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Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 Direttore responsabile: Giovanni La Barbera Direttore scientifico: Simonetta La Barbera Comitato Scientifico: Claire Barbillon, Franco Bernabei, Silvia Bordini, Claudia Cieri Via, Rosanna Cioffi, Maria Concetta Di Natale, Antonio Iacobini, César García Álvarez, Simonetta La Barbera, Donata Levi, François-René Martin, Emilio J. Morais Vallejo, Sophie Mouquin, Giuseppe Pucci, Massimiliano Rossi, Ale ssa ndr o Ro v e tta , G ia n n i Ca r lo Sc io lla , Ph ilip p e Sé n é c h a l, Giuliana Tomasella. Redazione: Carmelo Bajamonte, Francesco Paolo Campione, Roberta Cinà, Nicoletta Di Bella, Roberta Priori, Roberta Santoro. Università degli Studi di Palermo Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Studi culturali Società Italiana di Storia della Critica d’Arte Proge t t o gr afic o , e dit ing e d e la bo r a z io ne de lle im m a g ini: Nic ole tta Di Be lla e Ro b e r ta Pr io r i. ISSN: 2038-6133 - DOI: 10.4413/RIVISTA Copyright © 2010 teCLa – Tribunale di Palermo – Autorizzazione n. 23 del 06-10-2010 http://www.unipa.it/tecla __________________________________________________________ © 2010 Università degli Studi di Palermo Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 4 Proprietà artistica e letteraria riservata all’Editore a norma della Legge 22 aprile 1941, n. 663. Gli articoli pubblicati impegnano unicamente la responsabilità degli autori. La proprietà letteraria è riservata alla rivista. I testi pubblicati non possono essere riprodotti senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Gli autori debbono ottenere l’autorizzazione scritta per la riproduzione di qualsiasi materiale protetto da copyright. In riferimento al materiale iconografico fornito dagli autori a corredo dei testi, la Redazione si riserva il diritto di modificare, omettere o pubblicare le illustrazioni inviate. I lavori sono pubblicati gratuitamente. È possibile scaricare gli articoli in formato pdf dal sito web di “teCLa”. È vietata qualsiasi riproduzione totale o parziale anche a mezzo di fotoriproduzione, Legge 22 maggio 1993, n. 159. Simonetta La Barbera L’opera d’arte e il suo contesto. Episodi fra ‘400 e ‘900 10 Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi: una tavola di Vrancke van der Stockt a Caltagirone 24 Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada: mecenate e uomo politico del Seicento 34 Claudia Caruso L’attività di Ettore Gabrici come direttore del R. Museo di Palermo 62 Valentina Raimondo Dal Realismo all’Astrattismo: le Sammarcote di Nino Franchina (1935-1949) 82 Giuseppe Cipolla La cultura figurativa siciliana negli interventi critici di Leonardo Sciascia (1964-1987) 106 Simone Ferrari Il giovane Dürer: riflessioni in margine ad una mostra Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 Il percorso di questo numero 7 di “teCla – Rivista” inizia con il saggio Il Trono della Grazia Interlandi: una tavola di Vrancke van der Stockt a Caltagirone di Giacomo Pace Gravina, dedicato a una tavola dipinta nella chiesa di S. Giorgio di Caltagirone attribuita a Vrancke van der Stockt, artista attivo a Bruxelles nel XV secolo. Si tratta di una delle numerose opere fiamminghe giunte in Sicilia attraverso le rotte commerciali nel XV secolo, di cui il Trittico di Polizzi Generosa, attribuito all’anonimo maestro denominato Maître au feuillage en broderie, è importante prova. Sulla scia del rinnovato interesse per le influenze della pittura fiamminga sulla produzione artistica siciliana, suggerito da Di Marzo nel noto scritto su Borremans del 1912, Giovanni Carandente, a sua volta anticipatore di successivi studi su questa suggestiva tematica, studia l’opera, usualmente riferita a Rogier van der Weiden, proponendone l’attribuzione a van der Stockt. La tavola in questione presenta la rara iconografia nordica con il Trono della Grazia, già presente nel XII secolo in una vetrata di Saint Denis, commissionata da Suger. Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 Il saggio, oltre a valutare il dipinto all’interno del corpus di van der Stockt con alcuni nuovi confronti, offre spunti di riflessione anche relativamente al problema della provenienza dell’opera, appartenuta agli Interlandi, una ricca famiglia di feudatari presente nelle piazze commerciali dei Paesi Bassi già al tempo di Carlo V, che nel XVIII secolo la donerà alla chiesa di S. Giorgio. Il contributo Luigi Guglielmo Moncada: mecenate e uomo politico del Seicento a firma di Giuseppe Giugno è dedicato a un’interessante personalità del XVII secolo e al suo importante ruolo di committente di opere d’arte, anche sulla base di inediti e importanti documenti ritrovati in archivi in Italia e in Spagna. Moncada, principe di Paternò e duca di Montalto, viceré di Sardegna e del regno di Valencia, fu in rapporto con personaggi di spicco del panorama culturale italiano. In particolare, il rapporto con gli ambienti romani è attestato da una statua bronzea di Gian Lorenzo Bernini, realizzata per Madrid su sua commissione. Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 Il rapporto con la curia romana (il padre di Luigi Guglielmo, Antonio, è amico di papa Urbano VIII) e le relazioni con la segreteria di stato vaticana condurranno nel 1667 il Moncada al cardinalato e alla guida, nel 1670, delle abbazie di Santa Maria di Novara in Sicilia e di San Michele Arcangelo di Troina. C on l’articolo L’attività di Ettore Gabrici come direttore del R. Museo di Palermo di Claudia Caruso, la rivista ha modo di tornare su temi di museologia del Novecento. L’autrice indaga, infatti, l’attività dell’archeologo napoletano Ettore Gabrici, direttore del R. Museo di Palermo negli anni immediatamente seguenti la lunga direzione di Antonino Salinas. La ricerca si avvale di un’attenta indagine effettuata di prima mano sul materiale documentario inedito dell’Archivio Centrale dello Stato, che getta inedita luce su alcuni momenti della storia del R. Museo di Palermo, sia in termini di catalogazione e sistemazione inventariale dei beni museali, sia sulla politica di acquisti di opere e alla loro tutela, perseguita da Gabrici in accordo con i funzionari romani con spunti di notevole modernità. Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 S i prosegue con Dal Realismo all’Astrattismo: le Sammarcote di Nino Franchina (1935-1949) di Valentina Raimondo, dove è messo a fuoco un aspetto finora scarsamente indagato dell’attività di Nino Franchina, la rappresentazione delle donne di San Marco d’Alunzio, cui lo scultore si dedicò con continuità agli inizi della sua attività, fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del secolo scorso. Questo percorso artistico, indagato attraverso disegni e sculture raffiguranti le sammarcote e con l’appoggio di nuove ricerche documentarie, scandisce le tappe di un percorso artistico che portarono lo scultore da una cultura figurativa di stretta adesione al reale, in seno al Gruppo dei Quattro con Renato Guttuso, Giovanni Barbera e Lia Pasqualino Noto, alla elaborazione di un nuovo linguaggio di matrice astratta. Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 N el saggio La cultura figurativa siciliana negli interventi critici di Leonardo Sciascia (1964-1987) Giuseppe Cipolla affronta un aspetto particolare della produzione letteraria dello scrittore di Racalmuto quale i numerosi scritti sull’arte antica e moderna. Gli interventi di Sciascia, fine conoscitore d’arte, – recensioni, articoli su stampa periodica, premesse o saggi – sono incentrati su argomenti siciliani (dal Trionfo della Morte a questioni caravaggesche e autori quali Filippo Paladini o Pietro d’Asaro), offrono interessanti riflessioni sulla lettura dell’opera d’arte, sulla letteratura artistica non solo siciliana, su esposizioni e mostre e su temi di critica d’arte del Novecento. I l percorso di questo numero termina con l’attenzione rivolta a una recente e importante mostra: lo scritto di Simone Ferrari Il giovane Dürer : riflessioni in margine ad una mostra recensisce l’ultima esposizione dedicata Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 7 - 30 giugno 2013 a Albrecht Dürer al Germanisches Narionalmuseum di Norimberga, a quarant’anni di distanza da quella organizzata nella città natale del l ’ar ti sta nel 1971, per il cinquecentesimo anniversario della nascita. L’articolo sofferma l’attenzione, in particolar modo, sulle scelte filologiche della mostra che ha il merito di ricostruire il contesto in cui è avvenuta la formazione di Dürer, la sua composita cultura umanistica e il rapporto, di influenze e scambi, con artisti quali Leonardo, Jacopo de’ Barbari o Hans Baldung Grien. A ncora una volta, desidero ringraziare gli amici e colleghi del comitato scientifico e i referees che, come sempre, hanno seguito con impegno e entusiasmo le varie fasi redazionali della rivista. Il Trono della Grazia Interlandi: una tavola di Vrancke van der Stockt a Caltagirone di Giacomo Pace Gravina Si tratta di un olio su tavola, il cui supporto è costituito da quattro assi. Il dipinto fino a poco tempo addietro era incastrato entro un tabernacolo marmoreo eretto su uno degli altari nel 1908 dagli amministratori della Fidecommissaria Interlandi, fondata dalla baronessa a fini di beneficenza3. Il mistero della tavola fiamminga U no dei dipinti più enigmatici ed affascinanti presenti in Sicilia è certamente una tavola fiamminga della chiesa di S. Giorgio di Caltagirone, indicata come Il mistero della Trinità e attribuita comunemente dalla storiografia locale a Roger van der Weyden1. Il dipinto è pervenuto alla chiesa parrocchiale grazie alla baronessa Agata Interlandi di Favarotta: un codicillo al suo testamento del 1777 disponeva che alla morte della nobildonna – poi avvenuta nel 1783 – il quadro venisse custodito nell’edificio sacro per essere esposto alla pietà dei fedeli2. Il quadro rappresenta in effetti una particolare raffigurazione della Trinità, quella meglio nota come Trono della Grazia (Gnadenstuhl, Trône de Grâce, Throne of Grace; cfr. Ebrei, 4, 16), ove siede Dio padre che sorregge il Cristo morto, con la colomba dello Spirito Santo tra i volti del Padre e del Figlio. Inoltre nel registro inferiore figurano lo Svenimento della Vergine addolorata sorretta da S. Giovanni evangelista – nel ruolo consueto di intercessori – e la Maddalena. Un registro intermedio è riferibile all’iconografia del giudizio universale: il globo su cui teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 10 numero 7 - giugno 2013 poggiano i piedi del Cristo, la nube rossa che separa il piano umano da quello divino, i due angeli che reggono uno il manto del Padre e l’altro un lembo del baldacchino che sovrasta il trono: Raffaele con il giglio che simboleggia la purezza degli eletti e la misericordia, alla destra della Trinità, Gabriele con la spada, che rappresenta la giustizia divina, alla sinistra del trono, in corrispondenza delle analoghe scene riferibili al Giudizio, dove i due angeli sono comunemente rappresentati il primo nell’atto di indicare la strada del paradiso, il secondo nel respingere i dannati all’inferno. Anche il fondale del dipinto segue i tre registri: quello superiore è oscuro, l’intermedio è rappresentato dalla nube rossa, l’inferiore presenta un fondo oro con in basso la superficie terrestre su cui poggiano i piedi della Madonna, di S. Giovanni e della Maddalena. Un’attribuzione confermata I l dipinto rappresenta la contaminazione di alcuni temi spesso presenti nella pittura fiamminga del Quattrocento. Si tratta, per quel che riguarda il Trono della Grazia, di una iconografia ricorrente, a partire da quel Maestro di Flemalle che Georges Hulin de Loo ha riconosciuto in Robert Campin, che possiamo ritenere uno dei precursori. Vrancke van der Stockt, Il Trono della Grazia, Caltagirone, Chiesa di S. Giorgio (attualmente Museo Diocesano - foto Lamberto Rubino, per gentile concessione della Parrocchia S. Giorgio). Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi... 11 numero 7 - giugno 2013 pittore Jan, nato probabilmente a Bruxelles prima del 1420, nel 1445 eredita la bottega del padre, divenendo maestro della gilda di San Luca di Bruxelles. Con molta probabilità fu amico e forse anche allievo di Rogier van der Weyden; alla morte di questi, avvenuta nel 1464, gli subentrò nella carica di pittore ufficiale della città di Bruxelles. Nel 1468 Stockt lavorò a Bruges – era tra i pittori meglio pagati – alle decorazioni per le nozze di Margherita di York e Carlo il Grosso4. Il pittore morì nel 14955. Già nel 1968 Giovanni Carandente, dopo un accurato studio della tavola e dei suoi temi iconografici, proponeva di ascrivere il dipinto di Caltagirone al Vrancke van der Stockt, Trittico della Redenzione pittore identificato (tavola centrale), Madrid, Museo del Prado. Proprio Campin infatti ha dipinto più volte lo stesso soggetto: in una tavola oggi al Museo di Leningrado, che ha notevoli consonanze con il dipinto siciliano, e in un’altra versione in grisaille. Dopo Campin numerosi altri maestri si sono cimentati sullo stesso tema. Riguardo all’autore del dipinto di Caltagirone la storiografia più accorta ha avanzato da tempo l’ipotesi che si Vrancke van der Stockt, Giudizio universale, tratti dello stesso che Valencia, Ayuntamiento. ha dipinto il Giudizio universale dell’Ayuntamento di Valencia e il Trittico della Redenzione del Museo del Prado, artista che sempre Hulin de Loo ha identificato con il pittore fiammingo Vrancke van der Stockt. Questi, figlio del teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 12 numero 7 - giugno 2013 da Hulin de Loo, appunto il presunto van der Stockt6. Sulle orme di Carandente si sono mossi i successivi studiosi che hanno confermato l’attribuzione al “Maestro della Redenzione del Prado”: così Anna Barricelli7 e Licia Ragghianti Collobi8. D’altro canto il dipinto siciliano è naturalmente divenuto oggetto di studio e di comparazione per la ricostruzione dell’opera pittorica del maestro fiammingo: così viene citato ad es. da Micheline ComblenSonckes9 e da Elisa Bermejo Martinez10. L’attribuzione a Vrancke van der Stockt mi convince appieno, e ritengo si possa rafforzare grazie alle ulteriori acquisizioni riguardanti il pittore fiammingo. Infatti tra i dipinti certamente riconosciuti come opera di Vrancke ve n’è uno conservato al Museum Mayer van den Bergh di Anversa: un olio su tavola raffigurante Vrancke van der Stockt, Lamentation, Anversa, Museum Mayer van den Bergh. Giacomo Pace Gravina il Compianto sul Cristo morto (Lamentation), proveniente dalla collezione Bligny di Parigi, su cui si era già soffermata l’attenzione di Carandente11. La narrazione si svolge su due piani: nel primo San Giovanni Evangelista e la Madonna sorreggono il corpo esanime del Cristo appena deposto dalla Croce, di cui si intravede sul fondo il palo verticale. In secondo piano le tre Marie: la prima da sinistra, Maria di Cleofa, piangente, che regge un’ampolla con olii profumati, la seconda, Maria Salome, raffigurata in atto di lamentarsi a braccia aperte, infine la Maddalena contrita a mani giunte. Proprio la Maria Salome ha un viso senza dubbio della stessa mano che ha dipinto il volto della Vergine della tavola Interlandi. Altre forti analogie si riscontrano nella Deposizione dalla Croce custodita alle Bayerische Staatsgemäldesammlungen Il Trono della Grazia Interlandi... 13 numero 7 - giugno 2013 di München12: anche qui il San Giovanni e soprattutto dall’espressione virile dei S. Giovanni di van der Weyden. Gli elementi di consonanza tra la Madonna di S. Giorgio e i personaggi femminili della tavola di Anversa sono ancora maggiori: il suo viso è molto somigliante a quello di Maria Salome; il panneggio del manto è assai vicino a Vrancke van der Stockt, Deposizione, München, Ba- quello di Maria di Cleofa, il colore bleu yerische Staatsgemäldedella veste di questa è lo stesso della sammlungen, part., il volto della Maddalena. Madonna di Caltagirone. Anche il fondo del quadro olandese è dorato, con in primo piano la nuda terra, qui con la corona di spine e il teschio di Adamo, ove crescono piccole piante ed erbe del tutto simili a quelle che si vedono ai piedi della Madonna e della Maddalena nel quadro siciliano. Se poi, sulla intuizione di Hulin de Loo, riconosciamo nel Giudizio dell’Ayuntamiento di Valencia13 un’altra opera di van der Stockt, le analogie diventano ancora più impressionanti: come la fibbia trilobata che chiude il mantello dell’arcangelo Michele di Valencia, uguale a quella sul petto del Dio padre di Caltagirone14; o il globo su cui poggiano i piedi del Cristo, in ambedue i dipinti di un colore bleu trasparente, con due pennellate bianche che donano luce alla presenta forti somiglianze con quello di Vrancke van der Stockt, Lamentation, Anversa, part., il volto di Maria Salome. Vrancke van der Stockt, Il Trono della Grazia, Caltagirone, part., il volto della Vergine. Caltagirone; la Madonna ha una posa simile – specie le mani –, ed è stavolta il viso della Maddalena a riprodurre le esatte fattezze della Vergine calatina: con ogni probabilità la modella utilizzata dal maestro fiammingo è stata la medesima per la Maria di Caltagirone, la Maddalena della Deposizione di München e la Maria Salome del Compianto di Anversa: una giovane donna con una distanza interpupillare particolarmente accentuata. Tale ultimo dipinto presenta notevolissime analogie con il Trono della Grazia di San Giorgio, già parzialmente rilevate da Giovanni Carandente. Anzitutto la figura di S. Giovanni, e particolarmente il suo viso, che esprime pienamente il dolore, con occhi gonfi e atteggiamento lamentoso, lontano dalle corrispondenti figure dipinte dagli altri maestri fiamminghi, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 14 numero 7 - giugno 2013 Vrancke van der Stockt, Il Tr ono della Graz ia, Caltagirone, part., il volto di S. Giovanni. Vrancke van der Stockt, Lamentation, Anversa, part., il volto di S. Giovanni. sfera, circondata da una fascia dorata. Su uno dei portelli del Giudizio Universale di Valencia, oggi in una collezione privata di Madrid, è inoltre raffigurato un angelo con una spada identica a quella della tavola calatina. Altro dipinto utile a tal fine è la Presentazione della Vergine al Tempio custodito all’Escorial, e che si può ammirare accanto alla porta della camera da letto di re Filippo II – che evidentemente non disdegnava affatto le opere di Vrancke van der Stockt –. Proprio questa tavola rappresenta un importante ‘ponte’ per l’attribuzione, perché, come ricorda la Bermejo Martinez, è stata collegata da Friedländer «con el llamado Retablo de Cambrai del Prado» e da «Carandente con el Trono de la Gracia, que atribuye a Van der Stockt en Caltagirone (Sicilia)»15. Vr ancke van der Sto ckt, I l Tr ono d ella Graz ia, Caltag i r o n e, p a r t., il g lo b o a i piedi del Cr isto. Vrancke van der Stockt, Giudiz io universale, Valencia, part., il globo ai piedi del Cristo. Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi... 15 Ulteriori elementi per l’attribuzione del Trono della Grazia calatino a van der Stockt provengono dalla Trinità custodita al Museo Arqueológico Nacional di Madrid, attribuita dalla studiosa iberica al pittore fiammingo16. Si tratta in effetti di un Trono della Grazia, giustamente messo in relazione con le opere di Campin. Probabilmente costituiva uno sportello di un dittico: secondo la Bermejo Martinez l’altra tavola sarebbe quella raffigurante – non a caso – la «Virgen desfallecida en brazos de San Juan» del Museo di Oldenburg. numero 7 - giugno 2013 Vrancke van der Stockt, Il Trono della Grazia, Caltagirone, part., la spada. al Mistero dell’Eucarestia, nel quale Luigi Belvedere ha riconosciuto la medesima costruzione ‘pittorica’ del Trono della Grazia Interlandi18. Riguardo alla datazione della tavola sarei propenso a considerarla frutto della maturità del pittore, ricca di opere di impianto più denso di simboli e meno descrittivo. Un elemento utile in tal senso è Vrancke van der Stockt, secondo me la corona che cinge Giudizio universale, Madrid, il capo del Dio padre in trono: collezione privata, part., la spada. non una tiara, come da qualcuno sostenuto, ma una raffigurazione particolareggiata della corona imperiale, quella ritenuta nel medioevo la corona di Carlo Magno. In effetti alcuni Troni della Grazia, tra cui quello di Caltagirone, databili tra fine Quattrocento e prima metà del Cinquecento, raffigurano Dio padre con tale corona: ancora nelle opere attribuite a Robert Campin la corona è coperta, mentre gli autori successivi la raffigurano realisticamente, aperta con archetti che sorreggono la croce sovrastante. Come conobbe van der Stockt le reali fattezze della corona imperiale? In effetti i ritratti di Federico III e di suo La colomba dello Spirito santo della tavola di Caltagirone ha notevolissime assonanze con quella madrilena: le ali spiegate in volo sono assolutamente corrispondenti. La storica dell’arte attribuisce l’opera a van der Stockt anche grazie ad un dettaglio tipico delle opere del pittore di Bruxelles: «la singular forma che tiene el artista de tratar el espacio que queda entra la nariz y el labio superior, que forma una especie de ligero abultamiento en el centro como puede apreciarse, muy claramente, en el rostro del Cristo»17. Il volto del Cristo di Caltagirone presenta la stessa particolarità, proprio quel «leggero avvallamento» tra narice e labbro superiore rilevato con tanta finezza dalla Bermejo. Importanti elementi comparativi provengono inoltre dal confronto con un’altra opera di van der Stockt: il cartone preparatorio di un piviale tessuto a Tournai nella seconda metà del Quattrocento e raffigurante il Trono della Grazia su una nube in tutto simile a quella di Caltagirone insieme teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 16 numero 7 - giugno 2013 figlio Massimiliano I d’Asburgo raffigurano i sovrani con la cosiddetta corona di Carlo Magno; e tale particolare si ricollega a un particolare momento storico, che vede le Fiandre sfuggire all’area di influenza del re di Francia per entrare nell’orbita dell’impero: questi mutamenti politici si rafforzano grazie alle nozze tra Massimiliano I e Maria di Borgogna, avvenute nel 1477. Secondo la Cronaca di Jean Molinet quando Federico e Massimiliano, insieme al giovane Filippo il Bello, entrarono a Bruxelles nel 1486, gli abitanti della città affermarono commossi: «Veéz-ci figure de la Trinité, le Pére, le Fils et Sancte esprit»19. Un’immagine troppo potente per non colpire gli astanti, una Trinità imperiale! Il quadro potrebbe quindi essere stato dipinto tra il 1486 e il 1495. Significativamente la Trinità di Madrid invece raffigura ancora Dio padre con una corona coperta, nello stile di Campin, dettaglio spiegabile considerando Vrancke van der Stockt, Trinità, Madrid, Museo Arqueológico Nacional. Giacomo Pace Gravina questo dipinto anteriore a tale data. Credo quindi che l’attribuzione della tavola calatina al pennello di van der Stockt operata da Carandente sia da confermare appieno, senza più attardarsi a considerare il dipinto opera di van der Weyden – come ho già avuto modo di affermare in una conferenza del 5 novembre 2011 –20. Peraltro la storiografia ha riconosciuto nel corpus di van der Stockt l’uso di stili e motivi tipici di Roger van der Weyden, di cui Stockt fu seguace e il principale diffusore dell’opera: tanto che la sorte del Trono della Grazia di Caltagirone, cioè l’essere stato attribuito a lungo a Roger, è stata comune ad altre tavole di Vrancke, come ad esempio il Retablo di Cambrai, anch’esso assegnato al maestro e non all’allievo, o, più di recente, il Retablo di Ambierle21. Il Trono della Grazia Interlandi... 17 numero 7 - giugno 2013 Peraltro le opere di van van der Weyden per la narrativi e per un pathos dei dipinti di Weyden der Stockt si distinguono da quelle di predilezione del primo per i dettagli meno accentuato: la drammatizzazione diventa di maniera nel successore22. Dalle Fiandre alla Sicilia D obbiamo adesso rivolgere la nostra attenzione al problema storico dell’arrivo della tavola fiamminga a Caltagirone. Da più di un secolo ci si interroga su questo tema, senza venirne a capo; si è avanzata l’ipotesi più comune, cioè che il quadro costituisse una sorta di controprestazione per uno dei frequenti invii di grano siciliano in Fiandra; fino a scomodare donna Giovanna d’Austria, figlia dell’eroe di Lepanto don Juan, che avrebbe ipoteticamente ricevuto il dipinto dalla zia Margherita, figlia di Carlo V e governatrice dei Paesi Bassi: Giovanna, di passaggio a Caltagirone nel 1604, avrebbe in qualche modo lasciato il quadro nella città erea23. Ma lasciamo da parte le mere ipotesi e cerchiamo di seguire i sentieri della storia. Partiamo dall’unico dato certo finora a nostra disposizione: il quadro venne legato alla chiesa di S. Giorgio di Caltagirone grazie alle disposizioni testamentarie della baronessa di Favarotta, Agata Interlandi Lorefice, in un codicillo rogato dal notaro Avila nel 1777; il dipinto venne effettivamente trasportato nell’edificio sacro probabilmente alla morte della Piviale tessuto su disegno di Vrancke van der Stockt. Bern, Historisches Museum, Inv. n. 308 teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 18 numero 7 - giugno 2013 nobildonna, avvenuta nel 1783. Da allora il Trono della Grazia più remoti di donna Agata, fino a Pietro Interlandi, morto nel è rimasto sempre a San Giorgio fino a tempi recentissimi24. 1554 e sepolto entro un elegante monumento marmoreo nella Il contesto temporale entro cui muoverci, quindi, spazia dalla metà chiesa del Carmine di Licodia. Pietro era figlio di Antonia Ottolini, del Quattrocento, epoca in cui era attivo il appartenente ad una antica e illustre casata maestro fiammingo, e il 1777, data in cui il di mercanti originaria di Lucca25. Quella dipinto è certamente in possesso di Agata. degli Ottolini rappresenta un’altra via Le vie della storia sono spesso più semplici tramite cui il quadro può essere giunto in di quanto comunemente non si creda: il Sicilia: i nobili-mercanti di Lucca erano da quadro è probabilmente appartenuto alla tempo presenti nelle piazze commerciali famiglia Interlandi da generazioni. Agata dei Paesi Bassi, ed avevano gusti certo deve avere ereditato il dipinto dal padre raffinati: basti pensare al mirabile ritratto Pietro Angelo Interlandi e Santapau, figlio dei coniugi Arnolfini, di Jan van Eyck. di Camilla Felice Santapau, appartenente Ma probabilmente la storia segue strade alla potente famiglia dei feudatari di ancora più lineari. Gli stessi antichi Licodia: casata che aveva frequentato alberi genealogici dell’archivio Interlandi per diversi motivi i Paesi Bassi all’epoca di Favarotta26 narrano che la famiglia, di Carlo V. Questa costituisce la prima giungendo in Sicilia dal regno di Napoli, possibilità da prendere in considerazione: mutò cognome: quello originario era un esponente di casa Santapau potrebbe Terlandi. Un cognome davvero singolare, aver acquistato la tavola Interlandi che evoca sonorità del Nord Europa, der Vrancke van der Stockt, Il Trono della Grazia, Caltagirone, part., la corona detta di Carlo Magno. proprio in Fiandra durante il sec. XVI. land, la terra… Esiste un’altra tradizione, Un’altra pista risale ancora, agli antenati secondo cui il nome originale degli Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi... 19 numero 7 - giugno 2013 aristocratica muta rapidamente. Il secolo di ferro è caratterizzato da un fenomeno di rifeudalizzazione e di verticizzazione degli ordinamenti in chiave nobiliare. Anche la Sicilia non sfugge a questo trend europeo: gli aristocratici aspirano al monopolio delle cariche pubbliche, chiudono l’accesso agli ordini cavallereschi, ai gradi militari. Requisito necessario per far parte della nobiltà diviene ben presto non avere antenati che abbiano esercitato arti vili e meccaniche, come artigiani, mercanti, cambiavalute, persino notai28. È così che tra il sec. XVI e il XVII i baroni Interlandi devono ‘travestire’ gli antichi mercanti fiamminghi Clingeland/Klinkerland cercando di far dimenticare la loro estrazione e il ‘peccato originale’, la mercatura. Tentiamo allora di risalire ancora verso la vera patria degli Interlandi. Il cognome Klinkerland-Clingeland è un nome composto, il suffisso –land indica la terra, la provenienza. Quindi una famiglia originaria di un Stemma della città di Klinge. luogo che si chiamava Stemma Interlandi di Favarotta (dal Martirio di S. Giovanni Battista, per gentile concessione dei Musei Civici ‘Luigi Sturzo’ di Caltagirone). Interlandi era ancora diverso: Clingeland o Kinkerland, e che ricorda la loro presenza in un centro sempre vicino a Caltagirone, Vizzini27. Le nebbie del passato iniziano a diradarsi: gli stessi Interlandi dovevano essere originari delle Fiandre. Probabilmente ricchi mercanti, cattolici quando iniziava il fermento della protesta religiosa, attivi e presenti – insieme agli Ottolini – a Vizzini, Licodia, Militello, dopo – forse – un soggiorno nel regno di Napoli. Una famiglia mercantile poteva certo considerarsi parte di una élite nel Quattrocento, ma alla metà del Cinquecento la prospettiva teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 20 numero 7 - giugno 2013 Clinge o Klinge. Una cittadina di tale nome esiste davvero, nei pressi della città fortificata di Hulst, e dal 1815 è attraversata dal confine tra Belgio e Olanda – quindi divisa in due comunità, Clinge/de Klinge –, in posizione mediana tra Bruxelles, Anversa, Bruges. Proprio nel nome della cittadina si nasconde la soluzione del nostro mistero. Infatti il significato della parola Clinge/Klinge in olandese è proprio ‘spada’: lo stemma degli Interlandi/Clingeland di Caltagirone è quindi in effetti un’arma parlante, cioè un’insegna che rappresenta anche visivamente il nome e le virtù del casato: «palato d’oro e di rosso, alla spada d’argento manicata d’oro posta in banda». La spada ricordava il centro da cui aveva avuto origine il nome, Clinge, cittadina che ancora oggi inalbera come stemma proprio una spada posta di traverso in campo rosso, assolutamente uguale a quella degli Interlandi, tranne per il particolare dei tre pali che attraversano perpendicolarmente lo scudo calatino, ad indicare una distinzione, un ramo diverso del casato originario, pali forse aggiunti dal ramo siciliano, che nell’Isola dovette abbandonare l’originario cognome – van Clingelandt, cioè colui che viene dalla terra di Clinge – per la forma siciliana/italiana Interlandi, più comprensibile nelle cittadine ove il casato aveva costruito la sua nuova fortuna. Quando i Clingeland giunsero in Sicilia dovettero recare insieme agli oggetti più cari anche il Trono della grazia dipinto da van der Stockt, e lo custodirono nelle loro dimore fino al 1783, allorché, alla morte dell’ultima erede del casato, la tavola venne trasportata nella chiesa di S. Giorgio. La Trinità calatina è infatti una tipica opera devozionale dipinta per il culto privato. Una storia antica, che illumina meglio i contorni di un quadro oggi ancor più prezioso: possiamo infatti finalmente collocarlo in un tempo e in un ambiente fondamentali per la storia dell’arte, come la Bruxelles del secolo XV, e attribuirlo con ragionevole certezza al pennello di un famoso pittore, Vrancke van der Stockt. Il Trono della Grazia di S. Giorgio incarna bene lo spirito dell’Autunno del Medioevo del grande Huizinga29: non «annuncio del rinascimento, bensì… tramonto del medioevo, la civiltà medievale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato. Nello scrivere questo libro lo sguardo si è ritrovato immerso nella profondità di un cielo serale, di un cielo rosso di sangue, pesante, un cielo di piombo, pieno di un ingannevole chiarore di rame»: proprio l’atmosfera che pervade la tavola calatina. Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi... 21 numero 7 - giugno 2013 6 G. Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile. Les Primitifs Flamands, II, Répertoire des peintures flamandes du Quinzième siècle, 3, Centre national de recherches «Primitifs flamands», Bruxelles 1968, pp. 7 sgg. Carandente ritornò sull’attribuzione più tardi, confermandola. Cfr. G. Carandente, G. Voza, Arte in Sicilia, Electa, Milano 1974, p. 234. 7 A. BarriCelli, La pittura in Sicilia dalla fine del Quattrocento alla controriforma, in Storia della Sicilia, vol. X, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Palermo 1981, p. 36. l. raGGhianti ColloBi, Dipinti fiamminghi in Italia 1420-1570: catalogo, 8 Calderini, Bologna 1990, p. 19. 9 M. ComBlen-SonkeS, The Collegiate Church of Saint Peter, Louvain, Brepols, Brussels 1996. 10 E. Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 137 ss. 11 Cfr. il database dell’opera di van der Stockt disponibile presso l’Institut royal du Patrimoine artistique del Belgio, con sede a Bruxelles, al n. 90537 (www.kikirpa.be). 12 Ivi, n. 40004438. 13 Ivi, n. 40001709. Sull’opera cfr. E. Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, 141-142. 14 Ringrazio Luigi Belvedere, che ha stimolato le autorità competenti con forte impegno per un corretto restauro del Trono della Grazia Interlandi, per avermi comunicato questo dato e per le stimolanti discussioni sull’opera di van der Stockt. 15 G. Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile…, p. 7 n. 1; E. Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, p. 143. 16 Tavola di cm 56 x 39, inv. n. 51.916, su cui E. Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 146-147. 17 Ivi, p. 147. 18 Cfr. supra, nota 14. Il piviale è custodito a Bern, Historisches Museum, Inv. n. 308; v. anche G. Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile…, p. 8. 19 Chroniques, III, p. 99, cit. da J. huizinGa, Herfsttij der Middeleeuwen…, p. 184. 20 Tenuta nel Palazzo municipale di Caltagirone; cfr. m. meSSineo, La tavola attribuita a van der Stockt, in “La Sicilia”, 9 novembre 2011, p. 41; a. naVanzino, Quella misteriosa tavola a San Giorgio. Il Trono della Grazia, in “L’Obiettivo”, 23 novembre 2011, p. 12. ________________________________ 1 Cfr. S. leonardi, Cenni su la Caltagirone sacra, F. Napoli, Caltagirone 1892, p. 32; V. diCara, La Tavola della Trinità attribuita a Rogier van der Weyden, in Per omnia saecula saeculorum. Tertio millennio adveniente. Capolavori siciliani di arte sacra, a cura di V. Valenti, Diocesi di Caltagirone, Caltagirone 2001, pp. 127 sgg.; G. FederiCo, Il mistero dell’amore del Padre – Lettura iconografica della tavola della Trinità, ivi, pp. 131 sgg. Voglio qui ricordare il compianto parroco di S. Giorgio, Padre Vacirca, per avermi consentito uno studio accurato del dipinto e averne autorizzato la riproduzione. 2 Archivio di Stato di Catania, sez. di Caltagirone, not. Ignazio Avila, vol. 67/4428, fol. 60r sgg.: «Di più lego alla venerabile parochiale basilica chiesa di San Giorgio il quadro della Santissima Trinità per esporsi alla pubblica venerazione, con farsi prima dagli illustrissimi fidecommissarii pulire da persona prattica la pittura, e cornice, e nobilitarlo con un cristallo innanzi. Voglio, ordino et comando, che in ogn’anno li sudetti miei fidecommissarii, e loro successori in tal carica, facciano celebrare la festa della SS.ma Trinità nella venerabile chiesa…». 3 Sul tabernacolo, oltre allo stemma Interlandi (ma si tratta di un’insegna appartenente al ramo dei principi di Bellaprima, e diversa da quella utilizzata dai Favarotta) è incisa un’iscrizione commemorativa. Ringrazio il fidecommissario Massimo Porta per avere agevolato la consultazione dell’archivio dell’istituzione. 4 Sulle nozze cfr. j. huizinGa, Herfsttij der Middeleeuwen. Studie over levens – en gedachten vormen der veertendie en vijftiende eeuw in Frankrijk en de Nederlanden, Leiden 1919, trad. it. L’autunno del medioevo. Studio sulle forme di vita e di pensiero del quattordicesimo e quindicesimo secolo in Francia e nel Paesi Bassi: ho consultato l’ed. Newton, Roma 2011, con intr. di L. Gatto, trad. di F. Paris, p. 273. 5 Sull’artista cfr. E. Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos in España, Consejo superior de investigaciones cientificas, Instituto «Diego Velasquez», Madrid 1980, p. 139; j. turner, The Dictionary of Art, vol. XXIX, ad vocem a cura di C. Périer-D’Ieteren, McMillan, London and New York, 1996, pp. 691-693. La bibliografia su van der Stockt è ormai cospicua: gli ultimi contributi in d. deneFFe, B. FranSen, V. henderikS, h. mund, Early netherlandish painting. A bibliography (1999-2009), Contributions to the Study of the Flemish Primitives, 11, Centre for the Study of the Flemish Primitives, Brussel 2011, pp. 186 sgg., e letteratura ivi citata. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 22 numero 7 - giugno 2013 21 Sul quale m.r. de Vrij, Vrancke van der Stockt en het retabel van Ambierle, in “Koninklijk Museum voor Schone Kunsten”, 1998, p. 209-231. 22 Bermejo martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 139. 23 Tale ipotesi è stata avanzata da V. diCara, La tavola della Trinità attribuita a Rogier van der Weyden…, p. 127. 24 Il dipinto è attualmente esposto nel Museo diocesano di Caltagirone, all’interno del convento di S. Francesco d’Assisi. 25 F. muGnoS, Teatro genologico delle famiglie nobili titolate feudatarie ed antiche nobili del fidelissimo Regno di Sicilia, viventi ed estinte, D’Anselmo, Palermo 1655, III, pp. 67 sgg. 26 Cfr. Caltagirone, Archivio della Fideicommissaria Interlandi, vol. Assetto generale…, 1742. 27 Cfr. ad es. Archivio di Stato di Catania, sez. di Caltagirone, notarile di Vizzini, not. Giacomo Fischetti, reg. 121, fol. 219v, 24 luglio 1566, ind. IX. Don Giovanni Tiralosi, colto ecclesiastico di Vizzini, al tempo in cui resse la parrocchia Matrice di quella città – durante gli anni settanta del Novecento, e quindi in periodo non sospetto riguardo alla attribuzione della tavola fiamminga – reperì nell’archivio parrocchiale un documento attestante che il vero capostipite del casato era una dama, donna Diana Clingeland o Klinkerland, i cui discendenti avrebbero adottato il cognome materno, trattandosi di famiglia illustre e cospicua, e ‘italianizzato’ il nome in Interlandi. Tale documento purtroppo, nonostante le mie accurate ricerche, si è rivelato introvabile. 28 Sulle aristocrazie di questa parte di Sicilia cfr. G. PaCe, Il governo dei gentiluomini. Ceti dirigenti e magistrature a Caltagirone tra medioevo ed età moderna, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1996, e letteratura ivi citata. 29 J. huizinGa, Herfsttij der Middeleeuwen…, p. 23. Giacomo Pace Gravina Il Trono della Grazia Interlandi... 23 Luigi Guglielmo Moncada: mecenate e uomo politico del Seicento di Giuseppe Giugno del Consejo de Estado de España e gentiluomo del re Filippo IV. È proprio del 1659 una nota di pagamento di onze 4 a favore di Gaspare Guercio, nella quale si fa richiamo alla «fattura di certi dissegni e piante di fabrice che si fecero in questa città mentre governò felicemente questo regno l’ecc.za del principe duca padrone»2. D opo la congiura del conte di Mazzarino Giuseppe Branciforti, scoppiata in Sicilia nel 1645 con lo scopo di separare l’isola dalla Spagna così da creare un regno indipendente, il duca di Montalto Luigi Guglielmo Moncada, che era stato coinvolto nella vicenda per assumere il ruolo di re della futura nazione siciliana, si ritira a Caltanissetta, per poi trasferirsi a Valencia dal 1652 al 1659 nelle funzioni di viceré1. A partire dal 1659, i suoi contatti e le sue relazioni politiche con la casa reale di Madrid diverranno sempre più intensi e frequenti, permettendogli di ricoprire importanti incarichi ed ottenere illustri onorificenze. Il Moncada fu, infatti, per ben tre volte grande di Spagna, membro Si tratta di disegni di architettura, spediti a Madrid su ordine del marchese della Ginestra, procuratore del Moncada, che riproducevano le opere pubbliche realizzate a Palermo dal 1635 al 1638, cioè negli anni della presidenza del regno di Luigi Guglielmo. È probabile che i disegni di Guercio riguardassero porta Felice e la decorazione delle sale Montalto a palazzo dei Normanni, opere di Pietro Novelli, assieme agli interventi di ammodernamento di mura e bastioni della città. Pietro Novelli, in particolare, va ricordato per aver eseguito il ritratto di Luigi Guglielmo nelle vesti di presidente teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 24 numero 7 - giugno 2013 un foglietto in mano appoggiato ad un tavolo su cui comparivano due sue pubblicazioni sulla Sicilia3. Il pagamento al Guercio è prova delle finalità autopologetiche e celebrative che i Moncada intendevano perseguire attraverso pittura e architettura. Finalità che trovano la loro più alta espressione nell’Opera Historico-Encomiastica commissionata da Luigi Guglielmo a Giovanni Agostino della Lengueglia: Ritratti della Prosapia et Heroi Moncadi nella Sicilia, pubblicata a Valenza nel 1657. I disegni di Guercio potrebbero essere gli stessi contenuti in un quaderno chiamato «Dibujos e inscripciones de las puertas monumentales levantadas en la feliz ciudad de Palermo»4 tra il 1584 al 1668, o più precisamente, è probabile che parte degli elaborati di Guercio abbia contribuito a comporre il quaderno di disegni, attraverso il quale vengono documentate le opere e i miglioramenti del sistema difensivo palermitano, negli anni che vanno dal viceregno di Diego Henriquez de Guzman, conte di Albadelista, al viceregno di Francesco Fernandez de la Cueva, duca di Alburquerque. Il quaderno contiene numerosi dibujos di iscrizioni relative alle porte e mura di Palermo. Particolarmente utili sono quelle che rimandano ad interventi realizzati durante il governo del Moncada, come il baluardo di Montalto, le mura vicino porta Maqueda, porta Felice e il tratto murario prossimo a porta dei Greci5. Dopo gli incarichi di governo nei viceregni siciliano e sardo, la carriera politica di Luigi Pietro Novelli, Ritratto del Vicerè Luigi Guglielmo prosegue in Spagna nel ruolo di viceré di Valencia. Sul suo periodo valenciano, si Guglielmo Moncada, 1635-1637, Palermo, fa menzione, in particolare, di documenti e ordinanze da lui emanate come la prammatica di re collezione privata (foto Enzo Brai). Filippo IV en materia de los Coches y Cocheros, diffusa ed esecutoriata nell’intero viceregno nel 16546. del regno, con la mise della più alta carica Si tratta di una sorta di codice della strada, che vietava l’uso di cocchi con sei cavalli per la città e civile recante l’onorificenza del «Toson le sue periferie ad eccezione del Grao, un quartiere di Valencia prossimo al porto commerciale. d’Oro», ma allo stesso tempo di poeta con Un provvedimento certamente dettato dalla necessità di mantenere ordine e decoro nelle Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada... 25 numero 7 - giugno 2013 strade, come accadeva in quel tempo anche a Palermo e nelle altre città del regno. Tuttavia di maggiore interesse per le sue implicazioni urbanistiche e per le sue relazioni culturali con la Sicilia è la Relacion de las festivas demostraciones, che illustra i festeggiamenti nella capitale valenciana per la nascita dell’erede di Filippo IV il Grande 7. Il testo, datato 1658 e stampato a Valencia dal tipografo Bernardo Noguès, descrive le celebrazioni tenute in quell’occasione nelle piazze e strade della città con numerosi spettacoli di fuoco, i «teatri di fuoco», ampiamente documentati nel Seicento anche in Sicilia nelle celebrazioni civili e religiose come i festini. La tradizione dei «teatri di fuoco» rappresenta indubbiamente uno dei Epigrafe del baluardo detto di Montalto, in Dibujos e inscripciones de las puertas monumentales levantadas en la feliz ciudad de Palermo - AHN, Estado, Bellas artes, vol. 5033-187, f. 7. Epigrafe di porta Felice, in Dibujos e inscripciones de las puertas monumentales levantadas en la feliz ciudad de Palermo - AHN, Estado, Bellas artes, vol. 5033-187, f. 15. teCLa - Rivista Epigrafe sulle mura vicino porta Macheda, in Dibujos e inscripciones de las puertas monumentales levantadas en la feliz ciudad de Palermo - AHN, Estado, Bellas artes, vol. 5033-187, f. 10. numerosi anelli di congiunzione che lega la cultura siciliana a quella spagnola, come ben testimonia nel 1641 a Caltanissetta l’artificio di focu che Brandano Russo ed Egidio la Porta realizzano su commissione del rettore della compagnia di Gesù, Vincenzo Romano, per la visita in città di Luigi Guglielmo Moncada. Il prezioso documento d’archivio sul manufatto descrive l’impianto iconografico dell’opera, temi di Critica e Letteratura artistica 26 numero 7 - giugno 2013 secondo un chiaro modello che rimanda alla xilografia dell’elefante in ossidiana con obelisco, pubblicata nel 1499 nella Hypnerotomachia Poliphili del monaco veneziano Francesco Colonna. Si faceva ricorso ai «teatri di fuoco» per celebrare avvenimenti di particolare interesse pubblico, come accade a Caltanissetta a metà Seicento con la nascita dell’erede al trono di Spagna, secondo quanto attesta un provvedimento dei giurati del tempo: dove compaiono un gigante ed un elefante con sopra una fortezza: un artificio 3000 di terra proportionato longizza ditto di focu consistenti in 5000 fulgari cioè e 2000 d’aria con uno Giganti di palmi 20 alla statura et uno leofanti supra un carro di leofanti palmi 12 cum una fortezza di sopra8. L’artificio di focu nisseno, espressione dell’architettura effimera barocca siciliana, manifesta molteplici relazioni ed affinità stilistiche con quanto già accadeva nel resto dell’isola, anticipando peraltro nell’impostazione iconografica l’artificio palermitano, realizzato nel 1650 da Mariano Quaranta per celebrare il trionfo di Giovanni d’Austria. Anche in questo caso, l’apparato sceEpigrafe sulle mura di porta dei Greci, nografico propone in Dibujos e inscripciones de las puertas monumentales levantadas en la feliz ciudad de Palermo - AHN, l’immagine del Estado, Bellas artes, vol. 5033-187, f. 19. «grande elefante con la torre sul torso», La “Relacion” pubblicata a Valencia nel 1658 in occasione della nascita dell’erede al trono di Filippo IV. si provede e comanda a tutte e singole perone di questa predetta citta che per li giorni 14, 15, 16 del corrente ogn’uno volesse fare festini, giubili … e la sera accendere nelle strade quantità di lume e domenica mattina esere assistere nella Venerabile Chiesa Madre per la solennità dovrà farsi e tutto ciò per il felice parto della nostra sovrana avendo dato alla luce un fortunato figlio maschio per sollievo e consolazione universale9. Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada... 27 numero 7 - giugno 2013 I festeggiamenti valenciani per la nascita dell’erede di Filippo IV, preceduti da tre giorni di preghiera dedicati a Dios Sacramentado, alla protectora Maria Reyna del Cielo e Madre de Desamparados e al patrono San Vincenzo Ferreri, iniziano nella piazza del real convento di San Francesco, nella quale viene preparato un sobervio castillo de forma quadrangular, su cui comparivano las armas reales de Aragon. L’intera composizione era concepita per incendiarsi se comunicò el ardor a la fabrica toda - in ossequio alla nascita del principe erede. Allo spettacolo di fuoco fece seguito il corteo processionale per le vie della città con la presenza del Moncada che indossava il Toson d’Oro e un sombrero diamantato a bordo di un sontuoso cocchio. F. Colonna, Hypnerotomachia Il corteo processionale si Poliphili, elefante porta-obelisco, snodò alla volta della piazza 1499, Venezia. dei Predicatori lungo la via del Mar, per raggiungere subito dopo la piazza di Santa Caterina e fare nuovamente ritorno a San Francesco. I festeggiamenti continuarono nella notte Planimetria del Real, Vicente Gascó, 1761 - ARV, con una commedia Mapas y planos, 14, pubblicato in L. Arciniega Garcìa, Construcciones, usos y visiones del palacio del real data nel Real. de valencia bajo los austrias, in “Ars Longa”, n. 14-15, Si tratta del palazzo 2005-2006, p. 133. di origine medievale che ospitava i viceré valenciani, al cui interno era stato avviato per volontà del Moncada un programma di ammodernamento, che interessava in particolare il cuarto de los leones, cioè l’appartamento del viceré, detto appunto dei Leoni. Nelle trasformazioni vennero coinvolti Jerónimo Vilanova e Jerónimo Crespo, i cui interventi riguardarono la sostituzione e ridisegno delle vecchie scale a caracol de mallorca con moderne scale quadrate castigliane e la creazione di nuovi spazi per i membri della corte10. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 28 numero 7 - giugno 2013 In quella cicorstanza venne chiamato a palazzo anche Giuseppe Facciponti, probabilmente nella decorazione degli interni. Si tratta di un importante pittore, per il quale già nel 1650 si registra a Caltanissetta su mandato del Moncada un pagamento di onze 70, per un’opera purtroppo imprecisata11. Durante i giorni dei festeggiamenti, le mura e torri di Valencia assieme al Micalete, cioè il campanile della cattedrale, assunsero l’aspetto di fiaccole e si diede vita nel mercato ad un nuovo artificio di focu, che raffigurava una fortaleza con otto baluardi e un alto torrione quadrato. La composizione coronata delle armi della città provocò lo stupore della gente, incendiandosi improvvisamente con un vomito de dardos de fuego. Dopo il periodo valenciano, a Madrid nel 1662, Luigi Guglielmo sebbene non ancora cardinale ha già relazioni e contatti con la curia romana, in particolare con alcuni dei maggiori protagonisti ed esponenti dell’architettura e scultura del tempo. Il suo interesse per l’arte è documentato da una fitta corrispondenza epistolare con Franco Filippucci, membro della segreteria di stato vaticana. Il carteggio informa sul gusto del principe per la statuaria classica, il Laocoonte in particolare, e sulla Anonimo, Ritratto del Cardinal Luigi Guglielmo Moncada, seconda metà del XVII secolo, Collesano, chiesa madre della basilica di San Pietro (foto di Vincenzo Anselmo). Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada... 29 numero 7 - giugno 2013 commissione a Gian Lorenzo Bernini di una statua bronzea, forse raffigurante un imperatore, spedita a Madrid: A tal proposito, Filippucci riferisce al Moncada di essere stato il 20 giugno 1662 in casa del cavalier Bernino «per veder il lavoro di certe statue che si fanno per il superbo teatro della fabrica di san Pietro quall’accesso ha fatto stupir tutta la corte», fornendo anche notizie sui lavori a piazza del Popolo, con particolare riferimento alle chiese di Carlo Rainaldi, «in fronte della porta che già cominciano a far comparsa»14. Le relazioni del Moncada con la segreteria di stato vaticana sono indubbiamente rilevanti, perchè preparatorie alla sua assunzione al cardinalato. Dopo la morte della moglie Caterina Moncada de Castro, figlia del marchese di Aitona, Luigi Guglielmo verrà creato cardinale nel 1667 da papa Alessandro VII, trasmettendo tutti i titoli, patrimonio e privilegi al figlio Ferdinando. Subito dopo otterrà nel 1670 da re Carlo II l’amministrazione delle abbazie di Santa Maria di Novara e di San Michele Arcangelo di Troina in Sicilia. La concessione è attestata da due cedole reali emesse nel dicembre 1670, con le quali si richiedeva alla santa sede l’approvazione del provvedimento reale: questa statua ho procurato si facci con tutta diligenza essendo stata revista e ritoccata più volte dal cavalier Bernini e se bene la delicatura e puntualità di V.E. ci trovarà molti defetti li dico che più qua non s’è potuto fare, dalla parte di dietro non viene totalmente indorata perché mi dicono che in tal caso sarria parsa statua di legno indorato e così si conosce esser di bronzo ch’è quanto posso dir a V.E. d’ordine anche del cavalier Bernino che ha voluto che particolarmente la testa stia nella forma che la vedrà12. Il dialogo con Bernini, probabilmente già intessuto dal padre di Luigi Guglielmo, il principe Antonio, del quale è nota l’amicizia con papa Urbano VIII Barberini, principale committente dell’artista, esemplifica l’ampiezza e vastità delle relazioni culturali e politiche che il Moncada era riuscito ad intessere in quel tempo13. La corrispondenza con Filippucci documenta anche le relazioni del Moncada col principe Panfilio, al quale erano stati donati li libri della genealogia, probabilmente i Ritratti della Prosapia. Particolarmente interessanti dalla lettura dell’epistolario risultano i continui rimandi alle trasformazioni urbanistiche e architettoniche romane in corso in quel tempo, come il progetto del colonnato berniniano per piazza San Pietro. humiliter deprecantes aliosque exhortantes ut nostram electionem nominationem et cum omni juris plenitudine iuxta ordinationem sacri Concilij Tridentini conferre … canonice instituere dignetur15. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 30 numero 7 - giugno 2013 Il cardinal Moncada La rovina delviene designato per l’edificio inizierà le sue virtù alla guida nel 1784 con la sua dei due monasteri soppressione per come successore ordine dei Borbone. di don Ildelfonso La seconda abPerez de Guzman bazia di San patriarca delle Indie. Michele Arcangelo Egli era, infatti, fu fondata nel abbastanza noto territorio di Troina al re per la sua da re Ruggero e eximiam probitatem, rappresenta assieme Cedole reali delle abbazie di San Michele Arcangelo di Troina e di Santa Maria di Novara manifestata durante al monastero di conferite al cardinal Moncada (AHN, Sección Nobleza, Toledo, Moncada, vol. 413, ff. 19-20). il periodo vissuto Sant’Elia di Ebulo in Spagna come consiliarius degli affari di stato. uno dei più importanti monasteri basiliani dell’isola17. Oggi purtroppo delle due abbazie resta ben poco. Circa la Il cardinal Moncada morirà a Madrid il 4 maggio del 1672, prima, l’abbazia di Santa Maria di Novara, anche conosciuta lasciando di sé imperituro ricordo nelle sue opere, città come abbazia di Santa Maria di Nucaria o Santa Maria di e palazzi da lui voluti e realizzati nelle principali città del Vallebona, è noto che la sua fondazione avvenne nel 1137 regno, che videro ed accompagnarono la sua crescita come probabilmente per volontà di re Ruggero II o di un gruppo di committente ed importante uomo politico del Seicento europeo. monaci basiliani, divenendo nel 1172 monastero cistercense legato all’abbazia di Santa Maria di Sambucina in Calabria16. Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada... 31 numero 7 - giugno 2013 ________________________________ dell’architettura, a cura del Comitato presso la Soprintendenza ai Monumenti, Palermo 24-30 settembre 1950, pp. 313-327. 6 AHN, E, Bellas artes, vol. 5033, s.f. 7 Biblioteca Històrica Valenciana, Obras del siglo XVII, ms. 818/37, f. 40 r. 8 Archivio di Stato di Caltanissetta (d’ora in poi ASCl), Not. A. La Mammana, vol. 642, f. 103 r. Per un approfondimento sull’argomento si veda G. GiuGno, Scultura lignea a Caltanissetta nel Seicento tra sacro e profano, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio ligneo in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di P. Russo, S. Rizzo, T. Pugliatti, Catania, Maimone Editore, pp. 608-611. 9 ASCl, Archivio Storico del Comune, vol. 1087, f. 149 r. 10 Sulla residenza dei viceré a Valencia cfr. l. arCinieGa GarCìa, Construcciones, usos y visiones del palacio del real de valencia bajo los austrias, in Ars Longa, n. 14-15, 2005-2006, pp. 129-164. 11 ASCl, Not. A. la Mammana, vol. 650, f. 755 r. 12 Il documento è stato pubblicato dall’autore in forma integrale in G. GiuGno, Caltanissetta dei Moncada …, p. 165. 13 Per un approfondimento sull’argomento cfr. ibid, p. 34. 14 ASPa, Fondo Moncada, vol. 4, s. f. 15 AHN, Sección Nobleza, Toledo, Moncada, vol. 413, f. 19: «Cedola Reale della Abbazia di S. Michele Arcangelo di Traijna conferita in persona dell’Eccellentissimo Signor Cardinal Moncada et Aragona data in Madrid a 12 di dicembre 1670 presentata in Palermo a 18 di marzo 1671». 16 Sulla presenza dei cistercensi in Sicilia cfr. a. GiBiliSCo, I cistercensi in Sicilia: con una monografia su l’Abbazia di S. Maria di Roccadia, Istina, Siracusa 2001. 17 Per un approfondimento sull’argomento cfr. C. FilanGeri (a cura di), Monasteri basiliani di Sicilia: mostra dei codici e dei monumenti basiliani siciliani, Messina 3-6 dicembre 1979, Biblioteca regionale universitaria, Palermo 1980. 1 Luigi Guglielmo Moncada nasce a Collesano nel 1614 da Antonio d’Aragona Moncada e Giovanna de la Cerda duchessa di Medina. Dopo essere stato investito del titolo di principe di Paternò, sposa nel 1629 Maria Afàn de Ribera, figlia del viceré di Napoli. Con la morte precoce della principessa, il Moncada deciderà di risposarsi nel 1642 con la figlia del marchese di Aitona, donna Caterina Moncada de Castro, riuscendo grazie a questa unione ad irrobustire i suoi legami con la corte reale a Madrid. Sulla figura di Luigi Guglielmo Moncada cfr. r. Pilo, Luigi Guglielmo Moncada e il governo della Sicilia (1635-1639), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2008; l. SCaliSi, r. l. Foti, Il governo dei Moncada in La Sicilia dei Moncada. Le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, a cura di L. Scalisi, Domenico Sanfilippo Editore, Catania 2008, pp. 43-54; G. GiuGno, Caltanissetta dei Moncada. Il progetto di città moderna, Lussografica, Caltanissetta 2012, pp. 33-34. 2 Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASPa), vol. 1957, f. 162 r. Sulla figura di Gaspare Guercio cfr. l. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. Architettura, vol. I, a cura di m. C. ruGGieri triColi, Novecento, Palermo 1993, pp. 219-221. 3 Il ritratto di Luigi Guglielmo Moncada realizzato dal Novelli è documentato in G. di SteFano, Pietro Novelli il monrealese, Flaccovio, Palermo 1989, pp. 220-221. 4 Archivo Histórico Nacional (d’ora in poi AHN), Estado (E), Bellas artes, vol. 5033-187, s.f. 5 Per una descrizione delle porte della città di Palermo si veda l. triziano, Le Porte della città di Palermo, Stamperia di A. Gramignani, Palermo 1732, rist. anast. per le stampe di Pezzino, Palermo 1981. Il testo, oltre ad informare sul coinvolgimento del Moncada nella costruzione e completamento di porta di Montalto e porta Felice, riconduce a Luigi Guglielmo anche l’apertura dell’asse viario che collegava porta Vicari col piano di Sant’Erasmo. Gli interventi pubblici di Luigi Guglielmo Moncada in qualità di presidente del regno sulle porte della città di Palermo sono ben descritti in B. manCuSo, L’arte signorile d’adoprare le ricchezze. I Moncada mecenati e collezionisti tra Caltanissetta e Palermo (1553-1672) in La Sicilia dei Moncada …, pp. 136-143. Per un approfondimento su Porta Felice si vedano t. ViSCuSo, Pietro Novelli architetto del senato di Palermo e architetto del regno, in Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra (Palermo, Albergo dei Poveri, 10 giugno - 30 ottobre 1990), pp. 94-96 e il testo di e. SCaGlione, Ricerche su Porta Felice e la sua zona monumentale, Atti del VII Congresso nazionale di Storia teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 32 numero 7 - giugno 2013 Giuseppe Giugno Luigi Guglielmo Moncada... 33 L’ATTIVITà DI ETTORE GABRICI DIRETTORE DEL R. MUSEO DI PALERMO di Claudia Caruso Ettore Gabrici giunge a Palermo portando con sé le esperienze pregresse. Particolarmente interessanti appaiono gli anni della formazione napoletana, caratterizzati da rapporti lavorativi che hanno inciso sulla sua formazione culturale e ne hanno indirizzato il lavoro verso più campi di ricerca. Il giovane Gabrici, dopo la laurea nel 1889, era entrato nell’entourage culturale partenopeo sotto la guida di Giulio De Petra, ordinario di Archeologia e direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli2. I n occasione della mia tesi di laurea1 è stato possibile riconsiderare la figura di Ettore Gabrici (Napoli 1868 – Palermo 1962) – studioso poco noto ma il cui peso culturale si è rivelato di grande importanza – grazie all’analisi dei suoi scritti editi, pubblicati su argomenti vari, dall’archeologia alla storia dell’arte medievale e alle arti decorative, e di documenti inediti, rintracciati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, preziosa testimonianza dell’attività di funzionario statale, come direttore del R. Museo di Palermo. De Petra, dovendo stilare un nuovo inventario e la guida del museo, chiese la collaborazione nel 1893 di una équipe di studiosi, fra cui Gabrici, incaricato di redigere il catalogo delle monete3. Nella Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli4 del 1908, Gabrici sarà tra i compilatori e curatore della sezione di Numismatica del museo e in relazione a ciò cominciò a lavorare a fianco del teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 34 numero 7 - giugno 2013 maestro, conseguendo poi nel 1902 la qualifica di Ispettore del Giulia7. Da questo momento in poi Gabrici è presente in Sicilia. Museo. Successivamente troviamo Gabrici a Firenze, impegnato Dalla Topografia e Numismatica dell’antica Himera (e di Terme)8 del 1894 negli scavi presso Bolsena5. A Firenze, città in cui rimarrà per circa apprendiamo che un primo viaggio in Sicilia era stato compiuto nel tre anni, collabora con Luigi Adriano Milani, direttore dal 1882 del 1891, durante il quale aveva avuto occasione di vedere a Palermo, Museo Archeologico di Firenze e fondatore del giornale “Studi e grazie ad Antonino Salinas, la collezione di numismatica del museo Materiali di Archeologia e Numismatica”, sul quale pubblicarono da lui diretto, varie collezioni private e il sito archeologico di Himera. nume-rosi suoi allievi Durante e negli anni e colleghi tra cui Luigi successivi la Grande Pernier, Nicola Terzaghi Guerra, Gabrici riprese e Giuseppe Petroni. gli scavi di Salinas Nel 1910 partecipò al che interessavano concorso per la carica varie aree della Sicilia di direttore del Museo occidentale. Si dedicò Archeologico di Napoli, agli scavi di Termini ma il vincitore risultò Imerese legando il Vittorio Spinazzola, suo nome soprattutto anche dopo il ricora Selinunte. Portò so tentato da Gabrici. a compimento lo Dopo Napoli6 preferì scavo già iniziato da trasferirsi a Roma per Francesco Saverio Gorgoneion del Tempio C di Selinunte (560-550 a.C.), lavorare al Museo Cavallari del Santuario Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”, Palermo (Foto ACS, Roma). Archeologico di Villa della Malophoros poi Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 35 numero 7 - giugno 2013 oggetto di una pubblicazione9. In seguito si dedicò all’acropoli, procedendo con il metodo stratigrafico appreso dai suoi maestri e concependo il reperto come punto di partenza dell’indagine storica. L’interesse del mondo archeologico verso questo sito così importante spinse Gabrici a pubblicare molti articoli sul tema fino a organizzare una raccolta critica del suo lavoro su Selinunte in due ampie monografie pubblicate in “Monumenti Antichi dei Lincei” nel 193310 e nel 195611. Gabrici, allontanandosi momentaneamente dai suoi studi di archeologo affronta anche alcuni aspetti dell’arte medievale dall’architettura alla pittura. Tale interesse comincia a dare frutti attorno agli anni Venti con la pubblicazione di La materia del cantare di Elena nel soffitto Chiaramonte12 (1923) e di Il soffitto istoriato nel Palazzo Steri di Palermo13 (1928), studi che poi confluiranno in un più ampio studio scritto in collaborazione con Ezio Levi14. È del 1923 lo studio su Il Palazzo di Re Ruggero15, interessante per l’analisi storico-artistica e il riesame delle fonti, Gioacchino Di Marzo in primis, e dei contributi più recenti come La storia dell’Arte Italiana di Adolfo Venturi. Ma più interessante, nel contesto dei nostri studi, è la dimostrazione ancora una volta del grande approccio critico analitico che Gabrici manifesta in ambiti che esulano dalla Tommaso De Vigilia, Abramo e i tre Angeli (affresco staccato, seconda metà del XV secolo, proveniente dalla cappella dell’ordine dei Teutonici di Risalaimi), Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia, Palermo. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 36 numero 7 - giugno 2013 Tommaso De Vigilia, SS. Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia, affresco staccato, seconda metà del XV secolo, proveniente dalla cappella dell’ordine dei Teutonici di Risalaimi), Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia, Palermo. Claudia Caruso sua formazione di archeologo, come emerge dal discorso inaugurale sostenuto per l’apertura dell’anno accademico 1934-35 che Gabrici intitola L’Abbozzo16. Gli argomenti affrontati nell’Abbozzo del 1935 sono ripresi dopo la seconda guerra mondiale in Riflessioni sul travaglio dell’arte figurativa contemporanea17, nel discorso inaugurale tenuto in occasione dell’apertura del nuovo anno accademico nel gennaio 194618. Ancora ricordo gli articoli apparsi in “Giglio di Roccia” riguardanti la ceramica siciliana, argomento che in quegli anni sarà oggetto di articoli anche su riviste nazionali come “L’Arte” o “Faenza”. Sia il primo di questi articoli, Collesano nella storia della maiolica siciliana19, sia il secondo, intitolato Appunti sulle officine ceramiche di Palermo e Sciacca20, dimostrano L’Attività di Ettore Gabrici... 37 numero 7 - giugno 2013 tra le sale e gli uffici del museo svolta sotto la guida dell’ispettore Cesare Matranga e del segretario Francesco Tommasi, una l’attenzione nei confronti delle cosiddette “arti minori”21 che, come vedremo, Gabrici confermerà anche nella sua attività di funzionario museale. Ettore Gabrici assunse la carica di direttore del Museo Nazionale di Palermo, poco dopo la dipartita del professore Antonino Salinas, esattamente il 26 agosto 191422. Nella “Rivista Italiana di Numismatica” del medesimo anno, in occasione della commemorazione funebre tenuta in onore di Antonino Salinas23, apprendiamo che situazione “anomala”. Percorrendo le sale e i corridoi e l’area riservata agli uffici e alla direzione, Gabrici Il nuovo Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Palermo succeduto al compianto professore Antonino Salinas, è il professore Ettore Gabrici, già Dirigente del Gabinetto Numismatico di Napoli e Ispettore poi degli scavi presso il Museo di villa Giulia in Roma. Al valente numismatico, le congratulazioni della rivista di cui fu collaboratore24. constata subito una condizione di generale degrado in cui versava il Oreficerie antiche con mascherine muliebri con ornati disposti a raggi chiusi da un cordoncino (Foto ACS, Roma). museo: fra l’altro, trovò i corridoi della direzione ingombri di casse in cui erano conservati i volumi del lascito Salinas, vicenda veramente Come nuovo direttore, Gabrici intraprese una fitta corrispondenza con il Ministro della Pubblica Istruzione Corrado Ricci per tenerlo costantemente aggiornato sulle necessità dell’amministrazione del museo, tanto che la sua prima relazione risale solamente al 31 agosto, a distanza di pochi giorni dalla sua nomina. Da questa prima relazione, che lo stesso Gabrici specifica essere solo una descrizione delle prime impressioni, emerge da una preliminare ricognizione annosa che durò per tutto il mandato di Gabrici. Già il 4 settembre 1914, Gabrici aggiornava il ministro sulle pratiche aperte dal Matranga il quale aveva informato il Ministero delle disposizioni testamentarie di Salinas e richiesto l’autorizzazione ad accettare il legato in parola, risposta che tardava a giungere e che ora Gabrici riproponeva. Gabrici ricorda al ministro che Salinas teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 38 numero 7 - giugno 2013 da direttore aveva acquistato numerosi oggetti di arte medievale, stessi senza un criterio di selezione «che non deve mai perdersi di moderna e antica con fondi personali e li aveva conservati in una vista nella esposizione dei monumenti»25. stanza degli uffici della direzione a cui, sopraggiunta la sua morte, furono apposti i sigilli dalla autorità giudiziaria. Una gran confusione Da ciò conseguivano, come egli riferisce, due gravissimi regnava pure nelle sale della Scuola di Archeologia e nelle varie inconvenienti: sale. Queste accoglievano le collezioni classiche esposte alla rinfusa, l’uno che l’estetica delle sale già compromessa dallo stato di deperimento dei battenti delle porte e vetrate e degli armadi, è addirittura soppressa, l’altro che la nettezza giornaliera riesce altrettanto difficile, a questo va aggiunta una deplorevole inerzia del personale di custodia vecchio e lento26. parte in vecchi armadi e parte all’aperto in terra accanto agli armadi A distanza di pochi mesi segue una relazione in data 9 dicembre 1914, in cui emergono i propositi e i primi interventi che Gabrici ha intenzione di attuare per risollevare il museo che è ancora come un immenso organismo addormentato, che solo potenti stimoli possono scuotere, è come una grande macchina, invasa dalla ruggine per lungo stato di inerzia ed alla quale grandi cure occorrono avanti che si rimetta in moto27. In primo luogo, si premurò di mettere in sicurezza alcuni accessi del museo munendo alcune lunette al pianterreno e gli accessi delle terrazze contigue alla chiesa di S. Ignazio all’Olivella con grate di ferro. Tommaso De Vigilia, La Madonna in trono tra Angeli e Santi, affresco staccato, seconda metà del XV secolo, proveniente dalla cappella dell’ordine dei Teutonici di Risalaimi, Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia, Palermo. Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 39 numero 7 - giugno 2013 Lo stato di abbandono del fabbricato perdurato per molti decenni, aveva causato lo scrostamento dell’intonaco delle pareti che col tempo erano state ricoperte da una fitta vegetazione che, oltre a provocare infiltrazioni di umidità, invadeva anche le finestre schermando la luce all’interno delle sale. Tra i primi propositi sono i lavori di manutenzione per rendere più decoroso l’aspetto dell’edificio. Anche il vestibolo del museo necessitava di interventi, perché: affreschi di Solunto che, dalla parete del cortile principale, furono trasportati nelle sale dei grandi bronzi di stile pompeiano. Per quanto riguarda la zona dedicata agli uffici acquistò alcuni mobili per la stanza della direzione, per il corridoio e per la sala di aspetto e divise questa dalle stanze private con una parete in vetro. Questi dunque, i primissimi interventi che Gabrici nel giro di tre mesi compì29. Nei mesi successivi su richiesta del ministro, che chiede costanti ragguagli, le relazioni si fanno più dettagliate e riguardano i vari ambiti museali dalla manutenzione a interventi straordinari di ristrutturazione; dalla risoluzione di problemi riguardanti la conservazione e la tutela dei la porta principale del museo, sulla via Roma, dà accesso ad un’ampia sala terrena. Questa era tutta occupata da un brutto monumento sepolcrale di marmo nero del XVII secolo, a sinistra da una grande baracca di legno adibita alla vendita dei biglietti, le pareti erano letteralmente ricoperte di quadri ad olio dei secoli XVII e XVIII con ritratti prelati28. monumenti, a un ripensamento della “didattica” del museo. Gli spazi dedicati all’arte classica erano esigui e in un’unica sala erano riunite le Grondaie di Imera, la statuaria romana, le Metope selinuntine. Una gran quantità di materiale archeologico, proveniente dagli Gabrici fece rimuovere il monumento sepolcrale e smontare la baracca; mise nei depositi le vecchie pitture e, con qualche pezzo archeologico e qualche sedile, decorò l’ingresso «ottenendo per ora la decenza», ma, «nulla potei fare finora per rendere meno ripugnante l’aspetto di un lungo corridoio che dal vestibolo introduce al Museo». Biancheggiate le pareti di alcuni corridoi e delle sale più frequentate dai visitatori, munì le finestre, prive di scuri, di tende blu per proteggere le suppellettili d’argento dai raggi solari diretti e in altri casi spostò alcuni monumenti per proteggerli da danni maggiori come i preziosi scavi di Giardini e Randazzo, rimaneva ancora chiusa nelle casse dal giorno in cui era pervenuta al museo. Gabrici sottolineava la necessità di restaurare molte opere presenti nelle sale e di esporre, una volta catalogate e studiate, quelle dimenticate nei depositi. Un altro punto debole erano gli scaffali ormai obsoleti: le sale che ne avevano di «tollerabili» erano quelle dei vasi greci, per le quali considerava: «non si può certo pretendere che tutti gli scaffali siano di ferro battuto con palchetti di cristallo, ma certi vecchi credenzoni teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 40 numero 7 - giugno 2013 e scaffali del settecento bisognerà pure metterli da parte»30. Nelle stesse condizioni si trovava la pinacoteca, in cui le raccolte medievali segnala al ministro la necessità di arricchirla soprattutto con opere moderne che potessero servire da supporto alle ricerche degli studiosi. Disorganizzazione e confusione erano riscontrabili anche tra le sale dell’archivio del museo: e moderne erano ammassate o disposte in file lungo i corridoi «a guisa di magazzino d’antiquario». Il problema principale era la mancanza di spazio e, osservava il direttore, solo quando «il passaggio di questa pinacoteca con le collezioni accessorie nel monumentale palazzo Abbatelli si sarà avverato, i due musei che oggi stanno a disagio in questo edificio potranno guadagnare spazio e soddisfare le esigenze della estetica»31. La biblioteca del museo era collocata entro vecchi scaffali in uno dei corridoi della direzione, con uno schedario incompleto e reso inutile dallo spostamento che i libri avevano subito quando, dopo la morte del Salinas, furono raggruppati insieme. Urgente era dunque per Gabrici cominciare una verifica e una successiva schedatura, a maggior ragione quando al cospicuo fondo librario si unì la biblioteca del lascito di Salinas che constava di circa 8.000 volumi. La nuova acquisizione costrinse Gabrici a trovare una nuova sede. Furono scelte le sale della Scuola di Archeologia e questa fu spostata nei locali sopra gli uffici della direzione. Le due biblioteche occuparono così due sale e un corridoio. Anche se con l’accorpamento della raccolta di Salinas la biblioteca colmò parecchie lacune, soprattutto nel campo numismatico, Gabrici Dicono che il Prof. Salinas usasse di trattare affari al museo, talvolta delicatissimi, senza mettere penna su carta, che si portasse nei suoi viaggi lettere del Ministero, le quali non sempre erano rimesse a posto. Ho toccato con mano l’esattezza di questa asserzione, poiché le carte d’ufficio, trovate a casa sua e quelle che egli teneva sparse nelle stanze della vecchia e nuova Direzione, oltrepassano il migliaio. Molte sono protocollate, moltissime altre non protocollate; e per queste ultime ho istituito un registro di Protocollo Speciale che potrà raggiungere il mezzo migliaio. […] l’archivio è ora in via di ordinamento, e tra non molto quando meglio sarà fornito di scaffali adatti, che non mancano nei depositi del Museo, potrà funzionare regolarmente, senza spese di sorta32. Anche l’inventario generale del museo gravava in pessime condizioni. Gli innumerevoli oggetti accumulati nei depositi e chiusi in casse, provenienti dai principali luoghi di scavo siciliani – Selinunte, Marsala, Mozia (Gabrici fu qui a stretto contatto con il proprietario dell’isola, l’inglese Joseph Whitaker) – erano privi in certi casi pure del giornale di scavo, mai descritti o numerati né presenti nel giornale d’entrata. Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 41 numero 7 - giugno 2013 Tempio C di Selinunte35, oggi esposto in una sala del museo proprio intitolata a Gabrici. Egli cercò di reperire informazioni su alcuni frammenti che giacevano nei depositi privi d’identificazione, chiedendo ai vecchi custodi e agli operai scavatori, fino a quando non decise di recarsi a Selinunte dove trovò, a nord ovest del Tempio C, un frammento di un enorme sopracciglio fittile policromo, che risultò coincidere con gli altri resti conservati al museo. Grazie a questa scoperta sul luogo ebbe la conferma che il tempio possedeva un enorme Gorgoneion di cui fu possibile la parziale ricostruzione. Il lavoro di riordino e d’inventariazione dei manufatti abbandonati all’interno dei magazzini fu un’importante occasione di studio, e alcuni scritti di Gabrici sono inerenti la sua attività all’interno dell’istituto: si tratta di articoli nei quali esprimeva, spesso avvertendo un certo peso di responsabilità, l’urgente e fondamentale studio dei manufatti, come nel caso di alcuni frammenti epigrafici provenienti da Selinunte e Mozia: i frammenti epigrafici che pubblico furono da me, in gran parte, rinvenuti nei magazzini di deposito presso le rovine di Selinunte e nel Museo Nazionale di Palermo. Avendo in animo di cercare a cognizione dei dotti un numero considerevole di monumenti antichi d’ogni genere, ancora inediti, da me studiati e raccolti nel detto Museo, stimo opportuno di cominciare dalle seguenti epigrafi arcaiche, le quali contribuiranno un poco la scarsa serie delle iscrizioni selinuntine finora conosciute33. La direzione del Museo di Palermo dispone del prezioso materiale finora imperfettamente e parzialmente studiato ha dinnanzi a sé, fra gli altri molti, anche questo importantissimo compito. […] ma il tema di questa mia nota, pur avendo grande attinenza con quello accennato, assurge all’importanza di una vera e propria rivelazione per la scienza, in quanto dimostra che la decorazione fittile policroma del Tempio C di Selinunte non limitavasi alla sima ed alle tegole semicilindriche lungo la linea d’incontro al sommo dei due pioventi, ma comprendeva bensì delle colossali maschere in terracotta, collocate come acroterii; e nel bel mezzo del timpano forse del solo frontone orientale, era applicato un immenso “gorgoneion” policromo a bassorilievo alto metri 2.50 all’incirca36. Così pure dedicò tempo allo studio dei documenti e delle relazioni lasciate negli archivi, grazie ai quali riuscì a ricostruire le dinamiche degli scavi e i reperti emersi identificandoli con quelli conservati al museo. Partendo proprio dalla documentazione fu capace di ricostruire da un frammento un manufatto nella sua interezza. L’esempio più evidente che Gabrici descrive con entusiasmo al ministro Corrado Ricci in una sua relazione34 è il Gorgoneion del teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 42 numero 7 - giugno 2013 Frutto dei suoi Tra questi considera continui studi sul di gran pregio una materiale conservato lekythos attica a figure al museo furono nere con Achille anche due scritti consegnato a Chirone dedicati uno ad alcuni della quale trova vasi inediti e l’altro il documento di alla celebre collezione acquisizione risalente Casuccini. In Vasi al 1898. greci inediti dei Musei di Nel 1928 Gabrici Palermo e Agrigento37 dedica ai manufatti nota che le ultime chiusini lo scritto La relazioni, in merito ai Collezione Casuccini del manufatti in terracotta Museo Nazionale di presi in esame, Palermo38. Urne cinerarie provenienti da Centuripe (280-220 a.C.), Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”, Palermo (Foto ACS, Roma). risalgono al 1871 e Alcune terrecotte che mancano anche della collezione, apaltri ragguagli riguardo l’incremento delle partenuta al conte Pietro Bonci Casuccini acquisita dal museo di raccolte di ceramica greca fatte dopo questa data. Palermo nel dicembre 1865, avevano subito restauri invasivi, quando L’identificazione e la catalogazione è estremamente complessa si trovavano a Chiusi e ancora in occasione del loro trasporto in ed egli cerca di approfondire l’analisi solo di quei manufatti che Sicilia, che Gabrici documenta fornendo una precisa descrizione di possono essere comparati con gli incartamenti dell’archivio. interventi e alterazioni. Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 43 numero 7 - giugno 2013 L’inventariazione generale rimase dov’era il medagliere, per rimandare uno dei problemi più annosi da temporaneamente il lavoro di risolvere procedendo con una inventariazione che richiedeva, verifica generale lunga e faticosa di secondo la sua previsione, più di un tutti gli oggetti. anno di lavoro. In attesa di disporre di un personale Alla luce di questa situazione più qualificato che potesse aiutarlo negativa in tutti i suoi aspetti, gli nella verifica, attraverso i vecchi interventi di Gabrici e i suoi sforzi cataloghi e nella compilazione sono notevoli ma non esaustivi né di nuova inventariazione di tutti immediati a causa dei pochi fondi i beni, Gabrici divise in grandi a disposizione e di un personale gruppi il materiale distinguendolo in numericamente scarso e poco Suppellettili in terracotta (IV sec. a.C.) provenienti da archeologico, librario, fotografico, efficiente. necropoli lipariote (Foto ACS, Roma). affidando ad ogni ambito un Per assicurare la disciplina del funzionario responsabile. personale nell’istituto, tra i Cominciò il riordino dell’archivio, sistemando le pratiche primi provvedimenti presi fu l’introduzione del registro di riguardanti gli atti dell’Ufficio degli Scavi e del Museo Nazionale presenza. Il monitoraggio del ministro Ricci sull’operato per poi procedere con i documenti della Galleria e con gli di Gabrici era costante e più volte il ministro spese incartamenti degli Uffici di Esportazione. Quanto al medagliere, parole di stima e ammirazione nei confronti del direttore. che necessitava di ulteriore sforzo per il valore e la quantità di Il sostegno di Ricci però era molto oculato o si arrestava quando le oggetti ammassati e conservati entro armadi, cassette, buste, richieste economiche avanzate da Gabrici diventavano più onerose Gabrici decise di porre i sigilli alla porta della vecchia direzione e spesse volte i programmi per risollevare le sorti del museo avviati teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 44 numero 7 - giugno 2013 coi pochi fondi a disposizione venivano bruscamente rallentati. Tanto che l’esito di un’ispezione del 1916 è ancora sfavorevole. I lavori proseguono lenti ma con costanza e la dimostrazione degli esiti positivi dell’operato di Gabrici si avrà quando, in occasione del cinquantenario del museo nei locali dell’Olivella (1918), si organizzerà una commemorazione in ricordo di Salinas. I preparativi per l’evento e la raccolta fondi cominciano sin dal 1916 e dureranno fino al 1922. La cerimonia sarà occasione per Gabrici di mostrare e consegnare alla città un museo nuovo. Nell’invito che Gabrici scrive il 26 maggio 1922 al ministro Arduino Colasanti leggiamo: L’ispezione eseguita all’ufficio di Economato permise di constatare che l’attuale Soprintendente agli scavi e direttore del Museo Ettore Gabrici esercita una lodevole sorveglianza sull’andamento dei servizi contabiliamministrativi e che le scritture relative alla gestione dei fondi della dotazione sono tenute molto più regolarmente che non negli altri Istituti di Palermo dipendenti dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti […]. Deplorevole invece è lo stato delle scritture inventariali […]. Vi sono stati immessi libri, manoscritti, stampe, fotografie ed altri oggetti, che il Prof. Salinas legò al Museo, sebbene non siano ancora compiuti gli atti per l’accettazione del legato […] per i depositi degli Enti e dei privati non esiste un registro di entrata e di uscita, e, quindi, qualsiasi notizia sulla consistenza di quelli non può desumersi che dai documenti di archivio, non sempre facilmente reperibili. Il museo possiede una Biblioteca speciale di opere di archeologia, arte e storia abbastanza notevole, ma il numero dei volumi non può essere precisato, poiché non esiste un inventario e nemmeno un catalogo regolare. […] inoltre il personale di custodia è assolutamente insufficiente […] così da essere costretti a tener chiuse alternatamente la sezione dei ricordi patrii e quella dei vasi greci, delle maioliche e dei bronzi, e senza alternazioni le sale dei merletti, delle oreficerie e stoffe antiche […]39. Mi onoro di annunziare all’On. Ministro, che il giorno 7 giugno, alle ore 16, con l’intervento del nostro Augusto Sovrano verrà celebrato il cinquantesimo anniversario della istituzione di questo glorioso istituto nei locali che presentemente occupa, verrà inaugurato il busto di Antonino Salinas e saranno aperte sei sezioni, costituite in gran parte da materiale archeologico ed artistico finora chiuso nei depositi e cioè: la Sezione della Preistoria della Sicilia (4 sale del 3o piano); la Sezione Topografica Siceliota (2 corridoi del 1o piano); la Sezione delle Terrecotte greche votive (4 sale del 3o piano); la Sezione delle Majoliche siciliane e ferri battuti (2 saloni); Pinacoteca di scuole diverse (10 salette); Merletti e ricami siciliani (3 salette)40. Nei corridoi del primo piano dunque, dove prima erano accolti materiali classici e medievali, furono disposti ordinatamente Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 45 numero 7 - giugno 2013 l’antiquarium e la salette in cui furono raccolta topografica, esposte opere di seguiti dalle sale scuole italiane o dedicate alla raccolta fiamminghe rimaste di ceramiche greche per molto tempo nei anch’essa accresciuta depositi, così come con una serie di gli affreschi della edicole funerarie seconda metà del XV dalla necropoli punisecolo di Tommaso ca di Lilibeo e da De Vigilia41, giunti al esemplari di ceramica, museo nel 1881 dalla acquistati da Gabrici, cappella dell’ordine e provenienti da dei Teutonici di Centuripe (III sec Risalaimi presso a.C.). Ma Gabrici, Marineo. L’attività esulando dalle sue di Gabrici nelle Suppellettili in terracotta, IV sec. a.C., provenienti da necropoli lipariote (Foto ACS, Roma). competenze specivesti di direttore è fiche, apportò alcuni complessa, e riguarda cambiamenti anche nell’allestimento della pinacoteca, iniziato da naturalmente anche la conservazione delle opere: nell’ottobre del Cesare Matranga. Rimanendo fedele al progetto museografico 1916, comincia a sottoporre all’attenzione del ministro Ricci i di Matranga, che consentiva la comparazione fra scuole, offrendo necessari e urgenti interventi di restauro sugli affreschi di De Vigilia. adeguata collocazione alla pittura siciliana, Gabrici aggiunge dieci Dopo aver esaminato accuratamente gli affreschi, Gabrici si teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 46 numero 7 - giugno 2013 rese conto che le parti più rilevanti come i volti e le mani erano ricoperte da una vernice grassa e lucida che sotto l’azione dell’alta temperatura tendeva a sciogliersi rigando la superficie dei dipinti. Tra gli affreschi il più danneggiato e «soggetto a progressivo deperimento cagionato dal cattivo restauro»42 è Abramo e i tre Angeli. Il viso, il collo e alcune parti del terzo angelo a destra presentavano gravi lacune «formatesi dal distaccarsi e accartocciarsi di una vernice sovrapposta dal restauratore la quale trae seco tutto il colore originario. Questo deperimento è limitato per ora ad alcuni punti dell’affresco ma si vede che il processo di distruzione ha invaso tutte le figure»43. La difficile operazione su un’opera d’arte così «rara e pregevole» richiedeva un abile restauratore che Gabrici non trovò a Palermo; chiese quindi al Ministero di procurargliene uno di fiducia. Appresa la notizia, Ricci contattò la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e degli Abruzzi per decidere quale restauratore proporre a Gabrici. In un primo momento la scelta cadde su Tito Venturini Papari il quale era disposto a recarsi a Palermo per un sopralluogo, ma che avrebbe potuto dare avvio ai lavori solo dopo l’estate. Si preferì un altro restauratore, Vito Mameli – che aveva già ottenuto numerosi incarichi dal Ministero della Pubblica Istruzione – subito disponibile a compiere un primo sopralluogo per stilare un preventivo. Sappiamo dallo stesso Mameli che il compenso per la trasferta constava di una diaria di 19 lire, mentre per il lavoro di restauro la diaria era di 20 lire. Con una missiva del 5 gennaio 1917, Ricci fa sapere a Gabrici che il restauratore giungerà a Palermo «i primi della ventura settimana». Giunto a Palermo, Mameli sotto suggerimento di Gabrici esamina tutti gli affreschi di De Vigilia che, come confermato dal resoconto del restauratore, necessitavano di cure. Il preventivo di 1.200 lire proposto da Mameli, che doveva essere approvato dal ministero, riguardava per ora due affreschi, Abramo e i tre Angeli e le SS. Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia: Gabrici chiese che il lavoro del restauratore cominciasse dal primo affresco, per il quale era più urgente intervenire. Ma al contempo, sempre su indicazione di Gabrici, Mameli esaminò l’altro grande affresco del De Vigilia raffigurante La Madonna in trono tra Angeli e Santi che «è più di tutti spalmato di colla densa che si è incominciata a sciogliere»44. In verità Gabrici confidava che il ministero decidesse per un intervento generale su tutti gli affreschi, sperando che ciò non avrebbe influito né sui tempi di lavoro né sul preventivo iniziale. Mameli così preparò un secondo preventivo dichiarando che l’affresco raffigurante La Madonna in trono era di dimensioni triple rispetto a quello rappresentante le quattro sante e che si trovava in condizioni Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 47 numero 7 - giugno 2013 di deterioramento tanto più gravi da rendere il lavoro più complesso. Gli interventi che Mameli aveva in programma consistevano in una ripulitura generale dalle colle grasse sovrapposte e in un’operazione di consolidamento della superficie pittorica. I lavori avrebbero impegnato il restauratore per un periodo di due mesi e per una spesa complessiva di 1.200 lire; mentre per il restauro dell’affresco con Abramo il periodo previsto era di un mese e mezzo di lavoro per una spesa di 900 lire, per un compenso totale di 2.100 lire: tale somma non può ritenersi eccessiva se si consideri l’importanza e la dimensione dei dipinti, la delicatezza e la responsabilità del lavoro che dovrà dal sottoscritto essere compiuto fuori dalla propria residenza e infine l’alto costo che oggi hanno raggiunto le materie prime45. Elmo greco in bronzo (VI-V sec. a.C.), Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”, Palermo (Foto ACS, Roma). Con il decreto del 25 maggio del 1917 è approvato il contratto che verrà registrato alla Corte dei Conti il 6 giugno 1917. Da un documento stilato da Gabrici risalente al 29 novembre 1917, si apprende che il lavoro eseguito da Mameli fu eseguito in due tranches, dal 27 aprile al 26 maggio e dal 20 ottobre al 16 novembre 1917, con un’interruzione dovuta al richiamo alle armi del restauratore. Il 12 dicembre 1917 una minuta ministeriale informa Gabrici dell’avvenuto pagamento come retribuzione dei restauri svolti. Vale la pena sottolineare come la volontà di restaurare Tommaso De Vigilia rientri nell’indirizzo di gusto di questi anni, favorevole teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 48 numero 7 - giugno 2013 alla pittura del Trecento e del Quattrocento, testimoniato anche dal collezionismo delle opere dei Primitivi che contribuirono ad arricchire importanti quadrerie come quella di Gabriele Chiaramonte Bordonaro46. Mentre proseguono i lavori di restauro di Mameli sugli affreschi di Risalaimi, Gabrici riesce ad ottenere gratuitamente un delicato lavoro di restauro sul dipinto attribuito ad Andrea del Sarto raffigurante S. Miniato. La tavola, danneggiata dai pesanti interventi precedenti che coprivano le mani e le vesti del santo, fu liberata dalle sovrapposizioni dei colori rivelando anche la data 156347. La collaborazione con il restauratore sardo prosegue nel tempo. Nel 1919 Mameli fornisce alcuni preventivi a Gabrici riguardanti altre opere conservate al museo. Questi riguardano altri affreschi di Tommaso De Vigilia raffiguranti uno le SS. Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia, e gli altri due le SS. Agnese, Cecilia e SS. Cristina e Oliva; una Maria Maddalena di Van Dyck e la Madonna con il Bambino tra angeli (inv. 68), opera che, sebbene attribuita al Memling, era difficilmente apprezzabile perché sporca e ingiallita. Dai documenti si apprende che la cifra stabilita raggiunge in questo caso il totale di 3.550 lire e che i lavori dovranno terminare entro la fine di febbraio del 1920. Il contratto è approvato dal ministro Arduino Colasanti col decreto del 12 gennaio 1920, registrato il mese successivo alla Corte dei Conti (il 26 maggio 1920 verrà effettuato il pagamento48). È sempre grazie ai rapporti che Gabrici invia al ministro che si viene a conoscenza che Mameli, già il 26 novembre 1919, terminava i lavori sulla tavola con la Madonna con il Bambino tra angeli, le cui fotografie allegate alla pratica inviata al ministro ne testimoniavano lo stato di conservazione prima e dopo l’intervento49. Dopo il restauro, la tavola fu posta accanto al Trittico di Malvagna con un’attribuzione diversa voluta da Gabrici, che avanzò l’ipotesi che l’opera fosse di un ignoto pittore della cerchia di Quentin Metsys (identificato poi con il Maestro del Santo Sangue). Al di là di questi ambiti di tutela, Gabrici contribuì ad ampliare le collezioni del museo intraprendendo trattative d’acquisto con antiquari siciliani. A distanza di un solo anno dall’inizio del suo mandato, esattamente il 16 dicembre 1915, cominciano le trattative con l’antiquario palermitano Mario De Ciccio, figura di spicco nella storia del collezionismo italiano50, per l’acquisto, per 1.000 lire, di un vaso attico a figure rosse a forma di pelike con un’amazzone a cavallo e guerriero greco che «rivela chiare note l’influenza della pittura polignotea»51. Gabrici è interessato al manufatto, proveniente dal territorio di Gela, non solo per la sua rara dimensione (49 cm.) e per il buono stato di conservazione ma anche perché, insieme al già presente cratere polignoteo gelese anteriore di circa un ventennio rispetto alla pelike, forniva una testimonianza importante per il Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 49 numero 7 - giugno 2013 museo dell’arte ceramica attica nel periodo di maggiore sviluppo cioè verso la metà del V sec a.C. Il direttore è anche preoccupato del fatto che se la compravendita non fosse andata a buon fine il vaso avrebbe rischiato di essere venduto a compratori esteri. Il 21 gennaio del 1916 Ricci accetta la proposta e si avviano le pratiche per l’acquisto. In seguito, nel 1917, lo stesso De Ciccio proporrà a Gabrici la vendita di alcune placchette antiche in oro, appartenenti probabilmente a due collane diverse, per 800 lire. Gabrici manifesta al ministro il suo interessamento per tali oggetti, perché andrebbero ad ampliare la collezione già esistente del museo, e riporta un’accurata descrizione accompagnata da una fotografia. Con una relazione datata 19 luglio 1921, Gabrici informa il ministero che si presenta la possibilità di acquistare, tre urne cinerarie «prodotti rarissimi della ceramica lavorata a Centuripe, l’unica fabbrica di vasi conosciuta nella Sicilia antica»53. I tre vasi sono considerati esemplari rarissimi per tipologia e per l’ottimo stato di conservazione rispetto Orologio (Foto ACS, Roma). ai pochi frammenti conservati a Siracusa e a Londra. I loro ornati a rilievo conservano in parte la lamina in oro che li rivestiva. La superficie era dipinta a tempera su fondo chiaro con i pigmenti ancora molto nitidi e ben conservati. Le scene raffigurate, come sostiene Gabrici, devono essere ancora studiate ma è già possibile identificare una rappresentazione di un rito o di consacrazione o di iniziazione. «Se l’On. Ministero Tenuto conto della diversa lega del metallo e dei particolari decorativi ciascuna laminetta ha nel mezzo una mascherina muliebre con ornati disposti a raggi chiusi da un cordoncino. La forma di tali laminette ed alcuni elementi della decorazione richiamano simili oreficerie rodie ed etrusche, il cui tipo apparso in età arcaica si protrasse fino ai secoli IV-III a. C.52. Gli oggetti però non hanno nessuna certificazione né è conosciuta la provenienza, per quanto Gabrici creda alle rassicurazioni dell’antiquario e sia a favore dell’acquisto, rifiutato dal ministro. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 50 numero 7 - giugno 2013 approverà la mia proposta il Museo di Palermo, per questo genere di monumenti si metterà in primissima linea fra i musei del mondo»54. I vasi appartenevano a due differenti antiquari: uno a Michele Trovato di Taormina, che avanzava la richiesta di 3.500 lire; gli altri due, in migliori condizioni, al negoziante palermitano Giuseppe Ingrassia, che chiedeva 10.000 lire. A distanza di un mese Gabrici non ha ancora risposta da Roma e i suoi telegrammi cominciano ad essere frequenti, dato che, come egli stesso fa presente, gli antiquari facevano pressioni per concludere l’affare, minacciando di prendere in considerazione altri acquirenti. Ottenuto dal ministro Colasanti il consenso per proseguire le trattative, il direttore rasserenato il giorno seguente comunica: non sempre le proposte di Gabrici vengono accolte positivamente da Roma. Un chiaro esempio di ciò sono le trattative con l’antiquario Giuseppe Spanò nel 1920 per l’acquisizione di una ricca collezione di suppellettili proveniente dalle necropoli lipariote del IV sec. a.C. Già in passato lo Stato si era fatto sfuggire un prezioso acquisto di manufatti provenienti sempre dallo stesso sito Comodino (Foto ACS, Roma). archeologico e che erano finiti tra le collezioni inglesi di cui restava «a noi il magro conforto di possedere l’album di fotografie di quei vasi»56. Gabrici stila un dettagliato elenco delle opere, 47 oggetti tra i quali alcuni di notevole valore, e comunica che la richiesta è di 3.000 lire. A seguito al mio telegramma espresso di ieri, sono lieto annunziare che mediante mie argomentazioni persuasive gli antiquari hanno consentito consegnarmi i tre vasi che ora si trovano al museo. Riconfermo mia preghiera di sollecito pagamento nella maniera da me indicata e ciò a incoraggiamento e premio dei due negozianti che cedono allo Stato tre monumenti cospicui per un prezzo di molto inferiore al loro valore commerciale e pei quali avevano avuto offerte rilevantissime da antiquari romani55. Il 7 ottobre 1921 il Consiglio Superiore per le Antichità e per le Belle Arti delibera l’acquisto per la somma complessiva di 13.500 lire. Ma Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 51 numero 7 - giugno 2013 Il ministro Colasanti prima di dare una risposta al direttore chiede la consulenza alla Soprintendenza ai Musei e agli Scavi della provincia di Roma la quale così risponde: Quando è offerto dall’antiquario Giovanni Battista Furno per 2.000 lire un Elmo greco di bronzo risalente al VI-V sec. a.C., Gabrici senza aspettare l’autorizzazione del Ministero lo prende in custodia e comunica al ministro Colasanti che il museo ha ancora a disposizione dei fondi per poter fronteggiare la spesa. A distanza di una sola settimana dalla comunicazione del direttore arriva l’approvazione e a seguire di pochi mesi il relativo decreto. Proveniente da una villa palermitana demolita per motivi di ampliamento della città, era un Sarcofago strigilato con teste di Medusa, databile alla metà del III secolo d.C.58 che l’antiquario La raccolta di vasi e di figurine in terracotta offerta in vendita al Direttore del Museo Nazionale di Palermo non presenta nessun oggetto di valore artistico o archeologico. I vasi sono tra i prodotti più comuni e meno squisiti delle fabbriche ceramiche dell’Italia Meridionale […]. L’acquisto pertanto mi sembrerebbe consigliabile solo per la ragione storica-topografica di avere rappresentazioni al Museo di Palermo la necropoli del IV sec. a.C. di Lipari. Purtroppo anche a questo scopo la suppellettile offerta in vendita non può corrispondere in modo scientificamente adeguato perché non si ha da essa nessun corredo completo di tomba ma solo oggetti sporadici della necropoli ed oggetti che con la necropoli non hanno nulla a che fare come le lucerne romane. L’acquisto potrà avvenire Io se la provenienza da Lipari è assicurata, trattandosi di materiale che è nel commercio antiquario, IIo se si potrà ottenere un notevole ribasso sul prezzo richiesto57. Gabrici però non riuscì a ottenere dall’antiquario un ribasso della richiesta, ma ritenendo comunque importante per il Museo entrare in possesso magari di alcuni esemplari presentò al Ministro un nuovo elenco questa volta di soli 9 manufatti proposti a una cifra di 2.100 lire. Ma anche questa volta il ministero rimase irremovibile nella sua decisione e le trattative si fermarono. Sarcofago romano, Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas”, Palermo (Foto ACS, Roma). teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 52 numero 7 - giugno 2013 Antonino Anastasi proponeva a Gabrici per la cifra iniziale di 2.000 lire, dopo trattative scesa a 1.200. Anche questa volta Gabrici si mostra interessato a un «monumento ovvio per altre zone archeologiche ma rarissimo nella Sicilia occidentale»59. Poco dopo un mese giunge da Roma il consenso del ministero che fa entrare il sarcofago all’Olivella. Proprio come il suo predecessore, Ettore Gabrici non ignora le offerte d’acquisto o anche le donazioni di privati di opere d’arte, comprese le arti decorative che erano state fortemente volute da Salinas per testimoniare nella sua completezza la storia dell’arte siciliana. Le collezioni vengono arricchite anche grazie all’attività dell’ufficio per l’esportazione degli oggetti d’arte e antichità di Palermo che si trova all’interno dello stesso museo. La Commissione60, incaricata di prendere in esame gli oggetti di valore artistico e di rilasciare l’eventuale licenza per l’esportazione, può avvalersi dell’art. 9 della legge del 20 giugno 1909 n. 364 ed esercitare il diritto di prelazione se ritiene che il valore degli oggetti sia superiore a quello dichiarato. È quanto accade il 5 dicembre 1920. Il negozio dei Daneu, fra i più importanti antiquari di quegli anni61, presenta una richiesta di licenza per poter esportare all’estero un orologio Impero di bronzo dorato con l’allegoria della Primavera degli inizi del XIX secolo e un comodino Luigi XVI con applicazioni in bronzo dorato con testa di Fiasca per polvere da sparo (Foto ACS, Roma). Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 53 numero 7 - giugno 2013 Ercole, dichiarando un valore complessivo una con placche in osso incise con scene per i due manufatti di 1.000 lire. di caccia al cervo e al cinghiale63 e un’altra La Commissione esaminati gli oggetti di cuoio con ricami in filigrana d’argento, negò la licenza dichiarando che conveniva per un valore complessivo di 150 lire. «allo Stato esercitare il diritto di prelazione Gli oggetti, i cui prezzi vengono a vantaggio delle collezioni del Museo indicati come «semplicemente derisori», Nazionale di Palermo, la cui galleria provenivano dalla vendita attraverso possiede una sezione di oggetti d’arte e un’asta pubblica dei beni Baucina e i soli di pitture dei principi del XIX secolo»62. candelabri erano stati pagati per poco Il 16 febbraio 1921 si stila l’atto, il 18 più di novemila lire «lo speditore aveva la marzo è emanato il decreto dal ministro piena consapevolezza di frodare lo Stato Colasanti e, il 13 giugno, predisposto il dichiarando il prezzo di 2.000 lire per pagamento. Il lavoro della Commissione essi»64. Gabrici prega il ministro affinché la continua negli anni a seguire e nel 1923 richiesta della Commissione venga accolta esercita nuovamente il diritto di prelazione anche perché il «museo sta formando su altre opere che stavano per essere una raccolta di oggetti d’arte Impero la esportate all’estero. La ditta Perricone quale dovrà servire per lo studio delle Violante di Palermo chiedeva all’ufficio influenze che l’arte francese esercitò sullo di esportazione la licenza per quattro sviluppo dell’arte industriale siciliana in Candelabri Impero di bronzo dorato, per quel periodo»65. La richiesta per l’acquisto un valore complessivo dichiarato di 2.000 delle opere per un prezzo totale di 2.150 Albarello, Faenza inizi del XVI secolo (Foto ACS, lire, e per due fiasche per polvere da sparo, Roma). lire viene favorevolmente accolta dal teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 54 numero 7 - giugno 2013 ministro Colasanti; il 24 maggio 1924 è emanato il decreto e il 21 agosto il direttore sarà informato che il ministero ha provveduto a stipulare una polizza a favore della ditta Perricone Violante per la cifra stabilita. I rapporti con gli antiquari locali proseguono nel 1923: vanno a buon fine le trattative con Giuseppe Spanò, relative all’acquisto di un albarello di maiolica (Palermo o Faenza del XVI secolo) raffigurante un Santo. Il 2 aprile del 1924 il Ministro Colasanti acconsente all’acquisto per la somma di 600 lire e la maiolica va ad aggiungersi alla già ricca collezione museale66. Contemporaneamente continuano in quegli anni le lunghe trattative che Gabrici ha con gli eredi di Salinas per un abito di seta ricamata in oro di Piana degli Albanesi della fine del XVIII secolo67. Dunque, Gabrici è sempre consapevole del fatto che ogni oggetto, traduzione finale attraverso l’abilità manuale della creatività e dell’inventiva artistica, è documento del gusto estetico di un determinato periodo storico e sociale, non perde occasione per ampliare le collezioni del museo. Con questo spirito e sensibile al momento di rivalutazione artistica locale, convinto che era Nicolò da Pettineo, Madonna in trono col Bambino tra due Angeli musicanti (1498), Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia, Palermo. necessario non soltanto per motivi di tutela ma soprattutto per fini di documentazione arricchire il museo di opere siciliane, nel 1922 Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 55 numero 7 - giugno 2013 Bambino tra due Angeli musicanti, opera firmata e datata Nicolò da Pettineo 1498, può essere d’esempio. Tutto ha inizio da una richiesta di indagini sull’antiquario Giulio Sarrica fatta alla questura di Messina dal soprintendente alle Gallerie e ai Musei medievali e moderni Enrico Mauceri70. L’antiquario aveva proposto la tavola di Nicolò da Pettineo per una somma di 25.000 lire ma a condizione di trattare l’affare “a scatola chiusa”, senza esaminare il dipinto né svelare il nome del proprietario. comincia le trattative per acquistare il dipinto di Pietro D’Asaro, noto come il Monocolo di Racalmuto, rappresentante il Martirio di S. Stefano68. Considerato che il museo possiede solo un dipinto sicuramente attribuibile a questo artista finora imperfettamente studiato […] e tenuto presente che esso dipinto ha molti pregi che rivelano influenze esterne, propongo che esso sia acquistato per le raccolte di questo museo69. L’opera – databile fra il 1613 e il 1618, e firmata monoCVlo raCalmVtenSiS P – era racchiusa entro una coeva cornice di legno intagliato e dipinto e in buono stato di conservazione. Dopo lunghe trattative Gabrici riuscì a ottenere un notevole ribasso sul prezzo richiesto dall’antiquario Anastasi che, versando in gravi condizioni economiche, acconsentì la vendita per 1.650 lire invece che per 3.000 ma pose come condizione di vendita l’immediato pagamento. Il ministro diede al direttore il permesso di procedere con le pratiche, fu fatto l’atto di vendita e coi fondi del museo acquistato il quadro per il quale, per la prima volta, possiamo indicare la data d’ingresso nelle collezioni museali. Ma non sempre le vicende legate alle acquisizioni delle opere d’arte seguono percorsi lineari. Il caso del dipinto su tavola raffigurante La Madonna in trono col la strana proposta mi fece l’impressione di avere a che fare con un furfante il quale tentava un ricatto allo Stato, e che dopo aver tentato lo stesso raggiro col Direttore del Museo Nazionale di Palermo, com’è naturale senza successo, ricorreva agli stessi illeciti mezzi col sottoscritto71. Sarrica si era in effetti rivolto a Gabrici, ma inutilmente, e cercava ora di piazzare l’opera a Messina72. Questa fu posta sotto sequestro per evitare che Sarrica riuscisse a eludere la sorveglianza degli uffici di esportazione e venderla all’estero. A distanza di un anno le vicende attorno a questo quadro si fanno più chiare. Il reale proprietario del dipinto era Giuseppe Spanò il quale con tutta probabilità aveva preso accordi con l’antiquario per ricavare un maggior guadagno nella vendita del dipinto. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 56 numero 7 - giugno 2013 Diventa cruciale e determinante in questa vicenda il ruolo di Gabrici che, in qualità di soprintendente, ottiene la rimozione dei sigilli posti dall’autorità di pubblica sicurezza e incomincia le trattative per acquistare l’opera. Gabrici, infatti, vorrebbe che il Ministero si esprimesse sulla controversia e che acquistasse a una cifra più bassa di 14.000 lire. Il Consiglio Superiore per le Antichità e le Belle Arti decide che: _______________ 1 C. CaruSo, Ettore Gabrici (1868-1962), tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 2010-2011, Relatore Prof.ssa S. La Barbera. 2 A lui Gabrici dedicherà uno dei suoi primi scritti Topografia e numismatica dell’antica Himera e di Terme, pubblicato a Napoli nel 1894. 3 Per la vicenda legata alla catalogazione del Medagliere Santangelo del Museo Archeologico di Napoli si veda V. nizzo, Documenti inediti per la storia del medagliere del Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra la fine dell’800 e inizi del ‘900, in “Annali dell’Istituto italiano di Numismatica”, 56, 2010, pp. 157-291. 4 G. de Petra, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Richter, Napoli 1908. Tra i compilatori troviamo: Domenico Bassi direttore della sezione Papiri Ercolanensi; Ettore Gabrici direttore della sezione Numismatica; Lucio Mariani professore presso l’Università di Pisa; Orazio Marucci direttore del Museo Gregoriano Egizio in Vaticano; Giovanni Patroni professore presso l’Università di Pavia; Antonio Sogliano direttore degli scavi di Pompei e professore presso l’Università di Napoli. 5 Durante la campagna di scavi porta alla luce il recinto etrusco-italico consacrato alla divinità locale Nortia che Gabrici identifica in base allo studio delle stipi votive rinvenute. Gli sviluppi delle sue ricerche e i progressi sulle identificazioni del documento inedito sono costantemente pubblicati nella rivista “Notizie degli scavi di Antichità”, dove appaiono Bolsena: scoperta di antichità nell’area della città romana, 1903, pp. 357-375, e Bolsena: scavi e trovamenti fortuiti, 1906, pp. 59-93. 6 Di ritorno da Firenze, Gabrici è a Napoli dal 1907. Il primo interessamento che lo studioso ha per l’antica Napoli coincide con l’approvazione del piano di risanamento. Il grande intervento che cambiò l’antico volto della città di Napoli fu ipotizzato fin dalla prima metà dell’Ottocento e fu portato a compimento dopo una gravissima epidemia di colera avvenuta nel 1884. Nel 1885 sotto la spinta del sindaco Nicola Amore, appoggiato dal presidente del consiglio, Agostino Depretis, fu approvata la legge per il risanamento della città di Napoli e successivamente nel 1888 fondata la Società pel Risanamento di Napoli. Gabrici si occuperà dello studio della topografia di Napoli tra il 1896 e poi 1912-13, studi che riunirà nel 1951 in uno scritto più organico e unitario Contributo archeologico alla topografia di Napoli e della Campania in “Monumenti Antichi dei Lincei”, XLI, 1951, pp. 553-674. tenuti presenti i vincoli che gravano su quest’opera d’arte attualmente sotto sequestro per l’imposta notifica di importante interesse, è di avviso che questa tavola sola opera firmata dall’arcaico maestro siciliano, possa essere utilmente acquistata per la Galleria Nazionale di Palermo per un prezzo che non superi lire 10.00073. Accettata l’offerta, Spanò finalmente firma l’atto di vendita con lo Stato74. Pur avendo tralasciato in questa sede l’importante attività di archeologo e numismatico di Ettore Gabrici, sono emersi, dunque, alcuni aspetti della sua figura (quale direttore del R. Museo di Palermo, impegnato in uno strenuo lavoro di catalogazione, riallestimento, e incremento delle collezioni museali) che hanno messo in luce le sue qualità di studioso, il suo metodo di lavoro, i suoi orientamenti estetici. Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 57 numero 7 - giugno 2013 ottobre-novembre 1939, pp. 6-7. 20 id., Appunti sulle officine ceramiche di Palermo e Sciacca, in “Giglio di Roccia”, 1961, pp. 11-13. 21 G.C. SCiolla, La riscoperta delle arti decorative in Italia nella prima metà del Novecento. Brevi considerazioni, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, atti del convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina (Palermo-Erice, 14-17 giugno 2006), a cura di M.C. Di Natale, Sciascia, Caltanissetta 2007, pp. 51-58. 22 Nello stesso anno ottiene l’incarico per l’insegnamento di Archeologia presso l’Università degli Studi di Palermo, mentre nel 1927 copre la cattedra di Archeologia e Storia dell’arte antica rimanendo a insegnarvi fino al pensionamento del 1939. 23 «Il 25 decorso aprile, nella sede dell’Istituto in Castel S. Angelo, fu tenuta una solenne commemorazione in onore del compianto presidente professore Salinas. La mesta cerimonia ebbe principio con brevi parole del Cav. Martinori vice presidente dell’Istituto Italiano di Numismatica […], prese la parola il professore Bormann […] legato da un’amicizia più che cinquantenne […]. Tenne poi un discorso commemorativo il professore G. De Petra dell’Università di Napoli. Con parola elevata e intensa commozione rievocò la nobile e cara figura dell’amico carissimo, come niun altro avrebbe potuto fare, stretto d’amicizia com’era a lui da intima e quasi fraterna dimestichezza da comunanza di studi fin da giovinezza […]», in “Rivista Italiana di Numismatica e Scienze affini”, vol. XXVII, f. II, 1914, pp. 294-295. 24 In “Rivista Italiana di Numismatica e Scienze Affini”, vol. XXVII, fascicolo IV, 1914, p. 486. 25 Archivio Centrale dello Stato - Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Divisione I, 1908-1924 [da ora ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924], Busta n. 208, Sguardo agli uffici, alle collezioni, al fabbricato, 31 agosto 1914. 26 Ibidem. 27 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, Il fabbricato del Museo Nazionale di Palermo, 9 dicembre 1914. 28 Ibidem. 29 Ibidem. Il nome di Gabrici rimane ancora legato nell’area campana soprattutto in riferimento agli scavi di Cuma. Nacque così nel 1912 in “Monumenti Antichi dei Lincei” Cuma, un grande corpus organico che diede una visione completa sulla antica città. 7 Gabrici giunse in un momento in cui il museo, sembrava risollevarsi grazie al nuovo riassetto degli istituti archeologici e artistici voluto da Corrado Ricci, Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, che conferì la carica di direttore del museo a Giuseppe Angelo Colini. Cfr. Villa Giulia dalle origini al 2000, guida breve, a cura di a.m. moretti SGuBini, Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, Roma 2000, pp. 43-44. 8 e. GaBriCi, Topografia e Numismatica dell’antica Himera (e di Terme), in “Atti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti” , XVII, Napoli 1894, pp. 109-117. 9 e. GaBriCi, Selinunte: Temenos di Demeter Malophoros alla Gaggera. Relazione preliminare degli scavi eseguiti nel 1915, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1920, pp. 67-91. 10 id., Per la storia dell’architettura dorica in Sicilia, in “Monumenti antichi dei Lincei”, XXXV, 1933, pp. 139-250. 11 e. GaBriCi, Studi archeologici selinuntini, in “Monumenti antichi dei Lincei”, XLIII, 1956, pp. 206-391. 12 id., La materia del cantare di Elena nel soffitto Chiaramonte, in “Giornale di Sicilia”, a. LXIII, n. 202, 1923. 13 e. GaBriCi, Il soffitto istoriato nel Palazzo Steri di Palermo, in “La Siciliana”, IV, 1928, pp. 78-85. 14 e. GaBriCi, e. leVi, Lo Steri di Palermo e le sue pitture, Treves, Milano 1932. 15 e. GaBriCi, Il Palazzo di Re Ruggero, “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1923, pp. 3-15. 16 id., L’Abbozzo, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, vol. XIX, fasc. III, 1935, pp. 3-11. 17 e. GaBriCi, Riflessioni sul travaglio dell’arte figurativa contemporanea, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1946-47, pp. 3-17. 18 Per questi aspetti si veda C. Caruso, Gli scritti teorici di Ettore Gabrici, in corso di stampa. 19 e. GaBriCi, Collesano nella storia della maiolica siciliana, in “Giglio di Roccia”, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 58 numero 7 - giugno 2013 Vigilia nel Museo Nazionale, 9 ottobre 1916. 43 Ibidem. 44 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Restauri a due affreschi del De Vigilia, 8 febbraio 1917. 45 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Preventivo interventi di restauri, 17 febbraio 1917. 46 Cfr. V. aBBate, Gioacchino Di Marzo e la fortuna dei “primitivi” a Palermo nell’Ottocento, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno a cura di S. La Barbera, Bagheria 2004, pp. 181-198. 47 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 675, Restauro dipinto Andrea Del Sarto, 13 novembre 1917. 48 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Preventivo interventi di restauri, 28 novembre 1919. 49 Ivi, Busta n. 1026, Intervento di restauro, 26 novembre 1919. 50 Per la cui figura rinvio a B. molajoli, in La donazione Mario De Ciccio, Soprintendenza alle Gallerie, Napoli 1958, pp. 5-13. 51 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Proposta d’acquisto di un vaso greco, 16 dicembre 1915. 52 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Oreficerie antiche, 21 febbraio 1917. 53 Ivi, Busta n. 1025, Proposta d’acquisto vasi di Centuripe, 19 luglio 1921. 54 Ibidem. 55 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1025, Telegramma, 30 agosto 1921. 56 Ivi, Busta n. 1026, Vasi greci della Necropoli di Lipari, 30 luglio 1920. 57 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Vasi greci della Necropoli di Lipari, 7 settembre 1920. 58 Il sarcofago era stato pubblicato senza alcuna indicazione relativa alla provenienza in V. tuSa, I sarcofagi romani in Sicilia, Accademia di Scienze, Lettere e Arti, Palermo 1957, pp. 147-148. 59 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 675, Sarcofago Romano, 21 febbraio 1917. 60 La Commissione è composta dal direttore Ettore Gabrici, da Vincenzo Pitini e da Francesco Valenti. 30 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, Lo stato delle collezioni, provvedimenti urgenti, 10 dicembre 1914. 31 Ibidem. 32 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, L’archivio del Museo Nazionale di Palermo, 10 dicembre 1914. 33 e. GaBriCi, Selinunte e Motye: frammenti epigrafici, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1917, pp. 341-348. 34 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Selinunte, frammenti di un grande Gorgoneion in terracotta a rilievo, 10 giugno 1916. Si veda anche e. GaBriCi, Il Gorgoneion fittile del tempio C di Selinunte, in “Atti della Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1919, pp. 3-15. 35 Le immagini del presente saggio sono pubblicate su concessione del Ministero per i Beni Culturali, Archivio Centrale dello Stato di Roma (n. 1046/2012). 36 e. GaBriCi, Il Gorgoneion..., p. 3. 37 e. GaBriCi, Vasi greci inediti dei Musei di Palermo e Agrigento, in “Atti della Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, XV, 1928/29, pp. 3-21. 38 id., La Collezione Casuccini del Museo Nazionale di Palermo, “Studi Etruschi”, II, 1928, pp. 3-29. Si vedano anche i saggi in La Collezione Casuccini, ceramica attica etrusca e falisca, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1996 e il più recente Gli Etruschi a Palermo. Il Museo Casuccini, catalogo della mostra a cura di A. Villa, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012. 39 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Ispezione al Museo Nazionale di Palermo, 24 agosto 1916. 40 Ivi, Busta n. 1025, Cinquantenario del Museo e onoranze ad A. Salinas, 26 maggio 1922. 41 Per gli affreschi si veda m.C. di natale, Tommaso De Vigilia. I, “Quaderni dell’A.F.R.A.S.”, n. 4, i.l.a. palma, Palermo 1974, pp. 25-28; L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. Pittura, vol. II, ad vocem De Vigilia Tommaso, a cura di M.C. Di Natale, Novecento, Palermo 1993, pp. 163-165. Per le vicende conservative cfr. l. SPatola, Gli affreschi di Risalaimi. Vicende conservative in età sabauda, in Gli uomini e le cose. I. Figure di restauratori e casi di restauro in Italia tra XVIII e XX secolo, atti del Convegno nazionale di studi (Napoli, 18-20 aprile 2007), a cura di P. D’Alconzo, Clio Press, Napoli 2007, pp. 219-239. 42 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Affreschi di Tommaso De Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 59 numero 7 - giugno 2013 dipinto denunciato dall’antiquario Sarrica, 20 gennaio 1920. 72 Il soprintendente Mauceri, non credendo alle parole dell’antiquario, riteneva possibile, invece, che Sarrica fosse il vero proprietario dell’opera probabilmente prelevata da qualche chiesa e che cercava di venderla allo Stato con questo espediente. 73 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Dipinto di Nicolò da Pettineo, 11 novembre 1921. 74 A distanza di alcuni mesi, vediamo Gabrici interessarsi ancora alle trattative: non ricevendo il decreto dal Ministero per avviare i pagamenti a favore del proprietario, Gabrici solleciterà costantemente l’iter burocratico, concluso dopo sei mesi con la registrazione del contratto alla Corte dei Conti. 61 Per l’attività degli antiquari cfr. a. laVaGnino, I Daneu: una famiglia di antiquari, Sellerio Editore, Palermo 2003. 62 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, 5 dicembre 1920. 63 La fiasca è stata pubblicata da Luciana Arbace in Wunderkammer siciliana alle origini del museo perduto, catalogo della mostra (Palermo 2001-2002) a cura di V. Abbate, scheda n. II.47, Electa Napoli, Napoli 2001, p. 221, con un’indicazione di provenienza dal Museo di S. Martino delle Scale non pertinente. 64 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1027, 12 luglio 1923. 65 Ibidem. 66 Ivi, Busta n. 1026. Nella richiesta di acquisto la maiolica è datata agli inizi del XVII secolo. 67 Nel 1912, l’abito era stato offerto in vendita a poco più di mille lire dalla signora Vita Barbacia. Salinas lo comprò, anticipando personalmente la cifra, e non venendo mai rimborsato dal ministero. Come altri oggetti acquistati da Salinas, l’abito diventa oggetto d’interesse degli eredi di Salinas che ne reclamano la proprietà. Il ministero tramite Gabrici propone l’acquisto della gonna per un prezzo di 2.500 lire, mentre Gabrici propose la restituzione della veste agli eredi dai quali in un secondo momento lo Stato l’avrebbe riacquistata, cosa che avvenne nel maggio 1923. L’intera vicenda testimonia il vivo interesse e la rivalutazione per questa tipologia di manufatti provenienti da Piana degli Albanesi. Cfr. m. la BarBera, Il costume e i gioielli di Piana degli Albanesi, in Tracce d’Oriente. La tradizione liturgica greco-albanese e quella latina in Sicilia, a cura di M.C. Di Natale, Plaza Fondazione, Palermo 2007, pp. 111-131. 68 Per il pittore (1579-1647) si veda m.P. demma (a cura di), Pietro D’Asaro il «Monocolo di Racalmuto» 1579-1647, catalogo della mostra (Racalmuto, 9 novembre 1984-13 gennaio 1985), Arti grafiche Siciliane, Palermo 1984, scheda n. 12, p. 57. 69 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1025, Proposta d’acquisto di un dipinto di Pietro D’Asaro, 18 aprile 1922. Dalla consultazione di tale documento si apprende per la prima volta la data di acquisizione della tela oggi conservata nei depositi della Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia di Palermo. 70 Per l’attività di Mauceri rimando a Enrico Mauceri (1869-1966). Storico dell’arte tra connoisseurship e conservazione, atti del convegno internazionale (Palermo, 2729 settembre 2007) a cura di S. La Barbera, Flaccovio, Palermo 2009. 71 ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Richiesta di indagini di un teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 60 numero 7 - giugno 2013 Claudia Caruso L’Attività di Ettore Gabrici... 61 DAL REALISMO ALL’ASTRATTISMO: LE SAMMARCOTE DI NINO FRANCHINA (1935-1949) di Valentina Raimondo la prima fase del suo percorso artistico, quando dalla sua scultura, di impronta realista, si percepisce un gusto dal forte sentore arcaico e primitivo. Questo profondo legame di tipo iconografico con la Sicilia resta constante nell’artista fino al momento della svolta definitiva della sua carriera e dell’acquisizione di un linguaggio formale astratto. All’inizio degli anni Trenta il giovane Franchina, ancora allievo presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo2, si confronta con L e radici culturali e iconografiche di Nino Franchina affondano profondamente nel territorio siciliano. Lungo l’intero arco della sua carriera si percepisce distintamente un continuo richiamo a valori artistici influenzati dalla cultura siciliana che lo scultore rielabora e che si manifestano come puro istinto cognitivo soprattutto nei suoi ultimi esiti scultorei1. Nonostante il costante compimento del proprio destino di ‘emigrante’, lontano dalla propria terra ma visceralmente legato ad essa, i primi e più rilevanti riferimenti di Franchina all’arte siciliana si possono cogliere soprattutto fra gli anni Trenta e Quaranta, durante l’opera dei coetanei e amici3. La sua indole profondamente curiosa lo spinge a osservare l’immenso patrimonio artistico che la Sicilia offriva, determinando una ricerca di modelli di riferimento nell’arte classica con lo scopo di consolidare le nuove scelte formali. L’artista, che era membro e fondatore del Gruppo dei Quattro, aveva difatti intrapreso un percorso stilistico nettamente distinto negli esiti – teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 62 numero 7 - giugno 2013 grande ammirazione l’opera degli espressionisti francesi e tedeschi, di Van Gogh e Guaguin, di Picasso e Munch. È partendo da questi presupposti che si può osservare con adeguata cognizione la serie di disegni che Franchina esegue scegliendo come soggetto il Grande Telamone della Valle dei Templi ad Agrigento. Con pochi tratti d’inchiostro di china lo scultore delinea su diversi fogli le forme maestose del Telamone lasciandone percepire a pieno la grazia delle forme. Questa capacità di esprimere in pochi tratti la possanza e la maestosità delle figure è una delle doti più interessanti di Franchina scultore e disegnatore. Ad essa si accompagna la ricerca di tematiche e soggetti che possano essere più volte ripetuti e adattati a diverse esigenze stilistiche. I punti di riferimento dello scultore non appartengono tuttavia unicamente al mondo dell’arte classica. Le ricerche su differenti tipologie di figure lo vedono impegnato, soprattutto nella prima parte della sua carriera, nel tentativo di trovare un tema che possa fungere da comune denominatore per i fattori precipui della sua espressività, e che gli permetta, attraverso una ripetitività di elementi, lo studio delle forme. In un primo momento Franchina cerca di individuare questo tipo/tema in figure legate al mondo popolare e contadino. Moltissimi infatti sono i disegni eseguiti fra il 1933 e il 1936 di boscaioli, contadine e pastori in cui si percepisce una lontana memoria dell’opera di Millet. Nino Franchina, Telamone, china nera, 1938, (28x22 cm). ancora tendenzialmente ottocenteschi – da quelli di buona parte dell’arte accademica palermitana4. Insieme a Guttuso, Barbera e alla Pasqualino Noto, con i quali esporrà a Milano alla Galleria del Milione nel 19345, Franchina cerca di distinguersi nel panorama artistico nazionale dimostrando di conoscere le ricerche formali di altri artisti giovani come Renato Birolli, il Gruppo dei Sei, Lucio Fontana, Mario Mafai e Scipione. Egli si innesta in questo modo all’interno di un filone di percorsi stilistici e formali che, pur non disdegnando la tradizione classica italiana, osserva con Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 63 numero 7 - giugno 2013 intimamente connessa ad una visione della realtà siciliana quasi idilliaca e sognante. La ricerca del simbolo tipologico, della figura dai caratteri ancestralmente connessi al mondo da cui lo scultore ambisce trarre ispirazione, trova soluzione nel momento in cui Franchina disegna per la prima volta la Sammarcota, ovvero la donna di San Marco d’Alunzio. Da un punto di vista tipologico la figura, rappresentata dall’artista con un sasso raccolto dal greto del fiume Furiano sulla testa, costituisce la giusta occasione per indirizzare le proprie ricerche formali verso un monumentalismo blando. Le Sammarcote, che l’artista disegna e scolpisce a partire dagli anni Trenta fino alla fine dei Quaranta, possiedono tutte una forte volumetria e presenza materica, mostrando nel contempo un carattere di particolare intimità che non esclude, ma incoraggia il confronto con le Pomone di Marino Marini. La Sammarcota, la donna che trasporta i sassi che servono per la costruzione degli edifici del paese siciliano, costituisce per l’artista, a livello ideale, la Πότνια Мητηρ, il simbolo arcaico dell’origine stessa della scultura. Piuttosto che scavare nella mitologia greca Franchina mitizza una figura dai caratteri fortemente antropologici per farne la madre della sua arte. Tano Bonifacio, che ha studiato la produzione grafica dell’artista, ha sostenuto che Franchina scelse queste figure perché «esse Nino Franchina, Telamone, china nera, 1938, (22x28 cm). La scultura Pastore che dorme del 1933, in cui si possono leggere le influenze dell’opera di Martini e di Cuffaro, è una delle sue prime opere di maggiore importanza. La scultura, che fu esposta tra l’altro in occasione della mostra del 1934 presso la galleria del Milione a Milano6, risulta emblematica di un accostamento di Franchina all’arte che, se da un lato promuove decise novità stilistiche, rimane ancora legata ad una scelta iconografica di stampo più tradizionale, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 64 numero 7 - giugno 2013 esemplificano metaforicamente le condizioni storiche della gente di Sicilia, una vita vissuta fra sofferenza e fatica, eppure talmente piena di luce da risultare accattivante all’idea di uno schizzo a penna»7. Da un punto di vista artistico, osservando l’evoluzione formale della Sammarcota nella produzione grafica e scultorea dell’artista, è chiaro come Nino Franchina, Pastore la figura rappresenti l’elemento di che dorme, terracotta, 1933, maggiore importanza per individuare MNR. i passaggi fondamentali del suo percorso stilistico. Franchina infatti disegna Sammarcote per tutto l’arco della sua produzione figurativa. Lo studio delle forme di questa figura lo accompagna persino nel passaggio chiave dal realismo all’astrattismo. La prima testimonianza della presenza della Sammarcota nella produzione dell’artista siciliano risale al 1935, in uno dei disegni attualmente conservati presso l’Archivio Severini-Franchina 8. In quell’anno lo scultore, che aveva già avuto modo di esporre a Milano con il Gruppo dei Quattro e aveva ‘assaggiato’ la vivacità artistica della città lombarda e conosciuto i personaggi che gravitavano attorno alla Galleria del Milione 9, inizia a comprendere la necessità di un confronto più diretto con i giovani ambienti artistici nazionali 10. Il disegno, realizzato con inchiostro di china nero, medium grafico particolarmente apprezzato da Franchina per tutti gli anni Trenta, rivela, nelle forme, un forte gusto per l’arcaico e una decisa predilezione per Nino Franchina, Sammarcota, un tratto netto e ripetuto che consente china nera, 1935, (27x22 cm). di rimarcare l’aspetto materico dell’opera. Lo scultore non tenta in alcun modo di superare la bidimensionalità del foglio e non incornicia la figura, che si staglia nettamente sul bianco dello sfondo, senza alcuna forma di ambientazione paesaggistica. La presenza quasi monumentale della Sammarcota lascia, tuttavia, individuare i primi tentativi, ancora un po’ incerti, di mostrare anche nella grafica una ben precisa consistenza materica e di dare uno spessore volumetrico alla figura. Ai primordi della sua raffigurazione la Sammarcota appare semi-vestita, entrambe le mani reggono la pietra sul capo ed il tratto con cui è disegnata è marcato. Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 65 numero 7 - giugno 2013 Nessuna precisione anatomica è prevista dall’artista, che sembra piuttosto cercare degli effetti espressionistici, quasi astratti. La donna non mostra i segni di una ricerca estetica volta al bello, ma piuttosto al grottesco, al primitivo ed al caricaturale. La Sammarcota si innesta saldamente sul foglio per mezzo delle gambe cortecciose che Nino Franchina, Sammarcota, china simulano la matericità del nera, 1936, (28x20 cm). legno. Dal 1935 fino all’inizio dei Quaranta la figura della Sammarcota è spesso riproposta come protagonista dei disegni dello scultore, rappresentata interamente nuda o parzialmente vestita, con la pietra poggiata sulla testa, retta da una o da entrambe le braccia. In tutti i casi si nota la predilezione di Franchina per un tratto ripetuto e dal carattere quasi serpentinato, oltreché per una resa fortemente espressionistica dei dettagli. La figura non è protagonista solo dei disegni che Franchina esegue in questa fase iniziale della sua carriera, ma è anche soggetto di alcune sculture, di cui sfortunatamente esistono oggi poche testimonianze documentarie e fotografiche. Al 1936 risale la prima Nino Franchina, Sammarcota, terracotta, 1936, MNR. scultura documentata di Sammarcota, opera di cui non si conosce l’attuale ubicazione o sopravvivenza, ma verosimilmente realizzata prima del trasferimento di Franchina a Milano, avvenuto nell’ottobre dello stesso anno. Unica testimonianza della sua esistenza è una fotografia conservata presso l’Archivio Severini-Franchina; è di formato piccolo (cm 6x4) e, data la sua modesta dimensione, lascia appena intuire i caratteri precipui dell’opera. Si evince che Franchina realizzò la scultura in terracotta, adoperata e prediletta sia per il suo costo contenuto, sia per la sua grande malleabilità. Questo materiale consentiva inoltre un approccio al medium scultoreo più vicino all’esperienza teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 66 numero 7 - giugno 2013 di Martini, modello e punto di riferimento dello scultore siciliano, determinando nel contempo un approccio per modellazione, con partecipazione gestuale al processo artistico. La prima Sammarcota mostra già alcune differenze rispetto alle sculture precedenti dell’artista. Se infatti le prime opere di Franchina segnalavano Nino Franchina, Busto di Sammarcota, ancora un forte legame con china nera, 1937, 28x22 cm. Martini, si intravede adesso una maggiore vicinanza al carattere espressionistico della pittura di Guttuso, Birolli o Mafai. Proseguendo con una modellazione che riproduce un carattere serpentinato, Franchina propone una scultura in cui la terracotta sembra essere stata lasciata volutamente sbozzata, imperfetta, rugosa, come se il processo di creazione fosse stato interrotto per αποσδόκετον. Una incompiutezza che lascia tuttavia intuire una ricerca espressiva dai caratteri forti ed emozionali e una conoscenza e riflessione sull’arte di Van Gogh, Cézanne e degli Portatrice di pietre, fotografia b/n, s.d. Valentina raimondo dal realismo all’astrattismo... 67 numero 7 - giugno 2013 Non è improbabile che questi documenti siano stati realizzati dallo stesso artista in occasione di una visita a San Marco d’Alunzio e in seguito adoperate come spunto mnemonico per la rielaborazione del soggetto. Dopo il ritorno dal soggiorno milanese, nei primi mesi del 1937, la permanenza di Franchina in Sicilia sarà piuttosto breve. Nel 1938 è già testimoniato il suo trasferimento a Roma e la sua conoscenza con Gina Severini, figlia del pittore futurista, che diventerà, un anno dopo, sua moglie. L’arrivo nella capitale costituirà per l’artista l’approdo alla meta definitiva. Fatta eccezione per brevi periodi trascorsi altrove, Franchina eleggerà Roma sua città ideale, sua patria. La maggior parte della sua produzione artistica troverà maturazione e compimento all’interno del suo studio-abitazione, in via Margutta12. Qui è conservata ancora l’ultima Sammarcota eseguita dall’artista nel 1947-48, che è nel contempo l’ultima opera del percorso figurativo dell’artista prima della totale adesione all’astrattismo. Alla fine degli anni Trenta lo scultore manteneva ancora forti legami stilistici e formali con l’ambiente artistico milanese e con l’opera di Guttuso in particolare13. Tuttavia all’inizio dei Quaranta, con il trasferimento a Roma, si profila per lui una fase di transizione e di profondi mutamenti dettati anche da difficoltà lavorative e Portatrice di pietre, fotografia b/n, s.d. espressionisti francesi. Nonostante le numerose rielaborazioni di tipo formale lo studio di Franchina trae origine dalla realtà. Poco tempo fa la scrivente ha difatti trovato in archivio un piccolo album composto da poco meno di una decina di foto in bianco e nero, scattate in data imprecisata che riprendono, con prospettiva dall’alto, piccoli gruppi di donne che trasportano sassi raccolti sul greto del fiume Furiano11. Le donne sono per lo più riprese di spalle, le foto sono un po’ sfocate e di non particolare qualità artistica. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 68 numero 7 - giugno 2013 di salute che lo spingeranno a trasferirsi per un breve periodo di tempo a Collalbo, in provincia di Bolzano14. La solitudine e l’isolamento in Trentino spingono Franchina a rielaborare ulteriormente il proprio concetto di arte, i modelli di riferimento, e a riflettere sul percorso da intraprendere. Allontanatosi dalle tendenze Nino Franchina, Sammarcota, espressionistiche della sua arte china nera, 1940, (30x24 cm). precedente, lo scultore volge adesso ad una figurazione più matura, ad un realismo di stampo più tradizionalistico e ad un’osservazione più diretta dell’arte francese, e di Maillol15 e Despiau in particolare. Non è da escludere che il motivo di questo, seppur parziale, cambiamento di rotta sia dovuto ad una maggiore frequentazione del suocero Severini, oltre che ai fitti contatti con lo scultore Marino Mazzacurati. Severini costituisce per Franchina il legame con il mondo artistico francese a cui lo scultore guarda da sempre con estremo interesse. La conoscenza del panorama artistico parigino è in gran parte dovuta alle lunghe chiacchierate con il suocero, con il quale Franchina aveva la consuetudine di lavorare in occasione delle sue visite a Collalbo16. Il legame con Mazzacurati, che sembra essere particolarmente vivo in questa fase della vita e della carriera di Franchina, è piuttosto significativo. È infatti probabile che lo scultore emiliano rappresenti la liaison con l’ambiente artistico romano durante gli anni di Collalbo. I due artisti hanno Nino Franchina, Sammarcota, gesso, 1942, MNR. in comune una grande passione per l’opera di Maillol17, eppure differiscono nella produzione artistica. La scultura di Mazzacurati è più espressiva, più partecipata; più forte è in lui il legame con la statuaria classica, con Michelangelo18. Questo carattere invece tocca solo in parte Franchina. Lo scultore siciliano, che sappiamo per certo, conosce e studia le opere d’arte del passato, se ne lascia influenzare parzialmente. Le sue sculture di questi anni rivelano la ricerca di pacatezza compositiva, di maturità, elementi desiderati ardentemente e che, sino a quel momento, gli erano sembrati sfuggirgli. Mazzacurati scolpisce ritratti, ma anche lottatori, santi; Franchina invece si cimenta nel ritratto e nello Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 69 numero 7 - giugno 2013 studio di nudi femminili, scelta che dimostra la volontà di sperimentare la scultura nel segno di una morbidezza formale, e nel contempo l’incertezza di un mezzo o di uno stile che non sentiva ancora completamente suoi. Mazzacurati, con il quale Franchina mantiene un intenso rapporto epistolare19, fornisce in questi anni all’artista Nino Franchina, Sammarcota, china siciliano il materiale con nera, 1942, (27x20 cm). cui scolpire20 e preziose indicazioni relative alla pratica della fusione del bronzo21. I disegni di Sammarcota che Franchina esegue in questo periodo risentono notevolmente del nuovo clima artistico all’interno del quale lo scultore sceglie di operare. Le sue figure sono disegnate con più calibrata maestria. Il tratto non è più marcato, ma accompagna le forme della Sammarcota mirando ad una definizione più precisa dell’immagine. L’aspetto, quasi materico, che caratterizzava l’esperienza grafica precedente, scompare del tutto per lasciare spazio ad una nuova percezione del volume.Sfortunatamente anche la Sammarcota del 1942, opera eseguita in gesso, è andata perduta. Ne resta tuttavia testimonianza fotografica22. Facendo un rapido Nino Franchina, Sammarcota, china rossa, raffronto con l’opera del 1943, (28x22 cm). 1936 si percepisce un totale e netto distacco dalla produzione precedente. Se nella prima Sammarcota Franchina aveva volutamente lasciato la superficie sbozzata, in questo caso ci troviamo davanti ad un’opera dal carattere decisamente più compiuto. Il gioco e la maestria dello scultore non si basa più sulla sottrazione di superficie, ma sulla composizione di forme dalla volumetria perfecta sovrapposte l’una teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 70 numero 7 - giugno 2013 sull’altra fino a generare la figura. Ogni elemento della scultura, dal sasso alle singole parti del corpo della figura femminile, possiedono una propria autonomia formale e volumetrica. Ormai ben lontano da Martini, lo scultore siciliano guarda adesso a nuovi modelli. Ho cominciato a stringere di più la superficie sebbene le forme fossero sempre agitate. Il mio credo era allora che una scultura dovesse presentarsi alla luce aperta e immediata nella sua superficie […] però sentivo che la mia natura ed il mio istinto recalcitrava e fu questo che mi rimise su una linea se non altro non rigidamente teorica. A ciò concorse un mio ritorno di innamoramento per Donatello […]. In lui vedevo chiarificati tanti miei dubbi e leggevo con animo di moderno. Comunque la mia scultura rimase ancora molto incerta, dovevo ancora digerire quel che avevo in corpo e tritare bene quel che avevo in bocca. […] Poi con l’aver guardato con occhi improvvisamente attenti delle cose specie di Maillol cominciai a sentirmi improvvisamente attratto verso quella scultura sebbene il tutto ancora risiedesse su un piano di gusto e non ancora di esigenza o di convinzione plastica. […] È singolare il processo per cui Maillol è arrivato alla chiarezza delle sue forme. È partito senza dubbio dal Renoir del nudo con pomo in mano […] svolgendo quel tema e investendolo in modo così totale da dare la sua sigla alla scultura più valida del nostro tempo23. Nino Franchina, Sammarcota, china nera, 1946-47, (27x20 cm). Dopo il rientro a Roma, nel 1943, Franchina ha ormai maturato un proprio linguaggio che costituirà il punto di partenza per le ricerche artistiche che caratterizzeranno gli anni successivi e che determineranno quel passaggio fondamentale per la sua carriera, da figurativo ad astratto: le Sammarcote, mute compagne che fedelmente seguono lo scultore nelle sue peregrinazioni stilistiche e formali, ne rappresentano, nella seconda metà degli anni Quaranta, il simbolo e la chiave interpretativa principale. Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 71 numero 7 - giugno 2013 Il 1946 e gli anni del dopoguerra segnano in effetti la rottura definitiva di Franchina con il passato che si sviluppa attraverso una rimeditazione sull’arte cubista e costruttivista. Le sculture e i disegni eseguiti dal 1946 fino alla fine degli anni Quaranta pur mantenendo una propria figuratività si presentano, nella forma, più pieni ed essenziali; i dettagli realistici Nino Franchina, Sammarcota, china scompaiono per lasciare rossa acquarellata, 1947, 30x22 cm. spazio ad una modellazione più calibrata e sintetica della materia. Eseguite per lo più in gesso, le sculture che Franchina ci lascia di questo periodo si presentano come volumi imponenti che occupano e animano lo spazio. La stessa sintesi si riscontra nelle linee dei disegni dai quali si riesce a percepire anche l’acquisizione di una nuova e maggiore maturità espressiva, frutto di ulteriori meditazioni stilistiche. A Picasso – la cui opera Franchina guarda già dall’inizio degli anni Quaranta – si aggiungono come modelli di riferimento Constantin Brancusi, Henry Moore, André Adam, Henri Laurens, Jacques Lipschitz. Fra gli avvenimenti che certamente influenzano il modo di guardare e produrre arte di Franchina sono le brevi ma continue residenze a Parigi fra il 1946 e il 1951. Il primo soggiorno parigino avviene nel 1946, insieme alla moglie Gina. Lo scultore, ospite presso la dimora di Madame Maritain a Meudon, è chiamato a partecipare al Salon d’Automne24. Nello stesso anno Franchina recupera il tema ormai caro e consueto della Sammarcota che conoscerà la sua evoluzione definitiva nel periodo a cavallo fra 1946 e 1947. Una delle principali caratteristiche delle Sammarcote di questa fase è la tendenza verso una forma piena e una linea continua, che Franchina sembra trarre soprattutto dall’opera di Moore25. Le Sammarcote e le altre sculture di questo periodo si presentano come rielaborazione di forme geometriche connesse tra loro ma indipendenti l’una dall’altra. Gli studi grafici che accompagnano l’esecuzione di queste opere ne costituiscono una valida documentazione. Attraverso un insieme di cerchi, triangoli e ovali Franchina cerca di raggiungere la purezza e la sintesi della forma. Il volume, ancora nettamente protagonista teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 72 numero 7 - giugno 2013 della Sammarcota scultorea, tende nella grafica a scomporsi definitivamente per lasciare spazio ad un gioco di linee e contorni. Pur restando ancorato alla realtà oggettiva, lo scultore comincia a trasfigurare gli elementi che connettono le sue opere ad una figurazione completa. Sia nei disegni che nelle sculture i dettagli descrittivi scompaiono per lasciare spazio ad una nuova ricerca espressiva. Nelle opere in gesso e in bronzo, in particolare, l’artista sviluppa giochi volumetrici di materia secondo forme piene e linee che si arcuano e che sdrammatizzano l’effetto statico della scultura. Come espresso da Carandente nel 1968 lo scultore rivela in questa fase della sua carriera: luce di una ricerca espressiva nuova. La Sammarcota costituisce una delle sue prove migliori: figura solida, non priva di una propria leggiadria, composta da masse volumetriche connesse tra loro in un equilibrio compositivo calibrato. Con il bozzetto della Sammarcota Franchina partecipa anche alla prima mostra del Fronte Nuovo delle Arti alla Galleria della Spiga29. Nonostante lo scultore non sia uno dei firmatari del manifesto che aveva sancito la nascita del gruppo – fra i quali figurano invece gli amici Guttuso30 e Birolli – egli rivendica una comunanza d’intenti tale da Nino Franchina, Sammarcota, gesso, 1946-47, 180x 65 cm essere coinvolto ad esporre col Fronte anche in occasione della Biennale di Venezia del 194831. Evoluzione finale della Sammarcota e di questo processo di inesorabile scomposizione delle forme e dei volumi in chiave costruttivista sono le opere Immagine dell’uomo e Forma, realizzate in pietra un indirizzo preciso, diretto alla conquista di un linguaggio autonomo e implicitamente controcorrente rispetto al tradizionale plasticare o al far monumenti [corsivo nel testo, ndr]. La ‘Sammarcota’, la ‘Figura sdraiata’, il ‘Busto femminile’, del 1946-’47, furono le prime opere di quella serie giovanile a rivelare, sia pure ancora timidamente, un’apertura verso una nuova libertà espressiva26. Le opere di questo periodo, esposte in occasione di una mostra personale alla Galleria dello Zodiaco27, riscuotono un grande successo di critica28 e si collocano, in linea con la scultura di Moore o di Laurens, sulla scia di una rivisitazione del postcubismo alla Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 73 numero 7 - giugno 2013 fluviale, in cui si coglie una forte vicinanza alle ricerche formali brancusiane seppur riproposte attraverso l’uso di una materia che non risulta mai, nella produzione di Franchina, totalmente levigata. L’artista siciliano sembra adesso rimeditare sul concetto stesso di scultura. Viene meno l’esigenza alla monumentalità che era stata una delle caratteristiche delle opere eseguite fra il 1946 e il 1947, che lascia spazio ad una scultura dalla forte valenza simbolica. In particolare Forma come dice bene Marchiori: rappresenta una prima scelta, molto importante per Franchina, lungo quel processo di eliminazione che ogni artista compie per riconoscere e affermare la propria personalità. L’idea di ridurre una pietra di fiume, levigata dal corso delle acque, in una forma esteticamente valida è già ben lontana dalla riflessione sull’antico, sull’insegnamento dei mezzi accademici di un nuovo manierismo. […] La «Forma» di Franchina ha un precedente nelle proposte brancusiane di un arcaismo senza particolari descrittivi, che ne alterino il carattere elementare. La pietra ha un volume esatto, che prepara ad altre soluzioni di transizione, fino a esaurire la fase arcaico-primitiva, nella quale troppi scultori si sono attardati, senza poter risolvere quei problemi spaziali, che assillano gli scultori lontani dal ‘realismo’ di Picasso e dall’oggetto-trovato dei surrealisti32. Nino Franchina, Sammarcota, gesso, 1947, 47x29 cm. Nello stesso anno in cui esegue le sculture appena citate, Franchina varca definitivamente la soglia dell’astrazione arrivando a individuare alcuni motivi formali che, soprattutto nella produzione grafica, si teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 74 numero 7 - giugno 2013 ripetono ossessivamente fino all’inizio degli anni del quale avrebbe voluto da sempre inserirsi. In Cinquanta, e che trovano sublimazione esecutiva quest’occasione il giovane Franchina ha modo di fra il 1948 e il 1950. Il cambiamento di linguaggio conoscere personalmente gli scultori Giacometti, è evidente e netto; anche da un punto di vista Adam, Arp che, come indicato in una lettera materico si osserva un quasi totale abbandono del scritta a Marchiori qualche mese dopo la mostra, gesso e della pietra che lasciano il posto al bronzo. apprezzeranno molto le sue opere36. Franchina Da questo momento in poi sarà il metallo la materia stesso e la moglie Gina vivono l’evento con prediletta dallo scultore. Nello stesso anno in cui particolare gioia, come il primo vero successo Franchina concepisce il suo nuovo linguaggio dell’artista37. scultoreo, egli conosce la consacrazione internazioLa personale parigina è inaugurata il 20 aprile e nale mediante il coinvolgimento in esposizioni di resta aperta fino al 5 maggio 1949. Nella scelta rilievo come il Salon de la Jeune Sculpture o al delle opere da esporre Franchina, rifiutando Salon des Réalités Nouvelles33 e soprattutto grazie totalmente gli esiti della produzione figurativa, Nino Franchina, Sammarcota e Immagiall’organizzazione della sua terza personale presso ne dell’uomo, china nera, 1948, 28x20 propone un nucleo di sculture eseguite fra il 1947 la Galerie Pierre a Parigi. Nel 1949 e durante cm. e il 1949 fra le quali la Sammarcota accompagnata buona parte dell’anno successivo l’artista siciliano lavora molto in anche da un Telamone gigante in gesso, Immagine dell’uomo, una Francia, grazie anche all’ottenimento di una borsa di studio che gli Trinacria di cui non si possiede ulteriore testimonianza e Vittoria consente di trascorrere diversi mesi presso il capoluogo francese34. avanzante, scultura astratta dal forte impatto visivo che l’artista La mostra alla Galerie Pierre35 rappresenta un evento di grande esporrà anche in occasione delle altre due mostre a cui parteciperà importanza per la carriera e la vita dell’artista che intravede per la a Parigi nel ’4938. Particolarmente bella, la presentazione in catalogo prima volta la possibilità di far conoscere la propria opera a Parigi di Denys Chevalier si sofferma in modo particolare sulle opere che, e di entrare in contatto con il circolo culturale e artistico all’interno secondo il critico, più chiaramente legano Franchina alla terra di Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 75 numero 7 - giugno 2013 origine: la Sammarcota, il Telamone e naturalmente Immagine dell’uomo. L’originalità dello scultore viene colta proprio in quella capacità che il critico francese gli identificava di partire dalla conoscenza della cultura classica che, privata di elementi arcaci, è rivisitata attraverso un occhio e una mentalità moderni. compromis, Nino Franchina refuse les facilités de l’imitation ou de la copie d’ancien. Conçues et réalisées en plein air dans un respect quasi géologique de la matière et de ses exigences, ces «images de l’homme», ne présentent rien de gratuit ni de fortuit. […] A cette période que, dans l’œuvre de Nino Franchina on pourrait qualifier de transitoire, succède par un processus logique les dernières sculptures de l’artiste, concrètement non figuratives mais conceptuellement proches de celles qui les ont précédées, c’est-à-dire issues des mêmes mythes siciliens. Avec un sens aigu des exigences de la sensibilité moderne et une claire conscience de l’obéissance due aux lois éternelles de la plastique, Nino Franchina s’est inspiré des gigantesques cariatides (télamoni) abattues parmi les débris de l’immense temple de Giove dans la vallée des temples d’Agrigento. Admirateur de la statuaire grecque, l’artiste n’a pas cherché dans celle-ci un enseignement étroitement formel, il s’est acharné le sens profond, le message, et à en comprendre la mission. C’est parce qu’il a su remonter jusqu’aux premiers principes de la nature et de la fonction de son art, que Nino Franchina n’à pas fait œuvre de restaurateur ou d’amateur de reconstitution, et qu’il mérite d’être reconnu come un grec selon l’esprit39. On ne peut séparer Nino Franchina de sa Sicile natale. Ainsi à travers les influences que firent naître chez le sculpteur, les contacts qu’il établit avec les artistes romains et ceux de l’École de Paris, on perçoit constamment le souvenir d’un folklore familier et la survivance d’une antiquité toujours présente. Le thème de «Porteuses des pierres» [grassetto nel testo, ndr], par exemple, est tiré de la plus quotidienne des réalités siciliennes. […] Pendant quinze ans Nino Franchina s’est servi des ces modèles bénévoles et s’est attaché à en tirer la signification plastique en en éliminant de plus en plus la signification anecdotique. Dans sa grande «Porteuse des pierres», l’artiste à réalisé le maximum des possibilités que lui offraient ces conceptions. Cette sculpture, malgré quelques réminiscences archaïque et grâce à son austère construction architecturale, constitue dans production de Nino Franchina, un sommet, une sorte de ligne de partage de chaque côté de laquelle deux tendances, deux courants se dessinent et se manifestent. La «Porteuse des pierres», marque à la fois un dénouement et un commencement, elle est un point de rupture et un lien. C’est d’elle que descendent en filiation directe ces «images de l’homme» qui sont chez Nino Franchina, ses premières véritables tentatives vers la non-figuration. […] Dédaigneux des subterfuges et des È dunque ancora una volta grazie alla Sammarcota che è possibile cogliere in modo inequivocabile i passi compiuti dall’artista. La donna portatrice di pietre, il simbolo stesso dell’origine della vita e della scultura, veglia su Franchina costituendo la radice stessa dell’arte e il mezzo attraverso cui sviluppare nuove tendenze formali. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 76 numero 7 - giugno 2013 La narrazione dell’evento poietico si traduce nel resoconto di quel processo di fusione fra pietra e macchina che caratterizzerà la produzione futura dell’artista. La Macchina era ferma e la Pietra acquattata la guardava fissa. Quel lungo processo che aveva fatto divenire funzionanti e lucide le parti metalliche prima inerti gliela rendeva ancora più astrusa e incomprensibile. La Pietra era ancora là da secoli, vicina al ciglio della strada che tagliava i margini del grande estuario del Furiano – ancora non era stata strappata al greto dalle possenti braccia delle Sammarcote e issata sui capitelli dorici che sono le loro teste, per essere portata sino ai carri e divenire anch’essa elemento funzionante di una casa, un muro, un ponte. La Macchina era sempre ferma sul margine della strada, ma qualcosa avveniva in essa. Cominciava lentamente a scomporsi – invisibili mani la riordinavano in un disegno nuovo – lo spazio cominciava a intrecciarsi con le sue parti metalliche – la luce batteva e penetrava in essa in giochi fantasiosi. La Pietra cominciava a sentirsi attratta da questo movimento, da questa rigenerazione. Ecco, adesso fra le due branche metalliche che si erano fermate a sostegno di un’architettura armoniosa di forme, librata nel cielo, si creava un vuoto, uno spazio. Questo spazio a poco a poco prendeva la forma concava di un bacino materno e tutta la Scultura vibrava e attendeva di essere compiaciuta. Le possenti braccia della Sammarcota sollevarono la Pietra ma indugiarono a mezz’aria: essa era troppo rotonda, remota, non era abbastanza squadrata per essere utile al muro. E allora l’adagiarono dolcemente in quel cavo materno che l’attendeva e l’Opera fu così compiuta40. Nino Franchina, Immagine dell’uomo, pietra fluviale, 1948, 36x22,5 cm. Uno degli ultimi dichiarati riferimenti e omaggi alla figura femminile e al suo simbolismo, un vero commiato, compare in uno scritto del 1953 paradigmaticamente intitolato dallo stesso Franchina ‘Nascita di una scultura’. Il brano è, a tutti gli effetti, il racconto mitologico della genesi della sua arte. Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 77 numero 7 - giugno 2013 Palermo 1999; Renato Guttuso. Gli anni della formazione 1925-1940, catalogo della mostra (Catania, Galleria d’Arte Moderna “Le Ciminiere” 6 aprile – 27 maggio 2001) a cura di E. Crispolti, A. M. Ruta, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2001. 4 Per un’adeguata valutazione della situazione artistica siciliana di questo periodo si veda Arte in Sicilia negli anni Trenta, catalogo della mostra (Marsala, Ex Convento del Carmine 13 luglio – 15 settembre 1996) a cura di S. Troisi, Electa, Napoli 1996; Futurismo in Sicilia, catalogo della mostra (Taormina, Chiesa del Carmine 27 maggio – 16 ottobre 2005) a cura di A. M. Ruta, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2005; G. de marCo, “L’Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007; Annti Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi 22 settembre 2012 – 27 gennaio 2013) a cura di A. Negri, Giunti Editore, Firenze 2012. 5 La mostra presso la Galleria del Milione di per sè è dimostrazione di uno schieramento dei quattro nel gruppo di coloro che, lontani da canonizzazioni artistiche che non spiacevano al regime, si muovevano su un terreno del tutto nuovo in Italia cogliendo, ad esempio, l’importanza dello sviluppo dell’arte astratta. Cfr. P. miGnoSi, 2 pittori e 2 scultori siciliani, in “Bollettino della Galleria del Milione”, n. 29, 26 maggio – 12 giugno 1934. La mostra fu inoltre recensita su alcuni giornali: l. SiniSGalli, Mostre milanesi. Quattro siciliani al “Milione”, in “L’Italia Letteraria”, anno X n. 23, 9 giugno 1934; C. Carrà, Mostre d’arte. I Siciliani (Galleria del Milione), in “L’Ambrosiano”, 15 giugno 1934. 6 Ibidem. 7 t. BoniFaCio, I segni della scultura, in Nino Franchina…, 1997, p. 35. 8 L’archivio ha attualmente sede a Roma, in via Margutta, presso il vecchio atelier d’artista di Franchina. Lo studio, dopo la morte dell’artista, è stato conservato dagli eredi che lo hanno adoperato come luogo atto a conservare i materiali documentari relativi a Nino Franchina e al suocero Gino Severini. Attualmente la sede è inagibile, in attesa dei restauri necessari affinché possa diventare luogo di studio e di valorizzazione dell’opera dei due artisti. L’archivio è diretto da Alessandra Franchina, nipote dell’artista a cui vanno i ringraziamenti della scrivente che da molti anni prosegue, presso questa sede, i propri studi sulla figura dello scultore. 9 Come ebbe modo di raccontare Lia Pasqualino Noto «Durante il periodo della mostra parlammo lungamente di pittura con i Ghiringhelli e con i loro amici. La galleria aveva già preso l’indirizzo astrattista che poi mantenne. Gino Ghiringhelli era pittore astratto e con lui abbiamo conosciuto quelli del suo gruppo: Bogliardi e Soldati. […] Vidi e trovai molto interessanti le statue di ceramica di Lucio Fontana che allora erano delle figure di donne molto suggestive e colorate. […] Il pittore Gabriele Mucchi e la moglie Genni, scultrice, ci invitarono a casa loro in via Rugabella, […] ebbi così l’occasione di incontrare Cassinari e Birolli. […] Incontrammo Ernesto Treccani, il poeta Alfonso Gatto, lo scultore Martini, Fiorenzo Tomea, Cantatore, Santomaso ed altri. Fra i giovani scrittori, conobbi Leonardo Sinisgalli e Beniamino Joppolo». Cfr. l. PaSqualino noto, Una testimonianza autobiografica, in Lia Pasqualino Noto: a Palermo dagli anni ’30 a oggi, catalogo della mostra (Palermo dicembre 1984 – gennaio 1985) a cura di E. di Stefano, ed. Mazzotta, Milano 1984, p. 40. _________________ 1 L’appartenenza culturale di Franchina alla terra siciliana è da considerarsi sotto un duplice punto di vista: tematico e visuale-iconografico. Tematico perchè dal magma pulsante di stimoli culturali lo scultore carpisce continuamente soggetti e tradizioni da rappresentare: ci si riferisce in particolare alla serie di sculture dei Paladini, opere eseguite all’inizio degli anni Settanta che ripercorrevano il tema della Chanson des gestes e dell’interpretazione che di essa veniva fatta attraverso gli spettacoli dei pupi siciliani. Visuale e iconografico è uno dei modi attraverso cui è possibile comprendere il vero rapporto che Franchina aveva con la sua Sicilia: in opere come Pagina sgualcita (1985) o Oro del ferro (1986) nonostante il chiaro riferimento al tema del libro e del foglio di carta, l’aspetto dell’opera con la sua base stretta che man mano salendo si allarga proponendo un’esplosione di metallo ricorda uno zampillo di lava. Lo studio storico e scientifico del percorso compiuto da Franchina durante l’arco della sua carriera d’artista è stato argomento della tesi di dottorato della scrivente, discussa con il Prof. Antonello Negri il 27 marzo 2012 presso l’Università degli Studi di Milano, consultabile online sul sito internet dell’Ateneo a partire dal mese di aprile 2013. Per un ulteriore approfondimento bibliografico della figura dello scultore siciliano si veda: G. marChiori, Nino Franchina, De Luca Editore, Roma 1954; G. Carandente, Nino Franchina, Officina Edizioni, Roma 1968; Nino Franchina. Disegni Sculture 1935-1987, catalogo della mostra (Bolzano, Museo d’Arte Moderna 9 marzo – 28 aprile 1990), Mari Arti Grafiche, Todi 1990; Nino Franchina Antologica, catalogo della mostra (Palermo, Chiesa di S. Maria dello Spasimo 12 settembre – 12 ottobre 1997) a cura di T. Bonifacio, A. Franchina, Sellerio editore, Palermo 1997. 2 Nel 1930 Nino Franchina si iscrive alla Regia Accademia di Belle Arti di Palermo dove frequenta i corsi dello scultore Antonio Ugo con il quale si diploma nel 1934. Cfr. Archivio Severini-Franchina, sezione Franchina, fondo documenti, Tessera della R. Accademia di Belle Arti di Palermo di Nino Franchina, 1930, n. 0488; a. FranChina, Tutta la vita di uno scultore, in Nino Franchina..., 1997, pp. 99-130. Gli esordi della carriera dell’artista, dalla sua iscrizione all’Accademia fino al suo soggiorno milanese (1936-37) sono stati oggetto di tesi di specializzazione della scrivente svolta presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano sotto la guida del Prof. Luciano Caramel e discussa nel 2005. 3 Gli amici a cui ci si riferisce sono Renato Guttuso, Lia Pasqualino Noto e Giovanni Barbera con cui lo scultore aveva fondato il Gruppo dei Quattro nel 1932. A loro si aggiungono, fra gli altri, Topazia Alliata e Basilio Franchina, fratello dello scultore che condivise con lui, in quegli anni, l’amore per l’arte e soprattutto per il cinema, la sua grande passione, che sarebbe diventato presto la sua professione. Non esistono studi sulla sua attività di sceneggiatore, ma tra i film a cui lavorò è certamente da menzionare Riso amaro di Giuseppe De Santis. Per un approfondimento particolare sul Gruppo dei Quattro si veda Il gruppo dei Quattro: Renato Guttuso, Lia Pasqualino Noto, Nino Franchina, Giovanni Barbera: una situazione dell’arte italiana degli anni ’30, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Ziino, 11 dicembre 1999 – 11 febbraio 2000) a cura di S. Troisi, ed. Comune, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 78 numero 7 - giugno 2013 10 Tale necessità lo condurrà nel 1936 a trasferirsi a Milano per un periodo di sette mesi durante i quali sarà ospite dapprima presso lo studio di Renato Birolli, in seguito presso quello di Aligi Sassu. Per una ricostruzione puntuale della sua esperienza lombarda si veda V. raimondo, Nino Franchina a Milano (1936-1937), in “L’Uomo Nero”, a. V, n. 6, 2008 pp. 400-411. 11 L’album è composto da otto fotografie di diverso formato, verosimilmente scattate tutte nello stesso momento. L’oggetto non è stato ancora catalogato e non presenta pertanto ancora una numerazione propria. 12 Vedi nota 7. 13 Il rapporto con Milano è attestato soprattutto dalla partecipazione di Franchina alla seconda mostra di Corrente. Sebbene egli non sia da annoverare fra gli artisti promotori del movimento, lo scultore condivide alcune delle istanze, fre le quali l’espressionismo lirico, che caratterizza l’opera di molti degli autori che direttamente afferiscono a Corrente. Per ulteriore approfondimento si veda: r. GuttuSo, Nino Franchina, in “Corrente”, a. II, 15 dicembre 1939; Nino Franchina. Disegni 1943-1945, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Corrente 11 maggio – 24 giugno 2011) catalogo della mostra a cura di V. Raimondo, Scalpendi Editore, Milano 2011. 14 Nel 1940 Franchina si ammala di una grave forma di pleurite in seguito alla quale viene ricoverato presso l’Ospedale Forlanini di Roma dove resta per alcuni mesi. In seguito alla malattia i dottori gli consiglieranno di trascorrere del tempo presso località più salubri. All’inizio del 1941 la famiglia Franchina, composta da Nino, Gina e dal piccolo Sandro nato nel 1939, si trasferirà in Trentino, dove resterà fino al 1943, anno in cui riuscirà a ristabilirsi a Roma. 15 L’attenzione nei confronti della scultura di Maillol, che caratterizza l’opera di Franchina nella prima metà degli anni Quaranta, dipende probabilmente dalla capacità che lo scultore siciliano riconosceva in quello francese di trarre ispirazione dalla tradizione artistica senza tuttavia produrre alcuna forma di plagio. «Cette vision lucide et sensuelle des formes, guidée par une tecnique parfaite dans la voie de la tradition, tel est le Maillol de la Nuit, de Pomone, de la Pensée, de la Femme à l’Echarpe, de la Vénus au Collier [corsivo nel testo, ndr]. […] Ce qui fait de Maillol un trés grand sculpteur, c’est qu’il a retrouvé dans sa plastique le mystère de la construction des belles proportions; et par ce, ses créations ne sont pas un démarquage de la statuaire antique, mais un œuvre de solide architecture». j. Girou, Sculpteurs du midi, Librairie Floury, Parigi 1938, p. 51. 16 «Qui con Gino viviamo una armoniosa vita di artisti. La mattina ci chiudiamo ciascuno nel nostro studio e si lavora forte. Gino ha già fatto tre quadri e io accumulo nuove sculture», Archivio Severini-Franchina, sezione Franchina, lettera manoscritta di N. F. a Basilio Franchina, 5 luglio 1942, il documento non è stato catalogato, pertanto non possiede ancora numerazione propria. 17 «J’ai toujours considéré Maillol comme un patriarche». m. mazzaCurati, Des jeunes sculteurs parlent, in “Presence”, 26 novembre 1944. 18 Si veda a tal proposito: Marino Mazzacurati. Mostra antologica, catalogo della mostra (Bologna, Galleria La Casa dell’Arte 16 marzo – 30 aprile 1978) a cura di G. C. Argan, Bologna 1978; r. ruSCio, L’archivio Renato Marino Mazzacurati nei Musei Civici di Reggio Emilia, Diabasis, Reggio Emilia 1998. 19 Nonostante siano poche le lettere dello scultore emiliano conservate presso l’Archivio Severini-Franchina, si desume una frequentazione piuttosto intensa fra i due artisti da alcune indicazioni trovate sulle lettere che Franchina invia al fratello Basilio. Mazzacurati, oltre che amico, fu un punto di riferimento per lo scultore siciliano per i suoi consigli e perché gli procurava la materia (prevalentemente cera) con cui lavorare. «Io sono arrivato alla mia diciottesima scultura. Le ultime tre le ho fatte con la cera di Mazzacurati e questa materia mi ha dato una grande voglia di farne altre cosicché ho scritto a Mazzacurati di farmene avere», Archivio Severini-Franchina, sezione Franchina, lettera manoscritta di Marino Mazzacurati, 7 novembre 1941, il documento non è stato catalogato, pertanto non possiede ancora numerazione propria. E ancora: «A Roma Mazzacurati si sta occupando per la fusione in bronzo (la prima a 30 anni!) di una testina fatta a Sant’Agata. L’ho pregato di farmela fotografare bene», Archivio Severini-Franchina, sezione Franchina, lettera manoscritta di N. F. a Basilio Franchina, 5 luglio 1942, il documento non è stato catalogato, pertanto non possiede ancora numerazione propria. 20 È grazie a Mazzacurati che Franchina inizia ad adoperare la cera, il gesso e il bronzo per le sue sculture. 21 Per la prima volta, nel 1942, Franchina eseguirà una piccola scultura in bronzo, una Testa di ragazzo. Presso l’Archivio Severini-Franchina è conservata una lettera di Mazzacurati con spiegazioni dettagliate sui modi con cui eseguire la fusione del metallo. Cfr. Archivio SeveriniFranchina, sezione Franchina, lettera manoscritta di Marino Mazzacurati, 16 giugno 1942 [data timbro postale], il documento non è stato catalogato, pertanto non possiede ancora numerazione propria. 22 Anche questo documento (fotografia in bianco e nero, formato 10x6 cm) è conservato all’interno dell’Archivio Severini Franchina, sebbene ancora non catalogato e non dotato pertanto di numerazione propria. 23 Archivio Severini-Franchina, sezione Franchina, quaderno manoscritto di Nino Franchina [Collalbo], 1942, n. 1244-45. 24 La notizia è desunta da un’indicazione autografa di Franchina conservata in archivio. Si tratta di un elenco delle mostre a cui aveva partecipato nell’arco della sua carriera redatto dallo scultore intorno alla metà degli anni Ottanta. ASF, sezione Franchina, doc manoscritto “Autobiografia”, s.d., n. 1259. 25 Tra le diverse versioni della scultura ve ne sono due in gesso (Testa di Sammarcota, Busto di Sammarcota), due in bronzo (Piccola Sammarcota, Sammarcota). Le dimensioni variano dai 47 cm della Piccola Sammarcota (1947) conservata presso la GNAM di Roma, ai 180 cm della Sammarcota (1947) che lo scultore aveva tenuto con sé, all’interno del suo studio dove ancora oggi si trova la scultura. La prima versione della scultura grande era anch’essa modellata in gesso ed era disposta nel giardino di fronte allo studio di Franchina. Venne fusa successivamente in bronzo quando, a causa delle intemperie a cui l’opera era sottoposta stando all’aperto, aveva cominciato a deteriorarsi. Non sono ancora stati trovati documenti che attestino esattamente in che data Franchina ordinò la fusione della scultura. 26 G. Carandente, Nino... ,1968. Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 79 numero 7 - giugno 2013 34 «Lavora dapprima nel garage della casa che Gino Severini aveva preso in affitto a Meudon e nella quale aveva abitato Jacques Maritain, poi nello studio che gli cede in Rue Rousselot Henriette Nieps, la pittrice-gallerista che è sposata con Gillo Pontecorvo ed è amica di Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Conosce Arp, Zadkine, Lipchitz, Magnelli, Fougeron, Jacobsen, Adam, Giacometti, Picasso, Brancusi, di molti dei quali frequenta lo studio». Cfr. C. CoStantini, E Guttuso si fece prestare lo smoking, in “Il Messaggero”, 15 aprile 1985. 35 La mostra, dal titolo Nino Franchina. Sculptures ebbe luogo presso la Galerie Pierre di Parigi dal 20 aprile al 5 maggio 1949. Oltre ad una recensione scritta dallo stesso Chevalier e comparsa su “Arts” il 29 aprile 1949 si segnalano gli articoli: j. maraBini, Nino Franchina homme de la Sicile, in “Combat”, 9 maggio 1949; Sammaria, “Sculture e disegni” di Nino Franchina, in “La voce d’Italia”, 26 aprile 1949. 36 Scritta una volta tornato a Roma, la lettera a Marchiori aveva lo scopo di convincere il critico a perorare il coinvolgimento di Franchina nella Biennale di Venezia del 1950 all’interno della sezione dedicata alla scultura astratta italiana. «Tu non conosci il mio lavoro di questi ultimi anni (le opere della Biennale [si riferisce a quella del 1948, ndr] erano del 46 e 47) ma come avrai visto dal catalogo della mia personale da Pierre a Parigi che ti ho spedito e forse da quello del Salon des Réalités Nuovelles la mia scultura ha evoluto su posizioni astratte. Penso che per i riconoscimenti e consensi che ho avuto a Parigi (da Arp a Giacometti a Adam) e per il lavoro accanito nel quale mi sono tuffato dal mio ritorno a Roma merito di non essere escluso da quella rassegna». Archivio Giuseppe Marchiori, lettera manoscritta, 8 novembre 1949, pubblicata in Fronte Nuovo... 1997, p. 300. 37 «Ninuzzo caro uscendo per impostare la lettera ho trovato la tua voglio subito dirti quanto io sia felice della notizia della tua mostra, è una cosa bellissima, da Pierre, è quasi una garanzia di successo se tu puoi lavorare bene. Sono certa che una mostra con le sole cose che hai qua e là sarebbe già a Parigi di grande interesse, ma d’altra parte come fare per il trasporto. E per te stare a Parigi è già molto avere lo studio, certo è un peccato che non ci siano i miei, almeno con loro hai il vitto assicurato. Ma basta, tanto riusciamo sempre presso a poco a fare quello che vogliamo ed è per questo d’altronde che si continua a vivere anche se tante volte è stancante. Ma questa è un’occasione caro che non possiamo perdere, crolli il mondo. Sono così certa delle tue opere, anche se talvolta dico il contrario, eppure quando lo dico forse ho avuto ragione. Ho ugualmente molta fiducia in te come scultore». ASF, sezione Franchina, lettera manoscritta di Gina Severini, s.d. [1949], n. 1241. 38 Vedi nota 31. 39 d. CheValier, Nino Franchina. Sculptures, brochure della mostra Nino Franchina. Sculptures (Parigi, Galerie Pierre 20 aprile – 5 maggio 1949) a cura di D. Chevalier, Imprimerie du Point-duJour, Auteuil 1949. 40 ASF, sezione Franchina, doc. dattiloscritto di N. F., ottobre 1953, n. 0099. Il testo fu scritto da Franchina come corredo di un disegno pubblicato su l. SiniSGalli, Pittori che scrivono: antologia di scritti e disegni, Edizioni della Meridiana, Milano 1954, pp. 121-124. 27 La mostra dal titolo Nino Franchina ebbe luogo presso la Galleria dello Zodiaco di Roma dal 19 aprile al mese di maggio 1947. 28 L’esposizione ebbe diverse recensioni positive comparse su alcuni dei principali giornali italiani, cfr. r. muSatti, Franchina allo «Zodiaco», in “la Repubblica”, 23 aprile 1947; n. Ciarletta, Franchina allo “Zodiaco”, in “l’Espresso”, 29 aprile 1947; e. GalluPPi, Franchina, in “Fiera letteraria”, 1 maggio 1947; G. PeirCe, Lo scultore Franchina allo «Zodiaco», in “L’Unità”, 1 maggio 1947; V. Guzzi, Neocubismo espressionismo ed altro, in “L’Illustrazione italiana”, 25 maggio 1947. Particolarmente interessante, l’articolo di Peirce, costituisce una prova della chiarezza d’intenti che l’opera di Franchina emanava: «Chi vuole mantenersi attento alle manifestazioni nuove, ai nuovi sintomi e alle nuove strade dell’arte moderna romana deve necessariamente considerare (a parte ogni intrinseca valutazione artistica) l’attuale Mostra delle sculture di Nino Franchina (‘Galleria dello Zodiaco’) forse come uno degli avvenimenti artistici più importanti della presente stagione. […] Le ricerche di Franchina si realizzano sulla medesima linea che in Francia perseguono Laurens ed altri (che del resto Franchina conosce e cita). Questo vuol dire che esiste oggi, in Europa, uno sforzo comune e un fronte comune: il fronte della poesia. In questo fronte il nostro Franchina porta il suo contributo di ricerche e di coraggio, realizzando, a mio parere, talune eccellenti cose». 29 La mostra, svoltasi fra il 12 giugno e il 12 luglio del 1947, fu organizzata da Stefano Cairola e da Giuseppe Marchiori a cui si deve anche l’introduzione in catalogo dove il critico definisce le opere dello scultore «sensibili e colte prove stilistiche», cfr. G. marChiori, Introduzione alla Mostra, in Prima Mostra del Fronte Nuovo delle Arti catalogo della mostra (Milano, Galleria della Spiga 12 giugno – 12 luglio 1947) a cura di G. Marchiori, Milano 1947, p. 10. La presentazione di Franchina in catalogo è di Corrado Maltese che ricostruisce il percorso artistico dello scultore dagli inizi palermitani fino alle ultime esperienze e definisce le ultime sue opere come prodotto di una intensa ricerca espressiva, «Il mondo di travaglio che in esse è racchiuso è veramente importante. In esse è sintesi volumetrica, volontà di chiarezza costruttiva e di precisione». Maltese individua anche i limiti ancora non superati dall’artista nella tendenza ancora non sopita verso un arcaismo che contrasta con la chiarezza ricercata dallo scultore e conclude sostenendo «è certo che le contraddizioni della sua scultura saranno eliminate e ‘l’idea’ interiore portata a compimento». C. malteSe, Nino Franchina, in Prima Mostra… 1947, pp. 27-28. Per un’ulteriore valutazione e analisi bibliografica sul Fronte Nuovo delle Arti e sulla partecipazione di Franchina si veda: Fronte Nuovo delle Arti. Nascita di un’avanguardia, catalogo della mostra (Vicenza, Basilica Palladiana, 13 settembre – 16 novembre 1997) a cura di L. M. Barbero, L. Caramel, E. Crispolti, Neri Pozza Editore, Vicenza 1997. 30 Come è affermato da Marchiori, fu proprio Renato Guttuso a coinvolgere Franchina nella mostra di Milano e nell’attività del gruppo. Cfr. G. marChiori, Il Fronte Nuovo delle Arti, Giorgio Tacchini Editore, Vercelli 1978, p. 50. 31 C. malteSe, Nino Franchina..., 1947. 32 G. marChiori, Nino..., 1954, p. 15. 33 Premier Salon de la Jeune Sculpture, catalogo della mostra (Parigi, Museo Rodin 14 maggio – 9 giugno 1949), Paris 1949; Salon des Réalités Nouvelles, Paris 1949. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 80 numero 7 - giugno 2013 Valentina Raimondo Dal realismo all’astrattismo... 81 LA CULTURA FIGURATIVA SICILIANA NEGLI INTERVENTI CRITICI DI LEONARDO SCIASCIA (1964 -1987) di Giuseppe Cipolla contributi estetici e storiografici, al procedimento costruttivo su cui si fonda la moderna storiografia artistica3. È in questo territorio N che si inserisce l’attività di Leonardo Sciascia nel panorama della critica d’arte, che come emerso in alcuni studi recenti sul rapporto dello scrittore con le arti visive è individuabile – appunto – in una tipologia di scritti di ‘ordine eccezionale’4. I testi di Sciascia sull’arte antica e moderna, distribuiti in un arco temporale che va dal 1964 al 1987, rivolti principalmente ad artisti e fatti figurativi siciliani o comunque riconducibili al territorio isolano, nascono come interventi e articoli sulla stampa periodica, locale e nazionale, e come presentazioni a monografie d’arte. Questi interventi consistono principalmente in recensioni o saggi che toccano argomenti siciliani relativi alla cultura figurativa quattrocentesca (Il Maestro del Trionfo della Morte, Antonello da ella premessa a una delle sue opere fondamentali, Costruzione della critica d’arte (19551) – che rappresenta idealmente la continuazione del volume Genesi e paternità della critica d’arte (19512) – Luigi Grassi sottolineava «l’importanza, o la esclusiva validità, dell’attività critica dovuta al giudizio immediato, frammentario, istintivo e però aderente al significato di un’opera d’arte, quale è quello formulato felicemente da artisti o poeti», sebbene si tratti pur sempre di «critica frammentaria, intuizione isolata, di ordine eccezionale», ma che, tuttavia, concorre, nella brillante metafora della «costruzione dell’edificio della critica d’arte», accanto ai teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 82 numero 7 - giugno 2013 Messina, Francesco Laurana, Antonello e Domenico Gagini) o alla questione delle influenze caravaggesche in Sicilia tra fine Cinque e inizio Seicento (Filippo Paladini, Pietro d’Asaro). Si tratta di scritti comunque riconducibili, anche sul piano degli effetti di una attenzione alle vicende culturali coeve, alle mostre storiche siciliane del Novecento (Antonello da Messina, Messina 1953; Paladini, Palermo 1967; Antonello da Messina, Messina 1981; Pietro d’Asaro, Racalmuto 1984; Caravaggio, Siracusa 1984), e dove si riscontrano, in alcuni casi, interessanti riflessioni sulle problematiche figurative isolane, parallelamente alla coeva storiografia artistica. I primi significativi scritti appaiono negli anni Sessanta sul noto quotidiano palermitano “L’Ora”, periodico che ebbe un ruolo fondamentale nella cultura di sinistra siciliana del Novecento, diretto da Vittorio Nisticò5. Il giornale palermitano, per quanto concerne le pagine di cultura, raccoglieva articoli e interventi delle più prestigiose firme di quegli anni, con un particolare riguardo alle arti figurative (si pensi, ad esempio, agli scritti di Maria Accascina, Renato Guttuso, Franco Grasso), con recensioni e brevi interventi di critica d’arte6. Tra i primi spunti critici e giudizi, sparsi nei diversi articoli pubblicati nel quotidiano “L’Ora”, che contribuiscono a illuminarci sulla sua visione della storia artistica siciliana e, in particolare, in merito alle Libro siciliano, presentazione Flaccovio, Palermo 1972. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 83 di L. Sciascia, numero 6 - dicembre 2012 commistioni di culture diverse, significativa Tuttavia, tali processi di vivace contaminazione appare questa riflessione sui monumenti culturale e artistica – aggiunge Sciascia, sulla scia normanni: «I monumenti che ci restano del di Denis Mack Smith10 e di Rosario Assunto11 regno normanno di Sicilia hanno come – emergono soprattutto in «sovrastruttura, al peculiarità morale ed estetica la tolleranza vertice», secondo un disegno politico dei re religiosa e politica in cui si sono realizzati, normanni rivolto a «glorificare esteticamente il ‘dialogo’ tra le culture mediterranee da cui l’istituto monarchico» senza stravolgere originalmente (e finora irripetibilmente) sono l’assetto socio-culturale precendente12. sorti»7. Per Sciascia la cultura figurativa siciliana Ne consegue, in ultimo, che «l’arte arabonell’età medievale aveva subìto questo processo normanna era la creazione artificiale di di ibridazione costante, parallelamente alle un despostismo illuminato, non una vera diverse dominazioni e influssi di compenetrazione vitale di per se stessa»13 e dal culture eterogenee. basso. E qui, il sottile relativismo sciasciano Se ne ha ulteriore esempio nella presentazione Antonello da Messina, Ritratto d’uomo dimostra già una singolare concezione del al Libro Siciliano di Giuseppe Bellafiore e o ritratto d’ignoto marinaio, 1465-1476 c., rapporto tra arte e politica, tra strutture Cefalù, Museo Mandralisca Vincenzo Tusa in cui, citando la celebre opera di e sovrastrutture, tra cultura e potere. Gioacchino Di Marzo, Delle Belle Arti in Sicilia8, lo scrittore Aspetto, come noto, che rappresenta una chiaafferma: «Ammesso che si possa parlare di una civiltà ve interpretativa non trascurabile in tutti i suoi scritti, siciliana (poiché una civiltà non può lungamente coesistere, compresi quelli sull’arte. senza neutralizzarle o trasformarle in effetti opposti alla loro Nel 1965, su “L’Ora”, esce una breve nota di ‘rettifica’ riguardante origine e natura, con forme e fenomeni di inciviltà) questa il Busto di Pietro Speciale, opera la cui attribuzione oscillava appunto risulta dalla compenetrazione e fusione di civiltà diverse»9. in quegli anni tra Domenico Gagini e Francesco Laurana14. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 84 numero 7 - giugno 2013 La nota, facendo riferimento a un suo testo precedente, apparso sempre su “L’Ora”, nel quale lo scrittore si interrogava in merito all’ubicazione del manufatto, ci mostra uno Sciascia lettore di Gioacchino Di Marzo15 – la cui consultazione dell’opera in due volumi sui Gagini16 relativamente alla collocazione del busto, assegnato dallo studioso a Domenico Gagini, lo porta a un fraintendimento (il Di Marzo, giustamente, non poteva segnalare il luogo di conservazione dell’opera, essendo di collezione privata), che gli viene chiarito dalla spiegazione del senatore Simone Gatto sull’affido temporaneo dell’opera a Palazzo Abatellis, dove era esposta. Quest’errore, comunque, mi ha portato la conoscenza di un altro ritratto di Pietro Speciale, un bassorilievo, che si trova a Trapani nella collezione Barresi: ed è riprodotto nell’opuscolo «Sculture inedite o poco note del Laurana di Domenico e Antonello Gagini nel trapanese» che l’autore, Vincenzo Scuderi, mi ha gentilmente inviato. Debbo dire, però, che il ritratto che c’è a Militello, e di cui ho parlato, è molto più forte: e se quello di Trapani è attribuito a Domenico Gagini, è possibile quello di Militello sia d’altra mano, del Laurana probabilmente17. Francesco Laurana, Ritratto di gentildonna, detto di Eleonora d’Aragona, 1468 c., Palermo, Galleria interdisciplinare regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis. ricostruendo con quel suo inconfondibile stile narrativo, ma fondato su solidissime basi storiografiche – e non senza punte di ironia – le vicende della famiglia Speciale, torna sulla querelle attributiva della scultura divisa tra uno dei Gagini e Laurana. L’opera di Militello in Val di Catania18 affascinò lo scrittore al punto da occuparsene in un saggio più ampio apparso su “l’Espresso” nel 1981 e riedito nel 198919, dove, Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 85 numero 6 - dicembre 2012 Sciascia – («senza competenza alcuna e soltanto per sensazione») – lo ritiene di Francesco Laurana, in base a un ragionamento di carattere stilistico e a un confronto con il Busto di Eleonora d’Aragona di palazzo Abatellis: tipica dei modelli dell’opera dello scultore dalmata e, a proposito del Busto di Gentildonna detto di Eleonora d’Este di Palazzo Abatellis, su cui tornerà in diverse occasioni, afferma: [...] pochissime opere, e per noi questa primamente, valgono a dare idea della scultura in assoluto, della scultura [...] nulla che ho visto dei Gagini mi porta a credere che questo prodigioso ritratto sia uscito dalla loro officina. La stessa pietra, di un caldo colore ambrato, fa pensare al gusto del Laurana, al suo cercare nel marmo una luce, una tonalità, una ispirazione, un effetto: e si pensi a quel ritratto di Eleonora d’Aragona in cui la luminosità della materia dà il senso di una luminosità interiore20. Aggiungendo più avanti che: [...] la straordinaria forza del pezzo di Laurana sta proprio in questo: che totalmente esprimendola, “facendo del marmo quel che il marmo voleva”, stupendamente ha espresso la norma della “vita che pensa”23. Discorso questo, sulla corrispondenza tra luminosità formale e luminosità iconologica, che lo porta, seguendo naturalmente aspetti ben noti nella critica figurativa di quegli anni21, ad accostare il ritratto di Pietro Speciale con il Ritratto d’Ignoto di Antonello del Museo Mandralisca di Cefalù, aggiungendo, tuttavia, un giudizio sul carattere rappresentativo e universale delle due opere: L’artista che più affascinò Sciascia, culturalmente e formalmente, fu certamente Antonello da Messina: Scegliere nell’intera storia della pittura un pittore, un quadro, non è per me (e credo per ognuno che quella storia, più o meno sommariamente, conosca) difficile. Nulla di più facile, anzi, che rispondere con un solo nome, un solo titolo, alla richiesta di esprimere una preferenza assoluta. La risposta affiora immediata, quasi automatica. Se mi chiedessero quale pittore, senza esitazione risponderei: Antonello. E se mi chiedessero di un solo quadro, altrettanto sicuramente risponderei: il “Ritratto di ignoto” che si trova al Museo Mandralisca di Cefalù24. Ritratti, questo di Antonello, questo che diciamo del Laurana, in cui c’è un carattere, una storia – e non soltanto individuale, ma di un’epoca. Ritratti che sono una visione della vita»22. Negli scritti su Laurana, Sciascia mette in risalto la ‘familiarità’ teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 86 numero 7 - giugno 2013 Nel 1967 esce il primo scritto – forse uno dei saggi più illuminanti mai scritti sul contesto culturale in cui operava il pittore messinese – quale presentazione al volume curato da Gabriele Mandel della serie dei Classici dell’Arte Rizzoli per la Biblioteca Universale delle Arti Figurative, diretta da Paolo Lecaldano, e di cui fu consulente anche Carlo Ludovico Ragghianti. Il testo, intitolato L’ordine delle somiglianze, offre alcuni spunti sugli elementi Antonello da Messina, San Sebastiano, costitutivi dell’arte e 1476 c., Dresda, Gemäldegalerie. della letteratura dei siciliani (il rapporto tra la roba e l’anima, che per i siciliani a partire da Antonello, dice Sciascia, sono la stessa cosa, fatti oggettivi come la morte) 25. Partendo dagli spunti biografici sul pittore siciliano, lo scrittore, citando il celebre quanto fantasioso passo della biografia vasariana relativo alla vita mondana condotta da Antonello nell’ipotetico viaggio a Venezia26, viene suggestionato al punto da elaborare un suadente parallelismo in campo letterario con i personaggi di Brancati: E viene la tentazione di cercare riscontro a questa “persona molto dedita a’ piaceri e tutta venerea”, alla distanza di cinque secoli, nei personaggi di Brancati, in tutti quei personaggi che pensano “sempre a un cosa, a una sola cosa, quella!”, e più precisamente a quelli del Don Giovanni in Sicilia: “Ma il verme dei viaggi era entrato nei loro cervelli, e non smetteva di roderli... Anche il piacere di restare a letto, dopo essersi svegliati dal sonno pomeridiano, e di sprofondare gli occhi nel buio, ignorando se si guardi lontano o vicino, era guastato dal pensiero che, in quel preciso momento, i caffè di via Veneto si riempivano di donne”27. Il rimando a riferimenti letterari è un elemento che ricorre spesso negli scritti di Sciascia sull’arte siciliana, e se ciò può apparire scontato e persino banale per uno scrittore come lui, un po’ Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 87 numero 6 - dicembre 2012 meno lo è il concetto dell’importanza della caratterizzazione geografica nel considerare le opere d’arte, che lo scrittore applica con fermezza su Antonello, ma che adotterà frequentemente anche negli altri scritti sull’arte. Certo, il suo è un punto di vista di narratore e di conoscitore della Antonello da Messina, Annunciata, 1476, ‘sicilianità’ tout court, Palermo, Galleria interdisciplinare regionale letteraria e antropodella Sicilia di Palazzo Abatellis. logica, nel quale scrittori, artisti, poeti, sono visti nel loro rapporto contestuale con la storia culturale della Sicilia. Per Sciascia, come emerge chiaramente in molte sue pagine su artisti siciliani, ogni artista esprime nella propria opera, sul piano formale, quei tratti, quegli elementi di cultura, anche popolare, che caratterizzano un luogo; in merito Natale Tedesco parlerà, giustamente, di ‘coscienza dei luoghi’28. Al riguardo, risultano esemplari due passi, uno, nel quale, descrivendo il San Sebastiano di Dresda, afferma che [...] nella donna che si affaccia da una quinta col bambino in braccio, nelle figure che si affacciano ai terrazzi, nelle graste e nelle grate, in quella borraccia appesa a lato alla finestra alta, c’era un’aria di casa, di pomeriggio messinese. Si direbbe che c’è scirocco: quello scirocco da cui l’inglese Brydone, a Messina, si sentiva trafitti i nervi quasi quanto san Sebastiano dalle frecce. E l’uomo stramazzato nel sonno sul pavimento nudo, la scena galante che la coppia recita sotto il pergolato, le nuvole ferme, la luce: tutto sembra dire della snervata ora del pomeriggio sciroccoso. Mentre, poco dopo, il concetto è espresso in maniera più esplicita e con tono perentorio: Antonello, dunque: e il suo essere siciliano, come personaggio e come artista; come uomo insomma la cui vita, la cui visione della vita, il cui modo di esprimere nell’arte la vita, sono irreversibilmente condizionati dai luoghi dagli ambienti dalle persone tra cui si trova a nascere e a passare l’infanzia, l’adolescenza. Un critico letterario dei giorni nostri ha dichiarato teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 88 numero 7 - giugno 2013 da Antonello nelle sue opere e, soprattutto, per le ‘Annunciate’. A proposito dell’Annunciata di Palermo, infatti, lo scrittore, significativamente, aggiunge: che non riesce a capire come si possa legare ad un luogo una vita, e l’opera di tutta una vita; per parte nostra non riusciamo a capire come si possa far critica senza aver capito questo inalienabile e inesauribile rapporto, in tutte le sue infinite possibilità di moltiplicarsi e rifrangersi, di assottigliarsi, di mimetizzarsi, di essere rimosso e nascosto. Nessuno è mai riuscito a rompere del tutto questo rapporto, a sradicare completamente questa condizione; e i siciliani meno degli altri29. [...] si noti la piega della mantellina che scende al centro della fronte: che per il pittore, al momento, avrà avuto un valore soltanto compositivo, ma a noi dice di un capo conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo, e tirato fuori nei giorni solenni, nelle feste grandi; e si noti anche l’incongruenza, stupenda, della destra sospesa nel gesto ieratico (mentre è del tutto naturale al soggetto – diciamo alla donna contadina – il gesto della sinistra a chiudere i lembi della mantellina); e l’altra incongruenza di quel libro aperto, sul quale si ha il dubbio che mai gli occhi della giovane donna potrebbero posarsi a cogliere le parole e il senso; e poi il mistero del sorriso e dello sguardo, in cui aleggia carnale consapevolezza e nessun rapimento, nessuno stupore (se non si vuole, nel sorriso che appena affiora, scorgere magari un’ombra di malizia)”30. Più avanti, lo scrittore, in un passo della Cronachetta siciliana dell’estate 1943 di Nino Savarese – edito nel 1945 dalla Sandron a Roma, e poi riedito nel 1963 da Salvatore Sciascia a Caltanissetta – che descriveva le donne siciliane poco prima della fine della seconda guerra mondiale, individua una perfetta rispondenza con i personaggi femminili delle ‘madonne’ dipinte da Antonello: In queste donne la pudica timidezza, che contrasta col calore del temperamento, fa sbocciare sui loro volti una grazia contrastata tutta particolare...Col volto stretto tra le falde della mantellina, essa par chiusa in un’armatura che sa di chiostro e d’ovile. Questo classico copricapo, rende la fragranza delle sue guance e l’ardore dei suoi occhi, favolosi e irraggiungibili. Molti anni dopo, nel 1981 – in seguito all’inaugurazione della mostra del Museo Regionale di Messina - lo scrittore tornerà ad occuparsi del pittore messinese in un articolo apparso su “La Stampa”, dove ricorda la vivida atmosfera culturale della mostra messinese del 1953, curata da Giuseppe Vigni, Giovanni Carandente e Giuseppe Fiocco, cui evidentemente, come lascia supporre il testo, egli visitò: Poche descrizioni, come questa di Savarese – acutamente selezionata da Sciascia -, rendono la caratterizzazione dei modelli scelti Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 89 numero 6 - dicembre 2012 Non ho ancora visto la mostra di Antonello che si è aperta giorni addietro a Messina, ma ho ben vivo il ricordo di quella del 1953. Intorno era ancora il dopoguerra: sicchè la mostra era come un segno, quieto e luminoso, della pace ritrovata, della ritrovata Europa. E dentro il simbolo che era la mostra, più d’ogni altro era simbolo quel piccolo quadro che era arrivato dalla Romania: «La crocifissione» di Sibiu. Come era finita, quella piccola «crocifissione» cui faceva da sfondo lo Stretto di Messina, in quel remoto paese della Romania? E come mai la «cortina di ferro» si era aperta a prestarla alla lontana patria del pittore? Andando per le sale della mostra, davanti a quei quadri di straordinario splendore e vigore, ci si sentiva come dentro una dimensione di serenità, di libertà e di speranza31. L’attenzione di Sciascia al celebre affresco risale ai primi anni Settanta, anni in cui la critica specialistica si dibatteva sulle ipotesi attribuzionistiche (Crescenzio, Spicre, Pisanello, Antonello ecc..) attraverso incessanti ricerche documentarie svolte in parallelo con i restauri in corso presso l’Istituto Centrale di Roma35. Nel 1974 ne scriverà un ampio articolo, apparso su “L’Illustrazione italiana”, dove, prendendo in analisi le varie ipotesi avanzate dagli storici dell’arte, propone un’interessante osservazione – sulla scia di una fonte ineasuribile quale il Di Marzo – riguardo al valore poetico e iconografico del dipinto che riconduce a un preciso passo dei Trionfi di Petrarca36: Ma ciò che più interessa in questa sede, in merito alle letture sciasciane nel campo della storiografia artistica, è la citazione che, sempre a proposito della mostra messinese, fa del longhiano Frammento Siciliano32. Pur elogiando il celebre studio longhiano, ne contesta la considerazione dello iato nella cultura figurativa siciliana precedente ad Antonello33, sostenendo l’importante precedente del Trionfo della Morte, in cui, secondo lo scrittore – sulla scia degli articoli di Consoli – non era del tutto da scludere il probabile intervento del pittore messinese34. Giustamente il Di Marzo notava come il dipinto muovesse dalla «idea sublime del Petrarca». E se proviamo a leggere il Triumphus Mortis davanti al quadro, scopriamo che anche l’articolazione figurativa viene dal Petrarca: e parte dalla donna colpita dalle due frecce – una al petto, una al collo – e che è poi l’unica donna colpita dalla Morte. «La bella donna e le compagne elette / tornando da la nobile vittoria / in un bel drappelletto ivan ristrette; / poche eran, perché rara è vera gloria, / ma ciascuna per sé parea ben degna / di poema chiarissimo e d’istoria...»: ed ecco che la Morte la sceglie e senza dolore, a «fuggir vecchiezza e’ suoi molti fastidi». La bella donna acconsente: «ed ecco da traverso / piena di morti tutta la campagna.../ Ivi eran quei che fur detti felici, / pontefici, regnanti, imperadori...». E questo «da traverso» è impressionante come si teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 90 numero 7 - giugno 2013 Maestro del Trionfo della Morte, Il Trionfo della Morte, 1446 c., Palermo, Galleria interdisciplinare regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 91 numero 6 - dicembre 2012 Nel 1983, recensendo il libro di Vincenzo Consolo, Il ritratto dell’ignoto marinaio (1976), Sciascia, riferendosi al celebre dipinto cefaludese – «il più vigoroso e certamente il più misterioso e inquietante» – si sofferma sulla leggenda degli sfregi che la figlia del farmacista, che possedeva l’opera nelMaestro del Trionfo di Petrarca, l’Ottocento prima di Il Trionfo della Morte, 1503 c. sec., Paris, venderlo al Barone di Bibliothéque National de France. Mandralisca, fece al dipinto, forse perché irritata dallo «sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo» dell’effigiato. Ma, nota ancor più rilevante, più avanti torna sul Frammento Siciliano di Longhi, intervenendo sulla querelle sull’identità del personaggio ritratto, non escludendo, in definitiva, l’ipotesi che si tratti del primo autoritratto di Antonello, problema tuttora aperto40. ripeta nel dipinto, nella linea leggermente obliqua dei «muertos regogidos» che muove dal gruppo che possiamo chiamare dei popolani-spettatori, in cima al quale sono i ritratti del pittore e de suo aiuto. Per questi elementi, e per altri che intravediamo (e per esempio: che nel dipinto trascorra un’alba di primavera - «l’ora prima era, il dì sesto d’aprile»), sembra non ci sia da dubitare che il pittore abbia preso ispirazione e cognizione dal Trionfo petrarchesco37. Lo scrittore, quindi, individuava nell’opera l’intervento di una personalità colta, sostenendo, inoltre, che l’ambientazione è memore di alcune pagine del Decameron di Boccaccio e precisamente in quel: […] vagheggiare la morte da una specie di “hortus conclusus”, di rifugio, di luogo d’immunità: per cui il piacere dei sensi e dell’intelletto, il gusto della vita, il ricrearla e favoleggiarla nella parola, nei segni, nei colori, ne sono come moltiplicati.38 Concludendo, infine, che: […] non per nulla il pittore si è posto, sereno, in cima al gruppo di coloro che guardano lo spettacolo della Morte: il che può anche essere considerato come molto siciliano, e a favore dell’attribuzione a un pittore siciliano di cui il giovane Antonello da Messina poteva benissimo essere l’aiutante39. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 92 numero 7 - giugno 2013 N Proveniente dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai, all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone, e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei temi «di genere» (il che non esclude fosse un marinaio facoltoso: armatore e capitano di un vascello); o che si trattasse di un autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli, Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo41? el 1967, per le “Cronache parlamentari siciliane”5, esce un breve articolo sulla mostra di Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni - che estendeva l’attenzione critica al pittore toscano, anche in relazione all’influsso caravaggesco46 - suggerita da Brandi all’Assemblea Regionale in occasione del ventennale dell’Autonomia siciliana, e curata da Maria Grazia Paolini e Dante Bernini. Sciascia, nell’incipit della recensione, elogia la scelta di Brandi di far anteporre la mostra di Paladini a quella di Pietro Novelli, considerandola più rilevante sul piano critico per la singolare commistione stilistica operata dal pittore toscano in Sicilia (cultura manierista toscana e influssi caravaggeschi). Sulla scia del saggio dello storico senese, che introduceva la mostra, lo scrittore annovera tale passaggio stilistico tra le ‘unioni impossibili’ della cultura figurativa siciliana, che si attuò «per una condizione di ricettività e disponibilità che è nella vita e nella cultura siciliana»47. Tuttavia, più avanti, lo scrittore aggiunge alcune considerazioni alla tesi brandiana in merito all’influenza caravaggesca: lo storico senese considerava tale influsso non in chiave di totale conversione al naturalismo, ma quale ‘fortuito’ arricchimento (segnatamente ai contrasti chiaroscurali e all’uso della luce funzionale) della matrice A partire degli anni Sessanta, Sciascia si mostra sempre più sensibile alla politica culturale siciliana, intervenendo criticamente, con articoli e recensioni, sulle principali mostre di arte antica e moderna. A questo filone appartengono le recensioni su quella palermitana su Filippo Paladini del 196742, quella siracusana su Caravaggio e il suo influsso in Sicilia, del 198443; e, infine, quella su Pietro D’Asaro a Racalmuto dello stesso anno, che lo stesso scrittore promosse in prima persona 44. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 93 numero 6 - dicembre 2012 manieristica (sostenendo, in definitiva, che il Paladini rappresentò, semmai, «l’ultima luce del manierismo toscano»); lo scrittore, invece, tende a inquadrare Paladini nell’ottica di una netta conversione al naturalismo caravaggesco, che lui spiega quale conseguenza della ‘vocazione al realismo’ per tradizione connaturata alla cultura siciliana – e in questo, considerando il pittore toscano ormai del tutto ‘naturalizzato’: Avesse continuato ad operare in Toscana, forse il Paladini avrebbe sentito molto meno le suggestioni caravaggesche e senz’altro il risultato sarebbe stato quello di un “incenerimento”, nella sua pittura, della maniera cui più lungamente si era dedicato e delle istanze caravaggesche che avrebbe tentato di risolvere. L’ambiente siciliano gli è propizio non soltanto per l’occasione di un più immediato incontro col Caravaggio, ma per il risultato di una “unione impossibile” che viene a realizzarsi senza segnare una remora e senza lasciare scorie. [...] E si può anche osservare, in aggiunta alle acute osservazioni di Brandi, che il Paladini, del tutto sicilianizzato (e un po’ commuove, da un atto del 1601, il trovarlo, come già Antonello, sulla roba: una vigna che acquista da un tale Vincenzo de Xortino), si sia volto a Caravaggio come a un nuovo modo di far pittura che rispondeva alla profonda e sempre viva vocazione al realismo dei siciliani48. L. Sciascia, Todomodo, Einaudi, Torino 1974, copertina con Rutilio Manetti, La tentazione di S. Antonio Abate. Certo, si tratta di considerazioni borderline da non ‘addetto ai lavori’, legate più a una visione globale della storia culturale siciliana. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 94 Non va dimenticato che l’interesse dello scrittore per la pittura seicentesca, in merito anche agli epigoni del pittore lombardo, rientra più nel quadro di suggestioni letterarie, come avviene, ad esempio, per il dipinto La tentazione di S. Antonio Abate di Rutilio Manetti in Todo modo (1974) e, come nel caso del dipinto rubato che diventa movente di una serie di delitti, nel suo romanzo giallo Una storia semplice (Milano, Adelphi, 1989) allusivo, con numero 7 - giugno 2013 della singolare figura artistica di Pietro d’Asaro – risulta interessante per la critica che muove ai ritardi della rivalutazione della pittura del Seicento, in primis Caravaggio, negli studi del primo Novecento50. E cita, ad exemplum, quale caso eclatante in negativo, il Libro degli artisti51 del critico idealista e carducciano Enrico Panzacchi52: ogni probabilità, al furto della Natività di Caravaggio, trafugata nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo di Palermo. Tuttavia, nel corso dei primi anni Ottanta, lo scrittore si mostra interessato ai nuovi studi sul caravaggismo in Sicilia, confluiti nella grande mostra di Siracusa Caravaggio in Sicilia (1984), al punto da farsi promotore della mostra di Pietro d’Asaro a Racalmuto. Il saggio di presentazione della mostra (riedito poi in forma di articolo su “Malgrado Tutto”49) – esemplare e vivida ricostruzione storicoculturale (con un respiro che fa pensare a un’impostazione da kulturgeschichte) della «microstoria» di Racalmuto nel XVII secolo, Michelangelo Merisi da Caravaggio, sotto la Signoria dei Del Natività con i santi Lorenzo e Francesco Carretto che fa da sfondo d’Assisi, 1609, opera irreperibile, alle vicende biografiche già Palermo, Oratorio di San Lorenzo. Nel 1902 Enrico Panzacchi, poeta e autorevole critico d’arte, pubblicava un Libro degli artisti che era un’antologia, divisa per secoli, di testimonianze e precetti, intendimenti e giudizi sull’arte e sugli artisti del loro tempo da parte degli stessi artisti o di letterati a loro vicini. Ma nella sezione relativa al Seicento, sul Caravaggio altro non troviamo che uno scritto di Francesco Albani, pittore che fieramente lo accusa di portare al precipizio e alla totale rovina la “mobilissima e compitissima virtù della pittura”. Secondo l’Albani, dunque, e secondo il Panzacchi, il Caravaggio altro non sarebbe stato che un corruttore della pittura. E a parte questo avverso giudizio, tanto poco si parla nel libro di Michelangelo da Caravaggio che nell’indice lo si confonde con Polidoro da Caravaggio, vissuto un secolo prima. Siamo, ripeto, al 1902. Il che vuol dire ancora, all’inizio del nostro secolo, Michelangelo da Caravaggio, oggi considerato tra i grandissimi di ogni secolo, era un pittore quasi misconosciuto. E figuriamoci i suoi seguaci ed epigoni. Il fatto è che tutto il secolo era misconosciuto, e nelle lettere e nelle arti. E quasi relegato in un giudizio di formalismo e di vuotaggine riguardo alle lettere, di corruzione diciamo realistica riguardo alle arti. Giudizi in effetti contrastanti e che nessuno si preoccupava di confrontare, di contemperare, di far pervenire a Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 95 numero 6 - dicembre 2012 lavori – esprime, inoltre, le sue preferenze per alcuni aspetti della pittura del Monocolo di Racalmuto: «...confesso di preferire certi quadretti, certi dettagli di interno dei grandi quadri, cesti di frutta, cesti di pane, i fiori alla maniera del Caravaggio»55. una sintesi che desse, per così dire, l’anima del secolo, pur tenendo conto di tutte le contraddizioni che il secolo portava in sé, come del resto ogni secolo53. Sulla cultura figurativa del pittore, infine, non entrando nel merito delle influenze stilistiche, Sciascia si sofferma su alcuni aspetti iconologici della sua pittura di carattere profano, considerandoli per certi versi ‘misteriosi’: Di Pietro d’Asaro, per questa mostra di suoi quadri che finalmente si realizza, in questo catalogo, altri dirà con più competenza di me. Io voglio soltanto segnalare che c’è nella sua pittura – pur classificabile nella epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi, nella vicinanza allo Zoppo di Ganci – un che di misterioso, e principalmente nei suoi quadri “profani”, nelle sue allegorie: che sarebbero da studiare attentamente, da disvelare nei loro significati. C’è poi da tener conto della cecità del suo occhio destro – “monoculus racalmutensis” amava a volte firmare – che avrà compensata e risolta in un certo virtuosismo e con effetti che mi sembrano ravvisabili. Un mistero anche questo, in definitiva: da affidare ad un oculista, prima che a un critico d’arte54. Pietro d’Asaro, Sacra Famiglia, 1609-13, Racalmuto (AG), chiesa del Carmine (Fotografia Giuseppe Cipolla). In un’intervista rilasciata a Giusi Ferrè nel 1985 su “Epoca”, Sciascia, ricordando i momenti dell’allestimento della mostra racalmutese - segno questo che lo scrittore seguì attivamente i La mostra di Pietro d’Asaro, forse anche grazie alla promozione di uno scrittore come il Nostro, ebbe una certa risonanza mediatica. Infatti, la terza rete nazionale dedicò un documentario televisivo, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 96 numero 7 - giugno 2013 Più avanti, riferendosi alle opere centrali della mostra, il Seppellimento di Santa Lucia – presentata in quell’occasione dopo il restauro dell’Istituto Centrale di Roma - e le due opere messinesi, l’Adorazione dei Pastori e la Resurrezione di Lazzaro, lo scrittore si stupisce come, specialmente le due tele di Messina, abbiano sollevato nella critica novecentesca dubbi sull’assegnazione al pittore lombardo60: curato da Aldo Scimè, sulle due mostre di Siracusa e Racalmuto, nel quale furono intervistati Gesualdo Bufalino e lo stesso Sciascia e dove intervennero, inoltre, il giornalista Luigi Necco, lo studioso francese Georges Vallet e il soprintendente di allora Giuseppe Voza56. Un ultimo intervento sulle due mostre siciliane, dal titolo significativo Caravaggio & C. in Sicilia, appare il 19 dicembre sulle pagine culturali del “Corriere della Sera”57. Sciascia, qui, esprime il suo apprezzamento per le due mostre, per la particolare validità scientifica e filologica, ma non manca di lanciare – profeticamente, diremmo oggi - acute critiche nei confronti della proliferazione di iniziative culturali e mostre ‘di massa’, che si andavano affermando proprio negli anni Ottanta58: I tre quadri del Caravaggio sono portentosi, e riesce difficile da capire come i due del museo di Messina siano stati dati, tolti e ridati al Caravaggio, se anche ad incompetenti come noi appaiono indubitabilmente suoi. O si capisce benissimo, considerando come la critica attribuzionistica sia andata a finire nelle fosse di Livorno61. E, a tal proposito, tornando sul Seppellimento e sull’Adorazione, lo scrittore muove una sottile critica alle lettura berensoniana dei due dipinti: Convegni, mostre e pubblicazioni a volte (e forse è più giusto dire spesso) senza criterio alcuno e si va dalla volgarità festaiola alle astrattezze accademiche o avaguardistiche. E si dice per dire, avanguardistiche: poiché si tratta piuttosto di sparute e quasi sparite retroguardie. E sarebbe da fare un elenco di tutte le iniziative che sotto l’Egida dei Beni culturali, e a spese dei contribuenti, sono state realizzate in Italia in questi ultimi tempi: e senza che i contribuenti ne abbiano minimamente goduto. Sicchè quel che è stato legiferato a fin di bene, e per la protezione e valorizzazione dei beni, è andato ad effetti del tutto opposti: ad alimentare astratte velleità e a lasciare che i beni continuino a degradarsi e a dissolversi59. Ma è da dire che anche la critica descrittiva (quella di ascendenza vasariana, in cui si può credere, ma evidentemente con cautela) ha le sue defaillances. E mi accade di notarne due, proprio riguardo al Seppellimento di Santa Lucia e alla Natività che viene dal Museo di Messina, in Berenson. Del Seppellimento dice: «Qui l’incongruenza di allontanare nello sfondo le figure del dolore, mettendo in grossolana evidenza il fatto materiale, rasenta il cinismo»: e non Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 97 numero 6 - dicembre 2012 ricostruendo, in forma di ‘cronachetta’, le vicende collezionistico-giudiziarie di Fabrizio Valguarnera dei baroni di Godrano, medico ed esperto d’arte, amico e committente di pittori di fama tra cui Rubens (che aveva curato dalla podraga a Madrid) ed appassionato di pittura, a tal punto che arrivò ad acquistare Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1608, dipinti direttamente Seppellimento di S. Lucia, Siracusa, chiesa di da Reni, Lanfranco, Santa Lucia alla Badia. Poussin, Valentin e altri per riciclare diamanti ‘fortuitamente’ rubati a dei nobili fiamminghi in viaggio in Spagna66 - siano accostabili per tipologia alla fortunata antologia storica raccolta nella selleriana collana Delle cose di Sicilia, edita in quattro volumi dal 1980 al 198667. è per nulla vero, poiché è dal fatto materiale, quasi brutale, che le figure del dolore diventano più dolorose. Ed è altrettanto non vera l’osservazione sulla Natività, che iconograficamente gli sembra «molto singolare» per quei due anziani che «hanno l’aspetto grave e intellettuale di eletti teologi»62 e non di pastori: e sono invece, puramente e semplicemente, due anziani pastori. E basta guardare le loro mani per esserne certi. Ma si vede che Berenson non aveva nozione di quanto possa essere «intellettuale» un pastore errante nell’Asia o nella campagna siciliana, romana, abruzzese63. Al di là degli aspetti intrinseci dei giudizi di Berenson su Caravaggio – che, come noto, rientrano nella sua valutazione complessivamente negativa sulla pittura seicentesca64, la nota di Sciascia – che può apparire persino anacronistica e, tuttavia, non classificabile come specifica argomentazione critica sulle problematiche caravaggesche – attesta il suo interesse mai superficiale per la storiografia artistica, anche in ambito anglosassone. La pittura seicentesca, in relazione alla storia siciliana, continuò ad affascinare lo scrittore fino agli ultimi anni, come mostrano le sue ulteriori letture in questo ambito. Nel 1988 - traendo spunto dal saggio critico di Jane Costello, The twelve pictures «ordered by Velasquez» and the trial of Valguarnera65, che Giuliano Briganti aveva mandato allo scrittore prima del 1988 - esce sulla rivista “Nuovi Argomenti” una incisiva “esegesi storiografica” teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 98 numero 7 - giugno 2013 Michelangelo Merisi da Caravaggio, Adorazione dei Pastori, 1609, Messina Museo Regionale. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, Messina, Museo Regionale. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 99 numero 6 - dicembre 2012 Confronto che mette in evidenza una forte componente storiografica, nel senso di uno Sciascia, che anche negli scritti sulle arti si mostra ‘scrittore storico’ e cioè che «non rifugge dal mestiere dello storico»68 e, inoltre, come è stato notato, viene fuori un critico che, proprio in virtù della lucida visione dei fatti storici e culturali (e qui anche le arti occupano per lo scrittore un ruolo centrale), mostra notevoli interessi per la tradizione storiografica siciliana di matrice erudita che va da Tommaso Fazello a Gioacchino Di Marzo69. In definitiva, sebbene gli interventi di Sciascia sui pittori attivi in Sicilia nel Seicento non si possano inquadrare quali scritti di natura scientifica, tuttavia, ci mostrano quanto lo scrittore fosse aduso alla critica d’arte e attento lettore di testi specifici, oltre che frequentatore di alcuni tra i maggiori esponenti del panorama storico-artistico del Novecento in Sicilia, tra cui Cesare Brandi, docente dell’Università di Palermo dal 1959 al 1967, Vincenzo Scuderi70, Maria Pia Demma, allieva di Maurizio Calvesi a Palermo, Giuliano Briganti e altri studiosi del panorama nazionale che si sono occupati di argomenti siciliani, tra cui anche Ragghianti, come si vedrà soprattutto per l’arte contemporanea. _______________ 1 L. GraSSi, Costruzione della critica d’arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1955. 2 L. GraSSi, Genesi e paternità della critica d’arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1951. 3 L. GraSSi, Costruzione..., 1955, p. 7. 4 Sul rapporto tra Sciascia e le arti visive cfr. N. tedeSCo, Le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, catalogo della mostra (PalermoRacalmuto, luglio-novembre 1992) a cura di M. Pecoraino, Palermo 1992, pp. 48-50; F. izzo, Come Chagall vorrei cogliere questa terra. Leonardo Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di carta, a cura di V. Fascia, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276; La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto, 20 novembre-15 dicembre, 1999) a cura di P. Nifosì, Salarci Immagini, Comiso-Racalmuto 1999; G. CiPolla, L’universo sciasciano delle arti figurative: “un sistema di conoscenza dal fisico al metafisico”, in “El Aleph”, a. I, f. 11, 2009, pp. 82-88; G. CiPolla, Le radici di una passione. Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura” 1949-1989, in “Malgrado Tutto”, “Speciale Leonardo Sciascia vent’anni dopo”, a. XXVIII, f. 4, novembre 2009, p. 15; G. CiPolla, “Io lo conoscevo bene...”. Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2010, DOI: 10.4413/978-88-904738-21, http://www.unipa.it/tecla/articoli_noreg/ temicritica1_noreg/art_cipolla1_noreg.php, aprile, pp. 109-129; G. CiPolla, Leonardo Sciascia e le arti figurative in Sicilia, tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2011, relatore Simonetta La Barbera; G. CiPolla, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», I parte, in “Annali di Critica d’Arte”, VII (2011), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 359-408; G. CiPolla, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», II parte, Scritti di Sciascia sulle arti visive del Novecento su «Galleria» (1952-1990), in “Annali di Critica d’Arte”, VIII (2012), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 193-269; G. CiPolla, Leonardo Sciascia e l’architettura in Sicilia tra strutturalismo e immagini letterarie, in «Aa. Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Agrigento», a. XV, n. 30, dicembre 2012, pp. 31-37 (ISSN n. 1827-854X); L. SPalanCa, La tentazione dell’arte, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2012. 5 “L’Ora”, fondato dall’imprenditore siciliano Ignazio Florio, nel corso della metà del Novecento ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d’arte, oltre a Sciascia, Guttuso, e inoltre Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico cfr. G. de marCo, “L’Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2007. In particolare, sulla collaborazione di Sciascia a “L’Ora” cfr. M. Farinella, Sciascia e l’Ora, in L. SCiaSCia, Quaderno, introduzione di V. Consolo, Nuova editrice meridionale, Palermo 1991, pp. 13-14. 6 Ibid. teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 100 numero 7 - giugno 2013 7 L. SCiaSCia, Il libro di Ruggero, in “L’Ora”, 25 giugno 1966, ripubblicato in L. SCiaSCia, Quaderno...,1991, p. 165. Per un aggiornamento su queste tematiche legate alla cultura figurativa siciliana nella storiografia tra Otto e Novecento si rimanda ai contributi di Simonetta La Barbera, Carmelo Bajamonte e Roberta Cinà presentati a Bologna nel 2011 al convegno di studi Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928). Tra storiografia artistica, museo e tutela, in c.d.s. 8 Cfr. G. di marzo, Delle Belle Arti in Sicilia dai Normanni alla fine del secolo XVI, voll. 4, S. Di Marzo, F. Lao, Palermo, 1858-1864. A. Buttitta, Gioacchino Di Marzo e la cultura siciliana tra locale e globale, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno, Palermo, 15-17 aprile 2003, a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello&Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 121-127; L. ruSSo, Estetica e critica d’arte nell’Ottocento, in ibid., pp. 128-141. 9 L. SCiaSCia, Presentazione, in AA.VV., Libro siciliano, Flaccovio, Palermo 1972, p. 8. 10 Sciascia cita alcune pagine, relative al regno normanno, della Storia della Sicilia di Smith che era apparsa in Italia, tradotta da Lucia Biocca Marghieri, nel 1970 (cfr. D. M. Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, trad. di L. B. marGhieri, Laterza, Bari 1970), considerandole una «esatta sintesi» delle problematiche dell’età arabo-normanna in Sicilia. 11 R. aSSunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Il Saggiatore, Milano 1961. 12 L. SCiaSCia, Presentazione, in Libro Siciliano...,1972, p. 9. 13 Ibid., p. 10 14 L. SCiaSCia, Una rettifica, in “L’Ora”, 2 gennaio 1965, poi in L. SCiaSCia, Quaderno..., 1991, p. 22. Il Busto di Pietro Speciale (inv. 5998), originariamente di collezione privata e pervenuto negli ultimi decenni nelle collezioni lapidee della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo, è stato esposto qualche anno fa nella mostra palermitana Materiali per la Memoria al Palazzo Ajutamicristo, cfr. Materiali per la Memoria. Preciosa Cautius Servantur, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Ajutamicristo, 2010), Palermo 2010. L’opera, datata nella lapide sottostante 1469, ha suscitato da sempre tra gli studiosi un acceso dibattito, divisi sull’attribuzione a Domenico Gagini (Di Marzo, Accascina, Kruft, Bernini, Caglioti) o a Francesco Laurana (Mauceri, De Logu, Patera). Oggi il busto è dato a Domenico Gagini (cfr. M. de luCa, Il monumento celebrativo di Pietro Speciale, in Materiali per la Memoria..., 2010, pp. 3738), in base un riferimento nel documento di commissione che lo scultore bissonese stipulò con Pietro Speciale per la realizzazione del monumento sepolcrale del figlio Antonio Speciale della chiesa di San Francesco d’Assisi a Palermo, nel quale si impegnava, inoltre, a scolpire due busti, uno dello stesso Pietro e l’altro del figlio, identificabile secondo la De Luca con il Busto di giovinetto della Galleria di Palazzo Abatellis. É da aggiungere, come noto, che a Pietro Speciale sono dedicati altri due bassorilievi, quello della chiesa di Santa Maria la Stella di Militello in Val di Catania – quello su cui Sciascia si concentrerà, ritenendolo di Laurana – e l’altro già a Calatafimi, oggi in collezione privata (Barresi) a Trapani. Anche questi due bassorilievi hanno visto l’alternarsi dell’attribuzione ora a Domenico Gagini ora a Laurana. Per una sintesi delle problematiche attributive di Laurana e Gagini cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il sud angioino e aragonese, vol. II, Il Quattrocento in Sicilia, Donzelli, Roma 1998, pp. 235-238. 15 Sciascia apprezzava molto l’opera dello studioso palermitano – al punto da inserire il suo Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti (Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1903) in una edizione critica nel secondo volume della collana Delle cose di Sicilia (cfr. Delle cose di Sicilia, a cura di L. Sciascia, Sellerio, vol II, Palermo 1996, pp. 188 sgg.) – citandolo frequentemente nei suoi scritti sulle arti, elogiandone, inoltre, lo spiccato “regionalismo”. Al riguardo lo scrittore, sostenendo di fatto l’opinione di Giovanni Gentile riguardo al regionalismo del Di Marzo, unitamente a Giuseppe Pitrè e a Salvatore Marino, scrisse: «Non del tutto accettabile, la tesi è però sostenibile nel senso che la scomparsa di queste tre personalità, nello stesso anno e in piena guerra europea, avverte appunto del tramonto di una cultura regionale, siciliana e sicilianistica; di una cultura regionale negli intendimenti e nell’oggetto» (cfr. Delle cose di Sicilia...., 1996, p. 188). Sull’opera di Di Marzo, si rimanda all’esaustivo e ricco volume degli Atti del Convegno di Palermo del 2003 curato da Simonetta La Barbera, cfr. Gioacchino Di Marzo…, 2004. 16 G. di marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVII. Memorie storiche e documenti, voll. 2, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-1883. 17 L. SCiaSCia, Una rettifica..., 1965, p. 22. 18 Il bassorielievo raffigurante il Ritratto di Pietro Speciale (attualmente conservato nella “Stanza del tesoro“ in Santa Maria della Stella a Militello in Val di Catania), che già Sebastiano Agati ed Enrico Mauceri attribuivano a Francesco Laurana (cfr. E. mauCeri, S. aGati, Francesco Laurana in Sicilia, in “Rassegna d’arte”, a. VI, f. 1, 1906, p. 7), ha mantenuto tale attribuzione, salvo il Kruft che lo assegnava alla scuola di Domenico Gagini (cfr. H. W. kruFt, Domenico Gagini und seine Werkstatt, Bruckmann, München 1972, pp. 44-45, 245), fino alla critica degli ultimi anni (cfr. B. Patera, Francesco Laurana in Sicilia, Novecento, Palermo 1992, p. 58). 19 L. SCiaSCia, Viaggio a Militello, in “L’Espresso”, a. XVII, f. 42, 25 ottobre 1981, p. 241 (poi riedito e ampliato in L. SCiaSCia, Il ritratto di Pietro Speciale, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 1989, pp. 135-137; e ristampa ed. Adelphi, Milano 2009, pp. 197-201). 20 Ibid. Sull’attività di Laurana in Sicilia cfr. B. Patera, Francesco Laurana…, 1992; e sulla sua produzione limitatamente ai busti femminili cfr. C. damianaki, I busti femminili di Francesco Laurana tra realtà e finzione, Cierre Edizioni, Sommacampagna 2008. 21 Tra gli studi di questi anni su Laurana, incentrati su tali aspetti, cfr. B. Patera, Francesco Laurana e la cultura lauranesca in Sicilia, in “Quaderni de «La ricerca scientifica»”, f. 106, 1980, pp. 211-230; D. Bernini, Architettura e scultura del Quattrocento, in Storia della Sicilia, vol V, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1981, pp. 231-271. 22 L. SCiaSCia, Il ritratto di Pietro Speciale...., 2009, p. 200. Sui rapporti stilistici tra Antonello e Laurana, cfr. B. Patera, Sui rapporti tra Antonello da Messina e Francesco Laurana, in Antonello da Messina, Atti del Convegno di Studi, Messina 29 novembre-2 dicembre 1981, Messina 1987, pp. 325-340. 23 L. SCiaSCia, La corda pazza, in Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 1188-89. 24 L. SCiaSCia in Artisti e scrittori. Brera, Chiara, Marchi, Milani, Moravia, Pivano, Raboni, Sciascia, Soavi, Testori, a cura di O. Patani, Allemandi, Torino 1984, p. 111. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 101 numero 6 - dicembre 2012 Longhi di scrivere quel mirabile «Frammento siciliano», su Paragone, che oggi, davanti a questa seconda mostra, dovrebbe essere assunto, dagli addetti ai lavori, come una sollecitazione: e specialmente da questo punto: «Una grandezza che spaura nell’ambiente siciliano, quando si pensi ch’egli “cominciò a sormontare” in Messina ad un tempo con Tommaso de Vigilia a Palermo; forse anche prima, quando i carretti siciliani ancora portavano sui monti gli ultimi “retablos” del gotico fiorito. La sua posizione in Sicilia è insomma quella di un Masaccio a Firenze...». Dove, a parte i carretti, che non portavano sui monti un bel niente (sui monti andavano le lettighe e i carretti, per così dire retablati, erano di là da venire: e mi pare che tra i primi a vederli sia stato Maupassant), non persuade molto che la pittura di Antonello esploda come in un deserto. C’è da risolvere il problema dello stupendo «Trionfo della morte» di Palazzo Sclafani (ora alla Galleria Nazionale), e se non sia di qualche attendibilità l’ipotesi che Antonello vi abbia lavorato come aiuto». La prima ipotesi in questo senso, facendo riferimento a supposte iscrizioni, come noto, fu fatta da Giuseppe Consoli nel 1966, (cfr. G. ConSoli, «El servo» del «Trionfo» Sclafani, in “Arte Antica e Moderna”, a. IX, f. 33, 1966, pp. 58-77; G. ConSoli, Antonello e Spicre: una ipotesi sul «Trionfo della Morte» di Palazzo Sclafani, in “Cronache di Archeologia e Storia dell’Arte”, a. IV , f. 5, 1966, pp. 134-149; G. ConSoli, Rettifiche e acquisizioni per Antonello, estratto da “Archivio Storico Messinese”, III s., vol. XXIX, Messina 1978). In generale su tutta la problematica delle firme “presunte” si veda: M. Cordaro, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte», in Il «Trionfo della morte» di Palermo: l’opera, le vicende conservative, il restauro, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Abatellis, luglio-ottobre 1989) a cura di V. Abbate, M. Cordaro, Sellerio, Palermo 1989, pp.76-78. Sempre sullo stesso argomento si veda, inoltre, lo studio di A. mazzè, Il Trionfo dela Morte a Palermo, lo Zingaro e la peste, in “Storia dell’arte”, a. XIV, ff. 44-46, 1982, pp. 153-159; e M. CalVeSi, Il “Trionfo della Morte” di Palermo; quando Dio rende grazie, in “Art e dossier”, a.X, f. 106, 1995, pp. 22-27. 35 Sul restauro del Trionfo dell Morte, cfr. M. Cordaro, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte»..., 1989, pp. 76-85. 36 Cfr. F. PetrarCa, Trionfi, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1957, cap. I, vv. 5-80, pp. 27-31. 37 L. SCiaSCia, Il Trionfo della Morte, in “L’Illustrazione italiana”, f. 1, 1974, p. 64 38 Ibid. 39 Ibid., p. 65. 40 Il misterioso sorriso dell’”Ignoto marinaio” (aspetto che ispirò il celebre libro di Vincenzo Consolo) ha portato Sciascia a parlare di “ordine bioetnico delle somiglianze” e della “rete infinita di associazioni involontarie e volontarie” che, da un lato, richiamano il sistema della sinestesia, mentre dall’altro, sostengono gli elementi metaforici che avviano il lettore all’apprezzamento totale di una letteratura viva, dinamica e universale. E, in linea con l’attenzione dello scrittore per le storie legate a un dettaglio (come spesso accade nei suoi romanzi gialli), egli si sofferma sul “presunto” sfregio: L. SCiaSCia, L’ignoto marinaio, in “La Stampa-Tuttolibri”, 23 ottobre 1983, p. 3 (ripubblicato in Cruciverba, Einaudi, Torino 1983): «Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di 25 L. SCiaSCia, L’ordine delle somiglianze, in L’opera completa di Antonello da Messina, presentazione di L. Sciascia, apparati critici e filologici di G. Mandel, Rizzoli, Milano 1967, pp. 5-7. Lo stesso scritto sarà poi ripubblicato in L. SCiaSCia, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp. 23-29. Il testo sarà ristampato anche nel 2000: cfr. L. SCiaSCia, Antonello da Messina: l’ordine delle somiglianze, in Scritti d’arte: dieci maestri della pittura raccontati da dieci grandi della letteratura, Rizzoli, Milano 2000, pp. 89-101. 26 Il passo citato da Sciascia è il seguente: «E, stato pochi mesi a Messina, se n’andò a Vinezia; dove, per essere persona molto dedita a’ piaceri e tutta venerea, si risolvé abitar sempre e quivi finire la sua vita, dove aveva trovato un modo di vivere appunto secondo il suo gusto», cfr. G. VaSari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, p. 362. 27 L. SCiaSCia, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 5. 28 Cfr. N. tedeSCo,“Coscienza dei luoghi”: le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La cometa di Agrigento, E. Sellerio, Palermo 1997, pp. 48-50. 29 L. SCiaSCia, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6. 30 Ivi. Sciascia tornerà più volte a sottolineare il carattere etnoantropologico delle “madonne” di Antonello, rifacendosi alla teoria di un suo “professore di storia dell’arte”, che noi potremmo identificare con Enzo Maganuco (essendo stato l’unico docente di storia dell’arte nel periodo di formazione messinese), e ponendo tuttavia l’accento sugli alti livelli di espressività e luminosità raggiunti dal pittore siciliano: « Un mio professore di storia dell’arte teneva moltissimo a una sua scoperta: che le donne raffigurate da Antonello sotto vesti e titolo di “Annunciata” erano certamente di Palazzolo Acreide, paese in provincia di Siracusa in cui quel tipo di bellezza come “in vitro” si conservava. E non intendeva soltanto, credo, i lineamenti, le fattezze: ma anche, per così dire, l’interna luminosità, l’espressività, l’intelligenza» (cfr. L. SCiaSCia, Annunciata e Annunciatina, in “L’Espresso”, 22 novembre 1981, p. 179). 31 L. SCiaSCia, Il sorriso di Antonello è un mistero che ancora ci turba, in “La Stampa”, “Tuttolibri”, 14 novembre 1981, p. 3. 32 Cfr. R. lonGhi, Frammento Siciliano, in “Paragone Arte”, a. IV, f. 47, 1953, pp. 3-44. 33 Lo scrittore si mostrerà più volte sensibile a problematiche relative all’arte siciliana quattro e cincquecentesca. Nel saggio Sicilia e sicilitudine, posto nella raccolta di scritti La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, pubblicata da Einaudi nel 1970, Sciascia, osservando a proposito della storia della cultura siciliana - che sarebbe «da rifare in un disegno organico e magari partendo dai dati più umili» - chiama in causa un aspetto dell’arte isolana, e precisamente la produzione pittorica quattro e cinquecentesca che usciva dalle botteghe locali e veniva esportata in altri centri italiani. E più avanti, sempre nello stesso passo, si chiede come mai gli architetti siciliani barocchi ebbero più contatti con Parigi che con Roma. Ciò dimostra l’attenzione costante dello scrittore anche per gli ambiti meno noti della cultura e delle problematiche figurative connesse all’arte siciliana del passato. 34 L. SCiaSCia, Il sorriso di Antonello..., 1981, p. 3: «La mostra del ‘53 diede occasione a Roberto teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 102 numero 7 - giugno 2013 54-58) poneva in rilievo i rapporti fondamentali della cultura artistica isolana con l’azione degli ordini religiosi, e più avanti (V. ABBATE, Per il collezionismo siciliano: la quadreria mazzarinese dell’Ecc. mo Signor Principe di Butera, in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, a cura di M. Calvesi, Ediprint, Siracusa 1987, pp. 293-314) evidenziava il ruolo promotore dei Branciforti nei confronti degli artisti operanti nell’isola. Una nuova ricostruzione delle vicende biografiche di Paladini si deve a Maria Grazia Paolini (M. G. Paolini, Filippo Paladini, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra (Firenze 1986-1987), Cantini, Firenze 1986, vol. II, pp. 145-147 e vol. III, pp. 136-140) che riproponeva il problema della data di nascita del pittore rilevando le affinità con il Pocetti negli affreschi di Malta, tornando a spostare la Decollazione del Battista agli ultimi anni della sua attività. La mostra Pittori del Seicento a Palazzo Abatellis (a cura di V. Abbate, Electa, Milano 1990) recuperava altri due dipinti dell’artista, il Caino e Abele e lo studio del S. Francesco dalla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto. Infine, V. aBBate, Maestri del Disegno nelle collezioni di Palazzo Abatellis, catalogo della mostra (Palermo 1995), E. Sellerio, Palermo 1995, documentava l’attività di Paladini collezionista di monete e medaglie antiche. In definitiva la questione sul grado di influenza caravaggesca nell’opera di Paladini rimane tuttora aperta. 47 L. SCiaSCia, Un fatto culturale siciliano....., 1967, p. 851. Nell’articolo lo scrittore, pur elogiando le scelta del Governo regionale democristiano (la carica di Presidente dell’Assemblea Regionale in quegli era occupata da Rosario Lanza, che la detenne dal 1963 al 1971) di avvalersi della competenza di Brandi nella politica culturale, esprime alcune considerazioni sulla blanda attenzione nei confronti dello storico durante il suo periodo di docenza nell’ateneo palermitano (come noto Brandi fu titolare della cattedra di Storia dell’arte a Palermo, succedendo a Giulio Carlo Argan, dal 1959 al 1967). Sciascia, infatti, scrive: «Che il consiglio di Brandi sia stato accettato e realizzato, che alla glorificazione del maggior pittore siciliano si sia preferito un discorso, più sommesso nel senso, per cosi dire, della politica e più importante nel senso della cultura, sul pittore toscano, è un fatto senza dubbio poisitvo. E viene da considerare quante altre cose si sarebbero potute realizzare o avviare nel periodo in cui Cesare Brandi è stato a Palermo, titolare della cattedra di storia dell’arte all’Università: ma contentiamoci che almeno sul punto del suo trasferimento a Roma si sia fatto ricorso alla sua competenza (e ce ne contentiamo nella speranza che le altre iniziative suggerite da Brandi trovino realizzazione nell’arco di questa legislatura, e la mostra di Pietro Novelli al più presto)», (L. SCiaSCia, Un fatto culturale siciliano..., 1967, p. 851). La mostra su Novelli, come noto, si realizzerà poi soltanto nel 1990, Cfr. Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra (Palermo, Real Albergo dei Poveri, 1990), D. Flaccovio, Palermo 1990. 48 Ibid., p.852. Il concetto della ‘vocazione al realismo’ nell’arte siciliana ricorre spesso negli scritti di Sciascia sulle arti, ma si tratta, va puntualizzato, di un pensiero che esula dalle specifiche problematiche di carattere formale, e si pone, semmai, su un versante più ampio, di carattere storico-culturale, dove lo scrittore esprime una visione universale della cultura siciliana, insieme figurativa e letteraria. 49 Cfr. L. SCiaSCia, Presentazione in Pietro d’Asaro...,1984, pp. 19-22. esasperazione e di rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso, per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno di possesso: e chi lo ha inferto non è meno “posseduto” di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il dipinto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A meno che non si sia semplicemente ribellata – stupida – all’intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa». Sul Ritratto d’uomo del Museo Mandralisca di Cefalù, con bibliografia precedente esaustiva, cfr. M. luCCo, scheda 14, in Antonello da Messina. L’opera completa, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 18 marzo-25 giugno 2006) a cura di M. Lucco, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2006, p. 162. 41 L. SCiaSCia, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6. Qui emerge un’ulteriore sferzata storiografica nei confronti di Longhi, che nel Frammento Siciliano (cfr. R. lonGhi, Frammento Siciliano...., 1953, p. 29) aveva negato perentoriamente che si potesse trattare di un marinaio (per le condizioni economiche e per il fatto che non esisteva ancora il ritratto di genere), al quale Sciascia controbatte col suo razionalismo relativista e pungente. 42 Cfr. Mostra di Filippo Paladini, catalogo della mostra (Palermo 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio introduttivo di C. Brandi, Palermo 1967. Sulla mostra, lo stesso Brandi scriverà, poi, un articolo sul “Corriere della Sera”, cfr. C. Brandi, I siciliani hanno riscoperto i capolavori di Filippo Paladini, in “Corriere della Sera”, 29 maggio 1967. 43 Cfr. Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra (Siracusa 1984) a cura di V. Abbate, Sellerio, Palermo 1984. 44 Cfr. Pietro d’Asaro il «Monocolo di Racalmuto», catalogo della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1985. 45 L. SCiaSCia, Un fatto culturale siciliano: la pittura di Filippo Paladini, in “Cronache parlamentari siciliane”, a. VI, f. 11, novembre 1967, pp. 851-852. 46 Il rapporto tra Paladini e Caravaggio, considerato in minima parte nella storiografia novecentesca precedente al 1967 – a partire da Enrico Mauceri (E. mauCeri, Due volumi di disegni di Filippo Paladini, in “Bollettino d’arte”, a. IV, f. 10, ottobre, 1910, pp. 396-405), fino a Stefano Bottari (S. Bottari, Filippo Paladino, in “Rivista d’arte”, a. XX, f. 2, 1938, pp. 23-47; S. Bottari, Nuovi documenti sul manierismo fiorentino in Sicilia, in “Siculorum Gimnasium”, 1943, pp. 300-304), e a Carlo Ludovico Ragghianti (C. L. raGGhianti, Mischellanea minore di critica d’arte, Laterza, Bari 1946, pp. 163-165) – giunge a una maggiore attenzione nell’articolo di Dante Bernini del 1967 (D. Bernini, Sull’attività siciliana di Filippo Paladini, in “Commentari”, f.3, 1961, pp. 203-210), dove era sostenuta una rimeditazione del caravaggismo nel tessuto di matrice manierista dell’opera paladiniana, ponendo, in sostanza, le premesse per la grande mostra dello stesso anno a Palazzo dei Normanni, dove Brandi sosteneva la “felice” coesistenza delle due tendenze, negando tuttavia la totale conversione al naturalismo caravaggesco (cfr. Mostra di Filippo Paladini..., 1967). In anni recenti, ulteriori elementi di riflessione si sono aggiunti a quelli messi in luce nella mostra del 1967. L. SeBreGondi Fiorentini (Francesco dell’Antella, Caravaggio, Paladini e altri, in “Paragone”, a. XXXIII, ff. 383/385, 1982, pp. 107-122) datava la Decollazione del Battista al 1608; V. aBBate (I tempi del Caravaggio: situazione della pittura in Sicilia (1580-1625), in Caravaggio in Sicilia..., 1984, pp. Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 103 numero 6 - dicembre 2012 generando esposizioni di diversissima qualità e impatto, tanto sul piano economico e occupazionale quanto su quello culturale. Da questo scenario si sviluppa il fenomeno delle grandi mostre (o meglio: le mostre-evento a carattere commerciale, dette anche blockbuster = “spaccabotteghini”), cui Sciascia, in questo articolo sembra riferirsi denunciando i rischi di impoverimento culturale e scientifico, e soprattutto i rischi per la minore attenzione alla conservazione delle collezioni museali. Lo scrittore, come noto, era un attento e assiduo visitatore di mostre, in Italia e in Francia, come dimostrano le sue numerose recensioni. E, se si pensa al fatto che, contemporaneamente, frequentava gli ambiti più ristretti come le piccole gallerie, gli antiquari e gli ateliers degli artisti, si comprende bene che il suo giudizio sulla politica culturale “di massa” fosse particolarmente negativo, eccezion fatta per le mostre e gli eventi di una certa valenza scientifica e culturale. Sul fenomeno delle mostre blockbuster in Italia gli studi precursori sono: C. Brandi, Museografia, mostre e restauro, in Problemi della tutela del patrimonio artistico, storico, bibliografico e paesistico, Atti del Convegno, Roma Accademia dei Lincei 6-7 marzo 1969), Accademia dei Lincei, Roma 1970, pp. 77-92; R. lonGhi, Mostre e musei (1959), riedito in R. lonGhi, Critica d’arte e buongoverno. 1938-1969, Sansoni, Firenze 1985, pp. 59-74. Mentre, tra i testi-chiave sui termini del dibattito sul fenomeno al suo sorgere negli anni Settanta e Ottanta si annoverano: A. ChaStel, Editorial. Les expositions, in “Revue de l’Art”, f. 26, 1974, pp. 4-7; R. SPear, Art History and the “Blockbuster” Exhibition, in “The Art Bulletin”, a. LIVIII, f. 3, 1986, pp. 358-359; S.J. FreedBerG, G. jaCkSon-StoPS, R. SPear, Discussion. On “Art History and the ‘Blockbuster’ Exhibition, in “The Art Bulletin”, a. LXIX, f. 2, 1987, pp. 295-298; il numero di “Art in America” del giugno 1986 conteneva una sezione speciale intitolata Museum Blockbusters in cui si dibatteva dell’argomento; L. miotto, La memoria esposta. Esposizioni e musei, Mondadori, Milano 1986. Infine, per un quadro generale, che ricapitola bene il problema, anche in prospettiva storica, cfr. F. haSkell, The Ephemeral Museum. Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition, Yale University Press, New Haven - London 2000; D. leVi, “At What Expense? At What Risk?” Qualche riflessione sulla legittimità delle mostre, in “Predella”, a. IV, f. 16, 2005, pp. 15-23. 59 L. SCiaSCia, Caravaggio...., 1984, p. 13. 60 In realtà, i maggiori dubbi sull’autografia, nella critica novecentesca, dettate principalemnte da fattori conservativi (interventi e ridipinture ottocentesche), riguardarono principalmente la Resurrezione di Lazzaro (E. mauCeri, Restauri a dipinti del Museo Nazionale di Messina, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. I, f. 10, 1922 pp. 581-586; E. mauCeri, Il Caravaggio in Sicilia ed Alonso Rodriguez pittore messinese, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. IV, f. 12, 1925, pp. 559-571; N. PeVSner, Eine revision der Caravaggio-Daten, in “Zeitschrift für bildende Kunst”, 1927-1928, pp. 386-392; M. Cinotti, G. A. dell’aCqua, Caravaggio, Bolis, Bergamo 1983). Per la storia attribuzionistica dei tre dipinti si rimanda, con bibliografia specifica, alle rispettive schede nel catalogo della mostra del 1984 (cfr. G. BarBera, scheda n. 8, pp. 147-152, C. Ciolino mauGeri, schede n. 9-10, pp. 153-157 e 158161, in Caravaggio in Sicilia..., 1984). 61 L. SCiaSCia, Caravaggio...,1984, p. 13. Qui, naturalmente, il riferimento è rivolto al noto caso delle teste false di Modigliani, scoppiato in occasione della mostra, promossa per il centenario della nascita, nel 1984 al Museo progressivo di arte moderna di Livorno, che portò gran parte 50 Come noto, la riscoperta critica di Caravaggio si deve alla celebre mostra, curata da Roberto Longhi, del 1951 a Milano, cfr. Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale 1951), introduzione di R. Longhi, Sansoni, Firenze 1951. 51 Cfr. E. PanzaCChi, Il libro degli artisti. Antologia, Cogliati, Milano 1902. 52 Enrico Panzacchi (Ozzano dell’Emilia, 16 dicembre 1840 – Bologna, 5 ottobre 1904), poeta, critico d’arte e critico musicale italiano, nonché oratore e prosatore. Nel 1865 si laureò in filologia a Pisa, e l’anno seguente fu nominato professore di storia al liceo Azuni di Sassari. Insegnò Belle Arti all’Università di Bologna e fu deputato e sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Assieme a Olindo Guerrini e a Giosuè Carducci formò il cosiddetto triumvirato bolognese. Fondò e diresse diverse riviste tra le quali spiccano Lettere e Arti, fondata a Bologna nel 1889 e la Rivista bolognese di scienze, lettere, arti e scuola. Fu anche critico musicale prediligendo fra tutte le opere di Wagner e di Verdi e, applaudito oratore, tenne conferenze sui più svariati argomenti. Nell’ambito della critica d’arte italiana a cavallo tra Otto e Novecento, Panzacchi si inserisce nel filone estetizzante e lirico rappresentato, tra gli altri, da figure come Angelo Conti, Gabriele D’Annunzio e Ugo Fleres. Su Panzacchi si veda almeno: E. lamma, Enrico Panzacchi. Ricordi e memorie, Zanichelli, Bologna 1905; A. aleSSandri, Il mondo poetico ed umano di Enrico Panzacchi, Gastaldi, Milano 1955; C. L. raGGhianti, Profilo della critica d’arte in Italia, e complementi, Università Internazionale dell’Arte, Firenze 1990, p. 22 (1ª ed, Edizioni U stampa, Firenze 1948); G. C. SCiolla, La Critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, p. 52. 53 L. SCiaSCia, Un pittore del profondo Sud, in “Malgrado Tutto”, ottobre-novembre 1984, p. 8 (si tratta di una versione ampliata della prefazione di Sciascia al catalogo della mostra racalmutese su Pietro d’Asaro, precedentemente citata). 54 L. SCiaSCia, Presentazione, in Pietro d’Asaro..., 1984, p. 7. 55 G. Ferrè, Viaggio fantastico con Leonardo Sciascia: il mondo abita qui nella mia Racalmuto, in “Epoca”, f. 1791, 1 febbraio 1985, p. 33. 56 Cfr. Il Caravaggio visto da Sciascia e Bufalino in “La Sicilia”, giovedì, 21 febbraio 1985. 57 L. SCiaSCia, Caravaggio & C. in Sicilia, “Il Corriere della Sera”, 19 dicembre 1984, p. 13. 58 É da sottolineare anche la suadente ironia con cui Sciascia mette in relazione le due mostre, attraverso un sottile fil rouge che si interpone tra esse, ossia la presenza, il protagonismo e la protezione di Santa Lucia. Ed infatti, Santa Lucia viene festeggiata solennemente dalla città di Siracusa in occasione della sua ricorrenza il giorno 13 dicembre; si veda, inoltre, che il d’Asaro in veste di monocolo di Racalmuto, fu certamente devoto alla Santa, «quasi che Santa Lucia […] gli avesse dati facoltà di vedere con un occhio solo e di ritrarre con goduta virtù, quel che agli altri era dato di vedere – soltanto di vedere – con due». A partire dalla metà degli anni Settanta, l’innovazione introdotta dai “nuovi” Assessorati alla Cultura degli Enti locali puntò molto sulle mostre come strumento per innovare le politiche nel campo dell’arte e della cultura e per allargare la base sociale dei suoi pubblici. Nel settore delle mostre si è assistito non solo alla loro proliferazione, ma anche a una loro crescente differenziazione, a seconda che a gestirle fossero le istituzioni museali o gli enti, piccoli o grandi operatori privati, che si puntasse sulla valorizzazione delle collezioni esistenti o sulla loro circolazione, sul valore scientifico o sul ritorno economico, teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 104 numero 7 - giugno 2013 degli studiosi del tempo in uno degli “infortuni” attribuzionistici più eclatante del Novecento. 62 Il testo di Berenson su Caravaggio a cui lo scrittore fa riferimento è lo studio del 1951, cfr. B. BerenSon, Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, Electa, Firenze 1951 (trad. ingl., Caravaggio, His Incongruity and His Fame, Chapman & Hall, Londra e Macmillan, New York 1953), pp. 39-42. 63 L. SCiaSCia, Caravaggio..., 1984, p. 14. 64 Su questo cfr. G. C. SCiolla, La critica d’arte ..., 1995, p. 65. 65 J. CoStello, The twelve pictures «ordered by Velasquez» and the trial of Valguarnera, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, f. 13, 1950, pp. 237-284. 66 L. Sciascia, Quadri come diamanti, in “Nuovi Argomenti”, 1988, febbraio, numero speciale, pp. 6-13 (poi ripubblicato in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989, pp. 30-43; e recentemente nella riedizione Adelphi: Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 45-65). 67 Cfr. Delle cose di Sicilia...,1980, 1982, 1984, 1986. 68 F. renda, Leonardo Sciascia e la storia, in Sciascia: scrittura e verità, Atti del convegno, Palermo, novembre - dicembre 1990, Flaccovio, Palermo 1991, p. 91. 69 Ibid., pp. 92-93. 70 I rapporti tra Sciascia e Scuderi – come ho appreso in seguito a una piacevole conversazione con quest’ultimo, che ringrazio vivamente – hanno inizio a Palermo, nei primi anni Ottanta, negli uffici della Sellerio, tra scambi di opinioni e di pubblicazioni d’arte; e si intensificano durante l’organizzazione della mostra racalmutese di Pietro d’Asaro, per la quale lo scrittore mostrò un interesse non marginale anche nelle fasi di allestimento e di curatela delle relative pubblicazioni (il catalogo della mostra, curato da Maria Pia Demma; e gli Atti del Convegno di poco successivi). Giuseppe Cipolla La cultura figurativa... 105 Il giovane Dürer: riflessioni in margine ad una mostra di Simone Ferrari F ra gli eventi artistici del 2012 occupa un posto di primo piano la mostra dedicata al giovane Dürer a Norimberga, città natale del maestro (1471)1. Il denso e ponderoso catalogo certifica la periodizzazione scelta, che va dagli esordi (circa 1490) fino ai primi anni del Cinquecento e si arresta prima del secondo soggiorno veneziano (dal 1505). Va da sé che il titolo scelto vale come pura indicazione preliminare ad uso del pubblico, che non deve attendersi una monografica completa, relativa all’intero percorso artistico. In una più specifica accezione storiografica, invece, il momento analizzato va scandito in molteplici tappe, quantomeno le seguenti: formazione; primi viaggi di istruzione; primo viaggio in Italia; teCLa - Rivista L’Apocalisse (1498); il periodo del clamoroso successo in patria (circa 1500); i capolavori del primo lustro del ’500. Da diversi punti di vista, la rassegna si dimostra erede della migliore tradizione storiografica tedesca: i collegamenti ideali con le passate esibizioni cittadine (fondamentale quella del 1971), opportunamente richiamati in limine, emergono nella struttura complessiva e nell’approccio metodologico. Fra i maggiori meriti, vi è senz’altro la volontà di delineare in modo approfondito il contesto produttivo tedesco, inteso come articolata intersezione fra elementi artistici, economici, sociali, intellettuali e nelle sue connessioni con la committenza. Punto di partenza è quindi una capillare ricognizione dei materiali dell’epoca, fonti e documenti, testimonianze a stampa e manoscritte. In questo senso, il collegamento con la mostra del 1971, che meritoriamente riportava in catalogo brani preziosi temi di Critica e Letteratura artistica 106 numero 7 - giugno 2013 dei primi del Cinquecento, risulta trasparente2. Ed è proprio questo approccio culturale ad ampio spettro, supportato da numerose prove, che individua la lettura cinquecentesca di Dürer come paladino della nazione tedesca. Questa declinazione encomiastica fa parte di un progetto complessivo di più ampia portata, che trova il suo momento di sintesi nei Quatuor libri amorum (Norimberga, 1502) di Conrad Celtis. L’autore, stimato ed acclamato umanista, già incoronato come “poeta laureato” nel 1487, realizza con quest’opera non un semplice, ancorché raffinato, manifesto dell’umanesimo nordico; supportato dall’imperatore Massimiliano, che copre gli elevati costi di stampa, propone un modello di “Germania illustrata” secondo una precisa missione nazionalistica. The early Dürer, catalogo della mostra. Simone Ferrari L’interesse geografico per il territorio (legato ad una specifica valenza ideologica) viene letto, dagli autori della mostra, in parallelo alle ricerche naturalistiche condotte da Dürer (circa 1495-96); i suoi precoci studi di paesaggio sono accostati al progetto di Celtis, all’interno di una possibile, comune collaborazione per la definizione geografica dei confini dell’impero3. L’umanista non si sarebbe limitato a coinvolgere il più giovane artista nella “missione”; rappresenta in un certo senso il suo pigmalione, ne profila una dimensione mitica. Un manoscritto custodito a Kassel (scoperto nel 1965) e opportunamente riprodotto a colori (p. 282, cat. 13), contiene infatti quattro suoi epigrammi encomiastici su Dürer (circa 1500). Il giovane Dürer. Riflessioni... 107 numero 7 - giugno 2013 L’umanista utilizza i topoi della letteratura artistica rinascimentale: il paragone con Fidia ed Apelle; il confronto con gli altri contemporanei (con una originale declinazione geografica, che spazia dall’Ungheria alla Polonia, dalla Francia alla Spagna); l’abilità nell’imitare i fenomeni naturali (secondo gli usuali archetipi pliniani). Questi elogi, che fanno di lui il più grande artista (degno degli antichi e superiore a tutti i contemporanei europei), sono alla base del “mito” e di una più complessiva esaltazione del paese che gli ha dato i natali. Il processo di “divinizzazione” conosce un’ulteriore svolta grazie agli Epithoma di Jakob Wimpfeling, pubblicati a Strasburgo nel 1505 e forse legati alla conoscenza del modello proposto da Celtis in forma manoscritta. Il panegirico prosegue infatti nella stessa direzione: Dürer, novello Apelle e Parrasio, è posto Conrad Celtis, Quatuor libri amorum, 1502. teCLa - Rivista degnamente nell’Olimpo del Rinascimento (unico tedesco ammesso); trasfigurato definitivamente in eroe artistico germanico, assurge a simbolo di identità nazionale. In conclusione, secondo Anja Grebe, l’elevazione del maestro ad uno statuto disciplinare fino ad ora sconosciuto lo identifica come artista nazionale del popolo tedesco (degno di essere anche chiamato “nuovo Alberto Magno”); questa percezione è funzionale al nuovo concetto di nazione, in senso storico, geografico, artistico. La dimensione umanistica, potremmo concludere, sussume le diverse declinazioni all’interno di un discorso “patriottico” (naturalmente nei termini appena accennati). Questa lunga digressione, da cui ho deciso di partire, afferisce certo ad uno dei punti focali della mostra, ma non solo. Grazie allo studio accurato delle testimonianze antiche, viene infatti riproposto un tema temi di Critica e Letteratura artistica 108 numero 7 - giugno 2013 storiografico nodale (non privo di tensioni e difficoltà), secondo quanto discusso autorevolmente da Hans Belting4: la definizione di un modello artistico tedesco all’interno del Rinascimento. Un assunto che lo studioso analizza con acribia, partendo dai contributi più noti ed autorevoli (Wölfflin, Pinder, Panofsky, ecc.), rispetto al quale la mostra fornisce linfa vitale e nuovo materiale di discussione. Come dicevo, uno degli ambiti privilegiati della rassegna consiste nella ricostruzione filologica del contesto culturale. Oltre che nelle opere già citate, il tema della precoce ricezione letteraria del maestro si lega alla rappresentazione allegorica della Philosophia, xilografia di Dürer per i Quatuor libri amorum di Celtis, interpretata come momento culminante della collaborazione fra pittore ed umanista. L’elogio di una formazione filosofica e retorica (Bildung), sostenuto da Celtis sulla scia di noti precetti ciceroniani, si estende ad una nuova funzione attribuita all’artista, non più artigiano ma assurto al ruolo di pittore/filosofo, consapevole protagonista di un rinnovamento che coinvolge il processo educativo nel suo complesso. Fondamentale risulta infine la presenza in mostra (cat. 16) del Libellus de laudibus Germaniæ di Christoph Scheurl, nella sua seconda versione tedesca del 1508 (la prima è invece quella bolognese del 1505). Il testo, oggetto di recenti ed approfondite indagini Albrecht Dürer, Autoritratto, 1500. Simone Ferrari Il giovane Dürer. Riflessioni... 109 numero 7 - giugno 2013 storiografiche5, si inserisce nel filone encomiastico dell’artista, dell’interesse per la xilografia come medium espressivo. protagonista di un nuovo rinascimento pittorico, Apelle tedesco Inoltre, ricorre nel catalogo una specifica attenzione per l’iconografia riconosciuto ovunque ed acclamato persino dai talora “spocchiosi” delle immagini (non solo nella sfera del senso, ma anche in termini di colleghi italiani6. ricezione e di possibili L’analisi delle fonti modelli commerciali dell’epoca si intreccia di facile spendibilità). con altri temi strutPer quanto riguarda turali: il problema gli esordi, di sicuro della formazione, i interesse ma ancora giovanili viaggi di controverso risulta il istruzione, la dinamica tema della produzione delle opere e le relative libraria nei primi anni interferenze stilistiche. ’90 del Quattrocento: All’interno di un quadro le opere messe in complesso ed articolato, campo, assai note e troviamo interessanti disputate, sono ad suggestioni su fenoesempio le Commedie Sebastian Brandt, La Nave dei folli, Basilea, 1494. meni all’apparenza di Terenzio (Basilea, “minori” (in quanto meno indagati dalla storiografia), in ca. 1492-93) e La Nave dei folli di Sebastian Brandt (Basilea, 1494), realtà di grande significato: il rapporto con la scultura; per le quali si propone il nome del grande tedesco; la questione l’interferenza con la tradizione figurativa precedente (non riguarda l’interpretazione che si dà dell’artista intorno a questi anni solo Schongauer); il rapporto fra disegni e vetrate; l’origine e la possibilità di una attribuzione alternativa (anche in rapporto teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 110 numero 7 - giugno 2013 al grado di tenuta qualitativa riscontrato). Ulteriori difficoltà riguardano la creazione di una serie plausibile fra queste prove ed il successivo, incontestabile capolavoro (L’Apocalisse, 1498)7. Fra le ipotesi avanzate, mi pare comunque percorribile e condivisibile quella del S. Gerolamo, frontespizio delle Epistulae (Basilea 1492, cat. 112), ricondotto opportunamente al suo corpus. Da un punto di vista complessivo, se la definizione del contesto risulta adeguata e ben argomentata, l’analisi del “campo”, inteso come momento di intersezione stilistica e di accertata gravitazione culturale8, consente alcune precisazioni, specialmente circa il rapporto con l’Italia. Nella sezione relativa alle “Madonne”, il quadro di Coburg (cat. 55) è difficilmente valutabile per il cattivo stato di conservazione. La Madonna Haller (Washington, cat. 53) risulta intrisa di umori antonelleschi (più che belliniani), mentre la Madonna di Bagnacavallo (cat. 54) viene tolta dal corpus dell’artista e, poco plausibilmente, assegnata ad anonimo della Germania meridionale o ad artista del Nord Italia (p. 236, fig. 1)9. Mi preme ribadire l’assoluta centralità del dipinto all’interno del catalogo del grande maestro, in virtù di un’altissima tenuta qualitativa. Anche la datazione proposta, intorno al 1490, mi pare troppo precoce; il movimento e la definizione della gambe del bimbo mi sembrano riflettere idee di Leonardo (dalla Madonna Benois alla Vergine delle Rocce), un artista che, come ipotizzato, influenza sensibilmente il tedesco per un lungo periodo (e che può avere conosciuto durante un soggiorno milanese intorno al 1495)10. Ne deriva una datazione successiva al primo viaggio italiano (circa 1498), come mi conferma anche Elisabetta Fadda. Le relazioni con il maestro toscano toccano altre opere presenti in mostra: ad esempio l’acquarello con le Tre vedute di un elmo (conservato a Parigi), siglato e datato 1514 (ma datato in mostra al 1500 ca., cat. 185), che propone lo stesso celebre tema del Triplo ritratto di Leonardo alla Biblioteca Reale di Torino11. Infine, anche il rapporto con la natura rivela affinità e contiguità, sia a livello teorico12 sia per possibili confronti figurativi13. Il precocissimo Paesaggio con la valle dell’Arno di Leonardo (1473), richiamato in catalogo da Daniel Hess (p. 125), propone una direzione di ricerca in cui gli esiti del maestro tedesco e di quello italiano sono difficilmente calibrabili in termini di dare e avere, ma vanno comunque nella stessa direzione: quella dell’acquarello con Cava di Dürer (cat. 90, circa 1495-1500), con una proposta di datazione che si legge in stretta sequenza con la decorazione di Leonardo nella Sala delle Asse presso il Castello Sforzesco di Milano14. Simone Ferrari Il giovane Dürer. Riflessioni... 111 numero 7 - giugno 2013 a Dresda), o in molte sue incisioni. Impressionante risulta infine la tenda verde in alto a sinistra, similissima agli effetti della Coppia disuguale di amanti esposta a Norimberga. Un altro tema che forse avrebbe meritato più spazio riguarda i rapporti con il veneziano Jacopo de’ Barbari, additato da Dürer come suo maestro e successivamente ripudiato e denigrato, per poi essere ricercato con insistenza ancora nel 152115; il suo catalogo pittorico, dopo le giovanili esperienze veneziane, si arricchisce in questi ultimi anni di un nuovo numero di grande interesse, un Ritratto virile collocabile durante il fruttuoso soggiorno tedesco, ai primi del ’50016. Per quanto riguarda poi la Veduta di Venezia (1500, cat. 93), significativamente già attribuita a Dürer, Jacopo propone una mappatura geografica cittadina a volo d’uccello di cui la Nemesis, di poco successiva (circa 1501, cat. 153) serba una possibile traccia. Assai significativa è inoltre la presenza in mostra della Coppia disuguale di amanti di Jacopo de’ Barbari (Philadelphia, 1503, cat. 52), felice combinazione fra un tema tipicamente nordico (dal “Maestro del libro della casa” a Cranach) e ricordi stilistici veneziani (nel verde dell’abito della fanciulla). Ai modelli del maestro tedesco-veneziano (Jakob Walch de’ Barbari) si rifà programmaticamente Hans Baldung Grien, come conferma un dipinto con Lucrezia comparso in una recente asta di Christie’s17: l’espressione, l’inclinazione del capo, la definizione delle spalle, rimandano chiaramente ai prototipi eseguiti dal collega in terra tedesca a partire dal 1500 (si vedano le Santa Caterina e Santa Barbara ________________________________ 1 The early Dürer, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 24 maggio-2 settembre 2012), a cura di D. Hess, T. Eser, Germanisches Nationalmuseum-Thames & Hudson, Nuremberg-London and New York 2012. 2 Albrecht Dürer 1471-1971, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 21 maggio-1 agosto 1971), a cura di L. von Wilckens, Prestel, Munchen 1971. 3 Il tema della geografia è assolutamente centrale nella cultura tedesca, specialmente a Norimberga; Nicolò Cusano, vi fece acquistare strumenti, astrolabi, manoscritti di astronomia; l’umanista, così come Hartmann Schedel, risulta un entusiasta cultore della scienza geografica e provvede ad ideare una pionieristica Carta dell’Europa Centrale (1491), già posseduta da Willibald Pirckheimer (ora a Londra, British Museum). Su questi temi si veda e. FiliPPi, Umanesimo e misura viva. Dürer fra Cusano e Alberti, Arsenale, Verona 2011, pp. 71-73. Come si nota facilmente dai nomi citati, questo ambiente rappresenta il fecondo retroterra culturale di Dürer e può avere inciso per certi aspetti anche su Jacopo de’ Barbari, precocemente in contatto con il mondo nordico (e certamente apprezzato da Schedel, che ne possiede alcune stampe) ed autore da lì a poco della celebre Veduta di Venezia (1500, Venezia, Museo Correr). 4 h. BeltinG, I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile, Il Castoro, Milano 2005, pp. 24-34. 5 G.m. Fara, Sul secondo soggiorno di Albrecht Dürer in Italia e sulla sua amicizia con teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica 112 numero 7 - giugno 2013 kosmographischen Vision der Landschaft um 1500, in Leonardo da Vinci. Natur im ฀bergang. Beiträge zu Wissenschaft, Kunst und Technik, a cura di F. Fehrenbach, München, Fink 2002, pp. 327-345. I possibili confronti fra i due maestri sono di diverso tipo: si passa, ad esempio, dal tema del profilo perduto (si veda il disegno di Endres Dürer, siglato e datato 1514 all’Albertina di Vienna) alla gestualità: chiaramente leonardesca risulta la mano della Figura di uomo nudo (Brema, Kunsthalle, siglata e datata 1508), che riprende modelli quali il disegno con San Giovanni Battista (Londra, The Royal Collection, RL 12572). Il disegno di Brema fonde modelli leonardeschi con echi bramantiniani, come si evince dalla resa delle lumeggiature. 14 Su questi ed altri temi, si veda P.C. marani, Dürer, Leonardo e i pittori lombardi del Quattrocento, in Dürer e l’Italia, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 10 marzo-10 giugno 2007), a cura di K. Herrmann Fiore, Electa, Milano 2007, pp. 51-61. Lo studioso, giustamente, evoca il precedente intervento di r. SalVini, Paralipomena su Leonardo e Dürer, in Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, a cura di I. Lavin, J. Plummer, vol. 1, New York University Press, New York 1977, pp. 377-391. Segnalo inoltre le pregnanti suggestioni (non sempre menzionate, come invece meriterebbero) di h. FoCillon, Albrecht Dürer (1928), Abscondita, Milano 2004, pp. 42-43 e pp. 56-58. 15 S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Bruno Mondadori, Milano 2006. 16 Si veda la preziosa segnalazione di e.m. dal Pozzolo, in “Studi Tizianeschi”, V, 2007, pp. 193-194. 17 Renaissance, 30 gennaio 2013, New York, Sale 2673, p. 45, nr. 111. Giovanni Bellini, in “Prospettiva”, 85, 1997, pp. 91-96; e. Fadda, L’Apelle vagabondo e Agostino delle Prospettive. Riflessioni sul soggiorno di Dürer in Italia del 1506, in Crocevia e capitale della migrazione artistica. Forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secoli XVXVI), atti del Convegno internazionale di studi (Bologna, Palazzo Saraceni, 30 novembre-2 dicembre 2010), a cura di S. Frommel, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 119-132. 6 Per i suoi rapporti conflittuali con i Veneziani, si veda A. Dürer, Lettere da Venezia, a cura di G.M. Fara, Electa, Milano 2007, pp. 15-16 e p. 32. Il nome di Dürer, ovviamente in termini positivi, compare in un’ulteriore opera di C. SCheurl, Vita Reverendi Patris Dni. Anthonii Kressen, Federicus Peypus, Nuremberg 1515, p. 9 e anche in P. mela, Cosmographia, Johann Weissenburger, Nuremberg 1512, p. 93. 7 Opportunamente, la Apocalisse è stata collocata fra le opere d’arte “imprescindibili”, come il Cenacolo di Leonardo; si veda, per questo acuto riferimento, e. PanoFSky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), Feltrinelli, Milano 1979, p. 80. 8 Su tale problema metodologico è intervenuto in più occasioni Bruno Toscano, con specifiche definizioni legate a problemi di geografica artistica e “attribuzione geostilistica”. Si veda, ad esempio, B. toSCano, Kulturgeschichte 1913: un modello italiano, in Gioacchino di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno (Palermo, 15-17 aprile 2003), a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 105-112. 9 Sul dipinto, si veda anche la posizione di r. SuCkSale, The early Dürer (review), in “The Burlington Magazine”, CLIV, agosto 2012, pp. 596-597 10 Su questo tema, si veda S. Ferrari, Bramante, Leonardo e Dürer, in corso di stampa. 11 Per la discussione sul noto disegno (che anche nel tratteggio sembra vicino allo stile di Dürer), si veda la recente scheda di Paola Salvi in Leonardo. Il genio, il mito, catalogo della mostra (Torino, Reggia di Venaria, 17 novembre 201129 gennaio 2012), sezione 1, a cura di C. Pedretti, P. Salvi, C. Vitulo, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2011, p. 100, n. 1.16. 12 Si veda m. Pezza, Albrecht Dürer e la teoria delle proporzioni dei corpi umani. In appendice l’edizione del 1591, Gangemi, Roma 2007. 13 k. hermann Fiore, Leonardos Gewirrerlandschaft und Dürers Nemesis. Zu Simone Ferrari Il giovane Dürer. Riflessioni... 113