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Storia ria d’Italia d’Ita dalle lle origini origin al concilio di d Trento to (1563 (1563) Una storiaa di contadini, cont soldati, mercanti, rcanti, aristocratici, tici, vescovi vesc e qualche re Forlagið Snorri Sturluson luson Maurizio Tani Storia d’Italia dalle origini al Concilio di Trento Una storia di contadini, soldati, mercanti, aristocratici, vescovi e qualche re Dispensa per il corso di “Storia d’Italia 1” (Università d’Islanda) Versione 0.0 Forlagið Snorri Sturluson Reykjavík AD 2012 2 Indice Dove iniziare la storia dell’Italia? Le origini Roma repubblicana Il principato Roma, stato militare Il potere di attrazione di Roma La crisi economica e politica dell’impero romano Gli imperatori romani di provincia Il vescovo L’Europa romano-barbarica L’Italia romano-barbarica Carlo Magno Il papa e l’imperatore La città europea come unità di produzione Nuove esperienze politiche e culturali Comune e feudalesimo La lotta per il potere in Italia e in Europa I vescovi latini Il progetto egemonico del Papa Il Dictatus Papae di Gregorio VII (1078) La monarchia del Papa I “Re dei Romani” Le dinastie dei Salii e degli Staufen Enrico VII di Lussemburgo, Ludovico di Baviera e Carlo IV di Boemia La città Guelfi e ghibellini Il comune “consolare” Il comune “podestarile” Il comune “popolare” L’età d’oro dei comuni italiani La superiorità militare delle città italiane Il passaggio dal Comune alla Signoria Le aristocrazie nell’Italia centro-nord Le signorie aristocratiche più grandi Il Regno di Sicilia La fine degli eserciti popolari La diffusione degli eserciti mercenari Lo scontro fra Papato e re di Francia La Curia pontificia Il dissenso religioso da Valdo a Giovanni Hus L’alleanza tra Papa e monarchie “nazionali” La crisi economica del XIV secolo La Guerra dei Cent’anni (1337-1453) e il fante contadino Il fante contadino svizzero e la nascita della Confederazione Elvetica La crisi militare delle aristocrazie, la nascita degli eserciti e quindi degli stati “nazionali” moderni La crisi conciliarista I concili di Pisa, Costanza, Pavia-Siena e Basilea La nascita delle chiese “nazionali” 5 5 6 6 7 8 8 9 9 10 10 10 11 12 12 13 13 14 14 15 15 16 16 17 17 17 18 18 18 19 19 19 20 21 21 22 22 23 23 23 24 25 25 25 25 26 26 27 3 Il collegio cardinalizio in mano alle grandi famiglie signorili Il peggioramento della condizione dei lavoratori L’aumento della produzione agricola Aumento delle sfruttamento dei contadini Rivolte operaie e contadine in Europa e Italia Le guerre di terra per il predominio in Italia Firenze prende Pisa e unifica gran parte della Toscana Le guerre di mare per il predominio in Italia Il tentativo egemonico di Filippo Maria Visconti e la guerra contro Firenze e Venezia Il tentativo egemonico di Venezia e l’ascesa di Francesco Sforza La pace di Lodi (1454) Umanesimo e Rinascimento Il neoplatonismo Niccolò Cusano L’invenzione della stampa La fine dell’equilibrio italiano La Firenze del Savonarola L’alleanza tra Francia e Venezia La riforma costituzionale dell’impero L’italia perde la supremazia commerciale Le conseguenze della scoperta dell’America In Italia le aristocrazie rimangono forti Le guerre d’Italia tra 1508 e 1526 Il sacco di Roma (1527) e la Pace di Cambrai (1529) L’umanesimo e la riforma della chiesa Lutero e le 95 tesi sulle indulgenze Lutero e l’appello alla “parte nobile della nazione tedesca” La fortuna delle idee di Lutero tra gli aristocratici La fortuna delle idee di Lutero nelle città e tra i contadini La pace di Augusta: Cuius regio, eius religio (1555) La riforma in Svizzera La riforma in Italia Il concilio di Trento Il rafforzamento del potere assoluto del Papa Il modello di Chiesa del milanese Carlo Borromeo L’egemonia spagnola in Italia L’Italia sotto Madrid La Toscana di Cosimo il Grande e la Savoia di Emanuele Filiberto La Repubblica di Venezia Bibliografia 27 27 28 28 28 28 29 29 29 30 30 30 31 31 31 31 32 32 32 33 33 34 34 34 35 35 35 36 36 37 37 38 38 39 39 39 40 40 41 41 4 Dove iniziare la storia dell’Italia? Dove iniziare la storia dell’Italia? Qualcuno dice dal 1946, con la nascina della Repubblica Italiana. Altri dicono dal 1861, anno di nascita del Regno d’Italia che andò a sostituire i vari antichi stati italiani (alcuni dei quali dalla storia più che millenaria, come lo Stato della Chiesa, o quasi millenaria, come il Regno di Sicilia). Molti sono i libri che raccontano la storia italiana dalla “caduta dell’impero romano d’occidente” (475 d.C.). Altri preferiscono iniziare con l’XI secolo, quando nascono le città-stato dei “liberi comuni” e con essi gli “italiani” trovano un ruolo importante nella storia europea e mediterranea. Ma il 1946, il 1861, l’XI secolo e il 475 furono veramente dei momenti di grande cambiamento nella storia della regione italiana tanto da giustificarne la scelta come convenzionali punti di partenza per una storia “italiana” (o comunque “più italiana” delle altre precedenti storie)? Come sappiamo la storia procede per tempi lunghi, le civiltà si sovrappungono, si stratificano, ognuna lascia qualcosa, molto si perde, ma molto si conserva. Questo è probabilmente più vero per l’Italia che per altri paesi. Essendo, infatti, gli elementi di continuità nella storia italiana tra prima e dopo i vari suddetti momenti (fosse anche il 475 o il 1861), in questa brevissima storia d’Italia abbiamo deciso di – come si suol dire – “tagliare la testa al toro” e siamo partiti da Adamo ed Eva, o meglio, da Romolo e Remo, ovvero dagli albori della storia. Le origini Verrebbe da dire, c’era una volta una penisola in mezzo al Mar Mediterraneo: un punte naturale tra Africa, Asia e Europa, con tante isole più o meno grandi tutte intorno a corona: la Corsica, l’arcipelago toscano, la Sardegna, la Sicilia e le sue isole, le varie isole dello Ionio e dell’Adriatico. Una cosa interessante da notare subito è che oggi noi chiamiamo questa penisola Italia, con un termine letterario che dimostra come fino ad opoche recenti questo termine venisse usato solo dagli uomini di cultura. Per la stragrande maggioranza della gente il mondo finiva infatti ai confini del villaggio, della parrocchia, della diocesi: nessuno aveva bisogno di parlare di “Italia”. Se fosse stata usata dagli italiani nei secoli, tale parola sarebbe oggi “Itaglia”. Avrebbe cioè subito lo stesso processo evolutivo che hanno subito parole latine come “familia” o “filius” che son diventitati nel tempo rispettivamente “famiglia” e “figlio”. Quindi già la parola Italia ci dovrebbe far riflettere sulla particolare della storia italiana. La storia dell’Italia iniziò quando, nel II (secondo) millennio avanti Cristo (abbreviato in a.C.) l’Italia - che già da migliaia di anni era abitata da contadini e allevatori capaci anche di lavorare i metalli - ricevette regolari visite di commercianti provenienti dall’Oriente: Cretesi, Fenici e Greci. Questi commercianti cercavano materie prime, metalli soprattutto, da vendere nelle progredite città dell’Egitto, dell’Asia Minore (moderna Turchia) e della Mesopotamia. L’arrivo di Cretesi, Fenici e Greci stimolò negli abitanti dell’Italia una riorganizzazione della vita comune, tanto che in breve si formò una classe di governo aristocratica che aiutò ad organizzare al meglio lo sfruttamento economico delle risorse che tanto interessavano agli stranieri. I villaggi si unirono in alleanze e dopo il 1000 d.C. si formarono alcune “popolazioni” di cui conosciamo anche i nomi: i Liguri, i Veneti, gli Etruschi (oggi detti Toscani), i Sardi, i Latini, i Sanniti (oggi divisi tra le regioni di Campania e Molise), gli Apuli, i Siculi. Questi popoli presero dall’Oriente la scrittura e l’alfabeto, la moneta, il calendario e l’astronomia, l’architettura, i miti (si veda quello della principessa fenicia Europa rapita da Zeus/Giove), le storie (si pensi a quanti elementi in comune presentano le storie di Sargon, Mosè e Romolo) e la religione, insomma tutto, o quasi. In quei primi secoli nacquero anche le prime città, costruite dai Fenici (che fondano Cagliari e Palermo) e dai Greci (che fondano Taranto, Siracusa e molte altre città del Sud Italia) ma anche dagli Etruschi (Roma, Tarquinia, Vetulonia, Pisa, Volterra, Arezzo, Chiusi, Fiesole, Perugia, eccetera). Intorno al V secolo però una serie di invasioni (quella dei Celti, provenienti dal Nord) e guerre (tra Fenici, Greci ed Etruschi, tra la città multietnica di Roma e i Sanniti) cambiarono la situazione. Alla fine, tra mille difficoltà, la città-stato di Roma, strategicamente posta sulla strada tra Etruria e “Magna Grecia” (così era detto infatti all’epoca il Sud Italia), nel punto in cui il fiume Tevere era più facilmente attraversabile, prende il sopravvento sull’Italia centrale e poi su tutta l’Italia. Roma repubblicana Di guerra in guerra, di allenza in alleanza, Roma diventa la guida di un gran numero di città, tribù, popoli e regioni in tutta Italia. I Romani sono molto curiosi e ospitali verso le culture straniere. La cultura etrusca, fenicia e, soprattutto, greca fanno un grande effetto sui Romani. Nel III secolo Roma è ormai una città greca, tanto che viene invitata a partecipare ai giochi panellenici (tipo quelli olimpici) dell’istmo di Corinto. Roma offre protezione e garantisce la difesa degli interessi di tutte le comunità ad essa federate. In cambio chiede soprattutto aiuti economici e militari. La vicinanza al mondo greco però porta Roma a scontrarsi con Cartagine, la potentissima città-stato fenicia d’Africa. Le guerre tra Roma e Cartagine sono durissime. Roma per poco non viene travolta (nel 216 in una singola battaglia Roma perde tutto il suo esercito), ma alla fine prevale e sconfigge Cartagine (202 a.C.). Da quel momento Roma non avrà più grossi ostacoli, almeno fino a quando (dal I secolo a.C.) non dovette affrontare i popoli “barbarici” dell’Europa centrale o la Persia, sulla via dell’Oriente (dal I sec a.C.). All’inizio la forza di Roma sta nel suo esercito fatto di cittadini, contadini, a cui Roma garantisce la terra e una certa rappresentanza politica nelle istituzioni della “Res publica”. Grazie ai comizi tribuni e ai tribuni del popolo anche i non aristocratici si sento sufficientemente rappresentati nel governo dello Stato. I tribuni del popolo, infatti, sono capaci di riequilibrare il potere del Senato (rappresentante degli aristocratici) e dei consoli (specie di re a tempo determinato). Col tempo però questo sistema viene messo in crisi dall’egoismo e dalla cupidigia degli aristocratici, mentre il potere effettivo a Roma passa nelle mani dei generali dell’esercito. Dal II secolo d.C. ormai Roma è uno stato in mano agli eserciti. Chi controlla gli eserciti, controlla lo Stato. Il più famoso dei generali che controllano la politica romana è sicuramente Giulio Cesare, il primo “re” non dichiarato di Roma. Il principato Così si arriva nel I secolo a.C. alla fine della repubblica romana e all’inizio del “principato”, ovvero al governo de facto di una persona sola: il generale più forte che - avendo l’“imperium” militare - viene chiamato “imperatore”. In questo periodo il “principe” di Roma è considerato colui che decide perché è “primo tra uguali”. 6 Il primo principe della storia romana è Augusto, che però pubblicamente si dichiara rispettoso delle tradizioni repubblicane ma che di fatto opera come un re, un monarca, un autocrate. È lui che proclama la pace eterna, fissa i confini dell’impero al limes RenoDanubio. Egli introduce anche l’uso attuale della parola Italia per parlare della penisola dalla Calabria alle Alpi. Augusto divide l’Italia in regioni che sono specchio della situazione etnica e che in buona parte esistono ancora oggi: Liguria, Veneto, Istria, Friuli, Emilia, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Sannio, Lucania, Puglia, Sicilia, Sardegna. Dai tempi di Augusto in poi Roma controlla praticamente tutto il Mediterraneo e le terre che formano i moderni stati di Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Inghilterra, Germania occidentale, Svizzera, Austria, Ungheria, Croazia, Slovenia, Bosnia e Erzogovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bulgaria, Albania, Grecia, Turchia, Siria, Palestina e Israele, Egitto, Tunisia, costa della Libia, dell’Algeria e del Marocco. Intanto, con il crescere del suo ruolo internazionale, lo Stato romano perde il suo carattere italico: dal I secolo d.C. l’esercito, struttura portante dello Stato, è ormai in prevalenza costituito da “provinciali”, da non italici, mentre dal III secolo d.C. sarà formato in prevalenza da “barbari”, ovvero da soldati provenienti da oltre il limes (il confine di Roma). Dai tempi di Augusto i “principi” di Roma si comportano sempre più come signori ellenistici (alla Alessandro Magno, il fondatore dell’ellenismo, la civiltà basata sulla fusione tra cultura greca e culture orientali). Gli “imperatori” di Roma vengono trattati sempre più come divinità, tanto che nel III secolo sarà ormai normale chiamarli col titolo di “dominus et deus”, “signore e dio”. Roma, stato militare Il signore, il “re” di Roma è capo dell’esercito e questo fatto da a lui una grande autorità, considerando che la struttura portante dello Stato romano coincide con l’esercito. L’esercito ha un ruolo importante anche nell’economia, organizzando per esempio il trasporto dei prodotti agricoli, ma anche nell’assistenza ai poveri. Il fatto poi che la figura del re sia vista come divinità in terra, colora di senso religioso il rapporto tra cittadino e Stato, tra cittadino e signore di Roma. Il ruolo dello Stato è particolarmente importante nella parte occidentale dell’impero, in quella parte dell’Europa dove Roma ha agito più in profondità, sconvolgendo la vita delle comunità che fino all’arrivo di Cesare vivevano ancora nella preistoria. È là infatti che Roma ha portato per la prima volta la città, le strade, riorganizzando la vita economica, politica e culturale in funzione delle esigenze del suo impero. Nell’occidente europeo quindi c’è maggior bisogno dello Stato anche perché – a differenza di quanto avviene nell’Oriente, dove prevale la piccola proprietà privata – là prevale l’economia legata al latifondo (grande proprietà terriera) e all’uso degli schiavi (risorsa energetica principale da impiegare soprattutto in agricoltura ma anche nelle miniere). Finchè c’erano le guerre Roma si procurava gli schiavi con i prigionieri di guerra. Quando però dopo Augusto le guerre diminuiscono, gli schiavi devono essere comprati fuori dai confini dell’impero. Le città romane d’Europa, a differenza di quelle orientali, sono quindi unità di consumo più che di produzione. Esse sono anche luoghi di governo e di diffusione della cultura romana ovvero luoghi dove attrarre le aristocrazie locali (alle quali roma lascia molto potere, esercitato per esempio attraverso le assemblee di autogoverno cittadino che rimarrano in vita anche nei secoli successivi). 7 Il potere di attrazione di Roma Dopo Augusto Roma aumenta la sua penetrazione commerciale oltre i confini dell’impero, oltre il limes. Il limes diventa così il luogo più importante per l’impero romano. Quasi come un polmone dell’impero, il limes è il luogo in cui Roma “si ossigena”, ricevendo schiavi, soldati, materie prime, e vendendo i suoi prodotti agricoli (vino, per esempio) e artigianali (armi, vasellame, tessuti, prodotti finiti). Roma esercita una grande influenza su tutte le popolazioni d’Europa, che nelle zone più a lungo integrate nel sistema economico-politico romano addirittura adottano il latino, la lingua di Roma, come loro lingua. Alla base di questa diffusa e intensa tendenza a “farsi romani” c’è il fatto che per Roma chiunque, indipendentemente dalla sua origine etnica o sociale, può diventare cittadino di Roma, purchè abbia operato in favore della collettività (questo vale anche per gli schiavi). Nel 212-213 d.C. l’imperatore Caracalla assegna la cittadinanza a tutte le élite dell’impero. Questo tipo di cittadinanza così aperta è assai diversa da quella che, per esempio, avevano le città greche. Ed è proprio la prospettiva di ricevere terra e diritti di cittadinanza da Roma che spinge un crescente numero di popolazioni “barbariche” (ovvero “straniere”) a passare il limes e mettersi al servizio di Roma come truppe ausiliarie. Roma rispetta le leggi, le autorità di autogoverno, le tradizioni politiche, etniche e culturali dei popoli ad essa “federali”. Basti vedere anche come le truppe “ausiliarie” siano costituite da soldati che fanno grande sfoggio dei loro abiti “etnici”. Allo stesso tempo, però, Roma opera – soprattutto sulle aristocrazie - una forte azione livellatrice e assimilatrice, più o meno conscia, più o meno indolore. Alcune delle operazioni portate avanti da Roma, tipo la costruzione di città nuove, la diffusione della cultura romano-ellenistica (tramite teatri, giochi, usi e costumi) o lo spostamento di intere popolazioni, potrebbero esser oggi giudicate ne più ne meno come “genocidio etnico” o “culturale”. La crisi economica e politica dell’impero romano Con il II secolo d.C., però, Roma inizia a risentire di una crescente crisi economica. La macchina dello Stato, l’esercito, il servizio di controllo e distribuzione degli schiavi, le opere di promozione dell’identità romana sono sempre più costose e Roma è costretta ad aumentare le tasse, che a loro volta causano un crescente malcontento tra i ceti produttivi e le aristocrazie locali. Il malcontento, soprattutto nell’occidente europeo, si trasforma presto in aperta rivolta. La crisi è aggravata dal peggioramento delle condizioni climatiche (che raggiunge il suo apice nel V-VII secolo d.C.) con inevitabi conseguenze negative sulla demografia (aumento della mortalità) e sull’agricoltura ma anche con effetti di incremento degli arrivi di popolazioni dal Nord-Est Europa nella zona del limes, soprattutto lungo i fiumi Reno e Danubio. La pressione esercitata dai “barbari” sul limes in particolare mette in moto una serie di eventi che porteranno ad una scomposizione, disarticolazione del sistema di governo romano in Occidente. Una scomposizione alla quale comunque seguirà una riarticolazione su equilibri nuovi. Questa serie di coincidenze (malcontento, pressione sul limes, crisi economica, problemi di cassa), infatti, mise a dura prova la capacità di governo degli imperatori romani, i quali nonostante le riforme – non riuscirono a risolvere la crisi di potere, particolarmente grave nella parte occidentale del loro impero. 8 Gli imperatori romani di provincia Tra gli imperatori romani che maggiormente operarono per rinnovare e quindi salvare l’impero potremmo citare gli iberici Traiano e Adriano, il libico Settimio Severo e gli illirici Diocleziano e Costantino. In particolare quest’ultimo portò avanti una riorganizzazione dello stato che si dimostrò vincente. Tra le decisioni più importanti prese da Costantino ci fu lo spostamento della sede dell’impero sul limes, in Oriente, e alla istituzionalizzazione del cristianesimo. Costantino spostò infatti la capitale di Roma, la nuova sede di Roma, a Bisanzio, città greca posta tra Mar Mediterraneo e Mar Nero, tra Asia e Europa, tra Balcani e Anatolia, che prese il nome di Costantinopoli, “città di Costantino” (330 d.C.). Una città che Costantino fece decorare con magnifici edifici ed opere d’arte trasportate da tutto l’impero perché essa diventasse segno tangibile ed insuperabile della nuova Roma, rinnovata e rafforzata anche e (poi) soprattutto dalla religione cristiana, che fu adattata alle esigenze dello stato militare romano. Fu così che successivamente all’editto di Milano del 313 d.C., che aveva istituzionalizzato il cristianesimo, Costantino risolse il dettato evangelico “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Vangelo di Matteo, 22, 21) nel solco della tradizione romana. Costantino mise a disposizione dei cattolici le strutture dello stato, costruì loro nuovi edifici di culto (adattando la basilica, “la casa dell’imperatore, del signore”, a tempio cristiano) e trasformò il vescovo in funzionario pubblico (lui stesso si definì “vescovo per i rapporti con l’esterno”, convocò il concilio – l’assemblea di tutti i vescovi - e verrà celebrato come il “tredicesimo apostolo”). Fu così che Roma, alla fine del IV secolo, fece del cristianesimo la sua unica religione di Stato. Il vescovo Da quel momento in poi, come vederemo, la figura del “vescovo” (dal greco επίσκοπος (epìscopos), ovvero "supervisore", "sorvegliante") sarà uno dei maggiori (se non il maggiore) protagonista della storia italiana (considerando, per esempio, che il Papa, il capo della chiesa romano-cattolica, è il vescovo di Roma). Vescovo che, è bene ricordarlo, sarà eletto prevalentemente (almeno fino al secondo concilio ecumenico lateranense del 1139), dal “popolo e dal clero”, ovvero dai cittadini maschi più in vista delle singole comunità di appartenenza dei vescovi. Un vescovo che in origine era parte integrante del sistema di governo romano, per cui il ruolo dell’imperatore nella direzione della Chiesa cristiana (cattolica/ortodossa) era molto importante. Tra i compiti dell’imperatore c’era, per esempio, quello di garantire l’unità della chiesa. Compito che egli poteva, per esempio, perseguire organizzando i concili dei vescovi dell’impero (chiamati a decidere su questioni religiose). L’Europa romano-barbarica Quando poi, tra IV e V secolo, la parte occidentale dell’Impero romano vide la creazione di nuovi strutture di governo ad opera delle aristocrazie locali in disaccordo con Costantinopoli ma appoggiate dai gruppi armati di origine barbarica (interessati a stabilirsi entro i confini di Roma), i vescovi cristiani si posero come elemento di legittimazione, ritagliandosi un ruolo centrale nella vita politica, economica e culturale dell’Europa occidentale (sempre più distante dai ritmi urbani della parte orientale dell’impero). 9 Uno dei segni più forti di questa progressivo scollamento delle due parti che Roma aveva saputo per secoli tenere insieme lo si trova nel fatto che il latino, la lingua-simbolo dello Stato romano, rimarrà in uso a Costantinopoli solo nelle cerimonie e nei documenti più ufficiali (spesso solo come formula introduttiva di testi scritti e orali). Fu così che il potere in Occidente passò a tutta una serie di entità più o meno durature che normalmente vengono chiamate “regni romano-barbarici”, a semplificare in una formula convenzionale il carattere sia romano che barbarico di questi aggregati sociali. Questa dei regni romano-barbarici era indubbiamente una situazione nuova, ma non troppo, visto che i “barbari” - in virtù soprattutto della loro funzione mlitare - da secoli rappresentavano un elemento vitale della civiltà romana, sia a livello politico che culturale. A tal proposito basti pensare alla moda aristocratica di usare le fibule di origine celticogermanica, all’uso della parola di origine germanica “guerra” che aveva sostituito nel latino la parola latina “bellum”, ai molti generali di origine barbarica (come Stilicone) che fanno carriera a Roma, oppure ai romani che fanno carriera alla corte dei re “barbarici” (come Ezio alla corte di Attila, re di una potentissima confederazione “barbarica” a guida unnogotica). Gli stessi contributi più originali della cultura romana - come hanno ben messo in evidenza studiosi come Ranuccio Bianchi Bandinelli - nascono proprio dalla capacità di Roma di far interagire l’apporto “barbarico”, privinciale, europeo, con la tradizione italica e quella (dominante) ellenestica. Una capacità che affrancò Roma dalla sua subordinazione al mondo ellenistico (Roma fino al III secolo d.C. è essenzialmente una città ellenistica). L’Italia romano-barbarica A differenza però delle altre regioni d’Europa, l’Italia - anche per la maggior vicinanza con il centro del potere romano di Costantinopoli - vive questo passaggio alle istituzioni romanobarbariche con maggior sofferenza, alternando tra V e VI secolo momenti di armonica interazione tra elemento “barbarico” e elemento “romano” (per esempio ai tempi di Teodorico il Grande, signore dei Goti, celebrato poi nel medioevo come “Toeodorico da Verona”) con momenti di luminoso (almeno apparentemente) ritorno alle antiche glorie della Romanità (con l’imperatore romano Giustiniano che riconquista l’Italia, abbellendone ancor di più la sua capitale Ravenna). Con l’arrivo dei Longobardi, alla fine del VI secolo, sembra poi che l’Italia si stesse trasformando in uno stato romano-barbarico unitario dalle Alpi alla Calabria. Pur essendo poco romanizzati e di fede ariana come i Goti, i Longobardi riuscirono infatti a conquistare quasi tutta l’talia, che divisero in vari ducati che governarono da padroni assoluti (tanto che l’Italia da questo momento in poi si chiama “Longobardia”, ovvero Lombardia). Convertitisi al cattolicesimo, i Longobardi seppero esprimere anche una monarchia unitaria, con tanto di capitale (Pavia), santo “nazionale” (San Michele), re santi e eroi della fede (come Luitprando, corso in aiuto dei Franchi contro l’Islam e salvatore delle reliquie di Sant’Agostino dalla minaccia araba) e insegne ragali (“la “corona ferrea” oggi a Monza, celebrata come reliquia santa in quanto contenente il ferro dei chiodi usati per il martirio di Gesù Cristo). Il lavoro di costruzione di un regno italico duraturo da parte dei Longobardi era favorito dall’amicizia con gli altri regni romano-barbarici d’Europa (soprattutto Franchi) e dal fatto che Costantinopoli era impegnata a difendersi dai massicci attacchi dell’Islam, la potenza nata nel VII secolo ma già forte abbastanza per tentare ripetutamente l’assalto alla “seconda Roma” (VIII secolo). 10 Alla fine però il piano dei re longobardi fallì. Vero ostacolo alla creazione di uno stato romano-barbarico forte erano le città, che grazie soprattutto al ruolo attivo svolto dai vescovi in questa delicata fase storica dell’Italia, conservarono e anzi rafforzarono (alla luce del contributo anche del diritto germanico) le proprie istituzioni romane di autogoverno. Alla lunga, nonostante il difficile impatto iniziale, le vecchie aristocrazie di origine romana si allearono con quelle di origine longobarda e trovarono nella difesa dei comuni interessi e privilegi un formidabile collante che li porterà ad appoggiare senza troppi problema il cambio dinastico in favore di Carlo Magno e i suoi eredi carolingi (775 d.C.). Carlo Magno Carlo Magno, che aveva unificato l’Europa romano-barbarica dalla Catalogna all’Ungheria occidentale, dalla Sassonia all’Italia, si era fatto promotore di una serie importante (non ultimo dal punto di vista simbolico) di iniziative di tipo politico e culturale finalizzate a conquistare le simpatie delle varie elite d’Europa sempre in cerca di occasioni per ribadire la loro continuità con Roma, modello rimasto insuperabile di civiltà politica. Particolarmente celebrate, ancora oggi (per esempio nei libri scolastici di mezza Europa), la capacità di Carlo Magno di radunare intorno a se (lui che era analfabeta) i più illustri intellettuali d’Europa (da Montecassino all’Inghilterra), la sua decisione di far costruire ad Aquisgrana (Aachen, in Germania) un palazzo regio sul modello di quelli di Ravenna e Costantinopoli. Nel suo operare, Carlo Magno si appoggiò molto ai vescovi e ai monasteri (benedettini), facendo della Chiesa cristiana (cattolica) la sua più importante fonte di legittimazione sia a livello locale (per esempio in Sassonia) che internazionale, per esempio ricevendo il titolo di “Romanum gubernans imperator”. Questo titolo di “imperatore dei Romani” gli fu conferito solennemente a Roma dal papa (così si faceva chiamare - con parola greca che significa “papà” - il vescovo di Roma), nella notte di Natale dell’800, in un momento particolare in cui sul trono di Costantinopoli c’era una donna, Irene, e da anni i rapporti tra le chiese dell’Europa latina e l’imperatore romano di Costantinopoli erano stati compromessi dalla diatriba sulle icone nata dalla decisione di Costantinopoli di abolirne il culto (su imitazione dell’Islam, militarmente vittorioso). Il papa e l’imperatore L’evento dell’incoronazione del Natale dell’anno 800 non fu vissuto probabilmente come una cosa particolarmente rivoluzionaria, anche se ovviamente scandalizzò non poco il legittimo potatore di quel titolo (l’imperatore di Roma in Costantinopoli). Col tempo, tra le varie ambiguità insite in quel gesto, quell’incoronazione divenne fonte di tanti problemi nella storia futura dell’Italia. Per i papi il titolo di “augusto, coronato da Dio grande e pacifico imperatore dei Romani” era stato dato a Carlo Magno senza diritto di trasmissione agli eredi e quindi chiunque avrebbe voluto ambire a diventare in futuro l’erede di Carlo Magno avrebbe dovuto rivolgersi al vescovo di Roma. Inoltre, secondo i papi, quel gesto significava la subordinazione dell’imperatore al potere del papa. Ovviamenti per i re dei Franchi, divenuti nel frattempo anche “re dei Longobardi”, ovvero “re d’Italia”, la questione era ben diversa. Al di là delle diverse interpretazioni, fatto stava che quella incoronazione neo-imperiale non fece che legittimare quelle pretese che ormai da tempo i vescovi di Roma andavano dichiarando su una loro superiorità rispetto a tutte le altre sedi vescovili, in virtù della sede 11 prestigiosa di “città eterna” e cuore dell’impero, e del fatto che a Roma si trovasse la tomba di San Pietro, “principe” degli apostoli di Cristo. A complicare la situazione c’era poi il fatto che comunque dopo Carlo Magno la sorte del Papa e della sua aspirazione ad essere la guida della cristianità (latina per lo meno) si legano alle fortune dei re di Franconia e Longobardia: se è forte l’uno, è forte anche l’altro. Per costruire il loro potere di controllo e coordinamento sovranazionale, sia il papa che il re hanno bisogno l’uno dell’altro. Come se non bastasse, poi, entrambi sono costretti ad appoggiarsi ai poteri locali: città, vescovi, monasteri, signorie territoriali, aristocrazie laiche ed ecclesiastiche. Da questo momento in poi entrambi, papa e monarca, si contenderanno i favori ed offriranno la loro legittimazione sul grande e variegato mercato della politica europea. La città europea come unità di produzione L’attivismo del papi e dei re franchi si intensifica ancor di più con il miglioramento delle condizioni di vita in Europa, dovuto anche al miglioramento climatico che si registra dall’VIII secolo i poi. L’aumento demografico che si registra in questo periodo stimola, infatti, l’aumento della produzione agricola, che a sua volta stimola la ripresa dei commerci su larga scala, sia all’interno del continente europeo che tra Europa e civiltà urbane del Mediterraneo (arabo e romano-costantinopolitano). I rapporti tra Europa e mondo araboislamico sono favoriti dalla presenza di importanti stati islamici in Spagna e Sicilia. I rapporti tra Europa e Costantinopoli, invece, sono garantiti dalle città italiane come Gaeta, Napoli, Amalfi, Salerno, Bari, Venezia, Pisa e Genova, dove i contatti con la capitale dell’impero romano (detto comunque nei libri di storia “bizantino” o “romaico” per sottolinearne il carattere “greco”) non si sono mai interrotti. Questa rinascita dei commerci porta alla formazione nelle varie città italiane di un nuovo ceto mercantile che prende in mano la gestione dei commerci con Costantinopoli e con le varie città del Mediterraneo islamico, soprattutto l’Egitto. I mercanti d’Italia (detti spesso semplicemente “lombardi”) diventano così intermediari commerciali tra Europa e Mediterraneo, funzione che terranno per secoli, soprattutto fino al XVI secolo. Gli italiani commerciavano in particolare i tessuti delle Fiandre e i beni di lusso (spezie, per esempio) dell’Oriente (Egitto soprattutto), che rivendono in Europa (nella regione della Champagne, a Bruges, nelle Fiandre, a Parigi e a Londra) e sulle varie piazze della penisola (in particolare Venezia, Firenze, Genova, Napoli). Intorno al 1000 le città (e gli annessi territori che formano il così detto “contado”) diventano sempre più importanti dal punto di vista economico, essendo il luogo privilegiato dei commerci e la sede di attività artigianali sempre più numerose ed importanti. A differenza delle città europee di epoca romana, quelle medievali sono quindi unità produttive e non più solo di consumo. Nuove esperienze politiche e culturali Alla crescente importanza economica delle città si accompagna anche una crescente loro importanza politica. Le aristocrazie locali, che si muovono tra città e contado, i vescovi (e il loro entourage di chierici e laici) e le nuove professioni emerse con la rinascita dei commerci (avvocati, notai, mercanti-imprenditori, insegnanti laici di scuole pubbliche e private) si organizzano per avviare politiche per la città e il territorio circostante che facilitino i commerci stessi. Tali politiche concretamente significano leggi chiare, spazi 12 attrezzati per i mercati, vie di comunicazione sicure, ponti, navi sicure e veloci, incentivo al trasferimento di manodopera, conoscenze e professionalità in città. Le città, in competizione reciproca, cercano di attirare uomini e risorse concedendo esenzione da tasse e maggiori diritti civili e politici a chi si trasferisce in città (da qui il detto Stadtluft macht frei, “l’aria di città rende liberi”), costruendo cattedrali sempre più belle e ricche, non ultimo di santi famosi per le loro capacità protettrici e taumaturgiche. Questo è anche il periodo in cui si diffonde l’uso, anche scritto, delle lingue volgari. In Italia si diffondono le lingue occitaniche e francesi, mentre si vanno formando delle lingue ad uso locale e regionale, tra le quali per esempio il toscano (documentato, per esempio, dal conto navale pisano degli inizi del XII secolo, oggi a Philadelphia, USA). Comune e feudalesimo È proprio da questo intenso desiderio di riorganizzazione della vita economica, politica e quindi culturale dell’Italia che nascono due dei fenomemi più noti della storia medievale: il “comune” e il “feudalesimo”. Spesso presentati nei libri di storia divulgativi e nel giornalismo dei media come l’uno in contrasto dell’altro, l’uno (il secondo) cronologicamente antecedente l’altro, in realtà questi due fenomeni sono coevi e nascono dallo stesso processo storico, dalla stessa esigenza di “buon governo” espressa da una società che cresce di complessità economica, sociale e politica. Una contrapposizione dura a morire anche perché ingrediente essenziale del mito di fondazione della “nazione italiana”, che spesso (dal Rinascimento al Romanticismo, fino al Fascismo di Mussolini e al Leghismo di Bossi) ha voluto vedere nella nascita dei comuni, presentati come risposta libertaria alla prepotenza aristocratica del feudalesimo, il momento d’inizio della storia italiana (o “padana”) e il segno distintivo di un presunto “genio italiano” (o “padano”). Il sistema di autonomie (basato spesso su un buon livello (per quei tempi) di rappresentanza democratica e di equilibrio tra le componenti sociali della comunità cittadine e rurali interessate) che noi chiamiamo “comune” e il sistema di governo politico ed economico del territorio extra-urbano (basato su una gerarchia di poteri aristocraticonobiliari subordinati ed emanati da un’autorità sovrana) che noi chiamiamo “feudalesimo” in raltà sono parte di un unico sistema di governo che si fa delineando dopo il 1000. Un sistema di governo molto complesso, formato da una miriade di soggetti collettivi in stretto legame tra di loro. Città e relative comunità, nobiltà laica ed ecclesiastica, sia urbana che rurale, villaggi e relative comunità, vescovati e abbazie sono tutti elementi di un medesimo sistema politico-economico. La lotta per il potere in Italia e in Europa Un sistema politico-economico in cui papato, impero e monarchie regionali (come quella di Sicilia o Sassonia) cercarono di intervenire come elementi di raccordo e coordinamente, paradossalmente costretti ad essere alleati pur se competitori nell’opera di legittimazione dei nuovi poteri collettivi e feudali. Una competizione che si concentrerà soprattutto sui vescovi, che - come abbiamo già detto - da quando Roma aveva perso il controllo dell’Occidente europeo (V-VI secolo) rappresentava la più importante autorità politica in quella parte dell’ex impero romano. Competizione nota nei libri di storia come “lotta per le investiture” ma che va ben al di là del problema di chi abbia, tra papa e imperatore, il diritto di eleggere i vescovi delle città e gli abati dei monasteri della cristianità latina. Intervenire sulle modalità di elezione dei vescovi, tradizionalmente di pertinenza del “popolo e del clero”, significava chiaramente agire sui rapporti di potere a danno delle 13 comunità e delle aristocrazie locali che nei secoli successivi alla fine del potere romano in Occidente avevano preso il potere. Così dopo il mille in tutta Europa si assiste ad una serie di scontri di potere, sia al vertice che alla base, che coinvolge città, famiglie aristocratiche, signorie locali, vescovi, abati, papi, re e imperatori, tutti contro tutti, ma allo stesso tempo condannati a cercare sempre nuovi alleati e quindi sempre disposti a scambiarsi favori e aiuti. I vescovi latini Tra tutti i vari soggetti politici contendenti i vescovi sono coloro che sembrano avere più possibilità di imporsi sugli altri. Considerando che dal IV secolo d.C. – come abbiam più volte detto -rappresentano la continuità di governo e catalizzano la vita economica, politica e culturale delle regioni europee. In più i vescovi riescono a sfruttare a proprio vantaggio il fatto che nella mentalità cristiana medievale la comunità politica coincide con quella religiosa. Tra tutti i vescovi romano-cattolici (latini) il più potente fu ben presto il vescovo di Roma, che potè sfruttare a proprio vantaggio la continua interazione con i regnanti d’Occidente e d’Oriente (in particolare con il re dei Franchi) e le prerogative simboliche derivanti dall’essere chiamato ad operare nella sede originale e sacra della religiosità (pagana) romana (riconosciutele anche dai primissimi concili ecumenici della chiesa come quello di Calcedonia del 451 d.C.). A questi strumenti poi il papa ne aggiunse altri non meno importanti (come la “Donazione di Costantino”, un falso secondo il quale Costantino avrebbe donato al papa Roma con la parte occidentale dell’impero, Italia, Germania, Francia, Iberia e Inghilterra comprese). Fu così che il vescovo di Roma riuscì ad imporsi sulle altre sedi vescovili europee (come quelle di Ravenna, Milano e Aquileia) a cui non sempre piaceva la troppa intraprendenza romana. Il progetto egemonico del Papa Il papa, insomma, si considerava l’unica autorità in grado di aspirare ad essere “vicario di Cristo” (usando un’espressione introdotta da papa Innocenzo III), ovvero rappresentante giuridico (ovvero politico) oltre che religioso di Cristo in terra, nell’attesa del suo ritorno. Una visione che non trovò, ovviamente, d’accordo il resto della cristianità, soprattutto quella che ormai dal 1054 (l’anno della scomunica reciproca tra vescovi di Roma e Costantinopoli) è da considerare “la chiesa greco-ortodossa” (distinta da quella che oggi noi chiamiamo “romano-cattolica”), ovvero quella parte di “cattolicità” che rimarrà nel solco della tradizione ecclesiastica costantiniana. Soltanto con l’aggravarsi della crisi militare del suo regno (attaccato ripetutamente da Ovest e da Est, da Slavi, Siciliani, crociati latini, Veneziani e Turchi), che l’imperatore romano-costantinopolitano (tra XIII e XV secolo) riconoscerà (per brevi periodi comunque) l’autorità del papa. Con la caduta di Costantinopoli e la fine dell’impero romano (inteso come istituzione propriamente tale, in reale continuità con lo Stato di Roma fondato secondo la leggenda da Romolo il 21 aprile del 753 a.C.) il problema fu superato ed oggi la chiesa “greco-ortodossa” è organizzata in organismi ecclesiastici “autocefali” normalmente corrispondenti ai moderni stati nazionali (Grecia, Romania, Bulgaria, eccetera). 14 Il Dictatus Papae di Gregorio VII (1078) La separazione del 1054 tra Roma e Costantinopoli consentì al vescovo di Roma di poter costruire la sua idea di società cristiana. Un’idea che fu precisata nei minimi dettagli tra 1059 (quando il papa decise che il vescovo di Roma sarebbe stato eletto non più dal “popolo e dal clero” ma dai “cardinali”, ovvero dai titolari delle chiese di Roma) e 1078 (quando papa Gregorio VII emise il Dictatus Papae). Secondo tale documento, infatti, il pontefice aveva in terra potere assoluto ed era in grado di deporre gli stessi re laici. Come un monarca assoluto, il papa assumeva la funzione, sia internamente che esternamente alla chiesa, di guida suprema della cristianità. Il Dictatus Papae - che tra le altre cose andava contro le idee del santo ravennate Pier Damiani, il quale (convinto della indissolubilità dell’unione tra regno e sacerdozio) proponeva una riorganizzazione dei ruoli di re, papa e vescovi - fu all’epoca criticato da re (in particolare dai “re dei Romani” della dinastia dei Salii) e da eminenti uomini di chiesa come Dionigi da Piacenza, Guido da Aqui, Guiberto da Ravenna (futuro “antipapa” Clemente III). Ovviamente anche i re dei Franchi, ovvero i “re dei Romani”, come si facevano chiamare fin dall’XI secolo (nonostante le proteste dei Papi, i quali preferivano chiamarli “re dei Tedeschi”), si opposero al progetto egemonico di un Papa che pretendeva di dirige tutto e tutti. Per molti di loro era necessario restaurare in Occidente l’impero romano e occorreva ricondurre ad un rapporto di equilibrio il rapporto tra monarca e vescovo di Roma. La monarchia del Papa Nonostante le critiche, però, i papi portarono avanti con determinazione questo loro sogno di monarchia assoluta e universale (che troverà conferma definitiva nel XVI secolo, con il Concilio di Trento). Fu nell’ambito di questa strategia di onnipotenza che nacque la intensa attività dei Papi nel legittimare e delegittimare regni, stati e comunità, signori, re e cittadini, tramite la condanna di eresia, scomuniche, interdetti, crociate. Tra gli esempi più notevoli di questa attività del Papato tra XI al XVI secolo, potremmo citare il caso della creazione dei titoli di Duca di Puglia (1059) e di Re di Sicilia (nel 1130). Tali titoli furono creati dai Papi per la dinastia normanna degli Altavilla in cambio della loro vittoria sull’Islam e sugli “eretici” greco-ortodossi dell’impero romano di Costantinopoli che all’epoca ancora controllava Puglia e Calabria. Da allora il Regno di Sicilia (e il suo erede Regno di Napoli) sarà trattato dai Papi come loro feudo privato (alla fine del XIII secolo arriveranno anche a sostituire la dinastia regnante degli Svevi con quella degli Angiò). Altri due casi simili di subordinazione politica al Papato in epoca medievale possono essere individuati nel regno di Aragona e in quello del Portogallo, entrambi creati dal Papa e per questo obbligati a pagare a Roma ogni anno una tassa specifica in segno di sottomissione. Per quanto riguarda invece casi famosi di scomunica, interdetto e crociata potremmo citare quella ai danni dell’imperatore Federico II di Svevia (1239), quella contro Ezzelino III da Romano (1254), la scomunica (del 1376) dei governanti di Firenze (città che subì anche l’interdetto da parte del Papa), la scomunica dei Valdesi (1184), quella di Lutero (1521) l’interdetto contro Venezia (negli anni 1482, 1509 e 1606), la crociata contro il re d’Ungheria Ladislao IV il Cumano (1288), quella contro gli Albigesi, eccetera. 15 I “Re dei Romani” A questa frenetica attività dei pontefici si accompagnò quella non meno frenetica degli imperatori, soprattutto quelli delle dinastie dei Carolingi, Ottoni (Sassonia), Salii (Renania) e Staufen (Svevia). Tra i più attivi assertori del primato orgnizzativo del potere regio su quello pontificio ci furono i primi eredi di Carlo Magno, tra i quali spiccano Luigi/Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, e suo figlio Lotario (che nell’824 stabilì che il papa, prima di prender possesso della carica, dovesse prestare giuramento di fedeltà all’imperatore). Dopo i Carolingi furono i re Ottone I e Ottone III, duchi di Sassonia, che - grazie al prestigio che la loro dinastia si era guadagnata sconfiggendo Ungari, Vichinghi e Saraceni - erano stato investiti del titolo di “imperatori”, a impegnarsi molto a ridare autorità al titolo imperiale in Occidente. Ma coloro che investirono di più nel tentativo di ricreare in occidente un “impero romano” furono i re Salii, originari della Franconia renana (tra Worms e Spira) e detti anche ‘Corradini’ o 'Enrichi' di Waiblingen (dalla città della Svevia che sarà poi roccaforte della dinastia degli Hohenstaufen). Furono loro, per esempio, a decidere nell’XI secolo che ogni re eletto alla dieta (parlamento) di Germania avrebbe portato il titolo di “re dei Romani”. Questa tradizione venne da allora rispettata. Le dinastie dei Salii e degli Staufen Per promuovere l’autorità del titolo monarchico ed esaltare il prestigio della dinastia, i Salii viaggiarono molto in lungo e in largo tra Germania e Italia, fecero costruire importanti monumenti d’arte quali la cattedrale di Spira (che divenne il mausoleo di famiglia, primo nel suo genere nell’Europa medievale), e il complesso del Palazzo imperiale a Goslar, cittadina della Bassa Sassonia che ospiterà 23 diete dell’impero e sarà più volte residenza degli imperatori (fino al 1253). Altrettanto fecero Ottone IV di Brunswick (duca di Sassonia) e i monarchi della dinastia sveva degli Staufen (Hohenstaufen), in particolare Federico I il Barbarossa (nel XII secolo) e Federico II (nel XIII secolo). Questi ultimi due scesero più volte in Italia per far valere i diritti sovrani dell’impero. Nella loro opera di promozione della figura imperiale si appoggiarono anche alla poesia (protezione dei poeti in lingua volgare) e al diritto romano, che proprio nelle università d’Europa (ed in particolare in quella di Bologna) in quel periodo veniva riscoperto e riattualizzato. Dopo aver cercato di imporre i suoi voleri con la forza, Federico Barbarossa ottenne un accordo con le città italiane, che riconobbero l’origine imperiale dei loro poteri (Pace di Costanza, 1183). Federico II, che era anche re di Sicilia, invece cercò di radicare il potere imperiale promuovendo la figura dei vicari imperiali e il governo regionale sul modello dei regni etnici di Germania. Secondo tale piano, il potere imperiale si sarebbe offerto alle città e ai territori italiani del centro-nord come mediazione e coordinamento tra tutti i soggetti politici di una medesima regione, magari maggiormente definita dal punto di vista etnico. Tale progetto prevedeva la creazione di unità amministrative, governate da vicari imperiali, per la Lombardia, il Friuli, la Toscana, la Marca di Verona (Veneto), la Sicilia. Un progetto che fuori dalla Sicilia, fu possibile avviare solo in Toscana (dove il vicario imperiale fu collocato nel castello imperiale di San Miniato al Tedesco, a metà strada tra Pisa e Firenze) e in Friuli e che poi venne completamente abbandonato con la caduta della dinastia sveva. 16 Enrico VII di Lussemburgo, Ludovico di Baviera e Carlo IV di Boemia Altri imperatori assai attivi in Italia si ebbero agli inizi del XIV secolo: Enrico (in toscano Arrigo) VII, già conte di Lussemburgo, celebrato da Dante Alighieri; Ludovico di Wittelsbach (Monaco, 1282 – Fürstenfeldbruck, 1347), detto (dispregiativamente) “il Bavaro”, “il bavarese”; e Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia. Ludovico (IV come imperatore) fu incoronato imperatore a Roma non più dal Papa ma da un rappresentante del Comune di Roma, ovvero del “popolo”, e nel 1338 riuscì anche a far votare dalla dieta di Rhens (presso Coblenza, in Renania) la decisione che da quel momento in poi la dignità imperiale sarebbe stata data automaticamente a chi fosse stato eletto “re dei Romani”, con incoronazione ad Aquisgrana. Carlo IV invece riuscì con la sua “Bolla d’oro” a introdurre la regola, che da allora sarà rispettata fino al XVI secolo, che l’imperatore sarebbe stato eletto a Francoforte da sette grandi elettori: tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri) e quattro laici (il re di Boemia, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato-Renania e il margravio/marchese di Brandeburgo). Fu così che il carattere “germanico”, essenziamente tedesco, della carica imperiale divenne ancora più forte. Sarà comunque solo nel XVI secolo che l’impero sarà definito “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica”. La città Tra queste due istituzioni, il papato e l’impero, con le loro rispettive ideologie e propagande, con i loro attraenti riti e miti, con il loro potere di legittimazione, si muoveranno tutti gli altri protagonisti della storia italiana, in particolare le città e gli altri poteri territoriali. Di fatto gli stessi comuni nasco per iniziativa degli imperatori nel momento in cui essi, in cerca di alleati, dettero alle istituzioni di autogoverno cittadino la rappresentanza politica di tutta la comunità cittadina. I primi comuni furono quelli di Pisa (fondato nel 1081), Biandrate (1093), Asti (1095), Milano (1097), Arezzo (1098), Genova (1099), Pistoia (1105), Ferrara (1105), Cremona (1112), Lucca (1115), Bergamo (1117), Bologna (1123), Piacenza (1126), Mantova (1126), Modena (1135), Verona (1136). Quando però vorranno attribuirsi “regalie”, ovvero poteri di pertinenza del re, i comuni faranno della loro alleanza con il papa una bandiera da contrapporre all’imperatore, che vinceranno ripetutamente in guerra (per esempio ai tempi di Federico Barbarossa). Alla fine poi i comuni delle città-stato dell’Italia centro-nord otterranno la legittimazione definitiva dall’imperatore con la Pace di Costanza (1183). Una legittimazione che permetterà entro il XIII secolo alle autorità dei comuni italiani di estromettere i vescovi dal governo delle città e di sottomettere il contado, creando villaggi “franchi” (liberi da tasse), comuni rurali o imponendo rapporti di subordinazione feudale alle aristocrazie locali (quindi sempre più legate alla città). Guelfi e ghibellini Durante la lotta per il potere tra i vari protagonisti della storia italiana dei secoli dopo il 1000, una delle più frequenti divisioni politiche è quella tra “guelfi” e “ghibellini”. Tale divisione corrisponde a quella tra chi cercava legittimazione nella rete di alleanze facenti capo al Papa (i Guelfi) e chi invece cercava legittimazione nella rete di alleanze facenti capo all’imperatore, ovvero al “re dei Romani” erede dei Carolingi ed eletto in Germania. Le parole stesse “guelfo” e “ghibellino” sono di origine tedesca e derivano rispettivamente dal nome della famiglia bavarese-sassone dei Welfen-Este e dal nome della città sveva di 17 Weiblingen (nel Baden-Wurtenberg, Repubblica federale di Germania), roccaforte della dinastia dei Hohenstaufen, duchi di Svevia, e di quella dei Salii. Quando poi il partito ghibellino sarà definitivamente sconfitto da quello guelfo, altre divisioni politiche – non meno laceranti – sorgeranno all’interno del partito guelfo (per esempio tra guelfi “bianchi” e “neri”). Il comune “consolare” Fu quindi all’ombra dei poteri universali di Impero e Papato, appoggiandosi una volta all’uno e una volta all’altro, che le città dell’Italia centro-settentrionale riuscirono a rendersi di fatto indipendenti. Nella prima fase della loro storia queste città-stato sono governate da magistrati detti (con termine di origine classica, a significare la rinascita delle vecchie istituzioni dell’antica Roma) “consoli” (consules civitatis), espressione del “popolo grasso” (formato dai grandi mercanti) e dell’aristocrazia feudale (consulares di fatto indicò il ceto più ricco delle città), ma intenzionati a fare gli interessi di tutta le città (insieme al vescovo, promotore degli interessi della città nel contado). I consoli rimanevano in carica 6 mesi (al massimo un anno), così da far sì che tutte le famiglie importanti della città accedessero al potere. Le decisioni più importanti venivano però prese dall’Arengo (dal germanico “ring”), l’assemblea di tutti i cittadi (ovvero i capifamiglia della città), mentre il potere esecutivo era in mano al Collegio dei consoli. Le cariche normalmente venivano attribuite per estrazione. Il comune “podestarile” Col tempo, però, nell’incapacità di governare, i ceti dirigenti tradizionali affidarono la guida del comune a dei tecnici della politica e del diritto, detti “podestà”, all’inizio scelti all’interno della cittadinanza poi chiamati dall’esterno (insieme ai loro collaboratori, che li seguivano in giro per l’Italia). In un primo momento il podestà effettivamente riuscì a garantire la pace all’interno dei comuni. Ma col tempo la litigiosità tra i vari gruppi di potere, tra le varie grandi famiglie nobiliari (e per questo dette “nobili”), tra “magnati” e resto della popolazione (detta “popolo”), aumentò e il podestà non riuscì più a garantire la pace e la concordia interna. Gruppi armati contrapposti (detti societates militum) presero il sopravvento sulla vita politica, magari sotto la bandiera del “Guelfismo” e del “Ghibellinismo” (parole che dopo la sconfitta degli Staufen persero il loro originario significato di partito filo-papale e partito filo-imperiale). Il comune “popolare” Quando poi “il popolo” (i non aristocratici), che fino allora era stato tenuto lontano dal governo della città, prese il potere la situazione si fece ancora più complessa. Il popolo, infatti, decise - nonostante avesse il governo del comune - di mantenere in vita le sue istizioni di parte (le sue magistrature e la sua assemblea parlamentare). Si ebbero così due assemblee generali, una del Comune e una della societas populi, e due poteri esecutivi (quello del podestà e quello degli “anziani” del popolo). In generale il comune popolare estese ancora ulteriormente le occasioni di partecipazione democratica alla vita politica (fatto che comunque non evitò lo sfruttamento delle classi più umili e dei contadini del contado) (Vitolo 2000:305). Chiamato a gestire una situazione economica, politica e culturale di grande dinamismo, il comune, muovendosi tra diritto feudale e diritto cittadino, cercò di garantire l’armonia e la collaborazione tra le varie componenti della società, ma alla fine prese nuovamente il 18 sopravvento la divisione, lo scontro armato, gli egoismi e i clientelismi. Gli stessi governi popolari non sempre tutelarono adeguatamente le classi più umili (come i salariati dell’industria), che spesso si ribellarono in alleanza con i nobili. L’età d’oro dei comuni italiani Nonostante tutto ciò, le città dell’Italia centro-settentrionale divennero degli importantissimi laboratori politici e culturali. Fu lì che nacquero alcune delle più antiche e prestigiose università del mondo latino (Bologna, Padova, Pisa), fu lì che si raggiunsero livelli di alfabetizzazione scolastica che l’Italia rivedrà solo nel XX secolo, fu lì che nasceranno le lingue volgari (tra le quali prenderà poi il sopravvento il toscano dei mercanti e dei notai del ‘200 e ‘300), fu lì che nacque quella importante stagione culturale e artistica nota in tutto il mondo con il nome di “Umanesimo” e “Rinascimento italiano”. Una serie di piccoli (territorialmente) ma grandi (culturalmente, politicamente) città-stato che seppero anche unirsi per combattere nemici comuni, sotto la bandiera della fede (basti pensare alla presa delle Baleari in mano all’Islam nel 1114-15, ad opera di Genova e Pisa, che potè inviare tutto il suo esercito grazie all’aiuto di Firenze) o della lotta per il riconosciumento delle proprie libertà (come nelle guerre contro l’imperatore Federico Barbarossa nel XII secolo), mostrando una innegabile superiorità militare. Superiorità militare che era specchio di una compattezza sociale, politica e ideologica che andava al di là delle divisioni interne. La superiorità militare delle città italiane Una cosa interessante da notare (anche per sfatare un luogo comune che ogni tanto capita di sentire ancora oggi, sia fuori che dentro i confini italiani, riguardo alla presunta atavica scarsa inclinazione degli Italiani alle arti della guerra) è che le libere città del centro-nord Italia disponevano di potenti eserciti che oggi definiremmo “nazionali”. Un tipo di esercito che dette prova della sua superiorità quando le città italiane si scontrarono con l’esercito imperiale, basato soprattutto sulla cavalleria pesante di provenienza aristocratica, del Barbarossa (che fu sonoramente sconfitto nel XII secolo). L’esercito delle città italiane era, infatti, un esercito di popolo, ben armato, disciplinato, ben preparato e ben guidato, ma soprattutto motivato poiché formato da cittadini di ogni classe disposti a dare la vita propria e quella dei figli per la “piccola patria” cittadina, per la loro città-stato, per la loro “natio”, per la loro “res publica”, per il loro Stato e la sua “libertas”. Il passaggio dal Comune alla Signoria Secondo gli storici con la fase popolare del Comune lo spazio di iniziativa dei cittadini si era allargato troppo per la capacità di gestione delle istituzioni politiche dell’epoca e per una cultura politica che rimaneva ancora troppo legata ai modelli di vita aristocratici (Vitolo 2000:435). Le stesse grandi famiglie mercantili - affascinate dalla cultura cortese - cercavano l’ingresso nell’aristocrazia (come i Principi a Bologna) e assumevano una struttura simile a quella dei nobili (riunendosi in quartieri fortificati e in clan – come a Genova, dove i clan eran detti “alberghi”). In un contesto interno di aumento dell’instabilità politica (causata anche dall’espansionismo economico e dalla dinamicità sociale) e di un contesto esterno di aumento del numero di conflitti tra comuni e lotte per la supremazia a livello regionale tra 19 città-stato rivali, il Comune perse la capacità di gestire la dialettica interna alla città e quella tra le comunità rurali annesse. Il risultato fu la fine della partecipazione del popolo alla gestione delle città, la presa del potere da parte di gruppi di famiglie potenti e il passaggio quindi dal Comune alla Signoria (ovvero alla monarchia, al principato). Le aristocrazie nell’Italia centro-nord Protagonisti della storia italiana intorno al mille (nella nascita del comune e del feudalesimo) e anche dopo (per esempio nel passaggio delle città dal comune alla signoria) sono le aristocrazie che vivono tra contado e città e si muovono in maniera disinvolta e spregiudicata, tra un’alleanza e l’altra, su tutto il territorio di quello che prima della conquista franca era detta la “Longobardia Maior” e che per alcuni è il “Regnum Italiae”. Molte sono aristocrazie di origine franca o addirittura longobarda. Questo è il caso, per esempio, dei franchi Arduini (attivi in Piemonte), Manfredingi (attivi in Lombardia), Bernardingi (attivi tra Parma e Cremona), a cui si affiancavano famiglie di origine bavarese come i Bonifaci (attivi in Toscana e Corsica) e longobarda come i Della Gherardesca a Pisa e in Maremma pisana, gli Alberti a Prato, i Cadolingi tra Fucecchio e Colline pisane, gli Aldobrandeschi in Maremma, i Da Canossa tra Lombardia, Emilia e Toscana, gli Obertenghi tra Toscana, Liguria, Lombardia e Piemonte, i Gisalbertini in Lombardia, i Da Camino in Veneto, i Da Lomello in Lombardia. Le altre aristocrazie erano state create per iniziativa dei comuni, dei vescovi, degli imperatori o dei papi, sempre in cerca di alleati. Furono questi gruppi aristocratiche - sfruttando proprio le continue instabilità politiche, i frequenti rivolgimenti di governo, le numerose guerre tra città-stato – a prendere il potere in tutta Italia centro-nord. Tra Savoia (oggi in Francia) e Piemonte abbiamo la dinastia dei Savoia (imparentati più volte con gli imperatori tedeschi), gli Aleramici marchesi di Monferrato, Savona, Carretto (da cui derivarono i Del Carretto) e Saluzzo, gli Obertenghi signori tra Liguria, Lunigiana, Toscana e Sardegna, gli Este signori tra Veneto, Toscana, Lombardia e Emilia ma poi conosciuti soprattutto come signori di Ferrara (città avuta grazie alla protezione dei Papi). In Veneto abbiamo quindi gli Ezzelini (da Romano), in Liguria abbiamo invece i Ventimiglia e i Lavagna Fieschi, i Guidi tra Toscana e Romagna, gli Alberti Capraia in Val Bisenzio e intorno a Firenze, i Landi nella Val di Taro (Parma), i Montefeltro tra Marche e Romagna, i Pusterthal tra Istria e Gorizia, gli Alidosi (alleati dell’imperatore “guelfo” Ottone IV di Brunswick e signori di Imola per merito di papa Clemente IV) in Romagna, i Bentivoglio a Bologna, i Da Polenta a Ravenna, i Malatesta (signori di Rimini tra 1295 e 1528) e i Manfredi in Romagna, gli Ordelaffi a Forlì, i Pio di Savoia e i Pico della Mirandola in Emilia, i Riario in Romagna, i Farnese nella zona di Viterbo (Tuscia), i Correggio in Emilia, i Beccaria e i Cavalcabò in Lombardia, i Bonacolsi e i Gonzaga a Mantova, i Rusconi in Lombardia e Svizzera, i Torriani e i Visconti in Lombardia, gli Sforza in Lombardia, i Grimaldi tra Liguria e Montecarlo, i Ferrero in Piemonte, i Peleologo (eredi degli imperatori romani di Costantinopoli) nel Monferrato, i Da Carrara a Padova, i Della Scala signori di Verona (tra 1262 e 1387), i Casali a Cortona, i Gambacorta e gli Appiani a Pisa, i Lodovisi tra Bologna e Toscana, i Medici a Firenze, i Cybo in Liguria e Toscana, i Baglioni e i Chiavelli in Umbria, i Cima nelle Marche, i Monaldeschi di Orvieto, i Di Vico intorno Roma, i Trinci in Umbria, i Della Rovere a Roma e dintorni, mentre a Roma troviamo gli Alberichi, i Crescenzi, i Colonna, i Tuscolani e tante altre famiglie giunte più tardi. 20 Le signorie aristocratiche più grandi Fu in questo ginepraio di aristocrazie, parte di un sistema feudale difficile da controllare, che imperatore e papato muovevano le proprie pedine del grande gioco della politica italiana ovvero euro-mediterranea. Un gioco che spesso prendeva le forme della guerra. Favorite dal diffuso desiderio di “pace” (questa era la parola chiave che spesso fu usata per promuovere la sottomissione città e territori al signore), alcune delle famiglia appena citate riusciranno a creare vere e proprie dinastie reali, alcune delle quali - grazie alla protezione dei papi e degli imperatori - dureranno fino all’arrivo di Napoleone e alla successiva creazione del Regno d’Italia nel XIX secolo. Tra queste dinastie reali ricordiamo gli Este, signori di Ferrara (1240-1598), Modena (12881796) e Reggio Emilia (1288-1796) e poi unitisi agli Asburgo (1859); i Savoia, duchi di Savoia (dal 1416, per concessione dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo) e poi re di Sardegna (dal 1720, scambiando la Sicilia con gli Asburgo) quindi d’Italia (1861); i Medici, signori di Firenze dal 1434, duchi ereditari di Firenze dal 1537 e poi – per titolo concesso dall’imperatore Asburgo - re (“granduchi”) di Toscana dal 1569 al 1737 (quando la famiglia si estinse e il titolo tornò agli Asburgo). A Mantova, Guastalla, Sabbioneta e Monferrato, invece, regnarono i Gonzaga (1328-1707). Anche i Visconti - ricevuto il titolo di duchi di Milano nel 1395 - tentarono di creare un loro regno che riunificasse il “Regnum Italiae” tra Toscana e Lombardia. A queste dinastie poi si aggiungeranno gli Angioini, originari della Francia e presenti anche in Inghilterra e Ungheria, che tra XIII e XV secolo governeranno – su iniziativa del Papa – la Sicilia e il Regno di Napoli. Agli Angioini subentreranno nel governo della Sicilia e del Sud Italia gli Aragonesi, provenienti dalla Spagna (regno a cui poi passeranno Sardegna, Sicilia e Italia meridionale nel corso del XV secolo). Un caso a se poi sarà la dinastia dei Farnese, che ottenne dal Papa Parma e Piacenza al tempo in cui sedeva sul trono di San Pietro un Farnese. Il Regno di Sicilia Un esempio di sistema feudale funzionante è quello che realizza la dinastia normanna degli Altavilla (italianizzazione di Hauteville) nel Sud Italia. Giunti in Italia meridionale come mercenari al servizio dei vari poteri locali (principati longobardi, impero romano di Costantinopoli ed emirati islamici di Sicilia), i Normanni (detti così perché originari della Normandia, stato di fondazione vichinga sottoposto ufficialmente all’autorità dei re di Francia) si erano inseriti abilmente nei giochi di potere locali. Ottenuto in feudo la contea di Aversa (1029), oggi in provincia di Caserta, i Normanni presero presto il controllo della “Longobardia Minor”, dove l’aristocrazia longobarda (rimasta indipendente dai Franchi e dal Papa) governava su varie signorie. Tra queste signorie le principali erano quelle di Benevento, Salerno (all’epoca famosa per la sua scuola medica fondata da scienziati greci, arabi ed ebrei) e Capua. Tali signorie erano state unificate nel 978-981, al tempo di Pandolfo Capodiferro, che da Ottone I di Sassonia aveva ottenuto anche i feudi di Spoleto e Camerino. Dopo un ulteriore tentativo di unificazione portato avanti da Guaimario IV principe di Salerno (che agli inizi dell’XI secolo riuscì ad imporsi anche su Amalfi, Sorrento, Gaeta e su alcune parti di Puglia e Calabria), questi principati longobardi caddero uno dopo l’altro – grazie all’aiuto legittimante del Papa – nelle mani dei Normanni, che crearono un forte regno unitario, con capitale Palermo, che si estendeva su tutta l’Italia meridionale (detta “Apulia”) e Sicilia. 21 Nel loro Regno di Sicilia i sovrani normanni avevano un controllo abbastanza capillare sui loro sudditi, sia cittadini che urbani. I Normanni riuscirono anche a dare al loro regno un’identità abbastanza forte (nonostante il carattere multietnico del paese, in cui i sovrani dimostrarono una certa tolleranza per la cultura araba e greca). Sarà con la fine della dinastia degli Staufen, succeduta a quella degli Altavilla, che il regno perderà l’unità politica (a causa della ribellione siciliana del 1282), che ritroverà solo con la dominazione spagnola (che riuscì a tenere di nuovo a bada le aristocrazie locali). La fine degli eserciti popolari Una delle conseguenze più importanti della riduzione degli spazi di partecipazione popolare al governo dell’Italia del centro-nord fu il generale disarmo delle società delle armi (societates armorum), “che, essendo essenziali per la difesa della città, svolgevano nelle lotte politiche interne un ruolo che ora si voleva ridimensionare, per escludere dalla vita politica i ceti meno abbienti” (Vitolo 2000:377). Con la fine della partecipazione del popolo alla gestione delle città finì quindi anche l’esercito popolare, uno degli elementi di forza delle società comunali. Fu così che al posto degli eserciti popolari le città italiane, sempre più in mano ai “signori”, preferirono impiegare eserciti mercenari, che offrivano il vantaggio di essere subito disponibili e di escludere ogni partecipazione del popolo. La diffusione degli eserciti mercenari Con le “compagnie di ventura” dei mercenari (detti anche “masnadieri” dal provenzale maisnada, “famiglia”), per lo più stranieri, il modo di fare la guerra cambiò radicalmente. Vere e proprie macchine di distruzione, per sconfiggere i nemici erano disposte a tutto, anche a praticare la razzia e la distruzione delle risorse, con gravi sofferenze per le popolazioni civili. Nel corso del ‘300 il fenomeno delle bande mercenarie si diffuse ovunque in Italia. Ne nacque così una corsa ad accaparrarsi i gruppi armati più bravi, con conseguente aumento del costo degli ingaggi. Ben presto il costo di questi eserciti privati divenne insostenibile per molti stati, con l’effetto di creare una precarietà finanziaria costante. Ovviamente anche il costo di questo drenaggio economico finì sulle spalle della popolazione civile, che già subiva le violenze degli eserciti mercenari. Tra le compagnie più (tristemente) famose in Italia citiamo quella aragonese degli Almugàveri (dall’arabo al-muqafir, "predatore", o al-mugavar, "disturbatore"), attiva in Sicilia; quella del bretone Giovanni di Montreal (detto Fra’ Moriale), attiva in Toscana, Romagna e Umbria; la Grande Compagnia del tedesco Guarnieri di Urslingen, attiva in Toscana, Emilia e Romagna; la compagnia dell’inglese Giovanni Hawkwood (detto Giovanni Acuto, celebrato nel duomo di Firenze da un famoso dipinto di Paolo Uccello); la Compagnia Santa (che nel 1375-76 saccheggiò Faenza). Tra le compagnie di ventura italiane ricordiamo quella di San Giorgio, fondata nel 1379 dal romagnolo Alberico da Barbiano, da cui si svilupperanno la compagnia dell’altro romagnolo Muzio Attendolo Sforza (capostipite della dinastia Sforza, signora di Milano) e quella del perugino Andrea Braccio da Montone, detto “Fortebraccio”. Nel corso del ‘300-‘400 ormai per vincere le guerre bisogna avere soldi, tanti soldi, anche perché nel corso del ‘400 entrano in gioco l’artiglieria e la fantaria. Gli stati più piccoli che non riusciranno a tenere il passo con quelli più grandi saranno annessi dagli stati più grandi, ricchi e potenti. 22 Lo scontro fra Papato e re di Francia Nel mentre si consumava tra Italia e Germania lo scontro tra Papato, Impero, aristocrazie e città più o meno indipendenti, in Francia i re di quella che era la Franconia occidentale, dalla loro sede intorno a Parigi, stavano costruendo un loro stato monarchico sempre più forte e prestigioso, basandosi su un principio che andava sempre più di moda nell’Europa delle nascenti monarchie “nazionali” e sintetizzato dalla frase “Rex in regno suo est imperator”. Uno dei re di Francia più attivi in tal senso fu Filippo il Bello, che nel 1297 era riuscito (grazie all’opera propagandistica del monastero di San Danis, dei Domenicani e dei Francescani) a far canonizzazione il nonno Luigi IX (morto durante una crociata). Filippo IV il Bello, che aveva bisogno di denaro per costruire il suo regno (soprattutto l’esercito), si permise di aumento le tasse sul clero senza chiedere il permesso del papa (allora Bonifacio VIII), che chiese la revoca imediata delle tasse. Di fronte al rifiuto del re, Bonifacio VIII scomunicò Filippo IV ed emanò la bolla Unam Sanctam in cui dichiarava come i due poteri, lo spirituale e il temporale (simboleggiati dalle due chiavi, ovvero le due spade, dello stemma pontificio), erano affidati alla guida del pontefice, rappresentante di Dio in terra. Filippo IV a sua volta ordinò di arrestare il papa (accusato di essere un materialista ateo) e di trasferirlo a Parigi per essere processato. Salvato dalla folla, Bonifacio morì comunque pochi giorni dopo l’affronto. Il fatto non ebbe ripercussioni su Filippo il Bello, che anzì nel 1309 riuscì anche a far eleggere al soglio pontificio l’arcivescovo di Bordeaux (Aquitania), Bertrand de Got, che ebbe timore a stabilirsi a Roma, sempre sul punto di una guerra civile tra famiglie nobili locali. Il papa si trasferì nella tranquilla città di Avignone, in territorio ufficialmente parte dell’impero, sul confine tra Provenza e Linguadoca. La sede pontificia vi rimarrà fino al 1376. La Curia pontificia Agli inizi del ‘300 ormai il Papa controllava la nomina di tutti i vescovi e abati della chiesa ed era competente per tutte le questioni disciplinari e giudiziare che un tempo erano di pertinenza dei vescovi locali. Per gestire tutte le sedi ecclesiastiche della cattolicità, su un territorio che andava da Malta all’Islanda, dal Portogallo alla Transilvania, il Papato dovetter metter su un sistema di gestione molto complesso ed efficiente facente capo alla Curia pontificia (che poi servirà da modello alla creazione delle cancellerie delle monarchie europee). In tale sistema molto spazio veniva dato ai segretari pontifici e agli intermediari che avevano il compito di seguire le pratiche alla Curia per chiunque ne avesse bisogno. Un sistema molto complesso e quindi anche costoso. Per farlo funzionare quindi fu introdotto un sistema di pagamenti che col tempo divennero sempre più onerosi. In conseguenza di tutto ciò in breve tempo la Curia si trovò a dover gestire ingenti somme di denaro. Denaro che veniva gestito dai banchieri italiani (toscani in particolare) e che potè essere utilizzato anche per fare della corte del Papa un centro culturale e artistico di importanza europea. Il dissenso religioso da Valdo a Giovanni Hus Il modello di chiesa, centralizzato e sempre più dipendende dai flussi di denaro, costruito dai papi (magari anche in buona fede, nel nome della difesa della “libertas ecclesiae”) dopo il secondo concilio lateranense del 1139 non era però apprezzato da tutte le comunità di fedeli. Tra i più critici c’erano i “Poveri di Lione”, discepoli di un certo Valdo e per questo 23 detti Valdesi – movimento avente oggi sede in Italia e che vanta il primato ti essere la chiesa protestante più antica (oggi unita a quelle metodiste) - e i Catari, diffusi in Occitania e Nord Italia. Ovunque era forte il bisogno di costruire un nuovo modo di essere chiesa, più vicino alle idee di Gesù. Questo fu per esempio il bisogno espresso da vari ordini religiosi di nuova fondazione come i Francescani e i Domenicani, che vennero normalizzati in modo tale da non creare troppo antagonismo con le gerarchie ecclesiastiche. Per quanto riguarda, invece, la critica dell’assolutismo monarchico dei Papi, le voci più autorevoli furono quelle del fiorentino Dante Alighieri e del veneto Marsilio da Padova. Secondo Dante l’imperatore e il papa avrebbero devono collaborare strettamente per il bene comune nel rispetto reciproco (l‘imperatore avrebbe dovuto mostrare verso il Papa solo filiale devozione e non subordinazione), al fine di garantire l’armonia sociale e politica della “repubblica cristiana”. Secondo Marsilio da Padova, maestro e poi rettore dell’Università di Parigi, autore di un trattato intitolato Defensor pacis (“Il difensore della pace”, 1324), il potere politico viene sì da Dio ma si poggia sul consenso del popolo, che delega la guida al principe affinchè esso persegua il bene comune, la pace e la giustizia. Per Marsilio all’interno della Chiesa la sovranità appartiene all’intera comunità dei fedeli (universitas fidelium), ovvero al “popolo”, che si esprime attraverso il concilio (che quindi ha più autorità del papa e delle gerarchie), convocato dal principe (come ai tempi di Costantino). Attaccato duramente, Marsilio dovette abbandonare Parigi e rifugiarsi presso il “re dei Romani” Ludovico il Bavaro. Le idee di Marsilio da Padova verranno poi riprese da Wyclif (che nel suo De officio Regis, del 1379, scrisse che “il re deve essere sacerdote e pontefice del suo regno”), anche lui costretto a cercar protezione da un re (Riccardo II Plantagento d’Inghilterra), e da Giovanni Hus (mandato al rogo nonostante il salvacondotta ricevuto dall’imperatore e re d’Ungheria Sigismondo di Lussemburgo) ma anche da Lutero. In tal contesto ebbe un importante influsso anche il movimento di rinnovamento spirituale denominato “Devotio moderna”, che dai Paesi Bassi si diffuse in tutto il mondo cattolico, e che puntava molto sulla meditazione e la pratica delle piccole virtù (come indicato anche dall’opera allora assai popolare denominata Imitazione di Cristo). Tra i movimenti di riforma della chiesa potremmo citare il movimento dell’Osservanza, che espresse figure come Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e che trovò spesso l’appoggio dei poteri pubblici locali. L’alleanza tra Papa e monarchie “nazionali” Questa forte centralizzazione portata avanti da Roma si tradusse da una parte in un crescente malcontento delle aristocrazie locali e dall’altra in un’alleanza da Papato e monarchie. Il Papato, infatti, non poteva da solo gestire la nomina di così tanti vescovi e abati in giro per l’Europa. In cerca di aiuto, il Papa lo troverà spesso presso le signorie moderne (vedi più avanti), il cui potere fu quindi rafforzato dal processo di monarchizzazione della chiesa. La crisi economica del XIV secolo Intanto la grande crescita economica che aveva caratterizzato i secoli XII e XIII si arrestò, anche a causa del peggioramento del clima in Europa. Finita l’espansione dei terreni coltivati, l’equilibrio tra popolazione e risorse si ruppe, le carestie divennero endemiche, i 24 prezzi aumentarono (nel 1313-16 in Inghilterra e Francia i prezzi aumentarono del 300%), le morti per fame aumentarono. A soffrire di più la crisi furono gli abitanti delle città, dove si riversarono anche molti contadini in cerca di aiuto alimentare. Il generale peggioramento delle condizioni di vita favorì inoltre il diffondersi di epidemie, come quelle del 1313 e del 1348 (la famosa peste bubbonica, detta anche “morte nera”). La Guerra dei Cent’anni (1337-1453) e il fante contadino Mentre tramontava l’autorità dell’impero, continuava l’ascesa delle monarchie territoriali di Francia e Inghilterra. Divisi da comuni obbiettivi espansionistici (sulle Fiandre e in Scozia), Francia e Inghilterra iniziarono nel 1294 una guerra che si protrassero fino al 1475, con un intensificarsi negli anni tra 1337 e 1453 (da cui il nome di “Guerra dei cent’anni” dato al conflitto). Tra le conseguenze principali della Guerra dei Cent’anni ci fu la crescita della capacità distrittuva degli eserciti europei e lo spostamento della sede del Papa da Avignone a Roma. La guerra dei Cent’anni aveva, infatti, messo in luce tutti i limiti della cavalleria pesante europea, formata dall’aristocrazia feudale, contro la quale l’esercito inglese (forte dei suoi arceri e fanti contadini e dei suoi cavalieri disposti a scendere da cavallo e combattere fianco a fianco dei “comuni”, dei popolani) aveva avuto più volte la meglio (nonostante l’intervento dei balestrieri genovesi accanto al re di Francia). La guerra franco-inglese dimostrò che i fanti contadini, se addestrati adeguatamente, potevano fare la differenza. Il fante contadino svizzero e la nascita della Confederazione Elvetica A togliere ogni utimo dubbio sulla potenza degli eserciti contadini ci stavano pensando gli Svizzeri, che - nella lotta per la difesa della libertà dei loro cantoni (iniziata nel 1291) dalle mire egemoniche degli Asburgo - opposero alla cavalleria feudale asburgica la potenza delle loro unità formate da migliaia di fanti armati di lughe picche e di fortissimo spirito di corpo. Le unità armate della fanteria svizzera erano formate da contadini e pastori disposti a quadrato ed erano capaci sia di respingere (grazie alla massa d’orto che formavano) gli attacchi della cavalleria sia di passare all’attacco. La fanteria svizzera fino alla metà del ‘500 rimarrà la principale potenza militare d’Europa, raccogliendo l’ammirazione di Machiavelli e di altri umanisti che in essa vedevano una rinascita della falange macedone e della legione romana (Vitolo 2000:401). Solo le artiglierie metteranno in crisi questo tipo di esercito. Fu grazie alla loro organizzazione militare che i contadini e pastori svizzeri poterono creare nel 1291 una solida confederazione, a cui si aggiunsero le città di Lucerna (1332), Zurigo (1351) e Berna (1353) e che sarà riconosciuta definitivamente dalle potenze europee nel 1499. La crisi militare delle aristocrazie, la nascita degli eserciti e quindi degli stati “nazionali” moderni In Europa il ritorno alla centralità della fanteria finì per aiutare il cambiamento politico in favore degli stati regionali e le monarchie “nazionali” moderne. La guerra ormai doveva essere combattuta con l’uso massiccio della fanteria, a cui poteva essere opposta solo l’artiglieria (ed il cui uso a suo volta imponeva la costruzione di nuove fortezze). La guerra diventava sempre più costosa. In più fanteria e artiglieria misero in soffitta le aristocrazie, che da sempre avevano usato come strumento di legittimazione dei 25 propri privilegi la loro importanza militare legata alla cavalleria (che usciva di scena) e ai castelli (resi obsoleti dal crescente uso delle artiglierie). Fu così che tra tutti gli stati europei si ritrovarono avvantaggiati quelli che potevano disporre di un maggior numero di sudditi, avevano un rapporto più diretto con i loro popoli e disponevano di più risorse finanziare per allestire eserciti più efficaci e costruire nuove fortezze. Spirito di corpo e di appartenenza alla collettività del signore (che fosse in grado di coinvolgere tendenzialmente tutti gli strati sociali, in particolare i contadini) diventano sempre più importanti nel panorama politico europeo. La nascita dell’esercito moderno (in cui i soldati sono direttamente sottoposti al sovrano, capo dell’esercito) favorisce la nascita di un monarca che sia in grado di mobilizzare ingenti quantità di denaro e infondere spirito di appartenenza tra i sudditi. Da questo punto di vista l’Italia risultava essere in una situazione più svantaggiata rispetto, non solo alla Svizzera, ma anche alla Francia, alla Spagna, all’Ungheria o anche alla Germania. La crisi conciliarista Un’altra importante conseguenza della Guerra dei Cent’anni fu l’abbandono di Avignone (cittadina ritenuta insicura a causa delle operazioni militari) da parte della Curia pontificia, che se ne tornò a Roma nel 1377 (ai tempi di Gregorio IX). Morto però papa Gregorio XI, i cardinali - su pressione del popolo romano (che temeva un ritorno ad Avignone della Curia) - elessero nuovo pontefice l’arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano (Urbano VI), mentre qualche mese dopo i cardinali francesi ne elessero (a Fondi, in provincia di Latina) uno nuovo (Clemente VII) nella persona di Roberto di Ginevra, che effettivamente prese sede ad Avignone (1379). Si ebbero così due papi, con due curie e due collegi cardinalizi, entrambi in cerca di alleati. Questa divisione (nota col nome di “scisma”) fu quindi un duro colpo per il Papato, che divenne uno strumento nelle mani delle signorie d’Europa per rafforzare il proprio potere. Molte furono le voci che chiesero la revisione della struttura monarchica che la chiesa si era data da tempo. I concili di Pisa, Costanza, Pavia-Siena e Basilea L’unica via di uscita alla difficile situazione in cui si trovava la Chiesa cattolica, con due papimonarchi, fu trovata nella convocazione di un concilio che riformasse la chiesa in modo tale da risolverne le storture. Il concilio fu effettivamente convocato, una prima volta a Pisa (1409), poi nella cittadina tedesca di Costanza (1414), quindi a Pavia e Siena (1423) e infine a Basilea (1431). Nessuno però di questi “parlamenti” riuscì a vincere la resistenza del papa, contrario a ogni riforma radicale della chiesa che mettesse in dubbio la struttura monarchica e centralistica costruita dai tempi del Laterano II. Quando fu chiaro che i padri conciliari di Basilea avevano intenzione di ridurre i poteri del Papa, questi, insieme ai cardinali italiani, si trasferì a Ferrara (1438) e poi a Firenze (1439) dove procedette (alla presenza dell’imperatore romano di Costantinopoli e a numerosi intellettuali greci del calibro del cardinal Bessarione) a dichiarare l’unione tra chiesa latino-cattolica e chiesa greco-ortodossa. Le uniche novità che vennero introdotte furono che il papa autorizzava la tassazione dei beni ecclesiastici (eccezion fatta per quelli pontifici), rinunciava al conferimento dei 26 benefici minori e al controllo sui titoli ecclesiastici maggiori e concedeva una adeguata rappresentanza delle varie monarchie “nazionali” nel collegio dei cardinali. Queste novità non vennero però introdotte per via conciliare, ma con un accordo con le varie monarchie “nazionali” (in particolare Francia). In cambio le monarchie riconoscevano nuovamente la superiore autorità del Papa di Roma sul concilio. La nascita delle chiese “nazionali” L’accordo anticonciliarista tra Papa e monarchie regionali apriva la via ad una crescente autonomia delle varie chiese “nazionali”, soprattutto quelle dei regni più forti o comunque meglio definiti (sia territorialmente che simbolicamente), come quelli di Inghilterra, Francia, Ungheria, Polonia, Danimarca (Vitolo 2000:481). In Francia già nel 1437 il re (Carlo VII di Valois, detto “il vittorioso”, in riferimento al termine della guerra dei Cent’anni) convocò un sinodo “nazionale” con cui vietò al papa di intervenire nella elezione dei vescovi e degli abati, la cui nomina fu restituita ai capitoli cattedrali e alle comunità monastiche. Nasceva così una “Chiesa gallicana” assai indipendente da Roma che fu riconosciuta dal concordato di Bologna del 1516. Per certi aspetti anche la vicenda della riforma luterana potrebbe essere vista come parte di questa “nazionalizzazione” delle Chiesa iniziata nel XV secolo. Il collegio cardinalizio in mano alle grandi famiglie signorili In base all’accordo del Papa con i sovrani d’Europa, il collegio dei cardinali fu aperto ai membri delle più importanti famiglie aristocratiche dell’Europa latino-cattolica (Italia per prima). Da questo momento in poi ogni famiglie che ambisse a svolgere un ruolo di egemonia a livello regionale o “nazionale” cercò di avere un proprio membro cardinale. Per il papato era un modo di legare a se le famiglie più potenti del momento e garantirsi la sua egemonia politico-culturale nel mondo cattolico. Il peggioramento della condizione dei lavoratori A causa della crisi economica del ‘300 e ‘400, in Europa ci fu un peggioramente delle condizioni di vita dei contadini e degli operai (soprattutto del settore tessile, particolarmente colpito dalla crisi in Italia). All’incremento demografico registrato nel ‘500 si rispose diffondendo l’uso dei cereali. La carne, che era stata nell’alto medioevo uno degli alimenti principali per tutti gli strati della società e che tra ‘300 e ‘400 era ancora abbastanza presente sulle tavole dei contadini e degli operai, sparì del tutto dall’alimentazione di questi ceti lavoratori, che fino al XX secolo si ciberanno soprattutto di pane e farinate (di frumento in città, di cereali inferiori nelle campagne, di castagne spesso nelle aree di montagna), un po’ di lardo o pesce salato (baccalà), uova e latticini, legumi e verdure, vino o birra di qualità scadente. L’aumento della produzione agricola Per produrre abbastanza cibo per tutti, si cercò di aumentare la superficie coltivata, bonificando foreste, abbattendo boschi demaniali, prosciugando paludi, recuperando terreni un tempo abbandonati. I paesi dove si raggiunse la massima produttività agricola furono quelli in cui maggiore era la disponibilità di acqua e concime (soprattutto di produzione animale). Sarà infatti la stretta associazione tra agricoltura e allevamento e l’adozione di sofisticati sistemi di rotazione delle colture (per evitare di dover tenere a maggese, a riposo, il terreno) a 27 permettere (prima in Olanda e poi in Inghilterra) la così detta “rivoluzione agricola” dell’età moderna. La Lombardia a Sud di Milano, irrigata dalla laboriosità di generazioni di contadini, già nel ‘400 aveva visto l’abolizione del maggese e la diffusione del grande affitto capitalistico, l’alterazione dei cereali e piante foraggere ricche di azoto (lupinella, trifoglio, erba medica da destinare al bestiame), le risaie e le “marcite” (prati in cui artificialmente scarreva di continuo un velo d’acqua così da rendere possibile il taglio del fieno più di una volta l’anno). Aumento delle sfruttamento dei contadini Queste innovazioni tecniche però non furono applicate ovunque, a causa del fatto che nel corso del XVI - XVIII secolo le condizioni di vita dei contadini peggiorarono talmente tanto che questi non poterono più investire per migliorare la produzione agricola. Un processo che viene definito di “proletarizzazione” e che spiega come mai tra 1450 e 1750 l’organizzazione della produzione nelle campagne non cambiò molto. Nell’Europa centro-orientale nel XV secolo ci fu un rafforzamento della servitù della gleba. In Italia ovunque sparì la proprietà contadina (che invece si mantenne in Francia e Germania occidentale). Rivolte operaie e contadine in Europa e Italia Vedendosi ridurre il loro tenore di vita e i livelli di autonomia, in molti paesi i contadini si ribellarono. I contadini si ribellarono, per esempio, in Inghilterra (1381), in Francia (1358), in Friuli (1511), in Ungheria e Transilvania (1514), in Castiglia (1520-21), in Svevia (1524-25). Anche gli operai si ribellarono, per esempio a Firenze (1345, 1378), Perugia (1371) e Siena. Queste rivolte furono generalmente represse nel sangue (20.000 persone uccise nella sola ribellione francese del 1381). In Inghilterra e Polonia, invece, i re intervennero per facilitare un accordo tra le parti (Casimiro il Grande dei Piasti si guadagnò il nomignolo di “re dei contadini”). Alla base di queste rivolte c’era un persistere di certe idee, assai diffuse in epoca medievale (soprattutto di ambito cittadino), sull’uguaglianza degli uomini (vedi sopra, cfr. Capra 2009:32). Dante stesso, per esempio, insisteva su questo tema nel Convivio, richiamando la Bibbia: “se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili”. Le guerre di terra per il predominio in Italia In coseguenza di quanto detto sopra, per esempio, sui costi alti della guerra, tra ‘300 e ‘400 nell’Italia del centro-nord si ebbero vari tentativi di creazione di signorie più grandi. In Toscana, per esempio, abbiamo Uguccione della Faggiola che si impose per un breve periodo a Pisa e Lucca, sconfiggendo Firenze (battaglia di Montecatini, 1315). A questa esperienza seguì quella di Castruccio Castracani che, presa Lucca, si impose a Pisa e Pistoia e sconfisse Firenze (battaglia di Altopascio, 1325), che a sua volta si pose sotto la protezione di Roberto d’Angiò, re di Napoli, famoso per la sua ricca e presigiosa corte. Maggior successo ebbero nel Nord Italia gli Scaligeri, che per più di un secolo furono signori di ampie zone del Veneto (Padova compresa) e della Lombardia (ma anche della Toscana). Il più importante esponente di questa dinastia fu Cangrande I (1291-1329), che fece della sua corte un importante ritrovo di artisti e intellettuali (tra i quali Dante Alighieri). Finita la dinastia scaligera (1337), emerse la dinastia dei Visconti, che al tempo di Gian Galeazzo - con la protezione del re di Francia - conquistò nel Veneto le città di Padova, 28 Verona, Vicenza e Treviso per poi rivolgersi alla Toscana (dove acquisì Pisa e sconfisse ripetutamente Firenze). Di fronte all’espansione militare e propagandistica di Milano, Firenze si pose a guida delle città italiane nella lotta “al tiranno” nel nome delle antiche libertà cittadine. Voce autorevole di questa iniziativa propagandistica fu Lino Coluccio Salutati (Stignano, Buggiano, Pistoia, 1331 - Firenze, 1406), cancelliere di Firenze (ovvero titolare, fino alla morte, della carica più importante nell’amministrazione dello stato fiorentino). Nei suoi scritti Colucci dichiara la completa indipendenza, e quindi il carattere di vero e proprio stato sovrano, di Firenze, che potere “superiorem non recognoscens”. Firenze prende Pisa e unifica gran parte della Toscana La guerra condotta contro Milano fornì l’occasione a Firenze, sempre in cerca di nuove risorse economiche da impiegare in guerra, per imporre la propria supremazia in Toscana. Firenze, che aveva già sottomesso Arezzo nel 1384, nel 1406 mise le mani su Pisa e nel 1411 su Cortona, mentre Livorno (in mano a Genova) fu comprata per 100.000 fiorini. La conquista di Pisa e Livorno permise a Firenze di diventare una potenza di livello regionale (pan-toscano) e mediterraneo (nel ‘500 grazie all’agguerrito Ordine di Santo Stefano). Per governare sui vari territori appena sottomessi, Firenze cercò di ridare forza ai comuni rurali, nel tentativo di mettere in crisi i tradizionali legami tra le città sottomesse e i loro contadi. Le guerre di mare per il predominio in Italia Nel frattempo sul mare Genova e Venezia stavano combattendo un’altra guerra non meno importante per le future sorti degli stati d’Italia. Venezia si trovò, infatti, a dover contrastare un potente attacco di Genova, che nel 1380-81 per un attimo sembrò prevalere (presa di Chioggia, alle porte di Venezia). Attaccata anche da terra da una coalizione composta da Carraresi di Padova, patriarca di Aquileia, duca d’Austria e re d’Ungheria, Venezia dovette far appello a tutte le sue forze e passò al contrattacco, cacciando i Genovesi da Chioggia. Dopo queste guerre, Venezia comprese l’importanza di intervenire nella politica italiana al fine di prevenire situazioni di pericolo. Fu così che la Repubblica di San Marco si trovò sempre più coinvolta in varie guerre, in seguito alle quali potè assicurarsi il controllo di un ampio numero di città e terre del Nord Italia: nel 1404-05 Treviso, Vicenza, Padova, Verona, Belluno, Feltre e Bassano, nel 1420 il patriarcato di Aquileia con l’Istria e il Friuli. Il tentativo egemonico di Filippo Maria Visconti e la guerra contro Firenze e Venezia Nel ‘400 il figlio di Gian Galeazzo Visconti, Filippo Maria Visconti, portò avanti l’impresa del padre recuperando gran parte delle terre già parte dei domini viscontei (Lombardia, Genova) e spingendosi verso la Svizzera, la Romagna, il Veneto e la Toscana (dove trovò l’alleanza di Lucca e Siena spaventate dall’espansionismo di Firenze). Filippo Maria Visconti si avvalse in questa opera dei più importanti condottieri del tempo, ma invano. Un’alleanza guidata da Veneziani e Fiorentini e a cui aderirono anche il Papato e la Savoia fermò le mire del Visconti. La guerra durò venti anni (1423-1447) e vide il prevalere dei capi degli eserciti mercenari, che spesso cambiarono schieramento, e che divennero i veri arbitri della situazione. 29 Il tentativo egemonico di Venezia e l’ascesa di Francesco Sforza L’unica potenza italiana a trarre qualche beneficio dalle guerre tra il duca di Milano e i suoi avversari fu la Repubblica di Venezia, che già aveva esteso i suoi domini di terra dal fiume Isonzo (Friuli) al fiume Adda (Lombardia) con il patriarcato di Aquileia, la città di Zara in Dalmazia (tolta all’Ungheria) e Ravenna (1441). Al tempo del doge Francesco Foscari (1423-1457), Venezia intese approfittare della debolezza del governo di Milano, in mano ad un’aristocrazia ostinata a non aprire agli strati popolari. Venezia invase quindi la regione lombarda di Lodi. Milano affidò le difese dello Stato a Francesco Sforza, che effettivamente respinse l’attacco veneto (battaglia di Caravaggio, 1448) ma approfittò della situazione per farsi proclamare duca della città (1450). La pace di Lodi (1454) La guerra tra Milano e Venezia continuò per tre anni, fino a che la notizia della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi non convinse Venezia a cercare la pace sul fronte italiano così da potersi concentrare su quello del Mediterraneo orientale. Si giunse così alla pace di Lodi (9 aprile 1454), che riconobbe a Venezia i suoi possedimenti lombardi mentre Francesco Sforza veniva riconosciuto duca di Milano. La pace fu sottoscritta da Milanesi, Veneziani e Fiorentini, che dettero vita ad una Lega italica. Ad essi si aggiunsero poi il Papa, il re di Napoli, Borso d’Este (marchese di Ferrara, duca di Modena e Reggio) e un po’ tutti gli altri signori d’Italia. L’accordo, con durata di 25 anni (rinnovabile), mirava a garantire la pace tra gli stati italiani e a creare un esercito pan-italico di difesa comune. Questo secondo punto però non venne mai realizzato, mentre continue guerre locali misero più volte a rischio l’accordo (come la guerra tra Veneziani e Aragonesi per il controllo del regno di Napoli). Umanesimo e Rinascimento Il ‘400 è anche il periodo in cui nasce la civiltà nota col nome di “Umanesimo” e “Rinascimento”. Favorito dall’arrivo costante di studiosi greci in fuga da un impero romano di Costantinopoli in grave crisi militare, Umanesimo e Rinascimento aspirano a far rivivere la cultura, la filosofia antica. Firenze è uno dei centri più importanti dell’Umanesimo e del Rinascimento. L’umanesimo fiorentino può essere diviso in due fasi: una prima fase repubblicana e laica (legata a nomi del calibro dei cancellieri della repubblica (oligarchica) Salutati e Bracciolini e di Leonardo Bruni, autore della Laudatio Florentiae urbis, 1403) e una seconda misticheggiante legata ale idee filosofiche di Marsilio Ficino. Se Bruni esaltò Firenze come città ideale ed espresse le sue idee sulla fede nelle istituzioni repubblicane e nell’impegno civile degli uomini di cultura, il mecenatismo dei Medici servì anche ad esaltare la dinastia. La protezione ad artisti e letterati, scienziati e filosofi, rientrava infatti in una precisa strategia di costruzione del consenso e quindi di esercizio del potere. Non pochi intellettuali celebrarono Lorenzo come incarnazione dell’ideale platonico del principe-filosofo (analogamente a quanto accadeva nel resto delle corti europee, dall’Ungheria alla Francia). Fu comunque un indubbio merito dei Medici aver raccolto alla loro corte una comunità impressionante di artisti e intellettuali come raramente era accaduto in Italia. 30 Il neoplatonismo Nelle sue opere Marsilio Ficino auspica che il platonismo potesse rafforzare il cristianesimo e promuovere la concordia e la pace nel mondo. Le idee del Ficino influenzeranno personaggi di primo livello come Erasmo da Rotterdam, che vedevano nello studio e nell’esame critico dei testi biblici una via per il rinnovamento del cristianesimo. Secondo la scuola neoplatonica l’universo è pervaso da uno spirito cosmico (spiritus mundi) e si muove secondo un’armonia cosmica che è descrivibile matematicamente attraverso formule, misurazioni e simboli. Secondo alcuni storici (come Frances Yates, autore di Giordano Bruno and the Hermenetic Tradition, Chicago, 1964, citato in Alioto 1987:166-167) sarebbero proprio queste teorie magicheggianti, paradossalmente, ad aver giocato un ruolo fondamentale nella nascita della scienza moderna. Il neoplatonismo si adattò molto bene alle esigenze della cultura rinascimentale che si stava formando intorno alle corti dei grandi principi laici ed ecclesiastici, in Italia come nelle altre parti d’Europa. Niccolò Cusano Il più importante filosofo neoplatonico fu il tedesco Niccolò Krebs (vescovo di Bressanone, morto a Livorno nel 1464), detto Cusano dal suo luogo d’origine (Cusa, presso Treviri, sulla Mosella), che partendo dalla cultura rinascimentale italiana (studiò a Padova e trascorse vari anni alla corte papale) e greca (fu membro di una ambasceria inviata in Grecia dal Concilio di Basilea) sviluppò una serie di interesantissime idee filosofiche. Con le sue idee sull’impossibilità di avere certezze assolute su un mondo molteplice e in costante mutazione ed in cui l’unità viene raggiunta solo in Dio, Cusano supera il sistema aristotelico e suggerisce di cercare nella matematica le formule per descrivere la realtà. La matematica, infatti, ci insegna, per esempio, che all’infinito gli opposti coincidono, che ogni centro è provvisorio e arbitrario, per cui non c’è certezza su quanto è troppo grande per essere compreso dalla mente umana. L’invenzione della stampa Nella cultura scritta europea l’invenzione a metà del XV secolo della stampa da parte dell’orafo tedesco di Magonza Johann Gutenberg ebbe conseguenze formidabili, democratizzando l’accesso alla cultura (considerando che il numero dei libri disponibili in Europa passò in mezzo secolo dai 200.000 del 1450 ai 20 milioni del 1500). I primi centri ad importare dalla Renania la stampa furono Colonia, Strasburgo, Norimberga, Augusta, Basilea, Anversa, Parigi, Lione, Venezia, Roma, Firenze e Milano. Particolarmente importante nella diffusione della cultura stampata fu il ruolo di Venezia, dove per esempio operava il grande tipografo-editore veneziano Aldo Manuzio, al quale si deve il perfezionamento dei caratteri e l’invennzione del corsivo (detto non a caso “Italics” in inglese). La fine dell’equilibrio italiano Quando nel 1492 morì Lorenzo de’Medici, signore di Firenze e grande artefice della Pace di Lodi, l’equilibrio tra gli stati italiani si fece precario finchè si disfece completamente nel 1494 con la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII. Alla testa di un esercito mai visto in Italia (5000 mercenari svizzeri e un imponente artiglieria), Carlo VIII si era recato in Italia per rivendicare i suoi diritti sul trono di Napoli contro la dinastia degli Aragonesi. 31 Particolarmente problematica era la situazione di Firenze che, tradizionalmente alleata della Francia, in quel momento si trovava alleata anche degli Aragonesi. Quando Piero de’Medici, il successore di Lorenzo, decise di dare completa assistenza all’esercito di Carlo VIII al suo passaggio dalla Toscana, i Fiorentini si ribellarono e cacciarono i Medici. La Firenze del Savonarola A Firenze furono avviate - sotto la guida del frate domenicano Girolamo Savonarola - delle importanti riforme istituzionali (allargamento del parlamento). Il Savonarola voleva fare di Firenze un centro per la promozione della riforma della Chiesa e di tutta la società cristiana (famosi i suoi “roghi della vanità” organizzati a carnevale in funzione anti-medicea). Un progetto assai ambizioso, considerando all’epoca il papa era il valenziano Alessandro VI Borgia, che aveva fatto carriere nel pieno stile dei papa-re (cardinal nipote di Callisto III Borgia a 25 anni, vicecancelliere della Chiesa, elezione al soglio pontificio in cambio di daneri e favori) ed era conosciuto come un libertino impenitente (ebbe innumerevoli figli: quattro da Giovanna Cattanei e cinque da Giulia Farnese, moglie di Orso Orsini, e da donne sconosciute). Ed effettivamente il sogno del Savonarola fu stroncato già nel 1498, quando le massime autorità dello Stato, il 23 maggio 1498, alla vigilia dell'Ascensione, lo impiccarono e bruciarono. Le opere del riformatore domenicano (che organizzò una sua congregazione toscana) saranno poi inserite nel 1559 nell'Indice dei libri proibiti, mentre nel mondo protestante si svilupperà un vero e proprio culto del Savonarola, con tanto di pubblicazione di opere pseudo-savonaroliane e l’elevazione di monumenti (come quello di Worms in cui Savonarola è celebrato con Valdo, Hus e Wyclif come antisignano di Lutero). L’alleanza tra Francia e Venezia La cacciata dei Medici fu sfruttata anche da Pisa che - con l’aiuto di Venezia - proclamò l’indipendenza da Firenze. Venezia riuscì inoltre ad accordarsi con il nuovo re di Francia, Luigi XII (Valois-Orléans), al quale consentì di prendersi Milano in cambio di alcuni porti pugliesi, di Cremona e della Ghiara d’Adda (1499). Nelo stesso periodo Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio naturale di papa Alessandro VI, dava vita (con l’aiuto della Francia) in Romagna e Marche ad una breve signoria (che Machiavelli seguì con molto interesse). La riforma costituzionale dell’impero Nel corso del ‘400 intanto l’impero stava diventando sempre più “tedesco” (alla espressione “Sacrum Romanum Imperium” venne aggiunta la dicitura “Nationis Germanicæ”), con gli elettori che cercavano di aumentare i loro poteri ai danni dell’imperatore. Si arrivò così nel 1495 ad una nuova dieta di Worms in cui fu proclamata la pace generale perpetua per tutto l’impero e furono ridefinite le competenze imperiali e fu istituito il Tribunale camerale dell’impero, permanente e con sede a Francoforte (dal 1527 a Spira), supremo organo giudiziario finalizzato alla soppressione della guerra privata. A Worms venne anche deciso di raccogliere una tassa (prima imposta imperiale) per coprire le spese di guerra (“centesimo comune”). Alle successive diete di Augusta (1500) e Colonia (1512) vennero istituiti altri organi centrali di governo (Reggenza permanente 32 dell’impero e Dieta imperiale divisa in tre Collegi). In quell’occasione vennero identificate anche 12 circoscrizioni imperiali, all’interno delle quali si sarebbe dovuta svolgere, per esempio, la raccolta delle tasse e il reclutamento dell’esercito imperiale: Borgogna, Basso Reno-Vestfalia, Bassa Sassonia, Alta Sassonia, Renania Elettorale, Franconia, Alto Reno, Svevia (Baden-Wurttemberg), Baviera e quindi Austria. Nel 1508 poi venne introdotta anche l’abitudine di attribuire il titolo di “imperatore eletto” senza necessità di recarsi a Roma per l’incoronazione. L’italia perde la supremazia commerciale Intanto anche il contesto economico mondiale stava cambiando, soprattutto a causa del nascere della potenza ottomana in Europa danubiana e nel Mediterraneo e quelle di Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra sull’Atlantico. La capacità commerciale dell’impero turco divenne imbattibile dopo la conquista della Siria e dell’Egitto (1516-17). Da quel momento in poi i Turchi controllarono l’accesso alle linee di commercio dell’Asia orientale. Questa nuova situazione rappresentò anche un potente stimolo alla ricerca di nuove vie commerciali ad Occidente. Uno dei tentativi in questo senso fu proprio quello di Cristoforo Colombo (finanziato soprattutto dalle banche fiorentine). Oltre a Colombo altri italiani ebbero un ruolo importante nelle scoperte geografiche: l’esploratore fiorentino, già agente del Banco dei Medici, Amerigo Vespucci e il veneziano Giovanni Caboto, che per la corona inglese reclamò Terranova, il Labrador e le coste nordoccidentali degli attuali Stati Uniti. Le conseguenze della scoperta dell’America Con le scoperte geografiche e l’inizio dello sfruttamento delle terre d’America, Africa e Asia da parte degli Europei nacque una vera e propria economia globale. Lo si vede bene, per esempio, nel campo del commercio degli schiavi, che diventò ben presto un elemento di un sistema commerciale “triangolare” che interessava tre continenti, Europa, Africa e America. In tal sistema, infatti, le navi piene di schiavi giunte in America facevano il carico di zucchero, cotone e caffè per poi tornare in patria dove caricavano le armi, i tessuti e le mercanzie varie da usare negli scambi con gli agenti africani. Nonostante tutto comunque l’Italia continuò ad avere importanti rapporti commerciali con l’Africa e l’Asia anche nei secoli successivi. Per tutto il ‘500, grazie anche alla ampia disponibilità di monete spagnole, il Mediterraneo rimase un crocevia di scambi e di traffici (spezie, seta, grano, sale) (Capra 2009:117). Molto importanti furono anche le conseguenze culturali delle scoperte geografiche. La scoperta di nuovi continenti e l’esplorazione di terre fino ad allora conosciute solo attraverso i libri degli antichi greci e latini mise in crisi un po’ tutto il sistema di conoscenze tradizione. A questo periodo risale anche la nascita dell’identità europea: “Scoprendo l’America, l’Europa scopre se stessa” (Elliott 1985, cit. in Capra 2009:85). L’arrivo di nuove colture americane in Europa, come il mais, la patata, il pomodoro, il peperone, il caffè, il tè, il tabacco, il cacao, causò un importante cambiamento nella dieta europea. 33 In Italia le aristocrazie rimangono forti Nonostante l’entrata in crisi delle aristocrazie europee, in Italia la nobiltà (che rappresentava circa l’uno percento della intera popolazione) nel ‘500 è ancora la classe egemone della società. In alcuni paesi, come le repubbliche di Venezia, Genova e Lucca, tutto il sistema di governo è saldamente nelle mani delle principali famiglie aristocratiche. In Italia centro-nord per diventare nobili bisognava dimostrare una lunga residenza in città, una adeguata ricchezza e l’astensione dalle “arti meccaniche” (il lavoro manuale) e dai “lucri sordidi” (le attività mercantili). In ogni caso sarà poi il ‘600 e ‘700 il periodo d’oro della nobiltà, con la capacità di fare da modello comportamentale (d’eleganza) per tutti gli strati integrati nel sistema di potere economico e politico (fatto comunque che continuerà anche nei secoli successivi) (Capra 2009:34-36). Le guerre d’Italia tra 1508 e 1526 Intanto continuava la guerra per il controllo dell’Italia, dove a molti signori non piaceva il predominio di Venezia, alleata della Francia. Nel 1508 papa Giulio II Della Rovere riuscitì a creare una lega antiveneziana, a cui parteciparono Svizzera, Francia, Spagna e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Sconfitta la Repubblica di San Marco (battaglia di Agnadello, presso Crema, 1509), Milano passò agli Svizzeri e Pisa ritornò a Firenze (1509). A quel punto però la diplomazia della repubblica di Venezia (rafforzatasi con l’aiuto ricevuto dai contadini veneti che vedevano nella legge di San Marco una difesa contro lo strapotere delle aristocrazie locali) riuscì a riportare dalla propria parte la Francia, interessata a recuperare Milano dagli Svizzeri. Fu così che nel 1515 il re di Francia Francesco I (della casata di Valois-Angoulême) scese in Italia alla testa di un esercito di 10.000 cavalieri e 30.000 fanti (per lo più lanzichenecchi reclutati in Germania), e sconfisse gli Svizzeri, ai quali comunque lasciò Bellinzona e il Ticino. Trovato un provvisorio accordo nel 1516 (Pace di Noyon, lacalità della Piccardia), la guerra riprese con il nuovo imperatore Carlo V (eletto nel 1519), nato nella città fiamminga di Gand (Belgio), cresciuto alla corte della zia Margherita d’Asburgo (figlia di Massimiliano I) e re di Spagna dal 1516. Carlo V, che aveva dovuto difendere la sua candidatura imperiale contro chi (come papa Leone X dei Medici) li avrebbe preferito Francesco I, intendeva far valere i suoi diritti su Borgogna e Milano. La Francia abbandonò Milano nel 1521 ma nel 1524 Francesco I tornò in Italia del Nord con un esercito di 30.000 soldati (per lo più fanti svizzeri). Sconfitto e fatto prigioniero nella battaglia di Pavia (1525), portato a Madrid, Francesco I fu liberato solo dopo aver promesso di riconoscere il controllo imperiale su Milano e Borgogna (1526). Il sacco di Roma (1527) e la Pace di Cambrai (1529) Tornato in patria, Francesco I si mise subito a preparare una nuova spedizione in Italia. Gli imperiali però giocarono di anticipo e inviarono un contingente di 12.000 lanzi (per lo più ormai giù luterani) che posero l’assedio a Roma (1527). Rimasti senza capo, i lanzi presero poi Roma e la saccheggiarono e devastarono duramente (mentre il papa Medici era assediato nella sua fortezza di Castel Sant’Angelo). Con il papa Medici in difficoltà, a Firenze ci fu la restaurazione della repubblica. A Francesco I - privato della sua flotta dal voltagabbana dell’armatore genovese Andrea Doria - non rimase che firmare la pace e porre fine ad una guerra che stava dissanguando le 34 casse dei belligeranti. Con la Pace di Cambrai (1529) la Borgogna veniva data alla Francia in cambio della rinuncia a Milano. La Francia comunque non mancò di riprendere le ostilità sia in Italia che nei Paesi Bassi non appena la debolezza dell’imperatore lo permetteva (nel 1535-37 e nel 1542-44). L’umanesimo e la riforma della chiesa Intanto, anche per influsso della cultura umanistica, la tanto auspicata (e mai realizzata) riforma radicale della chiesa cattolica divenne una priorità non più rinviabile. Con il suo forte stimolo a ritrovare un rapporto diretto con le fonti (comprese quelle del cristianesimo), favorito dallo studio del greco, l’umanesimo aveva finito per rafforzare (soprattutto in Europa del Nord) un clima di evangelismo redicale. Intellettuali come l’inglese Tommaso Moro (Thomas More, autore dell’Utopia, 1516) e l’olandese Erasmo da Rotterdam (autore di varie opere di argomento morale e curatore di una fondamentale edizione critica del testo greco e latino del Nuovo Testamento, 1516), furono tra i più sinceri ed influenti rappresentanti di questo umanesimo cristiano riformista. Fu anche grazie a questo clima culturale che la Riforma luterana potè imporsi in Germania e in molti paesi del centro-nord e centro-est Europa. Lutero e le 95 tesi sulle indulgenze Tutto il movimento di riforma iniziò quando nel 1517 il monaco agostiniano Martin Lutero dal 1513 insegnante di teologia all’università di Wittemberg (Sassonia-Anhalt) - intervenne presso Alberto di Hohenzollern (o Brandeburgo), fratello del Margravio di Brandeburgo, per denunciare tutta una serie di errori dottrinari che caratterizzavano la distribuzione delle indulgenze fatte a nome suo e del papa in Germania. Alberto aveva, infatti, ottenuto da papa Leone X Medici il diritto di gestire le indulgenze e i relativi denari raccolti (da destinare alla costruzione della nuova basilica di San Pietro), da usare per ripagare i Fugger che avevano anticipato i soldi necessari ad ottenere la dispensa pontifici necessaria per diventare arcivescovo di Magonza (e quindi uno dei tre elettori maggiori dell’impero). In base al divieto di accumolo di cariche vescovile previsto dal diritto canonico, Alberto, essendo già vescovo in due sedi (Magdeburgo e Halberstadt), non sarebbe potuto, infatti, diventare arcivescovo di Magonza. Di fronte però al modo con cui tali indulgenze venivano presentate al popolo dal predicatore domenicano Johann Tetzel, Lutero aveva reagito inviando le famose 95 tesi (che secondo la tradizione poi avrebbe affisso anche alla porta della chiesa di Wittemberg la sera del 31 ottobre 1517, vigilia di Tutti i Santi). Nelle sue 95 testi Lutero aveva denunciava il carattere diseducativo delle indulgenze (che rischiavano a suo parere di svilire le opere di carità), aveva ricordato che qualunque vescovo poteva concedere le indulgenze (e quindi non solo il Papa, come predicato dai banditori d’indulgenze) e che valeva più il sincero pentimento che il semplice esborso di denaro, ovvero che se il Papa avesse saputo come venivano raccolte le indulgenze in Germania avrebbe preferito ridurre in cenere la basilica di San Pietro. Lutero e l’appello alla “parte nobile della nazione tedesca” Negli intenti di Lutero le 95 tesi avrebbero dovuto solo avviare un dibattito accademico, ma a sua insaputa furono stampate (grazie all’invenzione dell’orafo di Magonza) e divennero presto una bandiera del risentimento delle comunità tedesche contro la rapacità della Chiesa (capra 2009:92). 35 In risposta all’invito a ritrattare ricevuto nel 1520 da Leone X, Lutero - con la sua opera “Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca a proposito della correzione e del miglioramento della società cristiana” („An den Christlichen adel Deutscher Nation von des Christlichen standes besserung“) - fece appello alla “parte nobile della nazione tedesca” affinché si facesse promotrice della Riforma della Chiesa. Ai primi del 1521 giunse quindi la scomunica pontificia. Ormai Lutero agiva come un personaggio pubblico. Le sue idee sulla necessità che tutti i cristiani ritornassero al vangelo senza mediazione alcuna ebbe un grande successo, favorito da un generale anticlericalismo e da un crescente “nazionalismo germanico” (capra 2009:93). Messosi sotto la protezione del suo signore (il principe elettore Federico III di Sassonia, dalla Casata di Wettin, detto il Saggio, 1463 – 1525), Lutero ottenne dal nuovo l’imperatore Carlo V il diritto di recarsi alla dieta imperiale di Worms per giustificarsi (aprile del 1521). Di fronte però all’opposizone di Lutero a ritrattare, Carlo V mise il frate al bando dell’impero. Protetto dal principe elettore di Sassonia, Lutero da quel momento si mise a capo di un movimento di riforma che lo portò presto al di fuori del sistema monarchico della cattolicità. Tra tutte le sue idee quelle più radicali riguardavano il sacerdozio universale di tutti i credenti, da cui derivava la fine della Chiesa intesa come unica capace di mediare tra Dio e il fedele e come corpo separato dalla società, avente istituzioni distinte dal resto della comunità dei cristiani (Capra 2009:91). La fortuna delle idee di Lutero tra gli aristocratici Le idee di Lutero vennero recepite in vari modi. Molti signori videro nel movimento avviato da Lutero una buona occasione per rafforzare la propria posizione nei confronti dell’imperatore e incrementare i propri domini e le proprie ricchezze. Questo è quello che fecero i principi elettori di Sassonia e del Palatinato, il langravio Filippo d’Assia e il gran maestro dell’Ordine Teutonico, Alberto di Brandeburgo, che secolarizzò i Beni dell’Ordine e si fece proclamare duca di Prussia dal re di Polonia (dando origine al regno di Prussia che tanta parte ebbe nella storia tedesca ed europea). Particolarmente sensibili, invece, ad un discorso più identitario di tipo pantedesco furono i cavalieri provenienti dalla piccola aristocrazia che avevano perso da tempo importanza da quando le guerre si combattevano soprattutto con la fanteria e l’artiglieria. La fortuna delle idee di Lutero nelle città e tra i contadini Nelle città, soprattutto quelle imperiali, le idee di Lutero e lo stacco da Roma produssero un rafforzamento dello spirito di indipendenza e di autogoverno. Nelle campagne, invece, a prendere il sopravvento furono i motivi dell’uguaglianza evangelica tra gli uomini, la necessità di risolvere i bisogni dei poveri, la polemica contro i ricchi e i loro tentativi di annullare le autonomie di origine medievale dei villaggi rurali. Dopo il 1520 molti furono i predicatori che iniziarono a mobilitare il popolo per l’instaurazione sulla terra del “regno di Dio”. Tra questi si distinse un visionario sassone di nome Thomas Müntzer (1488-1525), che nel 1525 creò una comunità dal governo egualitario e comunistico. Fu in questo generale clima di grandi aspettative religiose e politiche, che nel 1524 scoppiò in Svevia e lungo le rive del fiume Reno una grave rivolta contadina che presto dilagò in Turingia e Sassonia, in Baviera, Austria, Carinzia e Tirolo. I rivoltosi, per lo più appartenenti alla piccola e media proprietà contadina, chiedevano la restaurazione delle antiche 36 autonomie che i signori (in molti casi ecclesiastici) avevano in epoca recente tolto loro. Con i famosi 12 punti di Memmingen (Svevia bavarese) del 1525, i contadini chiedevano anche la restaurazione dell’elezione popolare dei parroci (abolita dai concilio laterano), la ricostituzione delle proprietà comuni e la riduzione dei prelievi feudali. Col tempo però la protesta del movimento contadino divenne più radicale, aumentarono le violenze e i saccheggi così che le autorità dichiararono una vera e propria guerra ai contadini, indeboliti dalla mancanza di unità. La repressione fu spietata e si concluse con il massacro di almeno centomila contadini (lo stesso Thomas Müntzer fu messo a morte dopo atroci torture) e la fuga di molti rivoltosi nei Paesi Bassi, in Boemia, Ungheria e Transilvania. La pace di Augusta: Cuius regio, eius religio (1555) Intanto l’imperatore Carlo V premeva su tutte le parti per arrivare ad una ricomposizione dell’unità religiosa dei suoi domini, che spaziavano dall’America all’Ungheria, dalla Sicilia all’Olanda. Nel 1530 convocò una dieta ad Augusta con lo scopo di preparare un nuovo concilio universale. Filippo Melantone, braccio destro di Lutero, si presentò con una “professione di fede”, già sottoscritta dalla maggior parte delle città e dei principi riformati e che egli sperava potesse essere accettata anche dai rappresentati cattolici, che però si mostrarono intransigenti. Carlo V allora intimò ai protestanti di sottomettersi: questi però si opposero e nel 1530 misero su una lega militare difensiva (detta di Smalcarda). La parola passò quindi alle armi, ma neppure la schiacciante vittoria di Carlo V (battaglia di Mühlberg, 1547) piegò la resistenza luterana (che beneficiò dell’aiuto della Francia, che a su volta era alleata dai Turchi). Una nuova guerra scoppiò nel 1552. Nel 1555 si arrivò quindi ad un accordo (Pace di Augusta), per il quale si riconobbe l’esistenza in Germania di due confessioni cristiane (quella cattolico-romana e quella luterana) e il dovere dei sudditi di seguire la religione del loro signore (principio sintetizzato nella formula “Cuius regio, eius religio”, “Di chi è il potere, di lui è la religione”). Per le città imperiali fu concessa la convivenza di fedi diverse. Una ulteriore grossa novità introdotta dalla pace di Augusta fu che il compito di garantire il rispetto di queste regole venne attribuito ai principi. In generale quindi questa pace di Augusta riconfermò, se ce ne fosse stato ancora bisogno, la piena affermazione dei principi e delle monarchie regionali/“nazionali”, delle città-stato e dei regni facenti parte del sacro romano impero. Un impero che sarà destinato a rimanere più un simbolo che una realtà concreta (almeno al di fuori dei domuni di Casa Asburgo). La riforma in Svizzera Dalla Germania la riforma giunse assai presto in Svizzera, il paese delle autonomie. Lì operò Ulrich Zwingli, cappellano della cattedrale di Zurigo, che convinse il consiglio cittadino ad abolire la messa, riformare la liturgia e distruggere le immagini sacre. L’altro protagonista della riforma in Svizzera fu il francese Giovanni Calvino (Jean Cauvin, 1509-64), il quale dalla città di Ginevra (allora teoricamente sottoposta al duca di Savoia) in cui si era insediato promosse un’idea di vita cristiana sobria e finalizzata all’esecuzione delle funzioni alle quali un Dio maestoso e terribile ha destinato l’umanità (Capra 2009:97). Tra le altre cose, Calvino revocò il divieto di praticare l’usura e riuscì a porre sotto il controllo delle autorità religiose il governo della città di Ginevra, che (privata di osterie e balli) fu detta “repubblica dei santi”. 37 Il calvinismo si diffuse poi in Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Ungheria, Transilvania, Polonia e Boemia, dove spesso alimentò veri e propri moti rivoluzionari. La riforma in Italia Di fronte all’ondata di rinnovamento che veniva dal Nord Europa, l’Italia non rimase insesibile. Durante il pontificato di Paolo III Farnese (1534-49) il movimento di riforma sembrò prendere il sopravvento. Nel 1536 fu istituita una commissione sui mali della Chiesa che produsse un importante documento intitolato “Consilium de emandanda Ecclesia” (“Progetto per la riforma della Chiesa”, 1537). Nel 1537 fu convocato addirittura un concilio, a Mantova. Il concilio però fu presto chiuso e sarà riconvocato solo nel 1545 a Trento sotto altri auspici. Maggior successo ebbero le nuove fondazioni religiose (come i Cappuccini, i Barnabiti, i Somaschi, i Teatini, le Orsoline e i Gesuiti) che intesero restaurare uno stile di vita monacale sobrio e missionario. Il concilio di Trento Finalmente nel 1542 fu indetto il tanto atteso concilio che Carlo V sperava potesse ridare unità religiosa al suo impero e che il papa aveva sempre rimandato nel timore di vedersi limitare il potere (Capra 2009:105). La sede di Trento era stata scelta perché città di lingua italiana ma sede di un vescovato soggetto all’imperatore. Però a causa anche delle ostilità in corso tra Francia e Carlo V, il concilio si riunì effettivamente solo nel 1545. Quando fu perto il concilio, su 500 vescovi aventi diritto erano presenti solo ventuno, quasi tutti italiani. Il numero dei partecipanti rimase basso anche nelle successive sessioni, comprese le ultime riunioni del 1562-63. A differenza di quanto auspicato da Carlo V, i padri conciliari dettero la priorità alle qustioni dogmatiche, rendendo incolmabile la distanza tra le posizioni cattoliche e quelle protestanti. Ormai il Papato aveva scelto di chiudere ogni spiraglio di dialogo, reprimere il dissenso e passare al contrattacco propagandistico. Una strategia che in breve si dimostrò vincente ma che fece calare, soprattutto sull’Italia, un pesante clima di censura che uccise il pluralismo culturale e filosofico e diffuse una religiosità “intensa e sincera, ma povera di sostanza morale” (Capra 2009:108). Con l’istituzione della Congregazione del Sant’Uffizio (o dell’Inquisizione) nel 1542, in Italia divenne sempre più pericoloso mantenere posizioni critiche. Nel 1542 il maestro generale dei Cappuccini, il senese Bernardino Tommassini, detto Ochino, fuggì a Ginevra e aderì al calvinismo. Altri due senesi, Lelio e Fausto Sozzini (o Socini), colpevoli di promuovere un’idea di cristianesimo tollerante, furono costretti ad emigrare prima in Svizzera poi in Polonia e in Transilvania. Durante il pontificato di Paolo IV, il concilio fu sospeso, i poteri dell’Inquisizione rafforzati con l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti (1559). Nel 1561 il papa domenicano (originario di Alessandria) Pio V Ghislieri ordinò una guerra di sterminio contro i Valdesi della Calabria. Alla fine comunque il concilio fu portato a termine, giusto per riconfermare il ruolo centrale dei sacerdoti (la cui preparazione venne migliorata con l’istituzione dei seminari) e del Papa e il carattere monarchico della Chiesa cattolica. 38 Il rafforzamento del potere assoluto del Papa Visti gli esiti del concilio, non fu una sorpresa la ripubblicazione da parte del Papa nel 1568 della bolla medievale In Coena Domini in cui veniva dichiarata l’autorità di Roma su tutti gli stati della cristianità (per cui nel 1570 il papa scomunicò la regina d’Inghilterra Elisabetta I, sciogliendo i suoi sudditi dal dovere di obbedienza). Nello stesso periodo, per rafforzare ulteriormente il potere assoluto del Papa furono ridotte le autonomie cittadine all’interno dei confini dello Stato della Chiesa (estesi a Ferrara) e fu modificata anche la funzione dei cardinali (il cui numero fu fissato a 70), trasformati in semplici esecutori del volere pontificio (in precedenza erano un contrappeso al potere del papa). Per esaltare anche visivamente questa ritrovata centralità del Papa e di Roma, la capitale della Chiesa fu abbellita con nuove strade, piazze ed edifici monumentali. Il modello di Chiesa del milanese Carlo Borromeo Un personaggio simbolo della riforma cattolica post-tridentina fu Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano per venti anni. Persona di vita austera, egli applicò con grande zelo i dettami del concilio di Trento, visitando regolarmente le sue 800 parrocchie, combattendo le infiltrazioni “eretiche” nella Valtellina e nel Ticino. Pretendeva di disporre di una propria polizia armata, fu coinvolto in maneggi diplomatici a Roma e Madrid e spesso si trovò in contrasto con il Senato di Milano. Molto del suo attivismo era però più un retaggio dell’idea (medievale) di Chiesa incardinata sulla figura del vescovo che sul modello tridentino e quindi nel lungo periodo sarebbe risultato incompatibile con il centralismo romano. L’egemonia spagnola in Italia Intanto, tra 1555 e 1556, Carlo V abdicò da tutti i suoi titoli e rese efettiva la divisione del suo impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo da tempo decisa. A Ferdinando ( “primo” come imperatore) dette la corona imperiale e i domini tedeschi, l’Ungheria, la Boemia e gli Stati ereditari della famiglia Asburgo. A Filippo (“secondo” come re di Spagna) andarono le colonie d’America, il ducato di Milano, i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna e i regni burgundi (Paesi Bassi e Franca Contea). Il re di Francia approfittò dell’evento per cercare di rimettere in discussione il predominio asburgico in Europa. Sconfitto alla battaglia di San Quintino (1557), dovette però firmare la Pace di Cateau-Cambrésis (1559), cittadina oggi in territorio francese (regione Nord-Passo di Calais). Con questo trattato il dominio spagnolo sull’Italia, i Paesi Bassi e la Franca Contea (con capoluogo Besanzone, Besançon) divenne definitivo. Grazie al potenziale demografico e militare della Castiglia (dove si reclutavano la miglior fanteria dell’epoca), il controllo sulle aree più ricche e urbanizzate d’Europa, l’appoggio dei banchieri di Anversa e Genova, il flusso di oro dall’America, Filippo II era il re più potente dell’Europa cristiana. Con il trattato di Cateau-Cambrésis quasi metà del territorio italiano fu definitivamente posto sotto il governo spagnolo: Sicilia, Napoli, Sardegna, Milano e Stato dei presidi (costa toscana nei pressi di Talamone, Orbetello e Argentario, al confine tra Toscana e Stato della Chiesa). Oltre a questi regni direttamente sottoposti alla corona spagnola potremmo aggiungere alla lista dei paesi controllati da Madrid anche la Toscana (i cui regnanti erano stati rimessi sul trono da Carlo V e il cui titolo signorile fu concesso da Filippo II), lo Stato della Chiesa 39 (privo di esercito e sempre in cerca di protezione internazionale) e Genova (i cui banchieri operavano soprattutto per conto di Madrid). L’Italia sotto Madrid Nonostante il suo immenso potere, Filippo II rispettò le autonomie dei vari domini, ai quali rimase la facoltà di eleggere proprie magistrature, inviare rappresentati a Madrid (dove esisteva per esempio il “Consiglio d’Italia”) e negoziare con i governatori (come quello di Milano) e i viceré (come quelli di Napoli, Palermo e Cagliari) spagnoli le richieste della corona (per esempio tasse). A Napoli l’organo più importante di governo locale era il Consiglio collaterale, composto di funzionari che formavano un gruppo distinto e rivale rispetto a quello dei baroni, che invece avevano il loro punto di forza nel Parlamento, a cui spettava anche il governo della città di Napoli (che alla fine del ‘500 con i suoi 250.000 abitanti era la terza città d’Europa dopo Costantinopoli e Parigi). A Milano (dove Carlo V aveva promosso un catasto) l’organo più importante di governo era il Senato, i cui membri erano laureati in legge e provenivano dal patriziato cittadino. Accanto al Senato poi c’era la Congregazione dello Stato, un parlamento creato da Carlo V in cui sedevano i rappresentanti delle città e dei contadi. Trasferitosi definitivamente in Spagna nel 1559, Filippo II spostò la capitale da Valladolid a Madrid, dove si fece costruire una grandiosa residenza estiva monastero-fortezza, l’Escorial, da dove gestì personalmente tutti gli affari del suo grande impero. La Toscana di Cosimo il Grande e la Savoia di Emanuele Filiberto Intanto in alcuni stati italiani si sperimentavano nuove forme di governo, più vicine a quello che alcuni storici chiamano “stato moderno”, ovvero (usando la definizione proposta in Wolfgang Reinhard, Storia del potere politico in Europa, Il Mulino, Bologna, 2001 cit. in Capra 2009:39) espressione di una “nazione” intesa come “stabile unione di persone legate da un solido sentimento di appartenenza”. In Toscana, per esempio, i Medici (che nel 1530 ottennero il titolo di duchi di Firenze e poi nel 1569 quello di Granduchi di Toscana) misero su un sistema di governo per cui il sovrano poteva agire direttamente, senza mediazione alcuna. Qusto vale soprattutto per Cosimo I (1537-1574), che dal 1545 governò attraverso propri segretari di origine spesso modesta e attraverso la “Pratica segreta” (un consiglio nuovo di carattere informale). Il lavoro di Cosimo (che nel 1557 aveva unito Siena al resto dei domini medicei), sarà continuato dai figli Francesco I (1574-87) e Ferdinando I (1587-1609). Un processo analogo era in corso anche nel ducato di Savoia, in particolare ai tempi di Emanuele Filiberto (1553-89), colui che aveva guidato gli imperiali alla vittoria sui francesi nella battaglia di San Quintino (1557). Egli spostò la capitale da Chambéry (in Savoia) a Torino (in Piemonte), abolì molte autonomie locali e centralizzò la gestione delle finanze. Grazie alla raccolta delle tasse, accompagnate comunque dall’impulso all’economia, il Piemonte si dette anche un piccolo ma disciplinato esercito permanente che riuscità anche a dar più volte buona prova di se (per esempio nella battaglia dell’Assietta del 1747). Quando però Carlo Emanuele I (1580-1630) cercò di sottomettere Ginevra (1589) fallì. Ottenne invece dalla Francia il marchesato di Saluzzo. 40 La Repubblica di Venezia Anche nelle più conservatrici repubbliche di Genova e Venezia ci furono delle modifiche di governo, dovute allo scontro tra vecchie e nuove aristocrazie. A Venezia le famiglie più ricche nel corso del ‘500 ridussero progressivamente il potere del Senato e nel 1539 riuscirono ad imporre un nuovo organo di alta polizia denominato dei Tre inquisitori di Stato. Nel 1583 però una rivolta di ariscratici “giovani” impose la restaurazione dei poteri del Senato e l’adozione di una politica estera più energica e indipendente sia dalla potenza spagnola che dalla Chiesa di Roma (Capra 2009:112). A quel punto Venezia divenne l’unico stato italiano che potesse vantare una completa autonomia sia da Madrid che da Parigi. Bibliografia A. M. Alioto, A history of Western Science, Englewood Cliffs (New Jersey), Prentice-Hall, 1987 Atlante Storico tascabile, Novara: Istituto Geografico De Agostani, 2000 R. Bianchi Bandinelli, a cura di, Storia e civiltà dei Greci, Bompiani, Milano, 1979 A. Brancati, Popoli e civiltà, Firenze: La Nuova Italia, 1991 A. Brusa, L’atlante delle storie, vol. 1 (L’alfabeto della storia. La storia dalle origini dell’uomo alla fine del mondo classico), Palermo: G. B. Palumbo editore, 2010 A. Brusa, L’atlante delle storie, vol. 2 (La sintassi della storia. La storia dai grandi imperi all’affermazione del feudalesimo), Palermo: G. B. Palumbo editore, 2010 C. Capra, Storia moderna, Firenze: Le Monnier, 2009 F. Cardini e M. Montesano, Storia medievale, Firenze: Le Monnier, 2006 C. Cipolla, Storia facile dell’economia italiana dal medioevo a oggi, Milano: Arnoldo Mondatori Editore, 1995 G. Clemente, Guida alla storia romana. Eventi, strutture sociali, metodi di ricerca, Milano: Mondadori, 1977 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1953 G. Filoramo, Storia delle religioni. Ebraismo e Cristianesimo, Roma e Bari: La Terza, 1995 F. Floris, I Sovrani d’Italia, Roma: Newton & Compton, 2001 E. Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze: La Nuova Italia,1973 H. Kinder e W. Hilgemann, Atlante Storico Garzanti, Milano: Garzanti, 1994 M. Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Roma e Bari: Laterza, 1988 M. Liverani, A. Fraschetti, R. Comba, Dal villaggio all’impero, vol. 1 (Dalla preistoria all’età ellenistica), Torino: Loescher editore, 1994 M. 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