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Sigismondo Arquer e la Cosmographia universalis_2017.pdf

Sergio Arangino Sigismondo Arquer e la Cosmographia universalis di Sebastian Münster La Cosmographia di Sebastian Münster, il primo compendio geografico generale dell'età moderna, è stato certamente uno dei più famosi libri del Cinquecento. Tradotto in tutte le lingue d'Europa fu stampato, copiato e riprodotto in innumerevoli versioni e continuò a circolare anche nei paesi cattolici, nonostante i fulmini e le censure ecclesiastiche finissero per colpire anche i libri di questo famoso autore tedesco: un ex francescano passato alla Riforma che aveva fatto di Basilea e della Svizzera protestante la sua patria d'elezione. In precedenza a Basilea si era anche stabilito Erasmo da Rotterdam, che aveva così contribuito a fare di questa città sul Reno, dotata di una università ormai famosa e piena di officine di stampa, uno dei massimi centri di irradiazione della cultura umanistica dell'epoca. Basilea si era però schierata nel campo riformato e si può comprendere come mai, dopo il Concilio di Trento, gli autori e i libri qui stampati finirono regolarmente per comparire sugli indici dei libri proibiti1. Vi finì abbastanza presto anche la Cosmographia, la cui editio princeps latina (Cosmographia universalis) era stata stampata nel 1550. Non era in assoluto la prima versione dell'opera, perché il Münster aveva già pubblicato, a partire dal 1544, altre edizioni in tedesco meno estese e rifinite, ma quella latina era certo la più importante, dalla quale si trassero poi tutte le altre versioni tradotte in varie lingue e talvolta un po' modificate e spurgate dai passi compromettenti per ragioni di opportunità o di censura. Un qualche esempio di queste alterazioni si può riscontrare anche rispetto alla breve sezione dedicata alla Sardegna, titolata Sardiniae brevis historia et descriptio, compilata dal giurista e teologo sardo Sigismondo Arquer, che già nella versione tedesca del 1550 compariva in forma alquanto modificata rispetto all'edizione latina. Come si sa, Sigismondo Arquer, nato a Cagliari nel 1530, sarà in seguito dichiarato eretico “luterano” dal S. Uffizio di Toledo e condannato a morte sul rogo il 4 giugno 1571, dopo un lungo e tormentato processo di inquisizione, durato ben otto anni. Già solo per questo la vicenda dell'Arquer era destinata a suscitare curiosità negli estimatori dell'opera del Münster, tanto più che il titolo del capitoletto della Cosmographia compilato dal sardo recava in singolare rilievo il nome dell'autore: “per Sigismudus Arquer calaritanus, sanctae theologiae et juris utriusque doctorem”. Però, chi cercasse oggi di confrontare le versioni cinquecentesche in italiano o in francese del capitoletto della Cosmographia scritto dall'Arquer, nonostante gli imprimatur e le correzioni della censura ecclesiastica non troverebbe mai in quelle tagli tanto drastici quanto quelli presenti nella versione tedesca del 1550 curata dal Münster, che di certo non era sottoposto a condizionamenti di censura paragonabili a quelli che presto si imporranno nei paesi di stretta osservanza cattolica. Solo nell'edizione tedesca del 1550 (come anche in quelle successive) era infatti completamente sparito qualsiasi accenno alle parti più compromettenti degli impietosi giudizi che l'Arquer aveva formulato sulle condizioni della Sardegna, soprattutto per quanto riguarda il clero e l'inquisizione. In questa edizione il testo era stato molto ridotto e nel frontespizio si leggeva “Beschreibung der inseln Sardinie durch dottor Sigismundum Arquer, geboren von Sardnia (sic.), Sebastiano Munstero sampt etlichen kurzen 2 historien zugestellt”. Come a dire: “Descrizione dell'isola di Sardegna del dott. Sigismondo Arquer, nato in Sardegna, presentata da Sebastian Münster in complessiva sintesi delle storie 3”. Che il testo non fosse in tutto e per tutto 1 Ma vi comparvero sin dall'Indice dei libri proibiti stampato dal Santo Uffizio romano nel 1559, nel quale, tra gli “Auctores quorum libri et scripta omnia prohibentur”, figurava anche “Sebastianus Munsterus”. Molti anche i titolari delle officine basilesi nella lista degli stampatori proibiti, tra i quali si contavano “Adamus Petri” e “Henricus Petri, Basiliensis impressor” (quest'ultimo figliastro e stampatore del Münster). 2 Corretto in “kurzer” (“più corte”) nelle edizioni successive, così come “Sardnia” verrà corretto in “Sardinia”. 3 S. MÜNSTER, Cosmographei oder beschreibung aller länder, herschafften, fürnemsten stetten, geschichten gebeuche, l'originale dell'Arquer si capisce anche da alcune parti finali del capitoletto, dove l'estensore parla in terza persona e si leggono frasi del tipo “schreibt gemelter doctor Sigmund 4” (scrive il detto dottor Sigismondo). Lo scritto era stato insomma rielaborato dal Münster, che sicuramente l'aveva ridotto per ragioni tipografiche, se non proprio anche per qualche motivo di opportunità editoriale. Comunque, essendo relativamente sporadica da parte del Münster la citazione dei nomi dei corrispondenti che lo avevano aiutato a compilare le descrizioni contenute nel suo libro, è sempre venuto spontaneo domandarsi chi fosse questo Sigismondo Arquer e per quali vie avesse avuto contatto con il celebre ebraista e cosmografo tedesco. Tanto più che la brevissima parte della Cosmographia compilata dall'Arquer era, per sistematicità e efficacia espositiva, tra le più felici dell'opera, tanto da divenire in seguito quasi una sorta di modello paradigmatico delle compilazioni geografiche di questo tipo5. Naturalmente, anche la triste fine dell'autore sul rogo dell'Inquisizione spagnola era conosciuta. Non per nulla, nel 1598 l'opera del celebre apologista inquisitoriale Luis de Pàramo (De origini et progressu Offici Sanctae inquisitionis) annoverava l'Arquer al primo posto tra i “quattro famosi eresiarchi” che il tribunale inquisitoriale di Toledo, all'epoca il più importante di Spagna, poteva gloriarsi di aver “giustamente” punito6. Stante una simile condanna, è sempre stato facile collegare la tragica fine dell'Arquer sul rogo alla sua collaborazione con l'eretico riformato Sebastian Münster. Anche perché, in poche frasi di singolare efficacia, nella Cosmographia latina del 1550 l'Arquer aveva tratteggiato in modo impietoso il terribile stato di abbandono, di corruzione e di degrado morale in cui versava l'isola, prendendosela non solo con i suoi concittadini e con l'inquisizione, ma specialmente con il clero, che aveva descritto come terribilmente ignorante e “dedito più a far figli che a leggere libri”. Ce n'era abbastanza per spiegarsi una feroce reazione da parte dell'inquisizione spagnola, come anche certi severi giudizi di alcuni autori sardi, che in passato rimproveravano all'Arquer di aver ingiustamente infamato la sua terra natale (cosa piuttosto grave per un sardo). Poiché le spiegazioni semplici sono sempre quelle preferite, divenne quasi un luogo comune attribuire la condanna a morte dell'Arquer alla descrizione della Sardegna pubblicata dal Münster. Non erano infatti chiare altre eventuali ragioni che potevano aver indotto il tribunale di Toledo ad attribuire l'eresia “luterana” al malcapitato giurista e teologo cagliaritano. Non si poteva trovare altro ragionevole motivo della condanna neppure dopo le importanti ricerche di Dionigi Scano7, che nel periodo tra le due guerre mondiali scandagliò attentamente il voluminoso scartafaccio originale del processo inquisitoriale, miracolosamente salvatosi (ma solo in parte) dalle devastazioni ottocentesche che dopo il turbine napoleonico dispersero una gran parte degli archivi sia del Santo Uffizio spagnolo sia di quello romano. Lo Scano mise in luce come dietro la vicenda dell'Arquer vi fosse un complesso intreccio di odi e 4 5 6 7 hantierungen etc., H. Petri, Basel, 1550, CCLXXVIII. Tradotta letteralmente l'ultima frase della “Beschreibung der inseln Sardinie” suona: “presentata da Sebastian Münster nel complesso di alcune corte storie.” Ibid, CCLXXXIII. Il giudizio sulla particolare qualità del contributo dell'Arquer è dello storico svizzero di BEAT RUDOLF JENNY, Sancta Pax Basiliensis, in “Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde”, Band 73,1973. LUDOUICO À PARAMO BOROXENSI , De origini et progressu Offici Sanctae inquisitionis, Ex Typographia Regia, Matriti, 1598, p. 170. I quattro “famosi eresiarchi” sarebbero stati, nell'ordine, Sigismundus Aiquer “Advocatus Fiscalis Regij senatus Aragoniae, natione Sardus, Haeresiarchis”; Gelasius Dus, “Belgicus, manicarum opifex” (ovvero Giles Duls, guantaio fiammingo appartenente ad un gruppo calvinista di Toledo, bruciato nell'autodafé del 18 giugno 1570); il Doctor Hugo Celsus, “Iurisperitus, natione Gallus” (Hugo de Celso, forse bruciato in effigie nel 1551 e poi, secondo Bataillon, mandato a morte nel 1554); Franciscus Rol, “ex ordine N. & in ea Hispanie provincia natus, quae hodie Estremadura dicitur, Lutheranus haeresiarcha”. Francesco Rol era assieme a Carlos De Mespergue compagno di cella di Sigismondo Arquer e fu bruciato a Toledo a seguito dell'autodafé del 24 marzo 1566, in compagnia del Mespergue. Carlos de Mespergue, che tutti indicano come francese e che in carcere accusò Sigismondo, era in realtà un membro della potente casata dei Fugger, nato a Möslberg in Baviera e tenuto a battesimo addirittura da Carlo V in persona, del quale era stato paggio a corte. DIONIGI SCANO, Sigismondo Arquer, in “Archivio storico sardo”, vol. XIX – Fasc. I – II, Cagliari 1935 di lotte politiche intestine che avevano dilaniato la Sardegna della metà del Cinquecento e che il povero Sigismondo vi era finito in mezzo esattamente come era già capitato al padre, Giovanni Antonio Arquer, giurista, capo consigliere della città di Cagliari e importante collaboratore del viceré Antonio de Cardona. Tuttavia, esaminando l'imponente complesso delle testimonianze e delle accuse di eresia provenienti dalla Sardegna (che il tribunale inquisitoriale aveva preso molto seriamente) Dionigi Scano non riusciva a capacitarsi della severa condanna pronunciata dal Santo Uffizio di Toledo contro il povero Sigismondo. Era dunque evidente che Sigismondo Arquer, il quale tra il 1554 e il 1563 aveva ricoperto l'importante carica di avvocato fiscale del regno di Sardegna (un'autorità in pratica seconda solo a quella del viceré) era stato pretestuosamente trascinato davanti al tribunale religioso dalle mene dei suoi nemici politici. Questi non avevano infatti trascurato di utilizzare anche l'argomento della collaborazione alla Cosmographia del Münster, tanto che fecero circolare un estratto a stampa della Sardiniae brevis historia et descriptio, inviandone copia all'Inquisizione sarda8. Queste prime accuse d'eresia contro l'Arquer, iniziate nel 1557 e scaturite da un contesto politico che aveva già procurato molti guai al contestato avvocato fiscale, non sortirono però grandi effetti, poiché vennero giudicate del tutto inconsistenti da parte del nuovo arcivescovo di Cagliari Parragues de Castillejo, già antico vescovo di Trieste, che esaminò il caso appena giunto in Sardegna nel 1559. Sigismondo Arquer era però ormai incalzato dall'odio e dalle continue accuse dei suoi nemici, che già in precedenza, nel corso del 1556, lo avevano fatto incarcerare e persino tentato di toglierlo di mezzo con il veleno. Perciò, nonostante fosse riuscito a sfuggire a queste trame e a riguadagnare il favore della corte, dopo aver ottenuto l'assoluzione del Parragues, nel gennaio del 1560 l'Arquer decise di abbandonare l'isola e di riparare a Madrid. Ma i suoi nemici sardi, come sottolineava lo Scano, non ebbero mai tregua sinché non riuscirono a distruggere del tutto l'odiato avvocato fiscale, causandogli infine l'arresto e il processo da parte dell'Inquisizione di Toledo. La ricostruzione dello Scano era fondata su incontestabili prove documentali, ma non era completa. Lo studioso non conosceva una parte importantissima della documentazione del processo di Toledo che era ancora conservata in Germania, in compagnia di un altro spezzone documentale di grandissimo interesse: la sentenza del tribunale dell'Inquisizione di Valenza contro don Gaspar Centelles9. La vicenda di Sigismondo Arquer era infatti strettamente legata all'arresto di questo nobile valenzano, che l'Arquer aveva conosciuto in Sardegna nel 1548 e con il quale aveva iniziato sin da allora uno strettissimo e intenso sodalizio spirituale e religioso. Così, quando nel dicembre 1562 il Centelles venne arrestato dall'inquisizione di Valenza, in casa sua si trovarono otto lettere di mano dell'Arquer che furono determinanti per la sorte del sardo nel processo di Toledo. Ma le lettere dovettero pesare anche sul destino del Centelles, che a Valenza venne messo a morte per eresia nel 1564. Inoltre, il nobile (che era anche lui immerso sino al collo in furiose lotte intestine con le altre potenti famiglie del regno di Valenza e aveva avuto contrasti molto forti soprattutto con i Borja10) condivideva i suoi pericolosi interessi religiosi e teologici con un canonico (Geronimo Conqués) che una volta arrestato dagli inquisitori valenzani, nei primi mesi del 1563, finì per rendere una testimonianza molto pesante contro Sigismondo Arquer. In pratica il Conqués attribuì al sardo affermazioni nelle quali poteva essere riconosciuta l'eresia sacramentaria e proprio questa accusa finì per figurare in testa alle imputazioni elencate nell'ultima relazione del fiscale d'accusa al processo di Toledo (che è l'unico documento sulla base del quale si possono ricostruire le imputazioni conclusive, essendo stata persa la sentenza finale)11. Ma come si è detto, all'epoca della dispersione di parte degli archivi inquisitoriali gli originali delle 8 CFR. SALVATORE LOI, Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell'inquisizione, Cagliari, AMD, 2003, pp. 62-63. 9 Parte della sentenza è stata pubblicata da H.C. Lea, A History of Inquisition of Spain, New York, Macmillan, 1907, vol. 3, p. 555. 10 Su questi contrasti si veda in particolare M. ALMENARA SEBASTIÀ - J. F. PARDO MOLERO, Borja – Centelles: una polémica relación familiar en la Valencia del XVI, in Francisco de Borja (1510 -1572) hombre del Renacimiento, santo del Barroco, Valencia i Gandia, 2010, Secció I, p. 32 e segg. 11 Sulla precisa natura di questa accusa mi permetto di rinviare al mio Sigismondo Arquer. L'uomo che sfidò l'Inquisizione spagnola, historica paperbacks, Arkadia, Cagliari, 2016, p. 98 e pp. 121 – 122. lettere di Sigismondo e lo spezzone finale della sentenza contro il Centelles erano finiti in Germania, dove ancora oggi sono conservate presso la biblioteca dell'università Martin Luther di Halle, e lo Scano non ebbe mai la possibilità di considerarli. Questi materiali erano stati però trattati nel 1861 dal teologo e filologo Eduard Böhmer12 (famoso per aver scoperto il manoscritto del Breve trattato di Spinoza). Quindi, nel 1902 Ernst Schäfer aveva integralmente pubblicato le lettere di Sigismondo, unitamente a un dettagliato riassunto della documentazione del processo di Toledo 13. Purtroppo in Italia queste pubblicazioni rimasero pressoché sconosciute e in pratica vennero prese in esame solo con la pubblicazione del monumentale studio di Marcello M. Cocco Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all'autodafé14. Fu infatti il Cocco a sottolineare l'importanza del legame tra Sigismondo Arquer e il nobile valenzano don Gaspar Centelles, mostrando il ruolo decisivo che le lettere di Sigismondo ebbero sulla conclusione del processo di Toledo, proprio a causa del loro contenuto teologico e dottrinale. Ma anche le indagini sui due personaggi dovevano evidentemente avere un collegamento, perché se è vero che l'Arquer venne arrestato a Madrid nell'agosto 1563 su segnalazione del nuovo inquisitore di Sardegna, il licenziado Diego Calvo15, bisogna anche dire che questi era giunto nell'isola, fresco di nomina, solo nei primi mesi del 1562 e dopo il suo arrivo aveva immediatamente iniziato ad indagare sia sul Centelles sia sull'Arquer. Anzi, il Calvo non si era stabilito a Cagliari, ma a Sassari, dove già nel 1559 erano giunti anche i primi due gesuiti sbarcati in Sardegna. Ma proprio a Sassari, tra il 1546 e la primavera del 1548, aveva soggiornato don Gaspar che qui aveva frequentato Sigismondo Arquer, partecipando con lui (secondo un testimone diretto) a scandalose discussioni di argomento teologico tenutesi nella primavera del 1548 16. Sempre a Sassari, pochi mesi dopo l'episodio della disputa teologica, era stato anche arrestato il primo accusato di “luteranesimo” nell'isola, che era quel medico Tommaso Roca de Ferraris che era stato in rapporto sia con don Gaspar sia con Sigismondo e che l'Arquer cita nella Sardiniae brevis historia et descriptio a proposito dell'erba sardonica. Sigismondo non mancò di darne immediata notizia al Centelles17. C'erano insomma tutti i presupposti per concentrare le indagini nella città turritana e non stupisce affatto che l'inquisitore Calvo fosse perfettamente al corrente delle indagini di Valenza, presso la quale scriveva perché si mandasse a prendere “il detto dottor Gismundo” alla corte di Madrid, per paura che scappasse alla notizia dell'arresto di don Gaspar a Valenza 18. Il Calvo aveva però già segnalato l'Arquer al Consiglio Supremo dell'Inquisizione e il 28 maggio 1563 aveva spedito un nuovo dispaccio urgente, così che la “Suprema” diede al S.Uffizio di Toledo (all'epoca competente anche per Madrid) l'ordine di agire e Sigismondo fu arrestato il 10 agosto 1563. Nel frattempo, l'inquisitore Calvo provvedeva a requisire le proprietà di don Gaspar in Sardegna, installandosi nel castello aragonese di Sassari e facendo di questo la sede definitiva dell'Inquisizione sarda. Al Centelles apparteneva anche la rocca di Castellaragonese (Castelsardo), ma dopo la condanna del valenzano il viceré di Sardegna Alvaro de Madrigal chiese al re Filippo II di concederla in favore dell'amministrazione civile19. 12 E. BÖHMER Aus spanischen Inquisitionsacten, in “Deutsche Zeitschrift für christliche Wissenschaft und christliches Leben”, Berlin, Wiegandt und Sriebend, 1861. 13 E. SCHÄFER, Beiträge zur Geschichte des spanischen Protestantismus und der Inquisition, Güterloh, 1902, Vol. II, p. 187 e segg. La sintesi del processo dello Schäfer corredata dalla trascrizione delle otto lettere di Sigismondo Arquer e altri importanti documenti è accessibile in https://archive.org/details/beitrgezurgesch04schgoog . 14 M.M. COCCO, Sigismondo Arquer. Dagli scritti giovanili all'autodafé, Castello, Cagliari, 1987. 15 L'azione dell'inquisitore Diego Calvo in Sardegna è stata ricostruita da S. LOI, Sigismondo Arquer, cit.; vedi in particolare da pag. 93 a pag. 100. 16 Il fatto fu riportato dal canonico sassarese Cosma Pastor, uno dei tre testimoni “de vista” che il fiscale del tribunale di Toledo, nel già citato documento conclusivo dell'accusa, enumerò tra i soli che potevano dare una diretta conferma delle imputazioni. 17 Nella lettera spedita da Cagliari il 6 agosto 1548 (lettera seconda al processo). 18 Così riferiva l'Inquisitore di Valenza alla “Suprema”, con un dispaccio che però arrivò a Madrid solo il 16 agosto 1563, quasi una settimana dopo l'arresto di Sigismondo. 19 La richiesta fu avanzata quattro mesi dopo la condanna del Centelles (che fu messo a morte il 17 settembre 1564) Sull'arresto di Sigismondo contarono certo soprattutto le accuse sarde, che fecero piovere sul contestato avvocato fiscale una vera e propria valanga di accuse e di deposizioni scrupolosamente raccolte dal Calvo. Su queste il tribunale di Toledo costruì l'accusa di un processo che fu lungo, complesso e tormentoso, durato otto anni, sul quale finirono però per essere decisivi soprattutto gli elementi dottrinali e teologici che si potevano desumere dal carteggio tra Sigismondo e don Gaspar. Era infatti naturale che il tribunale si concentrasse soprattutto su questi aspetti, anche se, dal punto di vista del giudizio storico, vi è sempre stato un vivace dibattito su quanto abbiano realmente pesato le motivazioni politiche e gli odi sardi sulla tragica conclusione di questa vicenda. Questo anche dopo la meticolosa monografia del Cocco, che comunque metteva in evidenza non solo l'importanza dei rapporti epistolari tra Sigismondo e il Centelles, ma anche la frequentazione del mondo riformato da parte del sardo e la sua indiscutibile contiguità con gli ambienti del dissenso religioso italiano. Qualcosa si era già intuito nei lavori del Leo 20 e dello Spini21 a causa dei luoghi in cui si era formato l'Arquer, che tra il 1543 e il 1547 aveva frequentato le università di Pisa e di Siena, ma era stato soprattutto uno storico svizzero ad apportare nuovi decisivi elementi. Nel 1973 Beat Rudolf Jenny aveva infatti pubblicato un importante articolo 22 che chiariva alcuni aspetti del modo in cui l'Arquer era partito dalla Sardegna nel settembre 1548 per giungere in Svizzera nell'inverno successivo e approdare infine a Basilea nella primavera del 1549, dove aveva conosciuto il Münster e scritto la Sardiniae brevis historia et descriptio. Il viaggio, occasionato dalla necessità di presentare una supplica al principe Filippo per i problemi della famiglia Arquer, era stato raccontato da Sigismondo al Centelles in una lettera spedita dalla corte imperiale di Bruxelles il 12 novembre 1549 (lettera settima del processo) e da questa si sapeva che prima di giungere a Basilea il nostro aveva soggiornato diversi mesi nei Grigioni. Ma Sigismondo non aveva certo scritto al Centelles tutti i particolari del viaggio. Il Jenny aggiunse infatti anche le testimonianze del teologo riformato Konrad Pellikan e quella dell'umanista di Basilea Bonifacio Amerbach. Al primo, che era il decano della scuola di studi biblici di Zurigo, Sigismondo si era infatti presentato nell'aprile 1549 dichiarandosi “profugo per fede” (“exulem propter fidem”), mentre al secondo, che su raccomandazione del Pellikan lo aveva accolto pochi giorni dopo a Basilea, il 24 agosto 1550 Sigismondo aveva poi spedito una bella lettera dalla città tedesca di Augusta, in cui informava l'Amerbach di essere ormai passato al servizio della corte imperiale una volta arrivato a Bruxelles (e quindi di non essersi affatto rifugiato in Inghilterra per motivi religiosi, come invece aveva prospettato all'Amerbach al momento di partire da Basilea, tanto da ricevere da quest'ultimo tre corone per il viaggio “in Angliam”). Ora, spiegava Sigismondo all'Amerbach, era ad Augusta per alcuni servigi che a corte gli erano stati richiesti e si scusava per non aver avuto il tempo di dare sue notizie, assicurando però di portare sempre con sé il nostalgico desiderio di tornare a quella “santa pax Basiliensis” di cui aveva goduto nella placida e colta città svizzera23. Dall'articolo del Jenny saltava fuori non solo che Sigismondo aveva certamente frequentato gli ambienti riformati e avuto indiscutibili esitazioni in materia di fede religiosa, ma anche che aveva avuto stretti rapporti con pericolosi eretici e aveva seguito il percorso che a quei tempi prendevano la maggior parte di coloro che dall'Italia cercavano riparo ai rigori dell'Inquisizione fuggendo in Svizzera. Sigismondo si era infatti fermato per alcuni mesi in un ambiente che pullulava di famosi esuli italiani di grandissimo livello e probabilmente sfiorò (se pure non lo incrociò) anche Pier Paolo Vergerio, l'ex vescovo di Capodistria che proprio in quei mesi passava al protestantesimo e si con una lettera datata il 27 gennaio 1565. Cfr. Archivio General de Simancas, EST, LEG, 1393, 122 (digitalizzato). 20 PIETRO LEO, Sigismondo Arquer a Siena, in “Studi Sardi”, Anno V, 1941 e Ancora su Sigismondo Arquer, in “Studi Sardi”, Anno VIII, 1948 21 G. SPINI, Di Nicola Gallo e di alcune infiltrazioni in Sardegna della riforma protestante, in “Rinascimento”, a. 2 n. 2. 22 B. R. JENNY, Sancta Pax Basiliensis, cit., p. 57 e segg. 23 La lettera di Sigismondo all'Amerbach è integralmente riportata in M. T. LANERI “La Sardiniae brevis historia et descriptio”, in SIGISMONDO ARQUER, Sardiniae brevis historia et descriptio, Cagliari, CUEC, 2007; CII, nota n°15. rifugiava in Valchiavenna (territorio dei Grigioni), seguendo esattamente la strada seguita dal sardo. Quando poi nell'aprile del 1549, tra il 21 e il 25 di quel mese, Sigismondo arrivò a Zurigo e si presentò al Pellikan, in casa dell'ormai anziano ebraista e teologo soggiornava il famoso eretico di origine senese Lelio Sozzini (e qualche mese più tardi in casa del Pellikan arriverà anche il Vergerio). Senza alcun problema Sigismondo ottenne l'approvazione del Pellikan (che lo esaminò e lo trovò “di retta dottrina”) ed ebbe da questi una lettera di presentazione per l'Amerbach a Basilea, dove il sardo non solo ebbe sostegno e protezione, ma conobbe anche il Münster e collaborò alla Cosmographia, soggiornando per sei settimane (tra la fine di aprile e i primi di giugno 1549) in casa del celebre Celio Secondo Curione, uno dei massimi esponenti del radicalismo ereticale italiano riparato in Svizzera. Insomma: dire che Sigismondo si fosse letteralmente cacciato nella tana del lupo è dir poco: sarebbe bastato anche uno solo di questi elementi per sgombrare qualsiasi dubbio dalla mente dei giudici del tribunale inquisitoriale di Toledo e per convincerli ad accelerare senza alcuna esitazione la condanna per eresia. Invece il tribunale, che non conosceva affatto questi imbarazzanti particolari, ci mise ben otto anni per giungere ad una sentenza, che in effetti venne pronunciata senza neppure avere la completa certezza della colpevolezza dell'imputato. L'ultima decisione del tribunale, votata il 12 luglio 1570, fu infatti deliberata in discordia, perché dopo aver a lungo tergiversato i giudici si erano espressi a stretta maggioranza per una ulteriore “quistión de tormento de agua”, ovvero una tortura supplementare per saggiare ancora la sincerità dell'imputato, che continuava a protestarsi innocente (quattro giudici su nove si erano invece dichiarati per la condanna). La procedura inquisitoriale spagnola imponeva però che in caso di sentenza discorde il caso venisse esaminato dal Consiglio Supremo dell'Inquisizione. Di solito, in queste eventualità il Supremo Consiglio emetteva sentenze assai miti24, ma in questa occasione la “Suprema” dovette evidentemente trovare del tutto incoerente il fatto che il tribunale di Toledo pretendesse di mettere ancora una volta alla prova l'imputato dopo aver unanimemente qualificato come eretiche le proposizioni estratte dalle lettere al Centelles. Tanto più se le eresie rilevate erano confermate da testimoni verificati, perché in questo caso il reo poteva sperare di salvarsi solo ammettendo le proprie colpe prima dell'autodafé. Per la verità, considerando il documento finale del fiscale d'accusa, i testimoni cruciali che potevano confermare direttamente le imputazioni di eresia si erano ridotti solo a tre (su oltre una quarantina di deposizioni, la maggior parte delle quali facenti solo “semiplenam probatione” e buone al più per confermare la “pubblica voce e fama” di luteranesimo25). Ma insomma, bastava perché la “Suprema” disponesse il rilascio al braccio secolare, ovvero la morte. La “Suprema” deliberò il responso di condanna il 22 dicembre 1570, ordinando però anche la tortura, sebbene nella forma che si imponeva a un colpevole ormai già riconosciuto (perché confessasse le complicità, che in questo caso riguardavano un misterioso Pompeo Colonna, presente alla corte di Madrid nel 155126 e citato da Sigismondo in una lettera al Centelles 27). Sigismondo subì quindi il tormento in un modo che non poteva più influire sull'esito della sua vicenda, perché, se una sua piena ammissione di colpevolezza avrebbe potuto (forse) evitargli il rogo, egli non sarebbe mai scampato a una penitenza che in ogni caso sarebbe stata molto dura. L'Arquer rifiutò però di piegarsi e non cedette neppure il 4 giugno 1571, quando con altri 32 penitenti apparve sul palco 24 Cfr. per questa procedura R. GARCIA CÁRCEL, Herejia y societad en el siglo XVI. La inquisición en Valencia 1530 1609, Péninsula, Barcelona, 1980, p. 197. 25 La relazione del fiscale è stata pubblicata in lingua originale con altri importanti documenti in Salvatore Loi, Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell'inquisizione, op. cit., pp. 320 – 323. Si trova anche in trascrizione tedesca in Schäfer (op. cit., pp. 231 - 235). 26 Del personaggio si è forse trovata una traccia in J. C. CALVETE DE ESTRELLA, El felicísimo viaje del muy alto y muy poderoso príncipe Don Felipe, Anuers (Anversa), 1552, IV, p. 328 a. Qui è citato un “Pompeyo Colona”, “cavaliere napoletano”, che giostra con altri nobili di altissimo rango davanti alla corte imperiale di Bruxelles nel corso di un torneo tenuto l'11 maggio 1550. 27 La lettera, scritta il 22 ottobre 1551 e enumerata dal tribunale come ottava, fu fondamentale per l'esito del processo. eretto nella centralissima piazza Zocodover, dove, con consueto e lugubre fasto, si celebravano a Toledo gli autodafé. Ma siccome il sardo continuava a protestare anche dopo la condanna e anzi, secondo il cronista inquisitoriale palesò il suo veleno “dichiarandosi grandissimo eretico luterano”, gli si mise la mordacchia (un cerchio di ferro che bloccava la lingua) e con quella lo si trascinò al brasero, il patibolo dove avvenivano le esecuzioni inquisitoriali (situato nella località de La Vega, oltre le mura della città, dove sorgevano i resti dell'antico circo romano di Toledo)28. La fine fu oltremodo drammatica, perché prima di accendere il rogo l'ufficiale civile voleva far strangolare l'Arquer, come certamente si fece per la donna francese che quel giorno condivise con il sardo la condanna a morte per eresia. La folla però si oppose, perché il condannato non si pentiva, e scoppiò un tafferuglio (al quale sicuramente parteciparono i famigli dell'inquisizione, che erano armati) a causa del quale l'Arquer finì per essere bruciato vivo a furor di popolo, dopo essere stato trafitto da un'alabarda e da altre armi29. Davanti ad una scena simile e considerando le proteste d'innocenza di Sigismondo nel corso di tutto il processo si rimane perplessi. Non a caso, molti si sono spesso chiesti se la condanna avesse una motivazione sufficiente e se davvero l'Arquer fosse colpevole di eresia; ovvero, come hanno ipotizzato altri, se egli fosse in realtà un cripto protestante volto a celare in termini nicodemitici il proprio dissenso religioso. Non sarà certo questo il luogo per dare una risposta a un problema così complesso, ma si potrà osservare che, a parte l'esplicita testimonianza della cronaca dell'autodafé (nella quale si attribuisce a Sigismondo Arquer l'ammissione della propria eresia), diventa davvero difficile ragionare su argomenti simili quando ci si ostini a credere che sia esistito, nel complesso mondo religioso cinquecentesco, una sicura ed infallibile delimitazione tra chi era eretico e chi non lo era. Pretendere di applicare rigide distinzioni confessionali rischia di oscurare il fatto che le stesse formulazioni del Concilio di Trento furono il prodotto di un complesso e acceso conflitto che lacerò anche trasversalmente il tradizionale mondo cattolico. Per questo Sigismondo non si considerava un “eretico”, benché le sue posizioni (di sapore indiscutibilmente valdesiano e alumbrado) fossero coerenti con un tipo di teologia, fortemente spiritualizzata, assai frequente negli ambienti della dissidenza religiosa della metà del Cinquecento. Ad esempio in Spagna, dove era presente in tendenze erasmiane cresciute sul tronco di una tipica tradizione di alumbradismo (come ad esempio nei casi del Dott. Egidio o di Costantino Ponce de La Fuente), oppure nello stesso schieramento interno alla Chiesa cattolica che tentò di opporsi al partito degli intransigenti nel corso della prima sessione del Concilio di Trento. Ovvero nel famoso fronte di dissidenza degli “spirituali”, che si era raccolto intorno alla “Ecclesia Viterbensis” del cardinale Reginald Pole e che aveva avuto nel famigerato libello del Beneficio del Cristo il proprio manifesto programmatico, ma che venne presto sgominato da una durissima reazione inquisitoriale. Queste forme di spiritualità, che in qualche modo potevano incrinare la stretta ortodossia tridentina che ormai si andava imponendo, vennero aspramente combattute da tutti i tribunali inquisitoriali, spagnoli o meno che fossero, proprio a causa del loro caratteristico misticismo, fondamentalmente refrattario a qualsiasi estrinseca codificazione dogmatica e rituale. Ma allora perché l'Arquer non scelse di aderire apertamente al campo riformato? Anche questa è una domanda che non può trovare qui una risposta semplice. Si potrà però rammentare che i dissidenti religiosi che dall'Italia o dalla Spagna fuggivano i rigori dell'Inquisizione non trovavano 28 Il luogo delle esecuzioni inquisitoriali a Toledo è attestato in diverse relazioni e cronache dell'epoca e, naturalmente, Sigismondo Arquer non venne affatto bruciato nella piazza Zocodover, come invece solitamente si ripete. 29 La relazione dell'autodafé che descrive la scena è stata parzialmente pubblicata in M.M. COCCO, Sigismondo Arquer. Dagli scritti giovanili all'autodafé, Cagliari, Castello, 1987, pp. 395 – 396. Tale memoriale non appartiene però ai documenti del processo, ma deriva da una cronaca manoscritta di Sebastián de Horozco, probabilmente ricopiata da documenti ufficiali. Si trova in Noticias curiosas sobre diferentes materias recopiladas y anotadas por el licenciado Sebastián de Orozco, Madrid, Biblioteca Nacional de España, Mss/9175 (olim Mss. Aa 105), fol. 269 – 272. Una completa trascrizione del manoscritto di Horozco si può reperire in J. LOPEZ DE AYALA Y ALVAREZ DE TOLEDO , Discursos leídos ante la Real Academia de la historia en la recepción pública”, Madrid, Hernández, 1901, p. 211 e segg. esattamente in Svizzera o in Germania il paradiso della libertà religiosa, perché come altrove non mancava anche in questi luoghi l'intolleranza. Ma più probabilmente si potrà concludere che il mondo riformato, con le sue dispute e con lo spirito di sovversione spinto sino alla guerra civile, alla fine non convinse del tutto il giovane Sigismondo, che aveva oltretutto una vera venerazione per l'allora giovanissimo principe Filippo d'Asburgo. D'altra parte, nemmeno durante il suo soggiorno in Svizzera, pur dichiarandosi esule per fede, egli non aveva nascosto al Pellikan l'intenzione di recarsi comunque alla corte imperiale per appellarsi al principe in ragione dei guai della sua famiglia e anche nella Sardiniae brevis historia et descriptio il giudizio sugli Asburgo e sui loro rappresentanti era stato espresso nei modi più positivi. Perciò, quando alla fine del 1549 l'Arquer giunse alla corte imperiale di Bruxelles, la tentazione di aderire alla Riforma svanì, anche perché per lui ebbe maggiore peso il senso di attaccamento alla sua terra e la fedeltà a una dinastia e a un principe che egli credeva illuminati e capaci di agire con la saggezza necessaria al governo delle imperfette cose umane. Ma non per questo rinunciò mai alla personalissima e fervente religiosità interiore che lo animava e per la quale il tribunale di Toledo lo spedì infine sul rogo. E la Cosmographia? Ebbe realmente la Sardiniae brevis historia et descriptio un ruolo decisivo nella condanna del sardo? Certamente, lo scritto fu considerato durante il processo dagli inquisitori, che ne chiesero conto all'imputato sulla base dell'estratto fatto stampare dai suoi nemici sardi. Sigismondo allora si difese sostenendo di non aver formulato i giudizi sul clero e sull'Inquisizione proprio nella forma riportata, chiedendo per dimostrarlo che si traducesse il suo scritto da una copia dell'edizione tedesca posseduta dall'alcaide del carcere. Probabilmente egli conosceva già questa versione e le modifiche che vi aveva apportato il Münster. Forse, come ha illustrato Maria Teresa Laneri30, egli voleva evidenziare come il testo potesse variare da un'edizione all'altra per ragioni di stampa, prendendo alla fine le distanze, nel tentativo di difendersi, persino dal testo dell'editio princeps latina. Ma era soprattutto la versione tedesca, tra quelle all'epoca reperibili, che poteva aiutarlo a sostenere che il Münster aveva certamente rielaborato il testo della sua “primera scriptura”, poiché ciò si leggeva anche nell'intestazione ed era esplicitamente confermato almeno dall'espressione in terza persona “schreibt gemelter doctor Sigmund”. Non è chiaro se alla fine i giudici si fecero convincere da queste argomentazioni, ma in ogni caso, considerando gli ultimi atti del processo di Toledo e in particolare la già citata requisitoria del fiscale d'accusa (desumibile dalla relazione del 14 luglio 1570, presentata immediatamente dopo la conclusione della “vista”, la fase conclusiva del processo), dello scritto incriminato non si trova alcuna traccia esplicita. Se ne trovano invece continuamente nelle difese di Sigismondo, che in effetti neppure poteva pienamente rendersi conto di cosa stesse accadendo durante i decisivi ultimi dibattiti del tribunale. Egli si difendeva come poteva, continuando a insistere soprattutto sulla natura politica delle accuse contro di lui e credendo che anche il suo compendio sulla Sardegna avesse un peso determinante. Ma un processo d'inquisizione non è un confronto in cui le parti giocano a carte scoperte e Sigismondo non era in grado di valutare con precisione su quali elementi conclusivi puntavano ormai i giudici. Tutto mostra come questi ultimi non solo fossero ormai propensi a considerare di seconda importanza la collaborazione con il Münster, ma fossero persino orientati a relativizzare il peso delle innumerevoli testimonianze sarde scaturite da un contesto palesemente segnato dall'odio politico31. Essi si concentrarono infatti sulla corrispondenza con il Centelles e sulle poche testimonianze dirette che potevano accreditare una chiara espressione di eresia dottrinale. Ma non potendo partecipare alla “vista” del processo, prima della sentenza sul palco dell'autodafé Sigismondo non poteva certo conoscere in anticipo le deduzioni risolutive del tribunale. Con tutta evidenza, egli rimase all'oscuro anche dell'ultima requisitoria che il fiscale pronunciò contro di lui al tribunale di Toledo, così come non seppe mai che il suo difensore, il teologo domenicano Vincente 30 M. T. LANERI, “La Sardiniae brevis historia et descriptio”, in SIGISMONDO ARQUER, Sardiniae brevis historia et descriptio, Cagliari, CUEC, 2007 (al volume è premessa una “Introduzione biografica” di Raimondo Turtas). 31 Di ciò fa fede non solo l'evidente esitazione del collegio giudicante, ma la stessa relazione finale dell'accusa rappresentata dal fiscale, che finì per ridurre la gran parte delle testimonianze sarde a “semiplenam probatione”. Varron, non solo aveva preso posizione contro di lui, ma aveva addirittura partecipato alla decisione conclusiva votando per il rilascio (e quindi la morte) del suo assistito. Soltanto dieci mesi dopo, quando il 21 maggio 1571 fu finalmente condotto nella sala della tortura, che gli fu inflitta “in caput alienum” pochi giorni prima dell'autodafé, Sigismondo Arquer si rese conto che il suo processo era terminato e che ormai lo aspettava la morte32. (Febbraio - aprile 2017) 32 L'Arquer ebbe piena coscienza della condanna a causa della forma di tortura “in caput alienum”. Allora protestò e lamentò di non essere stato almeno informato del risultato della “vista”, come pure gli era stato promesso.