento agli abitanti
posti all’esterno della città vera e propria (Protasi, 2003; 2010).
Connotato da una profondità storica senza eguali, mix di centralità e marginalità, segnato da uno spazio di passaggio per eccellenza come la stazione
Termini, l’Esquilino ha continuato ad incorporare l’idea di liminarità e transito
proprio grazie alla presenza costante di un’alterità che, a partire dall’epoca postunitaria, ha assunto forme diverse: dapprima i funzionari statali piemontesi
giunti nella neonata capitale dell’Italia unita dopo il trasferimento da Torino
(e da Firenze, per un breve periodo), poi gli immigrati dal Centro e Sud Italia,
infine gli immigrati extra-comunitari, di provenienza principalmente asiatica.
Un luogo deputato all’ingresso e all’accoglienza dell’alterità nella città eterna,
dunque, che persino nelle sue forme materiali fu pensato per far sentire a casa
la nuova classe di dirigenti e funzionari statali piemontesi, rispecchiando le tipologie edilizie tipologie edilizie in uso nel capoluogo torinese (Mudu, 2003).
Ma al di là della loro materialità, sono le relazioni e le pratiche sociali che
costruiscono il senso e il significato degli spazi (Massey, 2005; Harvey, 2006).
E l’Esquilino, grazie alla presenza dei migranti transnazionali, rispecchia in
modo paradigmatico la temporaneità, l’instabilità e la multiscalarità relazionale
che lega le persone ai luoghi, all’epoca della globalizzazione. In quanto emblema dello spazio urbano tardo-moderno, multiculturale per eccellenza,
l’Esquilino continua da almeno un trentennio a questa parte ad attirare l’attenzione del mondo scientifico, politico e sociale, proprio perché è in grado di
mettere in discussione ogni assunto ontologico ed epistemologico riguardo agli
“Pur condividendo l’impostazione e la responsabilità dell’intero saggio, T. Banini ha scritto i paragrafi 1, 2 e 3; Carmelo Russo i paragrafi 4, 5, 6, e 7”.
1
283
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
spazi urbani, così come l’idea di comunità, identità, esperienza di luogo (Attili,
2007; Caputo, 2015), configurandosi come un laboratorio urbano non solo
in ordine alle pratiche di interazione sociale tra persone di diverse nazionalità
e culture, ma anche in riferimento agli studi sulla città che cambia.
La rilevante presenza dell’alterità estrema, quella contraddistinta da tratti
somatici, linguaggi e scritture incomprensibili, tradizioni e usanze profondamente diverse, non è stata (e non è tuttora) accolta pacificamente; al contrario,
essa sollecita reazioni e risentimenti, soprattutto nei residenti più anziani e di
lunga durata del rione. Una presenza “scomoda” non tanto perché numerosa,
quanto perché coincisa con un cambiamento sostanziale: la chiusura dei negozi
storici e l’avvento del cosiddetto ethnic business (Fong, Luk, 2009) ovvero dei
negozi gestiti da immigrati, sia quelli rivolti a una clientela generalista (abbigliamento, ristorazione, ecc.), sia quelli indirizzati a gruppi di specifiche nazionalità.
All’Esquilino, come in altri quartieri di grandi città, botteghe ed esercizi
commerciali sono stati trasformati repentinamente in vetrine di abbigliamento
cinesi poco attraenti per gli autoctoni, spacci alimentari bangladesi e internet
point pakistani e indiani. E il disappunto verso tali esercizi, all’Esquilino come
altrove, si deve non solo al sospetto che si tratti di attività irregolari (circa la
provenienza dei capitali per la loro nascita e la bassa remuneratività che non
spiegherebbe la loro tenuta) (Alietti, 2015), ma soprattutto al sentimento di
deprivazione vissuto dai residenti del quartiere per l’improvviso cambio di fisionomia di negozi che assolvevano storicamente la funzione di spazi di incontro e relazione sociale. Sono cambiate le insegne dei negozi (Cristaldi, 2005),
dando vita a un mutamento sostanziale nel linguistic landscape, definto in termini di «visibility and salience of languages on public and commercial signs
in a given territory or region» (Landry, Bourhis, 1997: 23), ma anche gli odori
e i suoni del rione: non più il profumo della pizza appena sfornata o del pesce
venduto a piazza Vittorio, ma quello del kebab e degli involtini primavera;
non più gli sfottò dei venditori ambulanti della piazza provenienti in massima
parte dalle campagne romane, ma il vociare incomprensibile dei gruppetti di
immigrati posti agli angoli delle strade o nei giardini delle piazze. L’impatto
emotivo è notevole, soprattutto in chi ricorda com’era il quartiere, perché la
diversità culturale è contrassegnata da odori, rumori, tratti somatici che arrivano dritti ai livelli emotivi, smuovendo inconsce reazioni e producendo disorientamenti spazio-temporali, per la sensazione di non essere più a casa.
L’Esquilino è diventato suo malgrado un condensato di tarda modernità
che lo rende oggetto di costante interesse da parte della stampa periodica e palinsesto dei programmi politici che emergono ad ogni tornata elettorale, vuoi
per gli elevati livelli di microcriminalità quotidiana (scippi, rapine, furti, ecc.),
vuoi per le frequenti risse intraetniche ed interetniche, vuoi perché, grazie alla
presenza di ostelli, centri di accoglienza e mense per poveri e senza tetto che
frequentano stabilmente gli spazi pubblici del rione, complice la presenza della
stazione Termini, esso rende palesi e visibili le contraddizioni del mondo eco-
284
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
nomicamente avanzato. L’associazione tra povertà estrema, criminalità e presenza immigrata, con quest’ultima ad essere spesso ritenuta responsabile del
progressivo degrado del rione, è frequentemente cavalcata a livello mediatico,
contribuendo a diffondere stereotipi e pregiudizi verso l’Altro, in particolare
verso la componente cinese (Mudu, 2003; Mirante, 2008; Scarpelli, 2009; Garofalo V., 2019).
L’Esquilino, quindi, è sì un’“arena pubblica permamente” (Montuori, 2007:
30), dove le diverse culture sperimentano la conoscenza reciproca e la condivisione degli spazi di vita quotidiana, grazie anche alle tante realtà associative
che operano nel rione, ma anche il contesto ove gruppi sociali e culturali, in
modo più o meno aperto e dichiarato, mettono in scena i loro disagi, conflitti
e risentimenti reciproci. E proprio come in tanti altri spazi urbani sparsi per il
mondo trasformati dal fenomeno migratorio, l’Esquilino addensa da una parte
le ataviche paure che accompagnano la presenza dell’Altro (smarrimento, perdita di riferimenti identitari, senso di invasione, ecc.), dall’altra le questioni
dell’inserimento, del riconoscimento dei diritti, delle identità multisituate dei
migranti. Una presenza straniera non facile da accogliere, peraltro, in un paese
come l’Italia, ove la transizione dall’emigrazione all’immigrazione è avvenuta
in tempi recenti e repentini (Bonifazi et al., 2009; Chang, 2012), in assenza
di strumenti legislativi e operativi idonei a gestire un fenomeno che ancora
oggi assume spesso i toni dell’emergenza (cfr. Becucci, 2018). Tutto ciò in un
contesto europeo, definito non a caso “fortezza Europa”, ove i confini esterni
si irrigidiscono sempre di più e ove si assiste alla crescente diffusione di un
“fondamentalismo culturale” che tollera e ammette la presenza dell’Altro, a
patto che ciascuno stia al suo posto (Aime, Borzani, 2020).
Ma l’Esquilino è a Roma, città che ha fatto dell’apertura, dell’accoglienza,
dell’inclusività e solidarietà il suo vessillo internazionale, non senza retorica,
giovandosi del mito della sua storia antica e del fondamento di tolleranza e libertà verso altri popoli che favorì a lungo il proprio dominio su mezzo mondo.
E l’Esquilino reca i segni di questa profondità e grandezza storica, cosicché negozi cinesi e spacci bangladesi convivono con necropoli e monumenti di epoca
romana, portici e palazzi di ispirazione piemontese, pietre di inciampo ed ex
carceri delle SS. Nel mentre, guide e siti web turistici presentano l’Esquilino
come uno scrigno di tesori storici e come luogo attrattivo proprio grazie all’atmosfera multiculturale che si respira, promettendo un’esperienza unica nella
“Disneyland dell’esotico” (Semi, 2015, cit. in Carbone, 2019).
Tanti sono i contributi scientifici dedicati alle trasformazioni insediative e
demografiche dell’Esquilino, con relativo, inevitabile, riferimento alla presenza
immigrata (ad es. Mudu, 2003; Casacchia, Natale, 2003). Diversi sono anche
i contibuti centrati specificamente sulla componente cinese, con particolare
attenzioni alle attività commerciali (ad. es. Cristaldi, Lucchini, 2007; Belluso,
2015), ai processi insediativi (ad es. Cristaldi, 2011-2012), alle complesse dinamiche di etnicizzazione del rione (Carbone, Di Sandro, 2018), alle rappresentazioni mediatiche (ad es. Mudu, 2003; V. Garofalo, 2019). Alcuni
285
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
contributi hanno anche rilevato le opinioni di abitanti e operatori locali – oppure dei romani in generale (Ravagnoli, 2016) – sull’Esquilino, facendo emergere un risultato ricorrente: da una parte anziani e residenti di lunga data che
hanno un’immagine negativa del rione, percepito come caotico, sporco, frequentato da delinquenti, colonizzato dai cinesi e abbandonato dalle autorità
locali (Scarpelli, 2009; Carbone, Valletta, 2014); dall’altra giovani e gentrifiers
che invece apprezzano le sue connotazioni multiculturali, ritenute motivo di
crescita sociale e punto di forza per il futuro del quartiere (Caputo, 2015; Musacchio, 2019).
Molto poche, viceversa, sono state le ricerche sul campo volte a rilevare
voci, vissuti e punti di vista della collettività cinese dell’Esquilino (tra cui Samgati, 2006; Montuori, 2007); il motivo, a volte espressamente menzionato in
altri studi, è la difficoltà nel contattare tale collettività e la frequente indisponibilità a rilasciare interviste. Non si può prescindere, tuttavia, dalla prospettiva
del migrante, poiché essa consente di superare i ragionamenti centrati su invarianze e fissità contestuali, visioni dall’alto e cristallizzazioni dello spazio urbano; poiché è l’unica «in grado di suggerire una visione in movimento dello
spazio sociale» (Attili, 2007: 31). I tempi, inoltre, sono cambiati, ormai l’Italia
sperimenta la terza e quarta generazione di immigrazione cinese, e forse la componente più giovane sta producendo cambiamenti nelle relazioni con i territori
di approdo, gli autoctoni e gli immigrati di altre nazionalità.
Quali vissuti migratori connotano abitanti ed operatori economici cinesi
dell’Esquilino? Attraverso quali reti di relazione e con quali progettualità sono
arrivati nel rione? Ritengono davvero di essere una comunità chiusa, poco incline al confronto interetnico, come emerge dagli studi pregressi? Ed eventualmente, quali ostacoli impediscono di interagire con gli italiani e/o con persone
di altre nazionalità? Quali dinamiche si registrano tra le giovani generazioni
cinesi?
Dopo aver presentato alcune sintetiche riflessioni sul fenomeno migratorio
cinese in Italia e in particolare nel rione Esquilino, attraverso una rassegna critica della letteratura scientifica in materia, questo capitolo intende dare risposta
a tali interrogativi, presentando i risultati di una serie di interviste, realizzate
per l’occasione, a persone di nazionalità cinese che vivono e/o operano nel
rione, con l’obiettivo ultimo di rilevare quali aspetti della relazione tra questo
particolare spazio urbano e la collettività esaminata emergano e quali tendenze
recenti stiano affiorando.
2. Stereotipi, pregiudizi e mezze verità
Nell’immaginario collettivo delle società occidentali nulla incarna la diversità culturale come quella riferibile ai popoli cinesi. Si tratta di una narrazione
alimentata nel corso dei secoli, a partire da Il Milione di Marco Polo e proseguita senza sosta fino ad oggi, nonostante che l’intensificarsi dei processi di
286
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
globalizzazione abbia indubbiamente accorciato distanze chilometriche e culturali.
Per altri versi, è stata proprio la cosiddetta globalizzazione a fomentare la
distanza tra l’Occidente e la Cina: il gigante cinese una volta abbracciata l’economia di mercato ha cominciato ad intaccare leadership mondiali e assetti geopolitici consolidati grazie alle indubbie capacità economiche e imprenditoriali,
stratificate a tutti i livelli, dalle imprese multinazionali ai singoli operatori economici da cui sono originate le tante Chinatown sparse per il mondo (Künnemann, Mayer, 2013). C’è da chiedersi, quindi, quanto delle narrazioni e dei
discorsi prodotti a livello mediatico sulla società cinese, spesso a connotazione
negativa, risentano di questi generalizzati timori di matrice politico-economica,
ramificati e diffusi territorialmente.
Non è un caso che i cinesi fossero assimilati già trent’anni fa all’idealtipo
del migrante globale, in quanto «persone piene di risorse, abili ed esperte, che
promuovono il commercio internazionale, superando i legami degli Stati-nazione» (Campani, 1994: 34, cit. in Pitrone, Martire, Fazzi, 2012).
È stato infatti rilevato che le dinamiche migatorie cinesi prendono forma
secondo un piano ben preciso, che si attiva prima della partenza ed è reso possibile grazie alle reti familiari e amicali nei territori di approdo; tali reti sono in
grado di accogliere l’emigrato, offrirgli un ricovero, un lavoro e sostegno burocratico, logistico e morale (Battilani, Fauri, 2018; Pitrone, Martire, Fazi, 2012).
Il presunto o effettivo isolamento degli immigrati cinesi nei luoghi di approdo
deriverebbe quindi non solo dalle indubbie diversità culturali e difficoltà linguistiche (Bragato, Canu, 2006, cit. in Pitrone, Martire, Fazzi, 2012), ma anche
dal progetto emigratorio stesso che crea reti di relazione autoreferenziali prima
ancora di giungere nei luoghi di destinazione. Il dato significativo, evidenziato
da Pitrone (2012), è che tali catene migratorie si autoriproducono e si rafforzano
nel tempo, mantenendo la loro efficacia anche nei periodi in cui le condizioni
per l’espatrio o per l’arrivo nei Paesi di approdo cambiano2.
Le catene migratorie si svolgono ricorrendo alla pratica dell’intermediazione,
che è largamente in uso presso le comunità cinesi, sia nelle questioni di lavoro
che in quelle private, ed è strettamente legata alla necessità di mantenere relazioni interpersonali cordiali e armoniose, anche in caso di notizie spiacevoli
(Busato, 2006). A queste catene migratorie, centrate sulla pratica dell’intermediazione, si deve probabilmente il fatto che gran parte degli immigrati cinesi
in Italia provengano da una zona specifica della Cina, cioè lo Zhejiang, posto
nell’area sud-orientale, e in particolare dai dintorni della città di Wenzhou (Pitrone, Martire, Fazi, 2012) (fig. 1).
In realtà, una ricerca svolta a Roma, con l’impiego della social network analysis, ha rilevato che anche
gli immigrati di altre nazionalità (bangladese, filippina e peruviana) tendono a sviluppare sistemi di
problem-solving autoreferenziali e che gli apparati istituzionali e amministrativi tollerano tali pratiche
in quanto consentono ad essi di relegare le spinose questioni concernenti gli immigrati oltre la
propria sfera di responsabilità (Long, 2015).
2
287
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
Fig. 1 – Localizzazione della Provincia dello Zhejiang.
Fonte: https://it.maps-china-cn.com/mappa-della-cina-province-e-citt%C3%A0
Altro dato emerso dallo spoglio della letteratura in materia riguarda il fatto
che l’emigrazione cinese è sempre sostenuta dal desiderio di arricchimento economico (Zhu, 1997). A differenza degli immigrati di altre nazionalità, cioè,
non è la ricerca del lavoro a costituire push factor del progetto migratorio, bensì
l’aspirazione ad acquisire un rapido avanzamento del proprio status socio-economico. Tale obiettivo è spesso conseguito attraverso ritmi serrati di lavoro,
che a loro volta risultano favoriti dalla connotazione familiare delle imprese
economiche e dal conseguente innalzamento dei livelli di sfruttamento e autosfruttamento (Ceccagno, 1998, cit. in Pitrone, Martire, Fazi, 2012). A ciò è
collegato uno stereotipo molto diffuso in Italia, secondo cui le imprese cinesi
operano in larga parte nell’irregolarità e quindi sfuggono alle regole della concorrenza raggiungendo elevati livelli di produttività/rendimento economico.
Tuttavia, il lavoro prolungato sul campo a stretto contatto con gli immigrati
cinesi ha dimostrato che «la realtà è fondamentalmente diversa e sicuramente
più complessa» (Becucci, 2018: 23): frequenti cambi di gestione delle attività
imprenditoriali, trasferimenti da una città all’altra, turni di lavoro estenuanti
288
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
sono all’origine della diffusa delusione rispetto alle aspettative iniziali e del
conseguente desiderio di tornare a casa (Jin, 2006; Shi, 2017).
Familismo, conservatorismo, divisione e gerarchizzazione dei ruoli di genere
ricorrono spesso nelle indagini svolte presso le comunità cinesi in Italia e all’estero. Da tali ricerche emerge, ad esempio, che la donna cinese svolge attività
lavorative al pari degli uomini e detiene un peso importante nei progetti migratori, ma il suo ruolo principale resta quello di moglie e di madre (Campani,
1994; Cologna, 2007, cit. in Pitrone, Martire, Fazi, 2012). Tuttavia, a tale affermazione si potrebbe replicare che la condizione della donna occidentale non
differisca sostanzialmente da quella della donna cinese; inoltre, lo stereotipo
della cultura patriarcale, che vedrebbe le donne cinesi subordinate al ruolo di
madri e mogli, sembra contraddetta dai dati in continuo aumento sull’imprenditorialità femminile; la società cinese, in tal senso, risulta in rapido e profondo
cambiamento (Brigadoi Cologna, 2017).
La grande dedizione al lavoro e lo scarso tempo libero a disposizione, che
proprio perché poco viene condiviso con familiari e connazionali, sarebbe tra
le ragioni principali, indicate in letteratura scientifica, che ostacolano l’inserimento e la piena integrazione degli immigrati cinesi nelle località di approdo
(Pedone, 2008). Più verosimilmente, sono le notevoli differenze culturali tra
le società cinesi e quelle occidentali a rivestire un ruolo fondamentale: consuetudini, norme microrituali, comportamenti sociali molto diversi che creano
frequenti equivoci e malintesi nelle interazioni interculturali. È stato rilevato,
ad esempio, che molti accordi economici falliscono proprio per il differente
registro comportamentale utilizzato in tali occasioni e per le notevoli difficoltà
di comprensione reciproca, al di là della questione linguistica (Busato, 2006);
non a caso sono state pubblicate guide per italiani/occidentali in cerca di affari
con la Cina (ad es. Ceccagno, 1995).
Ma cosa pensano gli immigrati cinesi degli italiani? I rilevamenti diretti finora effettuati evidenziano giudizi poco lusinghieri e non privi di altrettanti
stereotipi, pregiudizi e generalizzazioni: gli italiani sono ritenuti gentili, simpatici, amichevoli, disponibili, amanti della bella vita, ma anche superficiali,
legati all’apparenza, chiassosi, spendaccioni, poco dediti al lavoro, individualisti
e indisciplinati, inclini a imbrogliare e truffare, troppo concessivi con i figli
(cfr. Pedone, 2012). Molti cinesi lamentano vissuti di discriminazione e mancanza di rispetto, anche a scuola o negli ambienti di lavoro più prestigiosi.
Inoltre, viene recriminato il fatto che i cinesi siano considerati un popolo culturalmente uniforme e omogeneo, senza tenere conto delle notevoli diversità
regionali; così facendo tuttavia incorrono essi stessi in uno stereotipo “interno”,
in base a cui l’immagine negativa dei cinesi in Italia è dovuta alla provenienza
dallo Zhejiang, i cui abitanti sarebbero «poco istruiti, più attaccati al denaro,
più chiusi» (Fazzi, 2012: 193).
Non è questa la sede per approfondire le complesse questioni che ruotano
attorno alla costruzione sociale degli stereotipi e dei pregiudizi sociali e territoriali, se non per sottolineare come spesso alla loro radice si collochi il timore
289
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
di ciò che non si conosce e la conseguente necessità di una qualche forma di
controllo su di esso, attraverso giudizi perentori, generalizzanti e quasi sempre
negativi. Il problema è che la costruzione in tali termini del diverso da sé si
presta ad essere utilizzata a livello politico e mediatico per sollecitare uno spostamento di attenzione dalle questioni sociali insolute (diseguaglianze economiche, precarietà del lavoro, ecc.) che potrebbero portare a dissensi e
delegittimazioni dei poteri in carica, ad un presunto problema di ordine pubblico
da risolvere (i migranti come potenziali fattori di destabilizzazione) (Wacquant,
2010): un perfetto escamotage funzionale alla riproduzione del consenso nei
confronti delle élite politiche, soprattutto durante i periodi di crisi economica
(Cecchi, 2018).
3. Uno spazio accogliente?
L’Esquilino ha iniziato a popolarsi di immigrati dai Paesi del Sud del mondo
nel corso degli anni Settanta, seguendo il trend registrato più in generale nella
città di Roma e in Italia: dapprima persone di nazionalità egiziana, eritrea, capoverdiana, quindi persone provenienti dalle Filippine, dal Bangladesh, dal
Sud America e dall’Europa orientale (Casacchia, Natale, 2003).
La componente cinese è arrivata nel rione sul finire degli anni Ottanta dello
scorso secolo, ma è tra gli anni Novanta e 2000 che è aumentata in modo considerevole, in coincidenza con una serie di eventi rilevanti sul piano nazionale
e internazionale: il ritorno di Hong Kong alla Cina (2000), l’ingresso della
Cina nel WTO (2001), gli accordi intergovernativi tra Italia e Cina per la promozione e la reciproca protezione degli investimenti economici (L. 109/1987),
nonché l’inserimento nel sistema giuridico cinese del cosiddetto “Trust” (2001)
in base a cui qualsiasi soggetto, istituzione o gruppo può affidare i propri capitali ad un “trustee”, cioè ad una persona di fiducia, che li investe e li gestisce
anche all’estero (Mignella Calvosa, 2007).
La scelta dell’Esquilino non è stata casuale, il rione era alle prese con processi
di degrado e abbandono, in gran parte dovuti all’avvento della grande distribuzione (che ha segnato la crisi del commercio al dettaglio in tutte le aree economicamente avanzate) e allo spostamento della stessa ai margini esterni della
città, in prossimità dei grandi sbocchi autostradali e delle vie consolari. Tale
crisi ha colpito il cuore funzionale del rione, storicamente dedito al commercio,
contribuendo in modo decisivo alla sua progressiva involuzione (Arena, 1982):
negozi chiusi, appartamenti svuotati per il trasferimento di molti residenti in
nuovi quartieri e abitazioni più agevoli; interi palazzi, soprattutto nell’area di
Piazza Vittorio, danneggiati o gravemente lesionati per l’assenza di cura e manutenzione.
È in questo clima di generalizzato declino che è subentrato, nel corso degli
anni Novanta, l’arrivo consistente di immigrati asiatici, dando inizio al cosiddetto ethnic business che ancora oggi connota il rione: bangladesi con spacci di
290
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
generi alimentari, phone center e centri servizi per connazionali; cinesi con ristoranti e negozi di abbigliamento (Mignella Calvosa, 2007). L’opinione piuttosto diffusa che i cinesi abbiano favorito se non determinato il progressivo
degrado del quartiere, pertanto, non ha fondamento, perché il quartiere era
già in tali condizioni prima del loro arrivo (Morelli, Sonnino, Travaglini,
2003). Piuttosto, gli immigrati cinesi hanno intuito tempestivamente le potenzialità del quartiere (zona centrale a prezzi competitivi, ottimi collegamenti
intra ed extra urbani, ecc.) e le hanno sapute utilizzare, acquisendo negozi e
appartamenti a prezzi anche molto superiori a quelli di mercato (Casti, Portanuova, 2013). L’Esquilino non differisce, in tal senso, da tanti altri contesti
nazionali ed esteri, ove gli immigrati cinesi hanno saputo cogliere sul nascere
le opportunità del mercato e le circostanze congiunturali favorevoli per realizzare investimenti e rilevare attività produttive (Rasera, Sacchetto, 2018), come
nel caso di Prato, ove l’industria delle confezioni e del pellame è ormai quasi
totalmente nelle mani di imprenditori cinesi (Becucci, 2018).
Da allora, Piazza Vittorio (ovvero Piazza Vittorio Emanuele II), cuore nevralgico e luogo simbolo del rione, è divenuta fulcro delle attività commerciali
cinesi a Roma, assumendo un ruolo strategico di livello internazionale. Già sul
finire degli anni Novanta, gran parte delle merci provenienti dalla Cina transitavano all’Esquilino per poi essere re-indirizzate verso i mercati italiani ed
europei. Ancora oggi, gli imprenditori cinesi residenti in Francia, Spagna, Portogallo, Germania arrivano a Weituoli’ao, come viene chiamata Piazza Vittorio
dai commercianti cinesi (Pedone, 2012), per visitare i negozi-vetrina, confrontare i prezzi ed effettuare gli ordini da spedire in tutta Europa.
Nel contempo si è osservata una redistribuzione delle attività commerciali
cinesi, soprattutto per effetto delle disposizioni comunali che hanno vietato la
presenza di magazzini all’ingrosso nel centro città (Cristaldi, 2011-12). Inoltre,
a partire dai primi anni 2000, in coincidenza con i maggiori controlli effettuati
dalle forze dell’ordine italiane sui porti di arrivo delle merci cinesi ovvero con
il relativo rallentamento del traffico di importazione, molti imprenditori cinesi
hanno deciso di rivolgersi ad altre destinazioni europee (Pedone, 2012). Il
quartiere Esquilino, la zona di Piazza Vittorio in particolare, è rimasta però il
“cuore” del commercio cinese con funzioni di showroom per i grossisti che
operano in Italia, mentre i magazzini delle merci importate, pronte per essere
spedite altrove, sono concentrati nella periferia orientale della città. Così,
l’Esquilino ha ridimensionato la propria funzione di hub europeo per il transito
delle merci, ma rimane, data la prossimità dei negozi, un luogo-simbolo economico e relazionale per i cinesi: un luogo in cui, per ricordare la nota distinzione di Putnam (2000), le relazioni di tipo bonding (quelle che accrescono il
legame tra persone simili per classe, religione, etnia, ecc.) predominano su
quelle bridging (quelle che connettono i membri di una collettività con l’alterità
e l’altrove).
Il cambiamento nella localizzazione delle attività commerciali si è accompagnato
a una redistribuzione degli immigrati cinesi anche a livello residenziale, a vantaggio
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CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
soprattutto dei settori orientali della città: nel 1990 il I Municipio, a cui fa capo il
Rione Esquilino, ospitava il 31% degli immigrati cinesi (Mudu, 2007: 196); nel
2019 tale quota è scesa al 16% (dati Roma Capitale). Sempre al 2019, su un totale
di 19.478 cinesi residenti a Roma, il 13% risulta situato al Prenestino Labicano
(quartiere popolare dell’area orientale), l’11,7% all’Esquilino, il 10,6% al Tuscolano
(quartiere popolare della zona sud-orientale). Le altre zone di Roma ospitano molti
meno cittadini di nazionalità cinese; gli unici valori più elevati si rilevano nel quartiere Don Bosco (5,5%), adiacente al Tuscolano, e a Torre Angela (5,3%) sulla via
Casilina. Rispetto al totale della popolazione residente, tuttavia, è l’Esquilino a detenere la più elevata presenza cinese, con un valore pari al 10,6%, contro il 3,5%
del Prenestino Labicano e il 2% del Tuscolano.
Nonostante l’addensamento di residenti e attività commerciali cinesi,
l’Esquilino non presenta le caratteristiche del ghetto o della Chinatown, come
spesso viene chiamato dai media, sia perché il rione ospita cittadini di altre nazionalità (soprattutto bangladesi, rumeni e filippini) (fig. 2), sia per la diffusione di negozi (e di banchi al Nuovo Mercato Esquilino) gestiti da immigrati
provenienti da altri Paesi, oltre che da italiani.
Fig. 2 – Composizione % dei residenti stranieri nel rione Esquilino
per area di provenienza (2019). Elaborazione su dati Roma Capitale.
Abitanti ed esercenti locali di lunga data, nel corso di interviste e ricerche
sul campo, riferiscono di sentirsi espropriati dal loro territorio, percepiscono
la presenza cinese come invasiva e ritengono che l’Esquilino sia diventato un
luogo di transito in cui è divenuto difficile instaurare relazioni sociali (Montuori, 2007; 2009; Cossetta, Cappelletti, 2013; Caputo, 2015; Musacchio,
2019). Di fatto, atteggiamenti di pregiudizio e antagonismo, soprattutto nei
confronti della componente immigrata cinese, sono pronti ad esplodere ad
292
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
ogni occasione, come dimostra ciò che è accaduto nelle prime settimane del
COVID-19, durante le quali gli unici esercizi pubblici ad essere disertati erano
quelli gestiti da cinesi, accusati di essere gli “untori” del mondo globalizzato.
Le pochissime interviste rivolte ai cinesi dell’Esquilino hanno restituito, invece,
sia le maggiori difficoltà di inserimento e integrazione nel tessuto sociale locale,
rispetto ad altri quartieri di Roma, ad esempio il Pigneto, che è parte del Prenestino-Labicano (Bracalenti et al., 2009), sia il disappunto e il dispiacere per
il pregiudizio etnico, generalista e discriminate, di cui spesso si sentono vittime
(Pitrone, Martire, Fazzi, 2012).
Si confermerebbe così la connotazione dell’Esquilino come zona di passaggio, di transito, di centralità marginale ovvero come spazio urbano in cui è
difficile stabilire relazioni che non siano riferibili ai propri gruppi di riferimento, avvalorando l’ipotesi di una spinta del contesto locale alla creazione di
“segregazioni” o “autosegragazioni” a carattere etnico (Cristaldi, 2002). Di
segno contrario, tuttavia, sembrerebbe la recente tendenza riscontrata nel rione
a proposito della proliferazione di altre tipologie di esercizi commerciali a gestione cinese (vinerie, bar, raviolerie, ecc.), anche sulla scia della gourmet gentrification in atto nel rione.
4. Gli eroici pionieri della prima generazione
Questo paragrafo e i due successivi si prefiggono lo scopo di indagare con
un approccio etnografico la collettività cinese dell’Esquilino “dal di dentro”,
dando conto dei punti di vista dei protagonisti. In particolare, si vogliono evidenziare i vissuti migratori di abitanti e operatori economici cinesi del rione,
le reti di relazione che hanno permesso il loro stanziamento, le percezioni comunitarie e i rapporti con i residenti italiani, le dinamiche di cui le giovani
generazioni cinesi sono attori sociali.
Le fonti utilizzate sono in prevalenza quelle orali. Sono state realizzate undici interviste in profondità semistrutturate a persone di nazionalità cinese che
risiedono, lavorano e/o studiano all’Esquilino, scelte tenendo conto di un campionamento bilanciato (Agar, 1996; Fetterman, 2009; Schensul, LeCompte,
2013): sei uomini e cinque donne, di età compresa tra 31 e 54 anni; due testimoni provenienti da aree meno coinvolte nella migrazione cinese all’Esquilino,
quattro nati in Italia; tempo di stanziamento nel rione variabile tra i tre e i
trentadue anni. Altre fonti orali sono emerse da dialoghi informali con altri
abitanti e frequentatori del rione, soprattutto insegnanti, studenti cinesi e un
dirigente scolastico.
Tutti i cittadini cinesi intervistati evidenziano come pregnante la distinzione
tra generazioni di immigrazione. La prima, quella di coloro che sono partiti
dalla Cina giungendo all’Esquilino, viene presentata come molto differente
dalle successive. Dei “pionieri” vengono enfatizzati tratti marcati e peculiari,
sia positivi che negativi.
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CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
Un primo elemento emerso dalle interviste, che conferma quanto riportato
in letteratura scientifica (Di Luzio, 2006; Pedone, 2010; 2011; 2012), è la provenienza di gran parte dei cinesi dell’Esquilino, almeno l’80% – ma i testimoni
aumentano la percentuale al 95- 99% – da una circoscritta area della Cina: la
provincia dello Zhejiang, sulla costa sudorientale. Il luogo che viene più spesso
richiamato è la città-prefettura di Wenzhou, nel sud-est della provincia, che
conta oltre tre milioni di abitanti (Chang, 2012). Questo territorio ha una valenza simbolica molto forte per le autorappresentazioni dei migranti cinesi: è
ad esso che si riferiscono anche quando provengono da altre contee della provincia dello Zhejiang (Qingtian, Wencheng), a volte perfino dalla città di Hangzhou (300 km) o dalla città-prefettura di Huzhou (400 km).
Le prime ragioni addotte riguardano la supposta “fama” di Wenzhou, conosciuta in Italia ed Europa almeno di nome, rispetto ad aree più o meno limitrofe. Ma ci sono anche giustificazioni che aprono a interpretazioni
antropologicamente più incisive. I testimoni affermano infatti che ognuno di
loro ha un legame con quella città, anche se non ci è nato né cresciuto: è il
luogo dove una persona importante della famiglia ha svolto gli studi accademici, o da cui provengono antenati di cui tuttavia non si sa ricostruire il percorso genealogico. A volte si ricordano vaghe storie di parenti che visitarono il
luogo venendone attratti, vivendo esperienze particolari o toccanti.
In tutto il mondo, Wenzhou è il primo paese che la gente va all’estero. Poi,
lo sai, no? Anche io non sono proprio di Wenzhou, ma se vai a cercare, le
profonde radici, sempre c’è qualcosa attaccato a qualcuno di Wenzhou [...].
Eh, visto che zio [di mio marito] è di vicino Wenzhou. Zio ha portato mio
marito, io ho sposato lui. Io non c’entro niente di Wenzhou, marito è nato
da noi [Huzhou], però i genitori di mio marito sono vicino a Wenzhou.
Perciò, se vai a cercare, c’è sempre qualche parente di Wenzhou. Perché i
primi che sono venuti da Wenzhou, poi portano famiglia, famiglia… Sempre così, no? Anche italiani, vanno in America, sempre così, no? [risata]
[Sonia Hangzhou, 52 anni, titolare di un noto ristorante all’Esquilino,
intervista del 01.10.2020].
A uno sguardo più profondo, ricondursi a Wenzhou significa sottolineare
più una “essenza etnica” che una provenienza geografica. In Cina il “modello
Wenzhou” è particolarmente noto. I wenzhouesi3 si caratterizzerebbero per
l’intraprendenza commerciale basata su una fitta rete di imprese che si occupano di articoli di piccolo taglio, il cui enorme volume di vendite garantisce
un guadagno considerevole nonostante il basso margine sul singolo prodotto.
3
Rispettando le autorappresentazioni, nel seguito del capitolo utilizzerò “wenzhouese” con accezione
retorica, secondo quanto indicato dai testimoni. Per le stesse ragioni, “cinese” e “wenzhouese” saranno
utilizzati come interscambiabili, con il consapevole rischio di confondere le due “identità”, e tuttavia
nel segno di un’ambiguità su cui gli stessi testimoni indugiano.
294
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
I migranti di Wenzhou si sono diffusi inizialmente in specifiche aree della Cina,
fondando diverse Wenzhoutowns, tra cui una a Pechino, con l’impiego di lavoratori locali (Di Luzio, 2006; Pedone, 2010). I cinesi dell’Esquilino dichiarano
che i compatrioti nel mondo, dall’Europa all’America, dall’Africa alle altre zone
asiatiche, sono quasi tutti wenzhouesi, e che gli altri cinesi, invidiosi delle loro
“doti innate” per il successo economico, li stigmatizzano tacciandoli di avidità,
opportunismo, asservimento alle logiche di mercato.
L’“orgoglio wenzhouese” si fonda sulla considerazione, raccontataci dai testimoni, secondo la quale gli imprenditori provenienti da questa città-prefettura presenterebbero caratteri positivi e riconoscibili: accorti a “fiutare gli
affari”, scaltri nel cogliere l’occasione “giusta”, dediti al lavoro sino a sacrificarsi
per conseguire guadagni consistenti, coraggiosi al punto di avventurarsi in attività e luoghi ignoti, eppure organizzati per poter contare sul sostegno economico dei “concittadini”.
Ingegnosi nel diversificare le attività per assorbirne i rischi (negozi di scarpe
e ristoranti, ad esempio, nelle mani di uno stesso titolare) e al contempo sfrontati nel non temerli (vendendo una ditta fruttuosa per acquisirne una in declino
da rigenerare, ad esempio), i wenzhouesi sarebbero mossi da un piglio “tipico”
che si manifesta soprattutto nella volontà di ascesa socio-economica. Le interviste evidenziano storie di wenzhouesi che hanno limitato al minimo il periodo
lavorativo subordinato: solo pochi mesi, in qualità di dipendenti presso connazionali, durante i quali il datore di lavoro si faceva carico di fornire vitto e
alloggio, talvolta nel luogo di lavoro stesso. I risparmi, come rilevato in precedenti indagini (Ceccagno, 2018), hanno permesso loro di accedere al mondo
dell’imprenditoria con la gestione in prima persona di attività commerciali e
ristorative:
[…] Perché uno di Wenzhou, dello Zhejiang, è diverso da uno che viene da
Pechino. Uno che viene da Wenzhou alla fine vuole diventare il padrone:
apre il negozio, diventa proprietario. I primi tempi, uno per imparare qualcosa, fa il dipendente. Poi subito dopo va a aprire il negozio. Se chiedi: “i
wenzhouesi lavoro per gli altri?” Quasi niente. Tutti sono proprietari di ristoranti, di un locale. Questo sembra veramente un’abitudine, una tradizione! [risata] Non lo so, però è così! Mentalità loro, è così. Invece uno di
Pechino, non vuole aprire il negozio [Sonia Hangzhou, 52 anni, titolare
di un noto ristorante all’Esquilino, intervista del 01.10.2020].
Alla luce di queste testimonianze, la città di Wenzhou risulta essere soprattutto una strutturazione simbolica con la quale ci si identifica. “Essere wenzhouesi” garantisce l’iscrizione della propria biografia in un gruppo sociale “di
eletti”, a un “nucleo duro”, a un habitus (Bourdieu, 1980) in grado di fondare
e veicolare una serie di caratteristiche positive legate al “migrante cinese di successo”. Se tale narrazione è osteggiata dai non wenzhouesi “invidiosi”, il governo cinese negli ultimi decenni si è prodigato per legittimarla, mostrando
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CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
interesse a includere i Chinese Overseas a pieno diritto nella grande nazione cinese quali eroici cittadini in grado di imporsi all’estero onorando la patria (Barabantseva, 2001; 2005; Gungwu, 2002).
Per molte famiglie, l’Esquilino non è stato il primo luogo di approdo ma un
“Eldorado” che cominciava ad attrarre per le opportunità che andavano delineandosi. Tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo alcuni wenzhouesi giunsero nel rione da altre città italiane come Milano, Firenze, Prato,
Bologna, Torino, Napoli attratti dalla possibilità di sfruttare le possibilità di
guadagno offerte dai flussi turistici. Il lavoro è tema imprescindibile e ricorrente
nelle narrazioni wenzhouesi. Tutti descrivono le famiglie della prima generazione
come laboriose, completamente assorbite dalle mansioni lavorative, capaci di
privazioni per il miglioramento delle loro condizioni economiche e quelle dei
figli, di vivere con poco denaro e mettere da parte capitali da reinvestire.
La prima occupazione per molti ha riguardato la ristorazione, attività descritta dai testimoni come faticosa per il lungo orario lavorativo, spesso priva
del riposo settimanale, tanto più gravosa perché organizzata sulla conduzione
familiare per contrarre i costi. Gli intervistati attribuiscono al mancato ricambio generazionale dei ristoratori italiani il loro ingresso nel settore: ancora una
volta, l’eroico spirito di sopportazione, la capacità di lavorare duramente e di
sacrificarsi distingue lo spirito wenzhouese.
Tutti i ristoranti abruzzesi, toscani, sardi, siciliani non hanno avuto ricambio generazionale perché la ristorazione è sacrificio. Grosso sacrificio. Non
essendoci stato ricambio generazionale, le persone [italiane] appena hanno
potuto cedere l’attività, l’hanno subito ceduta. […] Il ricambio generazionale è una cosa che nella ristorazione capita. È capitato anche alla comunità
cinese. La ristorazione cinese è cominciata anni Novanta. I genitori oggi
sono diventati vecchi e ai figli hanno cercato di non fargli fare quel tipo di
vita. Perché è una vita di grandissimi sacrifici. Il ristoratore non ha quasi
più vita, se lo vuole gestire in modo familiare. Perché tra aperture mattutine,
la spesa, riapertura al serale, eccetera, non ha vita [risata]. È una cosa che
i genitori erano abituati a fare, perché nella Cina non erano concepite le
vacanze. Adesso siamo arrivati al contrario, perché in Cina c’è benessere, ci
sono le vacanze che sono incredibili in Cina [Michele Deng, 54 anni, titolare di un’agenzia immobiliare all’Esquilino, intervista del
02.09.2020].
Lo stralcio di intervista appena riportato è esemplare e paradigmatico: lavoro
e sacrificio sono elevati ad “atti eroici”; si indugia sul “vuoto” lasciato dai ristoratori
italiani, i cui figli non sono stati disposti a continuare delle attività ritenute eccessivamente impegnative. La testimonianza rileva che anche i cinesi delle generazioni
successive, come gli italiani, si sarebbero abituati a stili di vita improntati alla minore fatica e al maggiore svago (vacanze, giornata lavorativa corta, hobby e divertimenti vari), mettendo a rischio la continuità delle attività genitoriali.
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TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
5. Memorie divise tra degrado e rigenerazione
I racconti dei residenti italiani sull’Esquilino, soprattutto di quelli più anziani e di lunga durata, vertono mestamente su un rione che avrebbe perso la
sua identità, su degrado e insicurezza, sul peggioramento della quotidianità.
Non è questa la sede per discutere le ambiguità del concetto di identità, ampiamente problematizzato in antropologia. Va tuttavia rilevato che i cittadini
cinesi che vivono da trent’anni o più nel rione – e quindi hanno vissuto gli
“anni della transizione” – hanno una percezione differente dell’Esquilino: con
le loro parole plasmano una memoria alternativa e in disaccordo con quella
nostalgica italiana, altrettanto “reale” (Candau, 2002; Fabietti, Matera, 1999).
In primo luogo, i testimoni cinesi prendono le distanze da fantasiose ipotesi
di illegalità e delinquenza, “mafia cinese” e riciclaggio: accuse che procurano
loro particolare sofferenza. I negozi cinesi di abbigliamento o scarpe che sono
tacciati di avere scarsa clientela e poca merce esposta, come gli stessi gestori
confermano, sono showroom e lavoravano all’ingrosso. Le pareti e le vetrine
presentano campionari di prodotti che vengono ordinati sempre più spesso
“da remoto” (fig. 3).
Fig. 3 – Negozio showroom cinese nel rione Esquilino. Foto di T. Banini.
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CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
A un’attenta osservazione, tuttavia, alcuni commercianti, anche italiani, vi
si recano di persona per acquistare centinaia di capi da distribuire nei propri
negozi al dettaglio, dislocati in varie zone di Roma. Altri clienti sono venditori
ambulanti, spesso stranieri. Come osservava Pierpaolo Mudu già nei primi
anni 2000, d’altra parte, «esiste sicuramente una relazione sottovalutata tra imprenditori immigrati e quelli italiani, romani in particolare. È impossibile ipotizzare un isolamento dei commercianti cinesi, poiché sono molti i
commercianti e gli ambulanti romani che si riforniscono dagli esercenti cinesi»
(Mudu, 2003: 651). Questo è stato rilevato venti anni fa, e oggi è ancora più
evidente.
Circa le modalità con cui i cinesi hanno acquistato le mura di alcuni locali,
o possono permettersi l’affitto di altri, o ancora riescono a diversificare le attività imprenditoriali, tutti i testimoni insistono nel sottolineare che il raggiungimento del successo lavorativo ed economico è stato possibile per mezzo di
microprestiti contratti nell’ambito di reti familiari e amicali dense ed estese.
In particolare, rivelano rapporti fiduciari, rafforzati dalle catene migratorie,
decisivi per lo sviluppo di un sistema di prestiti, garantiti da parenti e amici,
con cui imprenditori ricchi coprono gli investimenti di chi non possiede capitali iniziali e i fornitori concedono alcuni mesi di credito alle nuove ditte. Questo metodo si regge sulla promessa di ripianare i debiti nel minor tempo
possibile ovvero sulla fiducia quale elemento basilare delle relazioni interpersonali (Pedone, 2010):
C’è la famiglia dietro, ti aiuta. Uno apre un negozio: non è così facile,
quante migliaia di euro? […] Ci vuole una cifra di soldi. Tra i cinesi si aiutano. Uno che apre, vuole aprire un negozio, va a chiedere a tutti: tutti ti
danno qualcosa, chi più, chi meno, tutti ti danno qualcosa. Poi, in futuro
pian piano restituisci […] I cinesi ancora, se un giovane apre un ristorante,
chiede ad amici, amici o parenti: tutti gli danno, tutti gli danno. Anche se
uno sta lavorando, qualche cameriere mio, l’amico del fratello deve aprire
un ristorante: lei non c’ha soldi, però chiede se Sonia gli dà i soldi, tanto poi
lavora qua e mese per mese ridà… così. Così lo dà uguale, anche se non c’ha
soldi, lui se ha un lavoro fisso può garantire che io, piano piano, il padrone
dà i soldi prima. Così, capito? [risata] Lo fanno ancora! Lo fanno ancora!
Se no, come fai ad aprire un negozio? Come fai? Non è possibile, no? È una
formula cinese! [risata] Tradizione cinese! [Sonia Hangzhou, 52 anni, titolare di un noto ristorante all’Esquilino, intervista del 01.10.2020].
Il tema ricorrente nei racconti degli intervistati, contrariamente alle percezioni italiane, verte sulla rivitalizzazione che la presenza cinese ha apportato al
rione. Riferendosi agli anni Novanta, i testimoni parlano di un’area abbandonata, lasciata vuota dagli italiani (Mudu, 2003; Scarpelli, 2009) e alla conseguente vasta disponibilità immobiliare:
298
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
I primi tempi, negli anni Novanta, io ho notato, ’96, da via Napoleone III,
via Filippo Turati, via Principe Amedeo… tanti negozi proprio erano già chiusi!
Non erano aperti, eh? Proprio la serranda chiusa, da anni e anni e anni! I
cinesi so’ venuti qua: è chiuso, no? Pensavano: “se è chiuso, il prezzo è basso”.
Questo è già chiuso: se uno vuole, può. Poi uno ha trovato un locale, un altro
preso quello accanto… Ha fatto svegliare, così! Tanti negozi erano proprio chiusi!
Poi per un periodo non c’era un negozio chiuso: anche sottoterra [i seminterrati]:
sono tutti aperti. È una cosa buona, no? Se tu hai un posto con tutti i locali
chiusi, è un peccato, no? Un posto così buono, vicino alla stazione, al centro:
perché non far diventare vivo un posto morto? [Xia Zeng, 41 anni, titolare di
un negozio di abbigliamento, intervista del 23.09.2020].
Dunque, un vuoto che si è declinato tanto nelle opportunità di lavoro (i
ristoratori che chiusero le proprie attività) quanto nelle dinamiche insediative
(residenti e negozianti che hanno abbandonato il rione). I dati demografici
confermano un progressivo spopolamento dell’Esquilino. Dal 1951 al 2001 il
rione ha perso il 67% della popolazione. In particolare, tra 1991 e 2001 si è
registrata una contrazione del 21,4% (Banini, 2019b).
L’Esquilino ricordato con nostalgia dai residenti italiani non è mai esistito
per molti cinesi:
Qui all’Esquilino ho aperto la prima attività, assieme ai miei genitori, nel
1988 […]. l’Esquilino è stata sempre, almeno da quando l’ho frequentata io,
una zona abbandonata […], c’era un angolo dove c’erano le prostitute, un
angolo dove c’erano gli ubriaconi, un angolo dove… non era una bella zona.
Poi, piano piano, aprendo, aprendo, aprendo, siamo riusciti a far spostare gli
ubriaconi. Le prostitute, non so, si sono spostate… [risata] Non so, probabilmente anche lì il ricambio generazionale! [risata] […] La gente non si ricorda,
ma queste vie qui, Turati, Principe Amedeo, Napoleone III, erano negozi all’ingrosso gestiti dalla comunità ebraica [Michele Deng, 54 anni, titolare di
un’agenzia immobiliare all’Esquilino, intervista del 02.09.2020].
Il riferimento alla presenza ebraica che propone Michele è quanto mai pertinente. Nel rione erano presenti negozi, attività commerciali all’ingrosso, depositi e magazzini di note famiglie dell’ebraismo romano: Pontecorvo, Piperno,
Sonnino, Di Veroli (Cingolani, 2009), Spizzichino, Astrologo i cui nomi si rilevano ancora in qualche insegna (sempre più rara) o sui citofoni. La comunità
ebraica all’Esquilino si radicò dopo l’apertura del ghetto (1870). Non è casuale
la presenza di una sinagoga (Oratorio Di Castro), inaugurata nel 1914 e situata
in via Cesare Balbo, adiacente al rione Esquilino (Procaccia, 2014). I drammatici eventi della razzia del 16 ottobre 1943 ne costituiscono altra testimonianza:
furono tra cinquanta e sessanta gli ebrei del rione arrestati (Garofalo D., 2019).
Molti informatori italiani lamentano che la comunità ebraica avrebbe «lasciato la mano ai cinesi» vendendo o affittando i locali storici. In queste affer-
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CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
mazioni c’è del vero – diverse famiglie ebree detengono i locali di alcuni negozi
cinesi e sono risultate proprietarie di alcune delle bancarelle sgombrate dai portici il 2 marzo 2020 – eppure esse sottendono antichi pregiudizi razziali, quali
l’opportunismo, la bramosia di guadagno, l’infedeltà alla “nazione italiana” che
accomunerebbero ebrei e cinesi (Cingolani, 2009).
Può stupire la dichiarazione di un wenzhouese trentunenne, di cittadinanza
italiana, che reitera l’associazione tra cineci ed ebrei, mutandone il segno:
Noi di Wenzhou siamo molto imprenditoriali, sì sì. Infatti i wenzhouesi
siamo molto famosi anche in Cina. Dicono che i wenzhouesi sono come gli
ebrei dei cinesi! [risata] Molto imprenditori, ci sanno fare con gli affari…
infatti… sì sì. Questa cosa è uno stereotipo cinese interno, sì sì. Però è vero
[…]. I wenzhouesi lo sanno che gli ebrei ci sanno molto fare. Magari hanno
trattato molto sul prezzo! [risata] [Giovanni Chen, 31 anni, titolare di un
ristorante, intervista del 17.09.2020].
6. Istruzione vs inclusione
Un problema che i giovani cinesi non negano, anzi evidenziano, è il fatto che
i loro predecessori abbiano fallito nell’inserimento sociale. Assorbiti in modo totalizzante dal lavoro, non avevano energie, tempo e motivazione per apprendere
la lingua italiana. In qualche caso, si rimprovera loro insufficiente accortezza nella
cura dei figli. Tali questioni sono state amplificate dallo scarso livello di istruzione.
I racconti degli intervistati, a proposito di genitori, parenti o conoscenti della
“prima generazione”, vertono su wenzhouesi che provenivano da ambienti umili,
dal mondo rurale, che hanno «imparato da zero a fare gli imprenditori». Sebbene
le nuove generazioni abbiano invertito la tendenza, tra i cittadini cinesi occupati
nel nostro Paese prevale ancora un basso livello di istruzione: l’86,3% ha conseguito al più l’equivalente della licenza media, il 9,3% del diploma e solo il 4,5%
di un titolo universitario (dati al 31.12.2018) (MLPS, 2019: 19).
La scarsa istruzione e le lacune nella padronanza della lingua italiana hanno
contribuito, in un circolo vizioso, al processo di separazione dalla società di
approdo: il mancato contatto con gli italiani ha alimentato reciproca diffidenza,
ha limitato l’accesso a iniziative culturali, ricreative, sociali, artistiche che non
fossero espletate attraverso i canali della collettività cinese. Tutto ciò, a sua
volta, ha favorito la riproduzione dell’idea che i figli non dovessero perdere “le
radici cinesi”: all’Esquilino come altrove si doveva essere cinesi prima che italiani, inglesi, francesi, ecc. (Barabantseva, 2001; Gungwu, 2002).
L’atteggiamento degli “eroici pionieri” wenzhouesi si è riverberato sull’educazione dei figli, che hanno frequentato e frequentano tuttora le scuole italiane,
con alterne vicende. Per gli studenti cinesi è scontato affrontare gli impegni
scolastici su un doppio binario: da un lato la scuola “ufficiale” – che come si
vedrà non è sempre quella italiana statale – dall’altro l’istruzione cinese. Di
300
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
scuole cinesi a Roma ve ne sono varie, alcune riconosciute dall’Ambasciata
della Repubblica popolare cinese, altre non ufficiali. Sino a circa dieci anni fa,
l’Esquilino ne era il fulcro. Oggi ci sono scuole in altre zone della città (all’Eur,
sulla via Casilina e la via Tiburtina), eppure il rione ne conta ancora il numero
maggiore: molti ragazzi, nei pomeriggi, il sabato e la domenica, così come durante le vacanze scolastiche, vi affluiscono da altre parti della città. La più visibile è la scuola della Chiesa Evangelica Cinese, tra via Principe Eugenio e via
Cairoli. Le altre sono gestite da associazioni che stipulano convenzioni con
altre realtà associative del rione oppure con istituzioni scolastiche, sia pubbliche
che private, per affittarne i locali.
Il ruolo delle scuole cinesi è molto importante: i genitori vogliono che siano
frequentate e che i figli incontrino coetanei della stessa nazionalità. Sono scuole
in cui non si apprende solo la lingua cinese ma anche lo studio della matematica
o delle scienze “in cinese”. In genere, i metodi di apprendimento vengono raccontati come diversi rispetto al sistema italiano. Queste scuole servono perché i
ragazzi mantengano un forte legame con la madrepatria. Gli stessi studenti riferiscono che gli insegnanti – descritti sempre come altamente capaci – dicono loro
che «noi dobbiamo amare la nostra lingua, cultura, anche se siamo in altri Paesi.
E dobbiamo amare la nostra patria». La scuola cinese si configura come un potente
dispositivo per riaffermare l’identità nazionale, sebbene in forma ibrida:
Io sono cittadino italiano, ho passaporto italiano. Però avrò sempre radici
cinesi. Sono nato qua, parlo meglio l’italiano, però comunque mi sento…
Quando vado in Cina, ok, magari con la lingua non è proprio… non la
parlo benissimo, quindi mi sento un po’ straniero in Cina [risata]. Quando
sto qui, la stessa cosa. Non per la lingua ma per l’aspetto. Personalmente
penso di essere tutt’e due. Quando mi chiedono: “di dove sei?” Dico semplicemente: sono cinese nato in Italia [Giovanni Chen, 31 anni, titolare di
un ristorante, intervista del 17.09.2020].
Alcuni docenti evidenziano le difficoltà di giovani che si trovano sul crinale
di due mondi, in preda a tumulti interiori non sempre gestibili (Cologna,
2009); inoltre, lamentano l’assenza di comunicazione con i genitori cinesi, che
non si presentano mai ai colloqui collettivi e individuali, non partecipano alla
vita della comunità scolastica, finendo per essere tacciati di disinteresse. Questo
è l’atteggiamento dei genitori di prima generazione, mentre quelli di generazioni successive sono molto più presenti. Circa i primi, le ragioni addotte riguardano ancora una volta l’impossibilità dovuta agli impegni lavorativi, la
vergogna per non saper parlare italiano, l’inutilità di intervenire «perché lo studio non è mio ma di mio figlio». Quest’ultima affermazione permette di riflettere su modelli genitoriali che inducono a fraintendimenti: i genitori cinesi
quasi mai intervengono nelle scelte dei figli; il figlio è reputato un “soggetto
autonomo” responsabile davanti all’impegno di studio, così come di fronte alle
altre decisioni della vita, dallo sport al credo religioso.
301
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
Accanto a una componente di bambini cinesi ben inserita, che parla italiano
e frequenta compagni italiani, ve ne sono altri – ibridi, sospesi, spaesati – i
quali tendono a fare gruppo tra connazionali. I genitori cinesi intervistati affermano che i problemi riguardano l’esclusione di cui i loro figli sarebbero vittime:
gli studenti italiani non li coinvolgerebbero, non avrebbero piacere a frequentarli, li isolerebbero; i docenti «non fanno niente di male, ma neppure bene».
Quello degli studenti cinesi che si percepiscono poco accolti è un argomento particolarmente pregnante per una parte sostanziale della collettività
cinese, interrelato a un fenomeno di un certo interesse: lo spostamento progressivo di studenti cinesi dalle scuole statali verso le scuole paritarie, bilingue
o internazionali. La prima motivazione richiamata dai genitori intervistati è
nella convinzione che l’ambiente privato sia più accorto alle esigenze del singolo alunno. Qualche altro genitore preferisce la scuola paritaria perché ritenuta più prestigiosa, associandone il “valore” al pagamento della retta. D’altro
canto, c’è la consapevolezza, da parte delle scuole paritarie dell’Esquilino (e
non solo), di avere di fronte un “nuovo mercato” proprio grazie agli studenti
cinesi, i quali vanno a rimpinguare istituti scolastici che, per quanto radicati,
registrano decrementi nelle iscrizioni da oltre un decennio.
Nella scuola secondaria di I grado paritaria “Figlie di Nostra Signora al
Monte Calvario” (fig. 4) dal 2005 è cominciata una politica di inclusione sociale
Fig. 4 – Il cortile interno dell’Istituto Scolastico Paritario “Figlie di Nostra Signora
al Monte Calvario” (2016). Fonte: https://www.scuolamontecalvario.com
e di accoglienza, investendo sulla valorizzazione delle diversità nazionali, rimodulando i programmi verso le altre aree del mondo, puntando sulla formazione degli
insegnanti, per i quali è stato previsto un corso di lingua cinese. I risultati non si
sono fatti attendere: nell’anno scolastico 2003-2004 gli studenti cinesi costituivano
il 27,9% del totale; nel 2014-2015 tale percentuale era salita al 45,2%.
302
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
All’Istituto Paritario “Santa Maria”, invece, il primo studente cinese è arrivato nell’a.s. 1999-2000 e si è assistito fin da subito ad un costante aumento
dell’incidenza degli studenti cinesi, arrivando al 16,0% nel 2014-2015. È
anche per soddisfare le richieste di molte famiglie cinesi che questa scuola,
come altre scuole paritarie facilmente raggiungibili dal rione, hanno cominciato a offrire indirizzi bilingue o totalmente in inglese nei licei.
Ancora più vivace e in crescita è il numero di studenti cinesi che dall’Esquilino si spostano in aree più lontane, iscrivendosi a scuole internazionali, di cui
apprezzano, a detta dei genitori, l’ambiente cosmopolita e accogliente che le
scuole italiane non garantiscono. Questi istituti sono scelti da chi ambisce a
una futura formazione accademica anglofona e coltiva il sogno di introdursi
nell’alta finanza o nella diplomazia internazionale.
7. Conclusioni
I cittadini cinesi dell’Esquilino si sono stabiliti nel rione seguendo percorsi
diversificati, grazie a reti di relazione transnazionali che da un lato evidenziano
contatti ramificati in varie parti d’Europa (Levitt, Glick Shiller, 2004), dall’altro testimoniano un radicamento non recidibile con la madrepatria.
A dispetto degli stereotipi generalizzanti, la presenza cinese è segnata da
un’elevata differenziazione interna, nella quale dirimente è la questione generazionale. Dalle interviste, emerge il forte legame simbolico con l’identità e la
provenienza wenzhouese, che rimandano all’idea di una classe imprenditoriale
intraprendente, coraggiosa, dedita al lavoro e ai sacrifici. Questi caratteri, che
le testimonianze associano soprattutto alla prima generazione immigrata, si accompagnano a valutazioni non altrettanto positive: la difficoltà di inserimento
sociale, di cui la scarsa padronanza della lingua italiana costituisce causa ed effetto allo stesso tempo, si traduce in interazioni limitate e incerte con la collettività locale, con influenze negative sull’educazione dei figli.
I percorsi scolastici dei giovani cinesi attestano non poche difficoltà di inserimento sociale e relazione con l’istruzione statale, cosicché molti sono gli
studenti che frequentano scuole paritarie bilingui o internazionali, in dipendenza dal grado di comprensione linguistica e dal livello di difficoltà relazionale
con il contesto di riferimento. La rilevante partecipazione degli studenti a percorsi formativi paralleli in lingua cinese, supportata e incentivata dai genitori,
testimonia il forte legame con le proprie origini culturali e territoriali.
A proposito del rione Esquilino, gli intervistati raccontano una memoria
alternativa a quella italiana (Candau, 2002; Fabietti, Matera, 2009). Se quest’ultima verte in modo insistente su degrado e insicurezza, spaesamento e nostalgia, i cittadini cinesi rivendicano il ruolo positivo di promotori del recupero
patrimoniale, sociale e commerciale del rione, affermando che il loro approdo,
innestandosi su una zona descritta come “lasciata vuota”, dalle saracinesche
chiuse e in preda all’abbandono, ha rigenerato l’intero quartiere, attivandone
un processo di riqualificazione.
303
CINESI ALL’ESQUILINO. PRATICHE DI LUOGO, RELAZIONI SITUATE E TENDENZE EVOLUTIVE
Molte delle critiche rivolte alla collettività cinese, emerse anche dallo spoglio
della letteratura scientifica in materia, non sembrano avere più attinenza con
la contemporaneità, se si considerano le generazioni successive a quelle pioniere. Cinesi di seconda, terza o quarta generazione – formatisi in scuole italiane, paritarie o internazionali – stanno contribuendo a sollecitare un nuovo
cambiamento, in positivo, del rione, che risulta visibile nelle trasformazioni
che stanno conoscendo le attività commerciali.
Per quanto gli showroom continuino a connotare il paesaggio urbano locale, passeggiare per l’Esquilino significa imbattersi anche in negozi di abbigliamento o scarpe non più tutti uguali tra di loro, finemente arredati e in
grado di richiamare un’ampia clientela, come quelli sorti in via Napoleone III.
Soprattutto, negli ultimi anni – anche per fronteggiare la crisi dell’import-export – le attività commerciali cinesi hanno conosciuto una forte diversificazione, che ha permesso agli imprenditori di reagire attivamente alle restrizioni
normative imposte dall’amministrazione capitolina. Oggi, all’Esquilino, si riscontra la presenza di una notevole varietà di esercizi commerciali a gestione
cinese: casalinghi, profumerie, sartorie, alimentari, bar, enoteche, negozi per
l’infanzia, parrucchieri, erboristerie, parafarmacie, agenzie di viaggi, di servizi
e immobiliari, e molto altro ancora. Un esempio di rilevo è costituito dall’inaugurazione di due locali di cake design, curiosamente sulla stessa strada, via Cairoli, che hanno conquistato i clienti italiani, inizialmente diffidenti, con
prodotti di qualità a prezzi contenuti.
Nel campo della ristorazione, la nuova strategia punta invece sulla valorizzazione delle specificità: nel rione sono sorti diversi ristoranti che propongono
cucine cinesi regionali; ogni ristorante si differenzia dall’altro per un particolare
aspetto estetico oppure per il menù centrato su singoli piatti offerti in numerose versioni: dai ravioli alle zuppe, dagli involtini ai noodles.
Sempre più spesso ditte cinesi si servono di consulenti e di dipendenti italiani, soprattutto per quanto riguarda le attività pensate per soddisfare clientela
italiana, come bar, enoteche, ristoranti. Non poche attività commerciali, come
i negozi di casalinghi, impiegano commessi bangladesi e nordafricani di ambo
i sessi. Altri esercizi, invece, sono gestiti in modo misto: bar aperti da società
italo-cinesi, fast-food di proprietà cino-pakistana. Alcuni giovani cinesi hanno
rilevato locali italiani in declino, come nel caso dello storico “Cavallino Bianco”
di via Emanuele Filiberto, oppure hanno aperto nuovi locali di cucina italiana,
come il “Vittoria” di via Principe Eugenio, mantenendo il personale in servizio
(cuochi, pizzaioli, camerieri) e assumendone altro. “Youyou Tea”, sempre su
via Principe Eugenio, ha ottenuto un grande successo tra gli adolescenti italiani,
che vi giungono anche da altri quartieri.
Il rione Esquilino, fedele alla sua tradizione di spazio in continuo cambiamento, va insomma riconfigurandosi in nuove direzioni, grazie al contributo
sostanziale della collettività cinese, anche in termini propositivi. Diversi giovani
imprenditori cinesi, ad esempio, ritengono che l’Esquilino potrebbe accogliere
il modello gentrificato del limitrofo rione Monti:
304
TIZIANA BANINI – CARMELO RUSSO
«Via i negozi dei vecchi cinesi. Immagina tutti tavolini, bar, ristoranti…
tutto sotto i portici, a via Principe Eugenio. Facciamo come via Paolo Sarpi
[di Milano]» [Francesco Su, 33 anni, titolare di un negozio di scarpe, intervista
del 18.09.2020].
Se questa sembra un’ipotesi discutibile, per quanto condivisa da molti italiani del rione, seguitare sulla contrapposizione nostalgica tra l’Esquilino “di
una volta” (meta di immigrazione ma italiana, popolare ma “verace”, delinquenziale ma goliardico) e l’Esquilino di oggi (accusato di “tradimento alla tradizione”) è poco proficuo, soprattutto perché riproporre il passato in uno
spazio in perenne mutamento e pronto ad accogliere la novità in tutte le sue
declinazioni costituisce una contraddizione in termini.
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