Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu
VITA E SAPERE. DIONISO, LA MUSICA, L’INSEGNANTE Note a “La nascita della tragedia” di Nietzsche Vincenzo Culotta 1. Premessa. Musica e filosofia La Nascita in epoca moderna di una cultura tragica, che Nietzsche attribuisce a Kant e a Schopenhauer, consiste principalmente nell’elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza, la quale, senza farsi ingannare dalle seducenti deviazioni delle scienze, si volge con immobile sguardo all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere in essa, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972 e 1977, p. 122.. Nell’elevarsi a questa «meta suprema», la conoscenza giunge però a sperimentare, per la prima volta, il proprio limite (è questo uno dei dolorosi paradossi connotanti la cultura tragica?). In Schopenhauer il sapere filosofico intravede il proprio limite nel confronto con la musica, a cui l’autore de Il mondo come volontà e rappresentazione riconosce, come si sa, uno statuto speciale nel novero delle arti. La musica è, infatti, l’unica vera arte metafisica, capace di rispecchiare senza mediazione la volontà in sé. Se i concetti – come si legge nel celebre paragrafo 52 del Libro terzo - contengono solo «l’involucro esterno, astratto, delle cose», la musica «dà invece il nucleo intimo, precedente ogni configurazione, ovvero il cuore delle cose» A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1969, p. 306.. La filosofia, che è una rappresentazione concettuale, non può per questo essere più di «un’enunciazione dell’essenza del mondo, secondo concetti generalissimi»; solo la musica ne sarà la piena espressione. Infine, ecco il passo che, partendo dallo spirito della musica, sembra porre la filosofia di fronte alla propria inadeguatezza rispetto al compito supremo che essa si è data: Se ci riuscisse – scrive Schopenhauer - dare alla musica una spiegazione completa, esatta e penetrante nei particolari; se cioè riuscissimo a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime; avremmo insieme ottenuto, per via di concetti, anche una soddisfacente riproduzione o spiegazione del mondo, che sarebbe la vera filosofia Ivi, p. 307.. Da questo punto di vista, il concetto schopenhaueriano di «volontà» non può esprimere l’essenza del mondo se non negativamente; esso resta, cioè, un concetto-limite, proprio come Kant aveva stabilito «acciò che l’uom più oltre non si metta». L’evento di quanto si dà come fenomeno non può esso stesso apparire, il cerchio «mistico» entro cui ogni atto conoscitivo si inscrive non può a sua volta essere in-scritto. D’altro canto, la musica è l’arte non raffigurativa per eccellenza. Attraverso di essa, dunque, la vita può sì esprimersi nella sua unità primigenia ma non può rendersi sapiente, perché oltre a «sentirsi» non può anche «vedersi». Ecco che si delinea qui un’impasse nel percorso verso la verità, per via della differenza irriducibile di vita e sapere, che giunge qui ad esprimersi esemplarmente nell’inconciliabilità di musica e filosofia. Questa impasse, che il genio di Schopenhauer intuisce, è il punto da cui prenderà avvio, ne La nascita della tragedia, la riflessione nietzschiana. Sin da subito Nietzsche proporrà al pensiero e alla cultura occidentale l’arduo compito di tenere assieme vita e sapere, non arretrando di fronte alla terribile contraddittorietà che tale atto comporta. A tal fine, il «sentimento» della vita, coltivato nella musica, dovrà accrescersi a tal punto da riversarsi infine in un’ «apparenza» di mondo, ossia in una visione fulgida della realtà «chiaramente percepita» cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 160.; dall’altro lato, il sapere (la cultura) dovrà abbandonare il suo fardello più grande, che è la sua pretesa di giungere a «ordinamenti ideali definitivi» F. Nietzsche, Wagner a Bayreuth, in F. Nietzsche, Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979, p.156. e «de’ remi [fare] ali al folle volo». Il «folle volo» sarà quello di un sapere «dionisiaco», attraversato dallo «spirito della musica», capace di accogliere il farsi e il disfarsi della realtà del mondo con lo stesso innocente piacere del fanciullo eracliteo che gioca con la sabbia in riva al mare cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 160.. 2. Leitmotiv di Dioniso (… Stravinskij, Le Sacre du Printemps, parte I) “L’uno tiene nelle mani flauti dal suono profondo, lavorati col tornio, e riempie tutta una melodia strappata con le dita, un richiamo minaccioso suscitatore di follia; un altro fa risonare cimbali cinti di bronzo ……………………………………………… ...alto si leva il suono della cetra: da qualche luogo segreto mugghiano in risposta terrificanti imitatori della voce taurina, e la parvenza sonora di un timpano, come di un tuono sotterraneo, si propaga con oppressione tremenda. (Eschilo, fr. 71) in G. Colli, La sapienza greca I, ed. Adelphi, Milano 1977. 2.1 Musica, follia e sapere Il culto dionisiaco si basa essenzialmente sulla musica. Una musica fatta non di sonorità delicate e vagamente accennate, come quelle che verosimilmente producevano i cantori omerici con la loro cetra per accompagnare i propri racconti, bensì di una massa sonora potente, terribile, che sembra sgorgare dal profondo della natura, suscitatrice di follia, come recitano i versi di Eschilo. Essa, risuonando come da una parte all’altra del cosmo, pervade il corpo e la mente dei seguaci del dio, che rispondono riproducendo versi belluini. Questa musica crea un trauma in chi ne è avvinto, apre una frattura rispetto alla realtà del quotidiano, che permette l’erompere di un nuovo sentire e di una nuova visione della realtà. Si tratta di uno stato di «manía» (follia), nella quale Dioniso infine può manifestarsi. Platone, in un passo del Fedro, mette in relazione la «mantica» (l’arte della divinazione) con la «manía», «che ci viene data – scrive – per concessione divina», e da cui ci provengono «i beni più grandi» Platone, Fedro, 244 a-c, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 553.. La divinazione era considerata come la sapienza suprema, quella posseduta da Apollo. Il possesso del sapere più alto appare, dunque, legato in origine ad uno stato di spossessamento dell’individuo, ispirato, nel caso del culto dionisiaco, dalla musica e dal dio. L’invasato di Dioniso è un «trasformato», che ha raggiunto una dimensione trans-individuale, sospeso com’è tra l’animale e il divino. Se la sapienza suprema, come scriverà ancora Platone nel Timeo, è data alla dissennatezza umana, è una caratteristica dell’uomo che è in senno il riflettere, ricordando le cose dette o in sogno o in veglia dalla natura divinatrice ed in stato di ispirazione, e inoltre interpretare con il ragionamento tutte quante le immagini che sono state viste, distinguendo rispetto a che cosa e per chi significhino qualcosa di male o di bene futuro o passato o presente Platone, Timeo, 71 e – 72 a, in op.cit., p. 1394.. Come si ricava da questo passo di Platone, la riflessione filosofica è lo straordinario sforzo di ricostruzione mnemonica di un sapere che ha luogo altrove, al culmine di un’esperienza estatica nella quale erano coinvolti gli iniziati ai culti dionisiaci e agli altri numerosi riti religiosi ancora così diffusi nella Grecia del IV secolo. La pratica della filosofia traduce in discorso logico e argomentativo (in ciò, la sua specificità e originalità) una sapienza «folle», che sorge nel segno dello spirito della musica, come un occhio nel cuore della vita fremente. 2.2 Chi è Dioniso? Per tentare di comprendere più a fondo l’essenza dello «spirito dionisiaco», concetto cruciale nel pensiero nietzschiano, è bene risalire «a monte» rispetto a quanto Nietzsche stesso ci dice, e inquadrare la figura di Dioniso a partire dall’analisi dei frammenti e delle testimonianze con cui ci sono stati tramandati i culti dionisiaci. Dioniso è il Dio dei Misteri dionisiaci: rito orgiastico di iniziazione in cui, come ha scritto Giorgio Colli, «la vita appare come sapienza, pur restando vita fremente: ecco l’arcano» G. Colli, op.cit., p.15.. «Dioniso è il Dio che contempla tutta la vita a partire da un momento della vita, sicché la vita per un verso resta vita, ma per un altro appare come sapienza» C. Sini, Il metodo e la via, Mimesis, Milano 2013, p. 73.. Dioniso è allora il Dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni – lo dimostrano i suoi miti e i suoi culti – o meglio di tutto ciò che, manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittori. […] Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza […], è un animale e assieme dio, così manifestando i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé G. Colli, op.cit., p. 15.. Sofocle, nell’Antigone, così fa rivolgere l’invocazione a Dioniso al culmine dei Misteri: O tu che guidi il coro delle stelle spiranti fuoco, guardiano [epíscope] delle parole notturne [nychíon fthegmáton] fanciullo, progenie di Zeus, manifèstati, o signore, assieme alle Tiadi [baccanti] che ti seguono, che folli per tutta la notte danzano intorno celebrando te, Iacchos, il dispensatore. Ivi, p. 55. Dioniso, «guardiano delle parole notturne»: tradurre «fthegmáton» con «parola» - scrive Sini - non rende ragione della complessità di significato contenuta nel termine greco. Il verbo ‘fthéngomai’ «significa emettere un suono o una voce, il risuonare, e solo in conseguenza (per cammino semantico, si potrebbe dire) parlare» C. Sini, op.cit., p. 74.. Il verbo allude qui, dunque, più che alla parola, ad emissioni sonore preverbali, a urla e gemiti taurini (come si legge in Eschilo nel passo riportato all’inizio del capitolo), al gridare, e al cantare. Dioniso è «guardiano delle parole notturne» nel senso dunque che presiede al passaggio dall’oscuro suono belluino alla voce articolata e significante, soglia dell’umano Cfr. ibidem.. In questo passare la vita fremente, manifestata dai muggii dei satiri, si fa sapere, sfociando nella parola e nella visione, che sono prerogative del dio Apollo, come vedremo nel prossimo capitolo. 2.3 Lo specchio di Dioniso Un mito orfico narra come Dioniso venisse fatto a pezzi e sbranato dai Titani, mentre era intento a contemplare fissamente la sua immagine in uno specchio. In Nonno, Dionisiache, 6, 172 – 173 si legge «… con spada orrenda i Titani violarono Dioniso che guardava fissamente l'immagine mendace nello specchio straniante». L’immagine è «mendace» - commenta Colli – perché Dioniso, credendo di vedere la propria figura riflessa nello specchio, vi vede invece la molteplicità variegata del mondo, senza sapere che proprio quel molteplice mondano è lui stesso. La fantasmagoria della molteplicità fenomenica che appare sulla superficie «straniante» dello specchio, abbagliando e stordendo, è e al contempo non è il dio che vi si riflette: Dioniso, infatti, è sì quell’esistenza lacerata, da sempre frantumata nelle sue infinite monadi individuali, centri di forza e volontà, in lotta incessante tra loro; ma al contempo, egli non si risolve interamente in quel contenuto fenomenico. La sua essenza divina, infatti, consiste nell’unità primigenia della vita, da cui la stessa spezzettata realtà mondana proviene. La vita pura è un’unità indivisibile e per questo indicibile e irrappresentabile. Essa non può riflettersi tutta nella figura del sapere, la quale si in-scrive all’interno del suo cerchio. C’imbattiamo così di nuovo, provenendo da un’altra strada, nell’«arcano» che si cela in Dioniso e nel sapere di cui il dio si rivela come «cifra archetipica» G. Colli, op.cit., p.18.. 3. Leitmotiv di Apollo (… Debussy, Danseuses de Delphes , Préludes, Livre I) … sotto il gomito tengo molti dardi veloci dentro la faretra, che parlano a coloro che comprendono: ma rispetto al tutto hanno bisogno di interpreti. Sapiente è colui che sa molte cose per natura, ma quelli che hanno imparato, come corvi turbolenti che balbettano… (Pindaro, Olimpiche 2, 83-87) «Apollo è il dio della sapienza, in modo esplicito e pacifico» Ivi, p. 23. - scrive Colli -, la sapienza che il dio concede anche agli uomini per il tramite della parola. Quest’ultima è prerogativa umana, non del dio, il quale possiede invece «l’occhiata che conosce ogni cosa» Pind. Phth. 3, 29 in G. Colli, La sapienza greca, cit.. La parola è il punto di contatto tra il mondo umano e quello divino; in essa si traduce la visione perspicua del dio. Ma che tipo di verbo è quello in cui si esprime, sia pure in maniera traslata, la sapienza di Apollo? E’ un verbo potente, divinatorio, oscuro però, folle, che è incompreso da coloro stessi che lo proferiscono (i divinatori) in uno stato di follia (manía) suscitato dal dio; un verbo che, per essere reso comprensibile e comunicabile alla comunità (lo abbiamo appreso anche dalla lettura di Platone) ha bisogno di un interprete. La parola «apollinea» non è allora identificabile con la parola razionale della politica e della filosofia, ma è parola altra, trascendente, cifra divina nel mondo dell’umano. In questo senso vi è una convergenza tra Apollo e Dioniso, che, come scrive Colli, “è radicata nella loro natura” G. Colli, op.cit., p. 25.. Entrambe le figure sono connesse infatti alla sapienza e suscitano negli uomini la manía, che irrompe come elemento di frattura con la realtà empirica del quotidiano. Cercheremo, più avanti, di utilizzare questo spunto per guardare al di là dell’antitesi tra «dionisiaco» e «apollineo», che pure Nietzsche pone sin dalle prime pagine de La nascita della tragedia (lui stesso metterà da parte l’idea dell’antitesi quando ritornerà, negli ultimi anni della sua riflessione, al rapporto apollineo-dionisiaco). Cercheremo però di mostrare, al contempo, in cosa differiscano fondamentalmente tra loro gli stati di follia indotti rispettivamente da Apollo e da Dioniso. Basti notare per ora che quella bacchica è una manía collettiva, quella apollinea è invece individuale, poiché riguarda solamente la persona del divinatore e il contenuto della sua profezia. Molteplici sono invece i suoi interpreti, e in lotta tra loro, per via della sostanziale intrasferibilità della sapienza divina in quella «umana, troppo umana». Proseguendo ora nella presentazione dei caratteri salienti del dio delfico, introduciamo i suoi due attributi principali: l’arco e la lira. Apollo, oltre che della sapienza, è anche il dio della musica e dell’arte. La lira, o cetra, è lo strumento con cui si accompagnavano i cantori omerici e con cui Orfeo ammalia e ammansisce gli dei dell’Ade. La musica ispirata da Apollo, a differenza di quella dionisiaca, rapisce per la sua armonica bellezza, soggioga dolcemente, senza scatenare gli animi con suoni minacciosi e dissonanti. Da questo punto di vista, Apollo è un dio benigno e ispiratore di sogni alati. L’altra sua faccia, però, è ben più temibile, associata all’arco e alle saette da lui scagliate, che colpiscono sicure nel segno da gran distanza. Qui si rivela il lato terribile e omicida del dio, e soprattutto il suo agire in modo «obliquo», secondo uno dei suoi appellativi caratteristici. La parola stessa donata agli uomini è una di queste frecce lanciate perfidamente da Apollo cfr. G. Colli, op.cit., p. 27.: essa, infatti, è capace di rivelare la sua potenza distruttiva a distanza, come Nietzsche mostrerà nel percorso degenerativo del sapiente in «uomo teoretico». 4. Leitmotiv del genio «apollineo-dionisiaco». All’origine della tragedia greca (…Ravel, Daphnis e Chloé, Suite n° 2, Danse générale) 4.1 Sogno ed ebbrezza Per illustrare lo spirito «dionisiaco» e quello «apollineo», Nietzsche fa ricorso, nelle pagine iniziali de «La nascita della tragedia», alle metafore del sogno e dell’ebbrezza. In entrambi questi fenomeni fisiologici accade una frattura con la realtà empirica, per via di un’estraniazione dell’individuo, che significa anche un potenziamento delle sue facoltà naturali. In sogno si hanno visioni in cui ogni elemento della vita, gioioso o drammatico, bello o orrendo che sia, appare trasfigurato e straordinariamente potenziato, riguardo sia alla pregnanza emotiva in esso contenuta che alla particolare perspicuità dell’immagine e del senso che essa esprime. Non sono tanto i singoli sogni a destare piacere, quanto l’attività stessa del sognare, per via della necessità e della vivacità con cui tutto nell’immagine onirica si configura, e per via del fatto che non viene mai meno quel limite sottile che permette sempre di riconoscere i propri sogni come illusioni, «nonostante la vita suprema di questa realtà sognata» Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 22.. Tale limite ci preserva, in un certo senso, dalla verità delle nostre visioni oniriche. Le contempliamo, infatti, restandone con un piede fuori, eppure, sentendocene pienamente coinvolti. Ora, la potenza della visione e dell’azione a distanza sono, come vedemmo, caratteristiche di Apollo (che è dio della divinazione e colpisce inesorabilmente con l’arco e le frecce), e anche dell’artista, di cui egli è infatti il dio protettore. Apollo ispira nell’artista, come nel sognatore, la capacità di dar luogo ad immagini plastiche e vivide restando al contempo libero dalle passioni violente che in esse si rappresentano. Dall’altra parte, ecco invece l’«ebbrezza», dalla quale non scaturiscono immagini. L’ebbrezza non è il potenziamento di una sola facoltà, bensì del corpo nella sua globalità; non ha a che fare col vedere, ma col sentire (è un sentimento, non in senso psicologico, però!). Essa permette il «rapimento estatico» dell’individuo che, giungendo a squarciare in qualche punto la trama sottile del «velo di Maia» che avvolge la realtà, giunge ad assimilarsi, sia pure per un tempo breve, all’unità primigenia della vita, al di fuori dell’individuatio, cioè dei rapporti temporali, spaziali e causali che permettono la molteplicità dei fenomeni mondani nascondendone però l’essenza. Il sentimento dell’«ebbrezza» non ha a che fare con il soggetto psichico, come tenderemmo a figurarci noi moderni. L’«ebbrezza» è un sentimento trans-individuale che viene provocato in modi diversi all’interno dei culti dionisiaci. «In quelle feste greche si manifesta come un carattere sentimentale della natura, quasi essa debba sospirare per il suo frammentarsi in individui» Ivi, p. 29.. Nello stato di «ebbrezza» è la natura stessa, emergendo dalle profondità di ciascuno dei suoi figli, a fremere e a scatenarsi. Da una parte, il sogno e l’ebbrezza si accompagnano entrambi ad uno stato di manía che comporta l’«estasi» (da intendersi qui nel suo significato etimologico dell’«esser fuori di sé»), e da questo punto di vista essi non sono esperienze antitetiche; dall’altra, però, non si può trascurare la differenza tra queste due condizioni di follia: nel sogno ad esser folle è la visione, mentre nell’ebbrezza la follia riguarda il sentire nella sua totalità. Nella manía dionisiaca, che è collettiva, la natura preme per liberarsi, e per scaricarsi in una «visione estasiante» Ivi, p. 35., proprio quella «folle» del sogno apollineo. Detto questo, si comprende come lo spirito apollineo e quello dionisiaco siano tra loro indissociabili (come già anticipammo), dato che per sé soli essi non potrebbero prodursi. Il «folle» sentire è lo spasimo cosmico della natura che, attraverso il medium dell’individuo eccitato e «fuori di sé», si scarica infine in un «folle» vedere. Qui la visione metafisica non è più considerata prerogativa di un soggetto psicologico o di un’anima («il soggetto che pensa, che immagina, non v’è» – scriverà parecchi anni dopo Wittgenstein), ma scaturisce dall’organicità e dalla funzionalità ritrovata del corpo (Leib), dell’essere vivente «in carne ed ossa», che vede sentendo e sente vedendo. L’artistico indica ora la via al filosofico (da cui, la figura nietzschiana del «filosofo-artista»); né vi è arte vera, per Nietzsche, che non si realizzi come conoscenza autentica. 4.2 La forza scatenante della musica Abbiamo visto cfr. paragr. 2.1come la musica rivesta, nel culto dionisiaco, un ruolo fondamentale e primario. Le sonorità profonde e minacciose, la potenza del suono, la forza dell’armonia e delle dissonanze, inducono l’individuo all’estasi dionisiaca. D’altronde, il culmine estatico degli invasati coincide, a sua volta, con un impulso irrefrenabile verso l’espressione musicale, da cui scaturisce una musica inaudita, terrificante e sconvolgente, incomprensibile per chi si accosti ad essa con orecchio esterno. Per «musica», Nietzsche intende (com’era nella concezione antica dei greci) non solo l’arte particolare dei suoni, ma più in generale, l’espressione di tutte le facoltà del «Leib», cioè dell’essere vivente in «carne e ossa»: la mimica, la danza, la parola, l’azione e, certo, il canto. Nel ditirambo dionisiaco – egli scrive – l’uomo viene stimolato al massimo potenziamento di tutte le sue facoltà simboliche; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi, l’annientamento del velo di Maia, l’unificazione come genio della specie, anzi della natura. Ora l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente; è necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l’intero simbolismo del corpo, non soltanto il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche la totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. In seguito crescono all’improvviso e impetuosamente le altre capacità simboliche, quelle della musica, come ritmica, dinamica e armonia. Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l’uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente: il ditirambico seguace di Dioniso viene quindi compreso solo dai suoi simili! Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 30.. La musica dunque è al contempo un presupposto e un effetto dello spirito dionisiaco. Se, come stimolatore, la musica porta ad espressione ciò che è profondamente instabile, fluido, libero, in eterno divenire, al culmine dello stato dionisiaco, essa trova la sua piena realizzazione come unità e sintesi di tutte le facoltà simboliche: mimica, danza, canto, parola, azione. La musica così «ridiventa [in qualche modo] visibile come in un’immagine di sogno simbolica» Ivi, p. 41.. Nietzsche condividerà con Wagner, almeno inizialmente, questa idea di musica dionisiaca come arte totale, in cui tutto ciò che nel mondo è visibile vuole approfondirsi e interiorizzarsi in ciò che è udibile […]; del pari, tutto ciò che nel mondo è udibile vuole […] risalire ed uscire alla luce anche come apparenza per l’occhio, vuole per così dire acquistare corpo”. Nietzsche, Wagner a Bayreuth, in Id., Scritti su Wagner, cit., p. 116. 4.3 Il coro dei «trasformati» e l’origine della tragedia greca I servi e seguaci di Dioniso sono dei Satiri, a metà tra uomini e capri, «finti esseri naturali». Tale finzione non è una fantasia arbitraria ma l’effetto di un incantesimo, l’esito di una trasfigurazione. Nella vicinanza del loro dio, gli invasati si vedono trasformati ai loro stessi occhi in «restaurati genii naturali» Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 58.. Il Satiro si contrappone all’uomo civile rappresentandone la sua nullificazione. E’ un essere di natura, libero dai limiti, distinzioni e imposizioni necessari alla strutturazione della società e dello Stato. Nel Satiro il Greco riconosce l’uomo vero, vedendo ricomposti in lui i termini essenziali dell’umano: l’animale e il divino. Un coro di Satiri è il nucleo primigenio della tragedia attica, secondo quanto testimoniato dalla tradizione. Questa finzione che è il coro di finti esseri naturali, mette da subito fuori gioco un’altra più alta finzione: il mondo empirico, «che si atteggia a unica realtà» Ivi, p. 57.. Alla luce della distinzione schopenhaueriana tra l’unica vera realtà - quella noumenica della «volontà» - e l’apparenza ingannevole del mondo come rappresentazione, Nietzsche rivede l’ipotesi di Schiller sul significato originario del coro nel teatro greco. Secondo il poeta, il coro è come «un muro vivente che la tragedia ha tracciato intorno a sé per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica» 30 Ivi, p. 53.. Delle varie ipotesi sulla funzione originaria del coro, quella di Schiller sembra a Nietzsche la più suggestiva e verosimile. Penetrando profondamente nell’irrealtà della finzione poetica, l’uomo può arrivare a cogliere la verità dell’esistenza, una volta che abbia sciolto i legami con la realtà menzognera del mondo empirico. Se è vero che un coro di Satiri è il nucleo originario della tragedia, resta da spiegare come da questo elemento solo coreografico e musicale si sia potuta progressivamente sviluppare l’azione scenica. La spiegazione non storica ma, diremmo, cultuale e di psicologia (o meglio, «fisiologia») dell’arte che ne dà Nietzsche è molto suggestiva: l’azione scenica sarebbe frutto di un’allucinazione collettiva da parte del coro di «trasformati», che al culmine dell’estasi dionisiaca vedrebbero proiettato davanti a sé ciò da cui sono posseduti: il loro dio Dioniso, lì, sulla scena, nelle vesti dell’eroe mitologico. Prometeo, Edipo, Admeto, non sono allora che maschere di uno stesso dio. Nelle diverse figure della mitologia, è sempre Dionisio che agisce, che è preda di immani sofferenze, che va incontro, infine, immancabilmente al proprio annientamento. Il contenuto della visione del coro «ditirambico» è Dioniso mentre «sperimenta in sé i dolori dell’individuazione» Ivi, p. 72.. Con questa proiezione allucinata, «con questo compimento apollineo» dello stato dionisiaco – scrive Nietzsche – «il dramma è completo» Ivi, p. 60.. La tragedia greca era un culto religioso e sapienziale. Assistendo allo spettacolo, il popolo greco aveva accesso alla suprema forma di sapere che è la sapienza che nasce dal cuore pulsante della vita e che non a caso è rappresentata da un coro di satiri, esseri a metà tra animali e divini. Si tratta della conoscenza fondamentale dell’unità di tutto ciò che esiste, [del]la concezione dell’individuazione come causa prima del male, [del]l’arte come lieta speranza che il dominio dell’individuazione possa essere spezzato, come presentimento di una ripristinata unità Ivi, pp. 72-73.. A questo punto Nietzsche indica il paradosso più grande dell’esperienza dionisiaca: al culmine della massima espansione dell’impulso vitale giunge un senso di disgusto per la vita che deriva dalla visione del dio sofferente sulla scena, che rispecchia l’esistenza per ciò che è: un inevitabile ed eterno lacerarsi, come aveva visto Schopenhauer, in una molteplicità infinita di entità individuali in lotta tra loro, che comporta un carico insopportabile di dolore, di sofferenza e di distruzione. Ma ecco che all’orrore più profondo si unisce la gioia più alta per l’immedesimazione e la contemplazione di quell’unità primigenia che è la fonte da cui sgorga la vita, e che mai si esaurisce e sempre si rinnova «al di là di ogni apparenza, nonostante ogni annientamento» Ivi, p. 110.. Tale visione, tale profonda sapienza che è, secondo Nietzsche, il cuore pulsante dell’antica tragedia greca, non avrebbe potuto comunicarsi a chi non si fosse trovato in uno stato dionisiaco. I greci, per l’intera durata delle rappresentazioni tragiche, dimenticavano la loro condizione civile e, trasportati dalla musica del coro, divenivano essi stessi dei «trasformati», condividendo col coro la medesima disposizione d’animo. Nello spettacolo teatrale – spiega Nietzsche - avveniva un complesso gioco di specchi, nel quale la massa degli spettatori, seduta in alto sulle gradinate del teatro, si rispecchiava nel coro dell’orchestra, il quale a sua volta si rispecchiava nella scena del dramma. Ciò poteva avvenire per il fatto che l’eccitazione dionisiaca era in grado di comunicare ad un’intera comunità questa disposizione artistica a «vedersi […] attorniata da una tale schiera di spiriti, con la quale essa sa[peva] di essere intimamente una» Ivi, p. 60.. Tutti - pubblico, coro, attori in scena – erano soggetti ad un «incantesimo», che agiva in modo che essi, al di là della propria individualità, fossero in grado di vedersi trasferiti in figure fuori del tempo, scaricando in immagini plastiche «apollinee» ciò che dapprima solo sentivano agitarsi caoticamente dentro, come «un mare eterno». Ciò che ci manca ancora di comprendere, ed è il punto essenziale della riflessione nietzschiana, è che cosa renda davvero possibile questa trasposizione del sentire nel vedere, che fa dell’opera d’arte tragica il punto di incontro tra la più profonda esperienza estetica e la più alta esperienza sapienziale. Cercheremo di renderne ragione nel paragrafo seguente. 4.4 Musica e dramma La questione sopra enucleata può essere trasposta in questi termini: che rapporto ha, nella tragedia greca, la musica, arte per eccellenza non raffigurativa, con il dramma che si rappresenta in scena? L’arte dionisiaca suole […] esplicare effetti di due specie sulla facoltà artistica apollinea: la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione Ivi., p. 110.. Secondo Schopenhauer, la musica è espressione della volontà in sé, cioè dell’irraffigurabile par excellence. Le altre arti invece non possono che cogliere il noumeno in maniera indiretta, ossia: in figura. In accordo col suo maestro, Nietzsche pensa che l’influsso della musica su chi la subisce sia così potente (proprio per il fatto che attraverso i suoni è la volontà stessa a «parlare») da spingere inesorabilmente costui a cercare all’esterno dei simboli adeguati a significare ciò che sente come il più reale e, al contempo, il più ineffabile. Lo stato dionisiaco procurato dalla musica, in cui si esprime il caotico, incessante, informe flusso della vita, è al contempo impulso ad immergersi in questo flusso e pulsione creativa verso una rappresentazione simbolica che gli corrisponda e lo inveri. La musica è allora liberazione del e dal dionisiaco, come suggerisce Vattimo Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Bari-Roma 1985, pp. 8-25.. Ora, l’intuizione simbolica più adeguata al dionisiaco che si esprime nei suoni è il mito, che presenta figure e situazioni universali e «puramente umane», all’altezza del linguaggio universale con cui parla la musica. Musica e mito sono allora intimamente connessi, nel senso che il mito nasce dallo «spirito della musica». Questo è il punto saliente della posizione nietzschiana espressa ne La Nascita della tragedia; esso è anche il nesso che collega, come vedremo, l’arte antica a quella a venire, ossia all’«opera totale» di Wagner. Articolando la sua posizione, il filosofo spiega che la sola parola non sarebbe in grado di conferire ai suoi contenuti quella significatività metafisica che sola rende il mito tale. Soltanto la musica può fare questo, facendo risuonare nella sua integra universalità ciò che le parole e le azioni drammatiche rappresentano a titolo esemplare, e fornendo così al mondo della scena la sua massima valenza simbolica, la sua «suprema significazione». «[La musica] presenta insieme il sostrato e il luogo di nascita della parola e [ci chiarisce] dall’intimo il divenire della parola» Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 143.. In questo passo appare quanto mai chiaro il nesso tra l’arte musicale e Dioniso, il quale, come abbiamo visto all’inizio, è il dio che sovrintende al passaggio dal verso inarticolato alla parola umana. Nel momento in cui venisse meno questa relazione intima tra musica e dramma, lo stesso effetto del tragico risulterebbe annullato. Il dramma decadrebbe a commedia realistica, basata sull’imitazione della realtà quotidiana e dei tipi psicologici. Fine del mito, fine del potere dionisiaco della musica! Questo è proprio ciò che accade, secondo Nietzsche, con la Nuova tragedia attica di Euripide, in cui tutti i rapporti perversamente si rovesciano: la musica è messa al servizio della parola e dell’azione scenica, mentre queste ultime assumono una funzione di imitazione naturalistica. Il risultato è che il potere dionisiaco della musica è disattivato e il dramma ha perso il suo respiro universale e metafisico. Appare sempre più chiaro che lo spirito dionisiaco-musicale può trovare compiuta realizzazione solo in unione con lo spirito plastico-apollineo. Insistere sull’antitesi tra dionisiaco e apollineo rischierebbe di rendere opaca la stessa concezione nietzschiana del dionisiaco. L’ebbrezza della musica, portando al massimo potenziamento di tutte le facoltà simboliche dell’uomo, comporta lo scaricarsi del «sentimento» dionisiaco nella «visione» totale a cui partecipano anche la parola e l’azione drammatica. Vorremmo infine chiarire quest’aspetto (particolarmente significativo ai fini della nostra breve ricognizione sul rapporto tra vita e sapere a partire dalla lettura de La nascita della tragedia di Nietzsche), e cioè: gli elementi apollinei del dramma proteggono dal contatto diretto e totale col dionisiaco che si agita nella musica, evitando così che l’uomo anneghi nell’indeterminato del «sentimento puro». Con l’enorme violenza dell’immagine, del concetto, della dottrina etica e dell’eccitazione simpatetica, l’apollineo solleva l’uomo dal suo orgiastico annullamento di sé e, sovrapponendosi all’universalità dell’evento dionisiaco, gli dà l’illusione di vedere una singola immagine del mondo, per esempio Tristano e Isotta, e di doverla vedere, per effetto della musica, ancor meglio e più intimamente Ivi, p. 142.. La vita, giungendo al suo «zenit», non può non essere anche uno sforzo incessante a riflettersi in vita saputa. Non si tratta, per l’uomo dionisiaco, di aspirare al caos irrazionale dell’esistenza fino a perdersi in esso, ma di domarlo e di dargli forma, accedendo solo così ad un livello più profondo e più alto di conoscenza. 5. Leitmotiv di Wagner. L’«opera totale» wagneriana: musica dionisiaca? (… Wagner, Preludio del Lohengrin) 5.1 Premessa. Nietzsche e Wagner Come è noto, l’entusiasmo e la venerazione quasi fanciulleschi del giovane Nietzsche per Wagner mutarono, nell’ultimo tratto del suo percorso di pensiero e di vita, in dissidio e disprezzo, l’amicizia si volse in inimicizia. Questo brusco rovesciamento di prospettiva non si giustifica, per ciò che riguarda il filosofo, sulla base di motivi personali. «Voltare le spalle a Wagner – scrive Nietzsche – fu per me un destino» F. Nietzsche, Il caso Wagner, in Id., Scritti su Wagner, cit., p. 163.. Fu una necessità interna del suo pensiero, che a un certo punto pretese da lui il rifiuto di tutto ciò che era figlio del suo tempo; anche di sé stesso, dunque, e di coloro che erano state le personalità da lui più ammirate e i presupposti della sua filosofia: Wagner e Schopenhauer. Contro questi «padri» egli dovette sostenere «la sua lotta più dura», per guardare al di là di essi; contro se stesso egli dovette recingersi dalle radici della décadence, per superarsi e divenire ciò che era. cfr. Ivi, Prefazione. Se è vero, come sostiene Heidegger, che la rottura tra Nietzsche e Wagner è già da sempre prefigurata M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 97., noi cercheremo allora di enucleare, nel corso dei prossimi paragrafi, alcuni luoghi esemplari della poetica e dell’opera wagneriana che ci paiono far segno verso direzioni opposte: da una parte, indicando una comunione d’intenti e di pensiero fra il musicista e il filosofo; dall’altra, lasciando intravedere una discrepanza di concezione che si rivelerà presto fatale per il loro rapporto. 5.2 Wagner: «drammaturgo ditirambico» o istrione? Come si riflette anche negli scritti teorici del compositore degli anni ’50, il «Dramma» di Wagner si pone come contraltare del melodramma di origine italiana. Il Wort-Ton-Drama (parola-musica-azione) è un’opera d’arte totale costruita non sulla base di un rapporto esteriore tra i diversi ambiti artistici (come accadeva nel teatro musicale della tradizione), bensì a partire da un nucleo unico – l’azione - che rende intrinseche e necessarie le corrispondenze tra le arti. La musica è composta da Wagner in modo da aderire perfettamente all’azione, esplicitando l’intreccio di motivi che ne costituiscono l’elemento propulsivo. La parola, sollecitata dallo «spirito della musica», si libera a sua volta dagli artifici formali e retorici imposti del canone poetico. Il linguaggio, osserva Nietzsche, «viene fatto arretrare a uno stadio primitivo, in cui quasi ancora non pensa per idee, in cui è ancora esso stesso […]immagine e sentimento» Nietzsche, Wagner a Bayreuth, cit., p. 136.. L’utilizzo del verso sciolto permette alla parola di fare quasi corpo unico con la musica, assumendo la sua flessibilità e la sua malleabilità. In questo modo, il «visibile» e l’«udibile» divengono perfettamente complementari tra loro e traducibili l’uno nell’altro. Ivi., pp. 116 e seg. L’ «opera d’arte totale» sembra realizzare le aspirazioni dell’artista romantico tedesco, che da Jean-Paul Richter e Schumann in avanti riconosce nella permeabilità dei confini tra le arti e nella traducibilità reciproca dei loro contenuti la cifra della sua nuova autentica libertà. Bisogna cogliere questo retroterra romantico dietro l’affermazione già citata di Nietzsche: «la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca». L’interiore corrispondenza tra musica e parola, musica e azione, è resa infine possibile dalla scelta di soggetti mitologici. Solo grazie al mito, infatti, è possibile giungere alla concisione e alla massima pregnanza significativa dell’immagine poetico-musicale, per via dell’esemplarità metafisica di ogni azione in scena, nel senso che ogni atto, ogni motivo esprime il «puramente umano». Ciò detto, in un passo del libello celebrativo “Wagner a Bayreuth”, Nietzsche avanza con non poca malizia, a voler legger tra le righe, la seguente ipotesi riguardo all’origine del Wort-Ton-Drama wagneriano: […]sarebbe anche lecito dire che la più potente natura musicale, nella sua disperazione di dover parlare ai non musicisti o ai musicisti a metà, aprì violentemente l’accesso alle altre arti, per comunicare così finalmente con centuplicata chiarezza e per procurarsi comprensione, popolarissima comprensione Ivi, p. 117.. Più avanti aggiunge: Egli voleva vincere e conquistare come ancora nessun artista, e giungere possibilmente d’un colpo solo a quella tirannica onnipotenza a cui si sentiva così oscuramente sospinto Ivi, p. 122.. Queste osservazioni, in tempi non ancora sospetti, ci paiono già prefigurare l’aspra critica che il filosofo rivolgerà a Wagner poco più di una decina d’anni più tardi: la tendenza del compositore, in netto contrasto con la natura solitaria del drammaturgo «ditirambico», a volersi imporre in modo assoluto sulla massa del pubblico, a tenerlo in pugno interpretandone, da raffinato psicologo qual era, i suoi bisogni e i suoi voleri. Nel segno della «filosofia del sospetto», Theodor Adorno porrà l’accento proprio su quella tendenza osservata sul nascere dal giovane Nietzsche, quando scriverà, nel suo breve ma fulminante saggio su Wagner: All’alienazione in rapporto al pubblico [quella dell’artista già al tempo di Wagner] si collega in lui dall’inizio il calcolo dell’effetto su di esso: solo una massa di ascoltatori, il cui apriori sociale ed estetico è così lontano da quello dell’artista come nel tardo capitalismo, diviene, reificata, oggetto di calcolo da parte del comportamento artistico T. Adorno, Wagner, Einaudi, Torino 1966 e 2008, p. 26.. Il non essere interessato se non all’effetto, il conoscere alla perfezione ciò su cui il suo dramma deve agire, ossia la psicologia di un pubblico quasi di massa, e anche i meccanismi attraverso cui tale azione può ottenere il massimo dell’efficacia, questi sono i principali elementi di ciò che Nietzsche chiamerà «il genio istrionico» cfr. Nietzsche, Il caso Wagner, cit., pp. 182-185.. Nel «Caso Wagner» sarà alla tirannica volontà del commediante, non più all’«eroico furore» del «drammaturgo ditirambico», che il filosofo attribuirà il progetto fantasmagorico del Wort-Ton-Drama.. 5.3 «Melodia infinita» o «cattiva infinità senza melodia»? Il termine «melodia infinita» compare una volta sola negli scritti di Wagner, e precisamente in un passo di «Musica dell’avvenire». Qui, essa è paragonata dall’autore ad una foresta, nella quale un viandante solitario (l’ascoltatore) si avventura sul far della sera, dopo aver lasciato dietro di sé il rumore della città che l’opprimeva. Liberatosi da esso, ed essendo ora avvolto in un «silenzio eloquente», il viandante perviene ad un nuovo stato percettivo, molto più aperto e sensibile. Egli inizia allora a distinguere sempre più chiaramente una per una le voci che si levano nella foresta. E quante più voci e singoli modi egli intende, tanto più in questo immenso insieme di suoni, che gli si annunciano più chiari, echeggiano, ingrossano, egli riconosce di nuovo in nuovo la grande, l’unica melodia della foresta […] R. Wagner, Musica dell’avvenire, cit. in R. Di Benedetto, Romanticismo e scuole nazionali nell’Ottocento, EDT, Torino 1982.. Trasferendoci ora dalla bella metafora di Wagner al piano della sua tecnica compositiva, possiamo riconoscere nelle «voci e singoli modi» i motivi che, intrecciandosi tra loro in una fitta rete di relazioni, giungono a formare come un'unica grande melodia, tanto vasta da coinvolgere l’intera orchestra ed abbracciare il dramma intero. L’utilizzo della tecnica motivica, che è mutuata dal sinfonismo del classicismo viennese (in particolare, dell’ultimo Beethoven) e su cui si basa la «melodia infinita», permette a Wagner di tagliare i ponti col melodramma tradizionale e la sua organizzazione in numeri chiusi. Il dramma wagneriano, grazie al metodo della «variazione sviluppante», che permette di far germinare i motivi l’uno dall’altro in un unico grande processo di sviluppo del materiale compositivo, appare «durchcomponiert», cioè composto da capo a fondo, tutto d’un fiato. Ecco cosa significhi in termini più tecnici la «melodia infinita». Il processo ininterrotto e progressivo condotto per mezzo dell’elaborazione motivica eleva a sistema, nell’opera wagneriana, l’ambiguità e il «sentimento dell’insolubile», fa notare Adorno. L’ascoltatore, in questo continuo fluire e rifluire della musica, sempre nuova eppure sempre uguale a se stessa, straordinariamente frastagliata al suo interno eppure unitaria come il corso di un vasto fiume, non riesce ad afferrare i vari momenti del dramma in modo univoco e determinato, restando così sempre nel dubbio di averne compreso il senso in maniera corretta. Cfr. Adorno, op.cit., pp. 39-40. In quanto il decorso melodico – scrive Adorno -, il più possibile ininterrotto, rifiuta alla memoria dell’ascoltatore il diritto alla piccola proprietà musicale, essa memoria lo sottopone tanto più inesorabilmente all’effetto complessivo della totalità Ivi, p. 51.. Questa ambiguità e polivocità semantica della musica di Wagner aveva soggiogato il giovane Nietzsche, che proprio sul suo modello era andato poi costruendo la sua idea dell’arte tragico-dionisiaca, come arte in grado di presentare ad un tempo il doloroso frantumarsi della vita nell’apparenza del molteplice e il gioioso ricomporsi nella sua unità primigenia al di sopra della molteplicità. Cfr. Nietzsche, Wagner a Bayreuth, cit., p. 144. Eppure, proprio nella «scissione atomica del materiale», nell’incessante «scomposizione in minimi elementi motivici» Adorno, op.cit., p. 46., operazioni su cui si fonda l’effetto della melodia infinita, si annida il rischio di perdere di vista la costruzione unitaria del tutto. Se gli autori del classicismo viennese (e in modo sorprendente, l’ultimo Beethoven), ancorati alla ferrea logica del linguaggio musicale, riescono a conciliare in una sintesi formale la progressiva diversità degli elementi, all’arte wagneriana sembra ora venir meno la forza necessaria per far questo cfr. ivi, p. 40. Il particolare, il dettaglio, prende il sopravvento finendo per mostrarsi autarchico. V’è tutta una fantasmagoria di gesti, in Wagner, per ciascuno dei quali egli cerca innanzitutto «la semiotica sonora». Ecco allora – scriverà Nietzsche nel suo «processo» a Wagner – il suo scindere, il suo ricavare piccole unità, il suo animarle, sbalzarle in evidenza, il suo renderle visibili. Ma così facendo, la sua forza si esaurisce: il resto non val nulla. Quanto è misero, impacciato, profano, il suo modo di «sviluppare» Nietzsche, Il caso Wagner, cit., pp. 180-81.. La tesi adorniana fondamentale, che ci sembra adombrata nel suo saggio su Wagner, è che l’opera d’arte totale wagneriana è votata al fallimento per via della mancanza costitutiva, appena dissimulata dalle esigenze dello «stile drammatico», di un vero e proprio sviluppo dialettico del materiale compositivo. Il modello di Adorno è, come si è visto per inciso, la tecnica della «variazione sviluppante» della prima scuola di Vienna (che sarà poi fatta propria da Schönberg). Gli stessi Leitmotive, che vorrebbero essere, nelle intenzioni di Wagner, veicolo dell’elaborazione progressiva del materiale musicale, si rivelano nella realtà essere delle miniature espressive, tutto sommato, autonome e incapaci di fondare e condurre un processo consequenziale e progressivo di sviluppo. Il decorso della musica wagneriana avviene, più che per una reale variazione sviluppante, per accumulo e sovrapposizione; e l’infinità promessa della melodia si rivela una «cattiva infinità, semplice copertura del finito» Adorno, op.cit., p. 54.. Il variare dei Leitmotive wagneriani (a cui Adorno attribuisce una rigidità icastica tipica dell’allegoria), che è di carattere psicologico, non ha però anche una forza logica inerente al materiale. Tale variante psicologica «li espone soltanto ad una diversa illuminazione all’intorno» Adorno, op.cit., p. 41.. Non v’è reale mutamento. I Leitmotive restano così gesti isolati, rappresentazioni esasperate di espressioni, che finiscono paradossalmente per divenire anonimi in un magma complessivo che non restituisce loro la specifica funzione, non potendosi esprimere un senso musicale realmente organico. «Proprio l’assenza di un materiale dialettico […] condanna le sintesi totali wagneriane a mera durata». Ivi, p. 48 Così conclude Adorno, sottolineando però al contempo il carattere indubitabilmente moderno e rivoluzionario dell’operare artistico di Wagner, che attraverso il rifiuto del «cosmo intatto delle forme borghesi», mette a disposizione dei compositori a venire un materiale molto più flessibile e libero di quanto fosse mai stato prima. La stessa invenzione della prosa in musica, estesa all’intero dramma, è una conquista dello spirito rivoluzionario di Wagner, decisiva per il futuro della musica. L’incapacità wagneriana di «plasmare organicamente» la forma è vista ora, dall’occhio spietato del tardo Nietzsche, come mancanza di stile, del «grande stile». Questa mancanza è a sua volta da lui interpretata come sintomo di una vita declinante. Così, l’opera wagneriana dell’avvenire, nella quale il giovane Nietzsche aveva riposto tutte le sue speranze di una rinascita dello spirito dionisiaco, ha finito per divenire a suoi occhi disincantati espressione attualissima della decadenza, e in quanto tale capace di avvincere e ammaliare soltanto ascoltatori decadenti, ma non più lui, che nel frattempo ha attraversato la decadenza fino in fondo, andando oltre sé stesso. 5.4 L’«ebbrezza» della musica di Wagner: dionisiaca o decadente? Abbiamo visto come le arti si congiungano nell’«opera d’arte totale» a partire dal nucleo germinante dell’azione Wagner chiamava il suo dramma semplicemente “Handlung” (azione).. Se la musica, come la parola poetica, è un mezzo per valorizzare l’azione, conferendole pregnanza simbolica e universalità, è vero anche, schopenhauerianamente, che la scena drammatica e la parola si rendono complementari alla musica, al fine di conferire ad essa la massima significatività, attraverso una rappresentazione esemplare. Nell’«opera d’arte totale» è certamente la musica a dominare, e attraverso di essa, lo «stato sentimentale puro» Cfr. Heidegger, op.cit., pp. 94 e sgg., che l’orchestra wagneriana esprime costituendo lo sfondo sempre cangiante, straordinariamente impressionabile, infinito, indeterminato, della scena. Nel portare ad espressione artistica l’«ebbrezza» del sentimento, nella sua valenza non semplicemente umana bensì della natura tutta, Wagner compì effettivamente un’impresa inaudita. Il giovane Nietzsche colse la profonda «inattualità» di questa impresa, credendo di riconoscere in essa il vero contro-movimento culturale, capace di salvare la civiltà occidentale dall’atrofia di un sapere senza più vita. Dal particolare punto di vista di filologo dell’antichità greca, egli chiamò questo sentimento allo stato puro della musica wagneriana «dionisiaco», e vide nell’«opera d’arte totale» la rinascita della tragedia ditirambica. In modo lento ma inesorabile, però, proprio quegli elementi caratteristici dell’opera di Wagner che gli erano sembrati annunciatori del vero spirito dionisiaco si riveleranno al filosofo essere i più lontani da esso. Per rendere conto (nei limiti della nostra ricerca) di questo radicale cambio di prospettiva di Nietzsche nei confronti dell’arte del compositore di Lipsia, pensiamo sia necessario chiarire il valore e la funzione estetici che il filosofo attribuiva al sentimento dell’«ebbrezza», e lo faremo qui attraverso l’esegesi heideggeriana di questo concetto così strategico all’interno della concezione nietzschiana dell’arte. Cfr. Ivi, pp. 100-129.. L’«ebbrezza», in quanto «sentimento del potenziamento della forza e della pienezza», è la condizione preliminare dell’arte, affermerà Nietzsche in «Volontà di potenza». Il sentimento dell’«ebbrezza», commenta Heidegger, «è il modo in cui noi ci troviamo presso noi stessi e al tempo stesso presso le cose, presso gli enti che noi stessi non siamo» Ivi, p. 107.. Infatti, il sentimento è il sentirsi in quanto corpo vivente (Leib) che permea l’intero nostro esserci; al contempo, è il modo in cui noi, in quanto corpi viventi, ci rivolgiamo agli enti intorno a noi. Il sentimento non è uno stato interiore bensì una «disposizione» verso l’esterno. La «disposizione», nei tipici termini heideggeriani, «è il modo fondamentale in cui noi siamo al di là di noi stessi» Ivi, p. 108.. Heidegger aiuta in questo modo a chiarire i punti fondamentali su cui si basa l’«ebbrezza» (ciò è importante per comprendere più a fondo la concezione nietzschiana dello spirito dionisiaco): l’essere presso di sé e al di là di sé. L’ebbrezza è il «sentimento del potenziamento della forza» e il «sentimento della pienezza». Ossia, secondo quanto chiarito da Heidegger, rispettivamente: «il potere-al-di-là-di-sé, come un rapporto con l’ente nel quale l’ente stesso viene esperito come più essente, più ricco, più trasparente, più essenziale», e «l’essere disposto che si lascia predisporre in modo che niente gli risulti estraneo e niente di troppo, che è aperto a tutto e pronto a tutto». Ivi, p. 109. E’ vero che lo strumentario concettuale a cui fa qui riferimento Heidegger non era stato ancora elaborato da Nietzsche al tempo de La Nascita della tragedia. E’ anche vero, però, che già in questa sua prima opera appare evidente che il dionisiaco non è uno stato fisiologico e una dimensione estatica fini a se stessi, bensì esso si realizza perfettamente nel momento in cui, al culmine del processo di eccitazione e potenziamento di tutte le facoltà naturali risvegliatisi nell’uomo, l’individuo, anzi, gli individui che ne sono soggetti (dato che quella dionisiaca è sempre una dimensione corale e comunitaria) pervengono, oltre se stessi, ad una conoscenza profonda e inaudita della realtà; ad una - potremmo dire utilizzando un termine tedesco particolarmente pregnante - Uebersichtlichkeit Uebersichtlichkeit è uno di quei termini tedeschi che, per la loro complessità di significato, è quasi impossibile da tradurre; «perspicuità» tradurremmo in italiano, essendo però consapevoli che essa è l’effetto di una visione dall’alto, a volo d’aquila (lo sguardo di Zarathustra?). Insomma, si tratta della visione nitida e globale concessa al e dal dio Apollo. Sia il dionisiaco che l’apollineo (disposizioni fisiologiche prima ancora che stati artistici) hanno alla base «l’ebbrezza» come loro condizione preliminare, come diverrà sempre più chiaro nel pensiero di Nietzsche. Inoltre, l’uno non può trovare un vero compimento se non nell’altro; per questo, l’antitesi dei due impulsi, inizialmente affermata, diverrà in seguito per Nietzsche un concetto dubbio, in ogni caso, problematico. Abbiamo poi appreso da Colli come la liberazione degli istinti ferini dell’uomo, così come il raggiungimento di una condizione estatica da parte degli iniziati, non costituissero il fine ultimo dei culti dionisiaci. L’estasi, raggiunto il suo apice, non consisteva in una beatitudine sessuale, ma portava al concepimento allucinatorio di una visione (sapienza) profonda della vita. Per tornare a Nietzsche e a Wagner e concludere così il nostro percorso, pensiamo che il motivo del loro insanabile contrasto risiedesse forse più che in ogni altra cosa in una profonda discrepanza nel modo di intendere il dionisiaco (discrepanza che se pure prefiguratasi precocemente diverrà solo più tardi davvero fatale per il loro rapporto): Wagner tende sempre più a esprimere nelle sue opere il «sublime, il profondo e lo sbalorditivo» dello stato sentimentale puro (l’unità primigenia della «volontà» schopenhaueriana?), che somiglia molto a quell’Assoluto in cui «tutte le vacche sono nere». In questo vasto mare del sentimento cosmico fanno mostra di voler naufragare i suoi personaggi, il suo pubblico, Wagner stesso (resta il dubbio se ciò che Nietzsche osservava appartenga davvero a Wagner e ai suoi drammi e non piuttosto all’enorme schiera di wagneriani, che sembrano talvolta essere il suo vero bersaglio critico). La sguardo di Nietzsche nei confronti del dionisiaco rimarrà invece sempre quello aristocratico di uomo della conoscenza. Rilevante, per Nietzsche, è domare il dionisiaco, non perdervisi; accettare l’eterno divenire per essere più alti creatori di forme; infine: essere musicisti, e come tali auscultare la vita, per essere filosofi migliori. 6. L’insegnamento, crocevia di vita e sapere. Lo stile dell’insegnante in classe a partire dallo «spirito della musica». Siamo indotti a confessarci la più vergognosa manchevolezza della nostra educazione […]: essa non è mossa e plasmata dall’anima della musica. (F. Nietzsche) 6.1 Fare (il) silenzio In musica il silenzio è fondamentale; non solo perché i suoni nascono e si estinguono nel silenzio, ma perché il silenzio stesso ha una sua specifica musicalità. Si pensi, ad esempio, alla pregnanza musicale delle pause beethoveniane. Anche il silenzio che intercala un tempo e l’altro di una Sonata, o di una Sinfonia, è musicalmente rilevante (il puntuale e premeditato scatenarsi delle tossi mostra che il pubblico delle sale da concerto purtroppo lo ignora); così come, pure, quello che precede l’inizio dell’intera esecuzione. Non è richiedendo o intimando il silenzio che questo possa assumere uno spessore musicale, e con esso una vera significatività dal punto di vista didattico. Urlare «fate silenzio! », poi, è un atto altrettanto paradossale del fare la guerra in nome della pace. Il silenzio musicale, l’unico didatticamente davvero importante, deve essere «concertato». Esso, infatti, non è semplice mancanza di suono (o di parola), ma anzi concentra, nella sua indicibilità, tutto il dicibile, come il bianco contiene in sé tutti i colori. Il silenzio musicale è un vero punto di partenza solo se è al contempo un punto di arrivo; esso non va concepito come assenza ma come momento culminante di tensione, e come tale non è già dato. Parlando dell’impressione che la «melodia infinita» sarebbe in grado di suscitare nell’ascoltatore, Wagner ricorre, nel suo scritto sopra citato «Musica dell’avvenire», alla metafora del viandante solitario che, essendosi tolto dal rumore della città, si avventura nella foresta in una dolce sera d’estate: Ciò che vi ha di caratteristico in questa impressione consiste nel percepire un silenzio che diviene sempre più eloquente. […] Il viandante che, sopraffatto nella foresta da questa impressione generale, si abbandona ad un raccoglimento più durevole, tendendo le sue facoltà dell’anima liberate dal rumore della città che lo opprimeva, per conseguire un nuovo modo di percezione, ascolta, per così dire, con un senso nuovo e con una penetrazione sempre maggiore R. Wagner, Musica dell’avvenire, cit. in R. Di Benedetto, op. cit.. Molte sono le situazioni che fanno sì che un silenzio divenga «eloquente». Nel caso del viandante, oltre all’inquietudine che sempre l’addentrarsi solitari in una foresta genera, v’è anche il fatto di essersi di colpo liberati dal rumore opprimente della città. Il contrasto e il senso di libertà rendono il silenzio carico di attesa per qualcosa di nuovo e di inaudito. Liberarsi dal rumore che opprime, significa fare vuoto dentro di sé, obliare pensieri, preoccupazioni, preconcetti; creare uno spazio profondo che accolga e faccia risuonare ed espandere il suono e la parola. Tale effetto dovrebbe ottenere l’insegnante sui suoi allievi, prima di attaccare a fare lezione. 6.2 Accordare Tra i ricordi più nitidi e più cari degli anni di liceo, conservo quello dell’entrata in scena del mio professore di Storia e Filosofia. Entrato in classe, senza proferir parola, iniziava puntualmente a girare tra i banchi. Si fermava per qualche momento davanti a ciascuno di noi, guardando le nostre facce, gli oggetti che giacevano alla rinfusa sui piccoli tavoli di legno, qualche titolo di libro non scolastico che qualcuno stava leggendo e che, spesso in modo non involontario, lasciava in bella mostra sul banco. Sembrava interrogarci con gli occhi, talvolta con un sorriso beffardo, più spesso con un’espressione vagamente assorta. Questo suo fare enigmatico, come si può immaginare, aumentava in noi il senso d’eccitazione. Stupiti ed eccitati ogni volta, ci scambiavamo sguardi eloquenti; era in quel momento che ci riconoscevamo tutti parte di un unico evento: la lezione del prof. N.! Questa entrata teatrale del professore era semplice ma fondamentale, come l’intonazione degli strumenti dell’orchestra all’inizio di un concerto. Quando egli, finalmente, raggiungeva la sua cattedra e iniziava a far lezione, la classe era a quel punto già orientata secondo una determinata e omogenea «tonalità emotiva». Le parole da lui proferite cadevano allora in ciascuno di noi con una particolare forza sonora, aumentata dal fatto di risuonare «per simpatia» con quelle accolte dagli altri compagni. 6.3 Dirigere un’orchestra Il carattere della classe rispecchia immancabilmente lo stile dell’insegnante, e si forma a partire da come essa sia considerata dal docente. La classe può essere vista come un’unità compatta da dirigere in un senso o nell’altro; oppure, al contrario, come un semplice aggregato di più individualità tra loro autonome; oppure, ancora (è la soluzione che noi immaginiamo migliore), come un’orchestra, in cui gli specifici caratteri strumentali, timbrici ed espressivi dei molteplici elementi che la compongono devono amalgamarsi tra loro e concorrere a formare un tutto armonicamente coeso ma articolato al suo interno. Volendo scomodare qui il concetto leibniziano di «armonia universale», si può dire che lo stato di armonia che il gruppo-classe può raggiungere sarà tanto più grande quanto più disparati e contrastanti sono i suoi elementi di partenza. Come l’orchestra, anche la classe è un punto d’arrivo. All’inizio si ha a disposizione solo una moltitudine sconnessa di «strumentisti», ciascuno con una naturale vocazione «solistica». Il training che il docente deve guidare è lungo e faticoso, ed è basato soprattutto sulla pratica dell’ascolto reciproco, sull’imparare a «respirare» assieme e in accordo col direttore, sullo sviluppo della sensibilità musicale necessaria per accordare il proprio timbro e i propri «forti» e «piano» con quelli di tutti gli altri, e più in generale, sull’incremento e la libera circolazione dell’energia tra i singoli allievi-musicisti, essenziale per accrescere il desiderio e la disposizione nei confronti della musica da eseguire, ossia: il sapere. Naturalmente, ci saranno tanti tipi diversi di classe quante sono le intenzioni musicali dei singoli professori; così come, ad esempio, l’orchestra di Karajan, il quale pretendeva di ottenere un suono compatto e densissimo, come fosse a suonare un unico strumento, era molto diversa dall’orchestra di Bernstein, che invece ricercava una sonorità orchestrale molto più variegata e frastagliata al suo interno. 6.4 Far cantare le singole voci. L’inclusività da un punto di vista musicale I decreti ministeriali e le linee-guida che si sono susseguiti in quest’ultimo decennio hanno segnato le tappe evolutive di una prospettiva nuova nei confronti della scuola: anche grazie alle indicazioni al livello europeo, condivise dagli altri paesi, è maturata l’idea che tra gli obiettivi principali che ogni scuola e ogni docente devono cercare di perseguire, quello di integrazione (introdotto già alla fine degli anni ’70 e messo a punto con la legge 104 del ’92 sull’handicap) deve essere sostituito ormai con quello più complesso e articolato di inclusione scolastica. Dal principio fondamentale di inclusività è nata la più recente normativa del 2013 sui «bisogni educativi speciali». Se a livello teorico e istituzionale quella dei «Bes» (questo è l’acronimo con cui comunemente sono indicati i «bisogni educativi speciali») sembra ormai una realtà acquisita, a livello invece della vita concreta e quotidiana dei singoli istituti, il carattere innovativo di tale principio stenta in genere a percepirsi. Soprattutto nei Licei, la vita scolastica procede per lo più come sempre, in tutto simile a quella dei decenni passati. Alcuni professori non sono neanche informati sul significato stesso di Bes, mentre trattano con sostanziale disinteresse, e non di rado anche con un malcelato senso di fastidio, la questione dei DSA o di altre forme di disturbi specifici dell’apprendimento che, non potendo essere affidati all’insegnante di sostegno, ricadono interamente «sulle loro spalle». In cosa consiste il nucleo fondamentale del cambio di prospettiva proposto dal concetto di Bes? Nel fatto che all’interno della comunità scolastica ogni allievo dovrebbe esser preso in carico nella sua specificità, nei suoi propri bisogni, ma anche nei suoi personali talenti, e nelle sue personali modalità di apprendimento. Sembra, questo, un compito impossibile! Come può un docente, dovendo avere a che fare con venti, venticinque o trenta allievi in una classe, arrivare a personalizzare il percorso didattico di ciascuno di loro? Ancora una volta, nell’immaginazione, la nostra metafora musicale ci viene in aiuto. Nella fase di concertazione (in cui consiste fondamentalmente la preparazione dell’orchestra), essenziale è per il direttore sviluppare la polifonia interna delle voci, da cui egli può ricavare infine la più grande ricchezza nell’interpretazione della pagina musicale. Non si tratta solo di trovare il giusto equilibrio tra le voci strumentali, ma soprattutto, di tirar fuori l’adeguata «espressività» di ciascuna linea. Tutti concorrono, in parti uguali, e in ogni momento, all’espressione musicale dell’intero organico: sia che ad essi sia affidata la melodia principale, o che concorrano a contrappuntarla in qualità di «voci interne». L’idea visionaria di «melodia infinita» di Wagner, lo abbiamo visto, è legata a questa concezione di una polifonia totale, che abbraccia l’intera orchestra e che è capace di provocare nell’ascoltatore un’impressione simile a quella suscitata da una misteriosa foresta nel viandante solitario che vi si addentri. Il lavoro che l’insegnante-musicista può fare sullo sviluppo della polifonia interna alla classe costituirà per il singolo allievo un’opportunità per attualizzare le sue potenzialità espressive, per riconoscere e affinare le proprie specifiche qualità, per imparare a valutare criticamente i propri punti di debolezza senza abbattersi, per giungere infine a maturare la sensibilità per un ascolto d’insieme, in cui la propria singolarità gli appaia intimamente connessa con quella di tutti gli altri. 6.5 Sviluppare lo spirito della musica cameristica I Berliner Philharmoniker sono un’orchestra tra le migliori al mondo. La loro eccellenza si fonda anche sull’attività parallela di piccoli gruppi cameristici nati in seno all’orchestra. L’accostamento della pratica della musica da camera a quella sinfonica è fondamentale per due motivi principali: mantiene un salutare equilibrio tra lo sviluppo musicale dell’insieme e quello che dei singoli musicisti; rafforza la conoscenza e il rapporto emotivo e lavorativo tra i componenti dell’orchestra. Fuori di metafora, puntare sulla doppia relazione, cioè quella verticale tra il professore e l’intera classe e quella orizzontale e più autonoma degli allievi tra loro, organizzati in piccoli gruppi, permette di responsabilizzare ciascun studente, che sa di potersi e doversi esprimere anche a livello individuale, e consente l’istaurarsi di una relazione più stretta tra gli allievi in vista del raggiungimento di obiettivi didattici. Dal punto di vista più specifico della didattica, poi, l’attività in piccoli gruppi promuove lo sviluppo di competenze che l’insegnamento frontale spesso non ha modo di stimolare. 6.6 L’insegnante-musicista Alla base della Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 2006 per una scuola delle competenze, troviamo la seguente definizione di conoscenza: «Le conoscenze indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento». La parola-chiave qui è: «informazioni». Da questa nota, sembra che l’insegnamento sia dapprima un mero caricamento di files nelle teste degli allievi (la metafora informatica, suggerita da Recalcati, effettivamente si impone da sé Cfr. M. Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014.); e, nella seconda fase, uno sviluppo, a partire da questo data-base, delle competenze dei ragazzi, affinché essi divengano competitivi nel mondo che vale, quello del lavoro e dell’economia. Torniamo alla metafora musicale su cui abbiamo impostato questo nostro capitolo: chi potrebbe seriamente sostenere che l’obiettivo dell’interprete sia trasmettere agli ascoltatori delle informazioni sui brani che esegue? O bisogna invece dire che il suo compito, dall’esito ben più incerto, sia quello di far accadere, di lasciare che si manifesti nel «qui ed ora» del concerto, l’opera musicale, estratta magicamente dall’aria con le dita? E come potrebbe essa accadere se non grazie allo stile, al talento (parola che in Dante significa «desiderio») dell’esecutore? Nello spirito della musica, sentiamo che il nucleo davvero importante di ciò che trasmette l’insegnante non può essere solo costituito da nozioni, ma da qualcosa di ben più attraente! Il sapere non è una somma di oggetti che possano essere posseduti, trasmessi, utilizzati, ma un movimento infinito che si sviluppa tra due polarità: il sapere e l’altro del sapere. Questo è quanto c’insegnano Socrate e Platone; e anche Nietzsche, con la sua eterna danza del dionisiaco e dell’apollineo. In fondo, ogni grande filosofo, ciascuno a suo modo, ripete e rinnova questa sorta di philosophia perennis: il sapere nasce dalla vita e ad essa non può che volgersi, nello sforzo di comprenderla come vita «saputa»; la vita, d’altro canto, nell’uomo, non è se non questo eterno stimolo ad oggettivarsi in forme di vita umana, in figure di sapere che essendo suoi gettiti non possono mai arrivare a comprenderla fino in fondo. La vita, potremmo dire sulla scorta del concetto schopenhaueriano di «Volontà» e della sua interpretazione nietzschiana che è lo spirito «apollineo-dionisiaco», è proprio questo fondo senza fondo del sapere, il nulla di sapere che lo attraversa da parte a parte, e che in tal modo lo fa essere. Proprio per via di tale mancanza costitutiva, il sapere, il vero sapere, è un oggetto erotico, la meta più alta del desiderio; e resta tale finché si mantiene in rapporto col suo limite. Muore, si reifica in sapere accademico, dottrina, informazione, mera ripetizione senza senso, competenza, quando si spezza tale rapporto. Il nostro professore ideale saprà trasmettere ai ragazzi il sapere mostrandone in controluce il suo limite, che è anche il suo punto d'insorgenza, la vita, insomma. In che modo? Mimandolo in classe, attraverso la parola e i ragionamenti, certo, ma anche attraverso il tono della voce, le pause di silenzio, lo sguardo, il variare del ritmo, il movimento, le espressioni del viso, l'entusiasmo, l’eccitazione. Egli si farà amare in quanto amante (del sapere), come Socrate da Alcibiade, salvo poi deviare questo desiderio erotico (invadente, come lo è il desiderio sessuale) dalla sua persona alla conoscenza a cui egli stesso mostra di tendere. Poiché questo è il punto: non si tratta di essere degli istrioni affetti da narcisismo, ma degli uomini e insegnanti interessati prima di tutto a cogliere e quindi a comunicare il punto di snodo tra il sapere e la vita. L’ «insegnante-musicista» sarà colui che di ogni oggetto di conoscenza saprà mimare l’origine, la prospettiva, il senso; soprattutto, sarà un medium, come l’interprete musicale: egli saprà incanalare il sentimento di «ebbrezza», fatto crescere in sé e nei suoi allievi, al fine di mettere questi ultimi in collegamento profondo col sapere, il sapere in relazione col suo evento, e l’amore per il sapere in relazione con l’amore per la vita. Bibliografia T. W. Adorno, Wagner, Einaudi, Torino 1966. R. Di Benedetto, Romanticismo e scuole nazionali nell’Ottocento, EDT, Torino 1982 G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977 Id., La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972. Id., Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979. Id., Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1970. Id., La volontà di potenza, Bompiani, Milano 1992. M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1969. C. Sini, Il metodo e la via, Mimesis, Milano 2013 G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Bari 1985.