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La complessa tessitura di Penelope. Donne vita e lavoro: teoria e pratica sul territorio. Indagine sulle donne dell'entroterra pesarese, Liguori editore, Napoli, 2012.

Questo volume solleva il sipario su una realtà tipica della Terza Italia, la provincia di Pesaro e Urbino, mettendo in luce potenzialità e limiti di un territorio. All’analisi del contesto, si affiancano le voci delle donne che lo abitano, che narrano la loro esperienza di lavoratrici, di mogli e di madri: donne con e senza figli, con orientamenti tra loro differenti verso il lavoro, la vita in famiglia, la maternità, accomunate dall’esperienza di un dissidio tra aspirazioni e realtà che pare incarnare la contraddizione di fondo di quest’area territoriale.

RAPPORTI DI RICERCA 19 Fatima Farina LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Donne vita e lavoro: teoria e pratica sul territorio. Indagine sulle donne dell’entroterra Pesarese ISSN 1972-0769 Liguori Editore Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Economia, Società, Politica - DESP, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2012 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Luglio 2012 Farina, Fatima : La complessa tessitura di Penelope. Donne vita e lavoro: teoria e pratica sul territorio. Indagine sulle donne dell’entroterra Pesarese/Fatima Farina Napoli : Liguori, 2012 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5679 - 6 ISSN 1972-0769 1. Genere 2. Mercato del lavoro I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornamenti: ————————————————————————————————————––—————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 INDICE 1 Prefazione di Paolo Zurla 9 Introduzione 15 Capitolo primo La conciliazione. Dalla doppia presenza alla doppia complessità: gli intrecci vita e lavoro nei percorsi delle donne I.1. Di donne e di diseguaglianze 15; I.2. Come sono cambiate le donne 20; I.3. Perché le donne tra vita e lavoro 30; I.4. Intorno alla conciliazione 36; I.5. Riflessioni 40. 43 Capitolo secondo Politiche e pratiche di conciliazione: i limiti della femminilizzazione II.1. Donne e uomini concilianti 43; II.2. Prove pratiche di conciliazione 64; II.3. Della conciliazione e del lavoro 66; II.4. Osservazioni conclusive 73. 77 Capitolo terzo Diario e contesto della ricerca III.1. La ricerca, le sue ragioni, obiettivi e ricadute 77; III.2. Le tecniche di rilevazione e le intervistate 79; III.2.1. Le intervistate con figli 79; III.2.2. Le intervistate senza figli 81; III.3. Il contesto della ricerca 84; III.4. Il mercato del lavoro locale 100; III.5. La Provincia tra crisi e felicità 107. 113 Capitolo quarto Senza figli... IV.1. Introduzione 113; IV.2. Biografie e lavoro 114; IV.3. Il tempo libero nel territorio 136. viii 145 INDICE Capitolo quinto Con i figli... V.1. La ricerca 145; V.2. Voci di donne: le intervistate 147; V.2.1. Il lavoro di cura e l’organizzazione familiare 168; V.2.2. Il tempo libero e il tempo per sé 179; V.3. Il territorio, i commenti, i suggerimenti 182; V.4 Conclusioni 191. 195 Conclusioni 201 Bibliografia A Luca, coltiva la sensibilità nel bambino che sei per l’uomo che sarai. A Giulia, piccola donna, grande speranza nel domani. Ringraziamenti Sono molti i ringraziamenti che sento di dover fare a chiusura di questo lavoro. È stato un percorso intenso, lungo e non privo di difficoltà. Ringrazio prima di tutto le donne che hanno fortemente voluto intraprendere questa avventura, la volontà e la tenacia di Susanna Marcantognini e di Barbara Marini, la capacità di ascolto di Angela Genova e la sua generosità. Tre donne la cui presenza sul territorio rappresenta un valore aggiunto. Quanto agli uomini, un riconoscimento a Paride Prussiani per il suo impegno, la capacità di risolvere tempestivamente i problemi e per aver inventato il nome del progetto. A Mario Rosati un grazie per tutto il supporto logistico e organizzativo, per la fiducia riposta in noi che in tempi stretti e concitati abbiamo cominciato e concluso positivamente un intero progetto di ricerca. Senza la sensibilità dell’Assessore della Provincia di Pesaro Urbino, Massimo Galuzzi questo lavoro sarebbe rimasto solo nelle nostre intenzioni. Con lui abbiamo tracciato un percorso significativo sul territorio e proficuo per il lavoro di tutte e tutti. In lui e in Simonetta Romagna le questioni del lavoro e delle donne hanno sempre trovato particolare ascolto e attenzione. Un ringraziamento particolare va ad Alessandra Vincenti collega, amica e compagna di tante avventure accademiche messe a rischio da risorse troppo scarse. Con lei e con Domenico Carbone abbiamo formato un gruppo affiatato, a dividerci sono le prospettive future, vaghe e decisamente incerte. Il talento di Alessandra e di Domenico sono risorse preziose, la loro amicizia mi accompagna e mi conforta sin dal mio primo arrivo ad Urbino. Ma sono anni in cui molto e molti si vedono andare e poco e pochi tornare. A Veronica Marescotti e Joselle Dagnes va il mio riconoscimento per il paziente lavoro di inserimento e trattamento dei dati. Giovani studiose e ricercatrici cui auguro di continuare con entusiasmo e sapienza su questa strada. Ma credo di parlare a nome di coloro che hanno condiviso con soddisfazione la realizzazione di questo progetto nell’esprimere la più profonda gratitudine verso tutte le donne dei Comuni su cui abbiamo indagato. Grazie a tutte voi, per la fiducia, per la disponibilità, per la generosità che danno senso e valore al nostro lavoro. La responsabilità dei contenuti è tutta di chi scrive. PREFAZIONE di Paolo Zurla Sono ormai passati quindici anni da quando il principio del gender mainstreaming, sancito nel corso della Conferenza mondiale delle donne di Pechino del 1995, è diventato l’asse portante della programmazione delle politiche europee. A partire dal Quarto programma d’azione per la parità delle opportunità (1996-2000), passando attraverso la Road Map del 2006, la fondazione dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE, divenuto operativo nel 2009), l’assegnazione dei Fondi Strutturali per il periodo 2007-2013, fino all’adozione della nuova strategia quinquennale per l’uguaglianza tra uomini e donne (2010-2015)1, il cammino europeo verso la promozione e il sostegno delle pari opportunità sembra non aver avuto tentennamenti (Rossilli, 2009). Negli stessi anni, direttive e raccomandazioni hanno ripetutamente invitato i paesi membri a garantire ai loro cittadini standard comuni in merito all’utilizzo e alla compensazione dei congedi, all’accesso e alla disponibilità di servizi per l’infanzia, alla lotta contro la violenza e contro le discriminazioni di genere. Il riconoscimento della differenza di genere e della non neutralità delle azioni progettate rispetto alla specifica situazione di uomini e donne ha, infatti, identificato nelle pari opportunità un obiettivo trasversale, da perseguire, realizzare in ogni campo della vita economica, politica e sociale: per costruire politiche in grado di promuovere realmente le pari opportunità tra uomini e donne è necessario osservare l’intera società in un’ottica di genere, prestando attenzione tanto alle differenti condizioni, situazioni ed esigenze maschili e femminili, quanto alle differenti ricadute che gli interventi progettati possono avere su entrambi. La difficoltà di mettere in pratica l’idea di fondo della strategia del gender 1 Strategia in cui vengono tradotti in azione i principi definiti dalla Carta delle donne approvata all’inizio del 2010. 2 PREFAZIONE mainstreaming, realizzandone gli obiettivi, si riflette nella disomogeneità delle situazioni dei diversi paesi europei. L’Italia, nonostante alcune normative quasi in anticipo sui tempi2, tende spesso a posizionarsi agli ultimi posti nelle graduatorie relative agli indicatori attestanti il divario di genere e gli interventi attivati per ridurlo. Occupazione femminile, presenza delle donne ai livelli decisionali, flessibilità degli orari lavorativi, disponibilità di servizi pubblici, trasferimenti monetari alle famiglie, tassi di natalità, rappresentano altrettanti punti dolenti di un paese che il Global Gender Gap Index relativo al 2010 colloca alla 74esima posizione su 134 paesi3. In tale quadro, il volume di Fatima Farina solleva il sipario e offre un ritratto particolarmente interessante ed attuale di una realtà tipica della Terza Italia, la provincia di Pesaro e Urbino, mettendo in luce potenzialità e limiti di un’area territoriale caratterizzata da imprenditorialità diffusa, coesione sociale e, un po’ inaspettatamente, modelli di genere semi-tradizionali. La declinazione locale dei principi promossi dalle istituzioni comunitarie e nazionali costituisce senza dubbio un ambito di studio stimolante che, chiamando in causa simultaneamente più piani e più attori, invita a decifrarne le dinamiche all’interno, tanto dell’azione politico-economica quanto della vita quotidiana. Così, alla preziosa e puntuale ricostruzione della configurazione di opportunità e vincoli del territorio provinciale, insieme alla vigile attenzione pronta a cogliere i primi segnali, ancora sottotraccia, della riduzione delle risorse degli enti locali e del rallentamento del mercato del lavoro portati dalla crisi, si affiancano le voci delle donne che lo abitano, che narrano la loro esperienza di lavoratrici, di mogli e di madri. Sono voci di donne, con e senza figli, diverse per caratteristiche personali e per estrazione sociale, portatrici di orientamenti tra loro differenti nei confronti del lavoro, della vita in famiglia, della maternità, ma che in comune rivelano l’esperienza di un dissidio tra aspirazioni e realtà che pare incarnare la contraddizione di fondo di quest’area della Terza Italia. A fronte delle innegabili conquiste femminili in termini di istruzione e di partecipazione al mercato del lavoro, l’equilibrio del modello sociale e imprenditoriale pesarese, infatti, sembra poggiare su una divisione di genere che conserva aspetti tipicamente tradizionali e connota ancora il lavoro delle donne come “contributo”, attribuendo loro la gestione domestica e familiare come responsabilità prioritaria. L’occupazione femminile risulta così particolarmente vulnerabile, esposta e subordinata non solo alle fluttuazioni della produzione, 2 Si pensi, ad esempio, alla L. 53 del 2000 che ha legato alla fruizione maschile di una parte del congedo parentale la possibilità per la coppia di godere di un mese aggiuntivo. 3 World Economic Forum, Report 2011. PREFAZIONE 3 ma anche al variare delle esigenze del ciclo di vita familiare che diventano il discrimine per comprendere le diverse posizioni femminili. Soprattutto in un momento di crisi, in cui l’investimento del territorio nei servizi rallenta e il mercato del lavoro si irrigidisce, accentuando la preferenza per i lavoratori maschi, la maternità diventa così alternativa all’occupazione, rendendo insanabile quel conflitto tra famiglia e lavoro che le politiche di conciliazione avrebbero dovuto curare. L’arretramento dal punto di vista dell’uguaglianza di opportunità non potrebbe essere più evidente: nel momento in cui le possibilità reali di decidere autonomamente della propria vita e del proprio futuro si riducono per le donne, i gradi di libertà maschili sembrano essere intaccati solo marginalmente. I ruoli si ripolarizzano seguendo uno schema di genere “antico” e la maternità, così come la conciliazione, diventano una questione di sole donne. Il primo aspetto a colpire nelle parole delle intervistate è la loro sorprendente capacità di adattarsi a nuove traiettorie di vita e a ridefinire i propri obiettivi, pur in un’atmosfera di sottile disillusione – o forse anche di delusione – per la promessa non mantenuta di una vita diversa. Le donne si dimostrano pronte ad assumere su di sé la responsabilità, spesso totale, dei carichi di cura familiari e a rinunciare anche al lavoro per adeguarsi al ruolo di principale care giver che “sentono” loro, imposto o interiorizzato, senza provare a rinegoziarlo, ma anzi sottolineando gli aspetti positivi della tradizionale gestione monopolistica della cura. Nelle parole delle donne i partner maschili compaiono solo raramente, la questione di chi dei due debba prendere un congedo o ridurre il proprio orario di lavoro non sembra neppure porsi e la flessibilità nei progetti di vita diventa una caratteristica tutta al femminile. Tale “disparità” di opportunità viene assunta come un dato di fatto, una disuguaglianza da accettare, che si cerca di gestire al meglio, utilizzando gli strumenti e gli aiuti disponibili, senza però né metterla in discussione né problematizzarla. Il conflitto femminile tra ambiti vitali diversi viene così personalizzato e interiorizzato dalle donne stesse: non sono più un’organizzazione del lavoro poco sensibile o una divisione dei compiti familiari squilibrata a provocare il conflitto, ma sono le “scelte” delle donne a creare tensione tra famiglia e lavoro, per cui sono sempre le donne che lo devono risolvere. Il secondo aspetto da segnalare – e da cui partire per una riflessione sulle prospettive e i rischi contemporanei per l’uguaglianza di opportunità tra uomini e donne a livello locale – è legato proprio alla mancanza di tensione dialettica e rivendicativa che sembra prevalere tra le intervistate. Nel momento in cui sono sollecitate a suggerire misure e strumenti per ridurre il contrasto tra famiglia e lavoro, le proposte avanzate appaiono tutte declinate 4 PREFAZIONE esclusivamente al femminile: mirano a risolvere problemi contingenti sul posto di lavoro, ad alleggerire una pressione temporale fattasi insostenibile, a rendere più rapidi gli spostamenti urbani, ad aumentare il benessere dei figli o anche ad accrescere le opportunità per il tempo libero, ma nessuna si spinge a cercare di individuare soluzioni in grado di favorire le pari opportunità sul lavoro o ad incentivare il coinvolgimento dei partner. Ciò che le madri lavoratrici chiedono alle istituzioni locali è di essere aiutate a semplificare la conciliazione, a fare in modo che la conciliazione “funzioni”, ma la conciliazione, anche se sostenuta da apposite politiche, resta ancora e solo al femminile. Proprio da questo intreccio, tra esigenze dei cittadini/delle cittadine e contesto territoriale, è necessario ripartire per riportare al centro del dibattito il tema delle pari opportunità nel suo senso più ampio e dare continuità ad una prospettiva sensibile alle differenze di genere in ogni ambito vitale. La questione della conciliazione, nella sua “normalità al femminile”, non più emergenziale né eccezionale, tende a scomparire, ma la sua soluzione non può essere affidata solo ad una gestione per progetti, per quanto qualificata e innovativa, perché necessita di un vero e proprio “pensiero strategico”. Le iniziative progettuali, anche quando raggiungono la visibilità delle best practice, restano temporanee, legate alle risorse di volta in volta disponibili, faticano ad entrare nel panorama quotidiano degli strumenti riconosciuti, riconoscibili e utilizzabili da uomini e donne nella quotidianità: non diventano “sistema”, per questo non riescono a mettere in discussione una struttura di rapporti sociali, economici e familiari disuguali che si sostengono vicendevolmente. L’accurata ricostruzione del sistema socio-economico e familiare della provincia di Pesaro e Urbino realizzata da Fatima Farina mette in evidenza con chiarezza l’intreccio tra i diversi piani: la vitalità del tessuto produttivo e l’elevato livello di coesione sociale del territorio riposano su un preciso modello di divisione dei ruoli di genere, che, se non riflette più interamente il rigido dualismo complementare male breadwinner – female caregiver model, certo non sembra ancora approdato al modello teorizzato come in grado di garantire la maggiore parità di genere, il dual breadwinner – dual caregiver. Piuttosto, stando alle testimonianze delle intervistate pare posizionarsi da qualche parte tra il male breadwinner – female part-time career e il dual breadwinner – extended family care model (Duncan, Pfau-Effinger, 2000; Bettio, Plantenga, 2009; Pfau-Effinger, Flaquer, Jensen, 2009). Perché la situazione possa cambiare, la conciliazione non può essere più solo una questione di donne; i rapporti di genere, per farsi più equilibrati, non è sufficiente un’iniziativa sporadica, ma, come l’idea del gender mainstreaming già quindici PREFAZIONE 5 anni fa aveva messo in luce, è un intero sistema che deve riorganizzarsi, assumendosi la responsabilità di rendere conciliabili i diversi ruoli e ambiti vitali, anziché scaricarli sulle spalle dei singoli individui, in particolare delle singole donne. Al di là delle classificazioni, infatti, l’aspetto che si vuole sottolineare è l’esistenza di un’associazione tra i diversi modelli e i relativi sistemi socioeconomici e familiari. Per passare da una situazione in cui famiglia e lavoro rappresentano mondi incompatibili, con universi maschili e femminili collocati su fronti opposti, ad una in cui i due ambiti e i due generi possano trovare equilibri più paritari, non si può prescindere dalla configurazione del contesto materiale. La diffusione, la condivisione tra gli individui e nella società di idee paritarie non sono sufficienti perché le coppie riescano a riorganizzarsi in accordo con esse (Zajczyk, 2008; Morgan, 2008). Se non hanno sufficienti risorse per farlo, se le istituzioni e il mercato del lavoro non sono coerenti, pronte a sostenere tale riorganizzazione, a fornire gli strumenti necessari per farla stare in piedi, i conflitti prevalgono ed il risultato è spesso un ritorno agli equilibri dimostratisi validi nel passato, garantiti dai ruoli di genere più tradizionali (Alesina, Ichino, 2009). D’altra parte, anche il passaggio dal family economy model al male breadwinner model era avvenuto in concomitanza con l’affermazione del sistema di produzione fordista, vale a dire nel momento in cui un assetto coerente tra sistema economico e sistema familiare era riuscito a dare vita all’equilibrio più funzionale per la propria riproduzione. Per diversi anni, dopo la crisi del sistema industriale fordista, la complementarità tra ruoli di genere ha continuato ad assicurare un’adeguata riproduzione sociale, guidando l’organizzare della vita quotidiana di uomini e donne. Dalla fine degli anni sessanta questo equilibrio si è spezzato (Crompton, 1999; Lewis, 2001). L’incompiuta transizione verso un nuovo sistema di relazioni tra uomini e donne e tra ambiti vitali, provoca la tensione da cui emergono le incoerenze, le contraddizioni così visibili nelle parole delle intervistate. Incoerenze e contraddizioni ancora più evidenti quando si osserva un territorio concreto, il suo tessuto produttivo, le sue istituzioni e le persone che vi abitano, soprattutto nel momento in cui su di esso si vanno innestando gli effetti della crisi economica. Come ha acutamente messo in luce Fatima, tendenze e debolezze già presenti anche prima dell’inizio della crisi si stanno accentuando, tanto sul fronte della disponibilità di servizi, con un crescente ricorso all’esternalizzazione e un depauperamento quantitativo e qualitativo dell’offerta, quanto su quello dell’occupazione, con una flessione nelle assunzioni femminili, un aumento della precarietà delle occupate e le prime avvisaglie di scoraggia- 6 PREFAZIONE mento. La piccola dimensione delle imprese di un’economia diffusa rischia di aumentarne l’esposizione alle conseguenze negative della crisi: minori disponibilità economiche e minori margini di manovra per la proprietà, minori sostegni pubblici, minore capacità di assorbire le fluttuazioni del mercato. Il contesto materiale si modifica e i rapporti tra i generi ne risentono. Una conciliazione, che spesso era già difficile, rischia di diventare quasi impossibile, aumentando l’incompatibilità tra ambiti vitali. La concessione di un part time o di una flessibilità di orario, in alcuni casi favoriti proprio dal rapporto quasi personale tra datore di lavoro e dipendente o dalla solidarietà tra colleghi che si conoscono bene, in altri può rappresentare, o essere vissuta, come una richiesta inaccettabile, in grado di stravolgere equilibri aziendali precari e quindi respinta, costringendo le donne ad inventare nuove strategie per far fronte alle esigenze familiari o anche a rinunciare al lavoro. Eppure, la stessa crisi che investe i rapporti uomo-donna, che rende più complessi gli equilibri famiglia-lavoro e toglie risorse, progettualità e autonomia agli individui e ai soggetti collettivi, potrebbe trasformarsi in opportunità. L’etimologia greca della parola rinvia alle azioni di scegliere, valutare, decidere. Così, oltre che un periodo di riduzione delle risorse, di contrazione della progettualità, di irrigidimento dei rapporti, la crisi potrebbe rappresentare l’occasione per reinserire l’idea del gender mainstreaming alla base dell’intera azione locale e dei suoi attori sociali. Una nuova riflessività dovrebbe porsi al centro di un ripensamento di equilibri che si presentano non solo sempre più instabili, ma anche sempre più ingiusti, costringendo alcuni dei cittadini a rinunciare, con più o meno rassegnazione, ad una parte della propria autonomia e libertà di scelta. L’adozione di un’ottica di genere come chiave di lettura, tagliando trasversalmente iniziative nazionali e locali, è in grado di modificare il contesto materiale e ideale poco amichevole, oltre che scarsamente coerente, in cui ancora oggi si muovono le politiche di conciliazione (McDonald, 2009; Saraceno, 2009c). Per “cambiare” la vita delle donne, giacché le situazioni in cui si trovano ad accettare soluzioni non scelte adeguandosi ad una realtà che non sono in grado di modificare, la coerenza di un sistema di interazioni tra attori diversi che, ancora oggi, contribuisce a sostenere schemi di divisione dei ruoli tradizionali, dovrebbe essere rimessa in discussione a livello collettivo, non individuale (Gornik, Meyers, 2008). Non sono le singole donne che da sole devono lottare contro regole, prassi, modelli normativi interiorizzati da decenni, sentendosi cattive lavoratrici, cattive mogli o cattive madri (Ruspini, 2005). La capacità e la forza di mettere in discussione ruoli di genere consolidati, ma disuguali, dovrebbe diventare un patrimonio collettivo, radicato in un contesto sociale sufficientemente amichevole da far sentire le donne PREFAZIONE 7 sostenute, materialmente e culturalmente, quando decidono di adottare un modello alternativo. La crisi ha offerto l’opportunità di toccare con mano quanto forte, almeno in questo ambito, sia il peso del contesto materiale su quello ideale: i principi paritari si arrendono di fronte ad una realtà che non consente di gestirli e una possibilità reale di scelta può esistere solo quando ci sono le condizioni adatte a sostenerla. Oltretutto, forse bisognerebbe chiedersi se la capacità delle donne di assorbire gli eventi, di far fronte e risolvere da sole le dissonanze tra ambiti di vita, rassegnandosi ad adattare le proprie vite alle situazioni esterne, non abbia raggiunto il limite. Tassi di fecondità tra i più bassi al mondo (1,41 nel 2010) (Istat, 2011b), la diminuzione delle seconde nascite e una quota di donne senza figli tra le più elevate in Europa (circa il 20% per la coorte nata nel 1964)4 dovrebbero far riflettere sulla condizione delle donne, le loro opportunità e le possibili conseguenze del persistere di una situazione che sembra aver portato la tensione e il conflitto tra ambito familiare e lavorativo ad un livello di incompatibilità tale da renderli spesso alternativi (Ongaro, 2006; Micheli, 2006). Rimettere al centro del dibattito sulla conciliazione e le pari opportunità il principio base del mainstreaming, di una preesistente e persistente differenza di opportunità per uomini e donne, nonché di una non neutralità delle politiche, potrebbe aiutare a rivedere in un’ottica di genere anche misure per la conciliazione consolidate che, inconsapevolmente, hanno man mano incorporato un’idea dei ruoli di genere tradizionali così da favorire, anziché ostacolare, la riproduzione delle disuguaglianze di opportunità. L’effetto di tali circoli viziosi, che rafforzando il pregiudizio di genere nella pratica quotidiana e nella rappresentazione culturale rischiano di diminuire le concrete opportunità di lavoro femminile, è ben evidente nelle parole delle donne intervistate da Fatima Farina: la preferenza, per nulla segreta, dei datori di lavoro per lavoratori maschi è giustificata dalle lavoratrici stesse, che per prime si considerano poco affidabili, interessate – o costrette come sono – a ridurre l’orario di lavoro per poter gestire le proprie responsabilità prevalenti, quelle familiari. Allo stesso modo viene compresa e giustificata la scarsa propensione maschile per l’utilizzo dei congedi parentali: la paura di perdere di credibilità sul luogo di lavoro appare una motivazione sufficiente a legittimare la frequente decisione dei lavoratori di rinunciare a questa opportunità di contribuire al lavoro familiare. Gli effetti latenti e controintuitivi che talvolta nascono dall’utilizzo di strumenti pensati per favorire la conciliazione evidenziano, ancora una volta, 4 OECD, Family database. 8 PREFAZIONE l’importanza di una configurazione economica, sociale e culturale coerente, indispensabile perché tali strumenti possano funzionare come ipotizzato ovvero promuovendo conciliazione e parità di genere contemporaneamente. D’altra parte, ormai da troppo tempo la conciliazione stessa è diventata sinonimo di una pratica declinata quasi esclusivamente al femminile: è un problema delle donne, su cui si costruiscono politiche per le donne, di cui si occupano spesso altre donne, e che verranno utilizzate prevalentemente dalle donne. Forse, dunque, come le luci e le ombre sul modello della Terza Italia rivelate in questo volume sembrano suggerire, è tempo di provare ad identificare un nuovo paradigma su cui fondare la necessità di armonizzazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Un paradigma in grado di offrire una reale opportunità di scelta, tanto agli uomini quanto alle donne, in cui non esistano modelli di relazioni di genere “preferenziali”, ma ciascuna coppia possa declinarli come ritiene più opportuno, avendo gli strumenti e le risorse necessari per farlo. La premessa, ovviamente, è che non si tratti più di una conciliazione famiglia-lavoro declinata esclusivamente al femminile, ma che si riesca a costruire un dialogo tra ambiti vitali non più opposti, messi in condizione di convivere sia per gli uomini sia per le donne, superando la dicotomia tra tempi maschili – pubblici e di lavoro – e tempi femminili – privati e di cura. INTRODUZIONE «Dai miei fratelli ci si aspettava che diventassero dei professionisti – possibilmente avvocati, medici o ingegneri, le altre occupazioni erano considerate di secondo livello-, ma io dovevo accontentarmi di un lavoro qualsiasi, fino a quando un marito e dei figli non mi avessero assorbita a tempo pieno. […] Oggi non è più così, e il livello dell’educazione femminile è addirittura superiore a quello dell’educazione maschile. A scuola non andavo male, ma dato che avevo già un fidanzato, a nessuno me compresa, venne in mente che avrei potuto affermarmi professionalmente. Terminai il liceo a diciassette anni, talmente confusa e immatura da non sapere cosa scegliere, anche se ho sempre avuto ben chiaro che dovevo lavorare, perché non esiste femminismo che si rispetti che non sia basato sull’indipendenza economica. Come diceva il nonno: “Chi paga comanda”». Isabel Allende, Il mio paese inventato, Feltrinelli editore, 2003, p. 123 Oggi non è davvero più così? Quale lo stato di salute delle relazioni tra donne e uomini nel nostro paese? Quale rispondenza tra le aspettative maturate dalle donne più giovani e la libertà di scelta? Quale, infine, lo stato di realizzazione di opportunità pari e libere dei cittadini e delle cittadine a prescindere cioè dal genere di appartenenza? Quesiti non certo nuovi ma che piuttosto risalgono dalle radici profonde della nostra storia e identità, fondando un presente discrepante, incongruo quanto a libertà di scelta di donne e uomini. Uno sguardo attento non può non cogliere i molteplici segnali di un opposto arretramento sulla strada di opportunità aperte ed eque, spinte nella direzione di un rifugiarsi nell’antico, ben noto e rassicurante modo in cui le donne sdrammatizzano le difficoltà smettendo di porre istanze di cambiamento, di abbattimento di ostacoli opposti ad una partecipazione sociale che non ponga i limiti del proprio sesso. Oggi non è più così? Basta cominciare a riflettere, osservare ed analizzare per trovarsi più d’accordo con Faludi (2008) quando afferma di essersi sorpresa ad ela- 10 INTRODUZIONE borare pensieri da «Pollyanna»1 soffermandosi sulle conquiste delle donne negli ultimi decenni. Il gioco di Pollyanna, sembra aver contagiato le donne negli ultimi anni procedendo nel mondo ripiegate sulle proprie aspirazioni, facendo finta che tutto andava bene, che tutto il desiderato potesse essere realizzato. La situazione presente più che a giocare porta a fare i conti con la realtà materiale, a prendere atto che si è ancora molto distanti da ciò che le donne hanno bisogno di vedere finalmente riconosciuto: quanto cioè sono cambiati i loro orientamenti e quanto invece questi si discostano da modelli che continuano ad essere punti di riferimento per la rappresentazione pubblica del femminile, quanto ancora questa trova spazio nelle politiche pubbliche, nell’organizzazione quotidiana, del lavoro, familiare ecc. Quanto insomma vi è ancora di incompiuto nella realizzazione della messa in pari delle opportunità. Italia 2011: cartelloni pubblicitari giganteggiano nelle città. Ammiccano alle mogli e alle madri per vendere prodotti alimentari capaci di trattenere in casa mariti che a tavola non parlano, figli fino al compimento dei quarant’anni. Il tutto condito da un look retro-anni ’50-60, mentre nella versione televisiva una voce imperiosa fuori campo allarma le donne sui rischi di non essere “portate” a cena fuori dai mariti trattenuti in casa dai loro deliziosi manicaretti2. I pannolini lavabili sono pubblicizzati dalla grande distribuzione cooperativa con il pregio, tra gli altri, di far risparmiare le mamme3. Il Fondo nuovi nati istituito dal Governo4 pensa ad un maschio di nome Leone o Massimo come augurio di coraggio e di poter aspirare appunto al “massimo”, ad una femmina da chiamarsi Serena quale auspicio di felicità. Un sostegno alle famiglie che, in quanto tale, non trascura di far leva su una comunicazione sessuata. Viene da chiedersi quanto tutto questo sia il ritratto di un paese reale, quanto invece sia solo rappresentazione “surreale ed ironica”5 di un gioco delle parti maschili e femminili. Nell’ultimo dei messaggi presi qui a pretesto si può quasi ravvisare una inversione comunicativa rispetto al genere di appartenenza dei nuovi nati, semplicemente facendo 1 Pollyanna è la protagonista dell’omonimo racconto di E. Porter. Il riferimento è ad una recente campagna pubblicitaria, che promuove la vendita di prodotti alimentari precotti e surgelati di pronto uso. 3 Si tratta della campagna radiofonica di una organizzazione cooperativa che opera nella grande distribuzione a livello nazionale, mirata alla promozione di una linea di prodotti ecologici e ambientalmente sostenibili, tra cui i pannolini lavabili. 4 In questo caso ci si riferisce alla campagna attuata dal Dipartimento per le politiche della famiglia e alla relativa divulgazione via radio e televisione. 5 Questa la definizione della campagna di cibi surgelati, di cui sopra, fornita dall’agenzia che l’ha ideata (www.spotandweb.it). 2 INTRODUZIONE 11 riferimento alle condizioni materiali che da qui al prossimo futuro peseranno sui rispettivi percorsi esistenziali. È così che probabilmente sarà la femmina ad avere più bisogno di coraggio per maturare aspirazioni di raggiungere approssimativamente il massimo sperato, per affrontare le difficili condizioni che le donne italiane vivono nel privato e nella sfera pubblica, in una misura che oramai lascia pochi dubbi nell’essere di gran lunga superiore a quasi tutti i paesi europei, occidentali e anche non. Mentre ai nuovi nati maschi ben si adatterebbe un augurio di trovare felicità nella pienezza armonica di un’esistenza che include le molteplici dimensioni dell’esperienza, che non si riduca ad un imperativo rivolto, tutto al maschile, di contrazione-negazione del privato a vantaggio della realizzazione pubblica. Se l’inversione nasce da una critica a partire dall’esistente, l’analisi della realtà continua a narrare di Leone, Massimo e Serena come di futuri cittadini dalle diseguali aspettative di ruolo e di realizzazione personale, in un’Italia sempre più in difficoltà a sostenere la libera progettazione specie dei più giovani. Il contesto in sé, in molti campi, si è già adattato ad una riduzione della complessità tale per cui, più che i nuovi nati, ci si dirige a sostenere l’adattamento alle risorse scarsamente disponibili, disegnando sin da subito la gerarchia secondo cui verranno assegnate o distribuite. Lungo il confine tra pubblico e privato, il suo continuo ridisegnarsi, si possono osservare le caratteristiche e i mutamenti, nonché gli arretramenti, di un assetto sociale che, più che porsi in una prospettiva di riequilibrio tra generi e generazioni, finisce per riaffermare le divaricazioni, le iniquità. Di qui prende le mosse questo libro. Adottando una prospettiva dal basso e in un continuo rimando tra elaborazione teorico-concettuale e pratiche sessuate, ci si propone di riflettere sullo stretto intreccio delle sfere dell’esperienza umana, sulla crescente vulnerabilità dei percorsi che le attraversano, sulla difficoltà di un equilibrio che per gli anglosassoni è declinato nel continuum vita-lavoro, mentre nell’accezione corrente nostrana più spesso è indicata come conciliazione. Parlare di conciliazione non è cosa semplice. Sembra che tutto sia stato già detto e che soprattutto sia conosciuto sull’argomento: la fonte primaria è l’esperienza quotidiana che spesso restituisce un quadro di difficoltà, di ostacoli e di squilibri. L’affanno di armonizzare le diverse sfere dell’esperienza deriva dalla spinta a dare ad esse delle priorità. Il lavoro innanzitutto, il reddito che attraverso di esso si procura, dunque la sussistenza e la qualità della vita; due cose queste ultime che non sempre possono essere associate, né concordi. Su ciò che appare scontato e su quanto si sperimenta come affannoso e squilibrato si propone qui una riflessione teorico empirica. Questo libro è 12 INTRODUZIONE infatti il frutto di un ragionamento sull’esistenza e su come questa si declini diversamente intorno alle differenze di genere, su come l’essere donne e uomini implichi nella realtà il tracciare percorsi differenti, fare i conti con possibilità di scelta diverse e diseguali. I recenti dati forniti dall’Istat (2011b) evidenziano un nuovo declinare del tasso demografico, anche in quella porzione di popolazione straniera che sino ad oggi lo aveva significativamente sostenuto. L’epoca di crisi scopre le fragilità di un sistema capitalistico che si riproduce scavando profonde diseguaglianze e mal distribuzioni. Le scelte personali, anche le più private, fanno sempre più i conti con i minimi di sussistenza, mentre la realizzazione personale e il libero arbitrio sono i tributi pagati per rianimare un sistema che ha espunto la persona umana nella sua totalità, garantendosene la mera disponibilità, a dispetto della teorizzazione di una felicità che giunge proprio nel momento in cui le condizioni materiali la mettono particolarmente a rischio. Questo libro è sulle scelte delle donne e degli uomini, sulla costruzione dello spazio di condivisione, su come esso si struttura nell’intreccio delle dimensioni di vita, lavorative ecc. Ma è anche un tentativo di svelare sovracostruzioni teoriche e retoriche le quali, individuando modelli virtuosi, ne hanno enfatizzato gli aspetti di efficienza, di produzione di reddito, celando i meccanismi maldistributivi che appaiono evidenti non appena il genere è introdotto come chiave interpretativa. Il riferimento è al caso di studio contenuto in questo volume: un’indagine sulla condizione delle donne in un territorio, quello della provincia di Pesaro e Urbino, a pieno titolo assimilabile nel modello della Terza Italia, di cui buona parte della letteratura ha illuminato gli aspetti di una specificità territoriale e tutta italiana di attingere a risorse culturali, sociali e locali, fondando così un modello di sviluppo virtuoso, capace di produrre ricchezza riscattando ampie aree del paese da un rischio di arretratezza e povertà relativa, fino ad arrivare a divenire trainante per l’intera economia nazionale. Il volume è articolato in cinque capitoli i quali nell’insieme delineano un percorso che procede dalla riflessione teorica alla ricerca empirica sulla condizione delle donne nella realtà italiana e locale dei territori indagati. Nel capitolo primo si introducono e si confutano le accezioni del concetto di conciliazione, così come esso è stato sino ad oggi declinato. Ci si domanda come le donne e i loro percorsi siano cambiati, ma soprattutto il perché della relazione, così frequentemente operata, tra donne e conciliazione. La risposta rimanda ad una complessità di intrecci vita e lavoro che a loro volta richiamano reciprocamente problemi irrisolti e conflitti ri-sorgenti. Sul piano delle pratiche le donne rispondono all’imperativo del prendersi cura, confermato dalle politiche attuate, il cui obiettivo di parità e redistribuzione INTRODUZIONE 13 appare debole se non del tutto assente. Da più parti si segnalano i rischi del «trionfale ritorno del Male Breadwinner» mentre il «gender balance» appare persino percepito come una sorta di «bene di lusso» (Lyberaki, Tinios, 2011) in epoca di contrazione economica, quando cioè si ritornerebbe alla “sostanza” delle cose, alla salvaguardia dei “veri lavoratori”, abbandonando in loro favore gli ornamenti delle sovrastrutture egualitarie ed equilibrate dal punto di vista del genere. Nel secondo capitolo si analizzano politiche e pratiche di conciliazione alla luce del fenomeno cosiddetto della femminilizzazione del mercato del lavoro. Qui si evidenzia una sfasatura tra l’impianto legislativo in materia di parità, per buona parte recepita “sotto dettatura” della comunità internazionale europea, e l’applicazione effettiva in condizioni di vita e di lavoro che nel complesso ritraggono una società gender resistant. Buona parte della conciliazione recepita negli interventi di politiche sociali, è declinata dentro la famiglia e diretta diversamente a uomini e donne. In questa specificità sono ridotti ai margini i soggetti non-famiglie, gli uomini (anche padri), ma più di tutto è la stessa conciliazione ad essere ridotta ad un ruolo marginale, in divergenza netta ed evidente con un orientamento europeo che assegna a questo tema un ruolo strategico e centrale. Le radici delle resistenze al cambiamento, che in questo capitolo vengono esaminate, risiedono nelle divisioni territoriali, nei problemi strutturali del mercato, dell’economia, e, non ultimo, nel paradigma culturale dominante del familismo, non proprio moralmente equo. Con il capitolo terzo si introduce la ricerca sul campo condotta in tredici comuni della Provincia di Pesaro-Urbino, che ha per oggetto e protagoniste le donne del territorio. In questo capitolo si dà conto della storia del progetto, delle tecniche e degli strumenti utilizzati. Ampiamente analizzate sono le caratteristiche del contesto regionale e provinciale, del mercato del lavoro locale, le specificità culturali e di stili di vita, di composizione demografica, nonché di progettazione politica e di welfare locale. Il capitolo quarto e quinto danno conto dei risultati di ricerca, ripartiti rispettivamente tra donne senza figli e donne con figli fino a 10 anni. Per quanto concerne le intervistate senza figli, scopo di questa parte della ricerca è di esplorare e sottoporre alla verifica dei fatti, una delle principali ipotesi formulate, secondo cui la maternità e con essa in particolare la condizione di madre, rappresentano di per sé un discrimine significativo relativamente alle opportunità reali di partecipazione sociale e lavorativa. Si distinguono queste due dimensioni a partire dalla constatazione di una duplice debole rappresentanza delle donne, sia nell’ambito del mercato del lavoro, sia pure in quello politico-culturale. Del resto, è proprio dalla presa d’atto di tale 14 INTRODUZIONE situazione che dal territorio è emersa la volontà di promuovere un’indagine che ne approfondisse ragioni e condizioni. L’analisi dei risultati si sviluppa principalmente in due diverse aree emerse come significative: la prima relativa ai dati personali delle intervistate e alla loro partecipazione lavorativa, presente, passata ed attesa; la seconda volta ad indagare il rapporto con il territorio, il modo in cui è vissuto, le opinioni delle intervistate intorno alla qualità di vita offerta e percepita nella realtà locale. Il capitolo quinto è dedicato alle intervistate con figli. Qui la conciliazione è osservata, descritta e analizzata attraverso le strategie delle donne e le precipue pratiche di mediazione fra le sfere di vita. Non sono tanto importanti i confini tra le sfere dell’esperienza personale, quanto piuttosto il modo in cui esse si combinano nel percorso, nel progetto individuale, nella considerazione della loro rispettiva mutevolezza e interdipendenza. Una visione dell’intreccio degli ambiti esperienziali che fa riferimento non alla condizione occupazionale, né a quella familiare-privata prese singolarmente, bensì collocate nel continuum esistenziale di ogni persona che tiene insieme le diverse forme di lavoro (di mercato e non di mercato), di fatto, possibili ed eventuali. L’interesse principale della ricerca è dunque rivolto verso la complessità dei percorsi delle donne, in una relazione biunivoca tra vita e lavoro, laddove le opzioni vengono di volta in volta ridefinite in considerazione delle opportunità accessibili e percepite tali, sia sul piano privato-familiare, sia nell’ambito lavorativo e pubblico sociale. Capitolo primo LA CONCILIAZIONE. DALLA DOPPIA PRESENZA ALLA DOPPIA COMPLESSITÀ: GLI INTRECCI VITA E LAVORO NEI PERCORSI DELLE DONNE I.1. Di donne e diseguaglianze Approcciare al tema della conciliazione appare oggi tanto scontato quanto scivoloso. È scontato nella misura in cui il dibattito pubblico, come pure la stessa letteratura scientifica sul tema, non scioglie il nodo di un’ambiguità di fondo per cui il termine conciliazione diviene sinonimo di donne, bisogni delle donne e diseguaglianza. Nel tentativo di dipanare le molte ambiguità intorno a tale tema, qui si intende riflettere sui rapporti tra le sfere di vita, cercando di districare concettualmente quanto la riduzione dell’approccio “conciliante” più spesso cela o mette a carico delle donne. Questo è il terreno scivoloso. Gli intrecci, molteplici e complessi, tra vita e lavoro, letti attraverso il genere, restituiscono una realtà eterogenea, composita, diseguale. In tal modo la diseguaglianza è la risultante di un contesto relazionale sbilanciato. Diversamente, se questa è assunta a chiave interpretativa dei percorsi delle donne, vale a dire estrapolandola dal contesto relazionale, si corre il rischio di scambiare gli effetti con le cause originarie, nonché di congelare la fluidità dei processi sociali, espungendo così l’osservazione e la comprensione, non solo del mutamento, ma della specificità e dell’autonomia dei soggetti. La costruzione del genere è un processo che implica una relazione con il suo opposto. Butler (2006) pone l’accento sul farsi del genere quale processo attraverso cui si naturalizzano le cognizioni del maschile e del femminile. Rilevante nella sua visione la reversibilità del processo, per cui alla costruzione del genere e delle cognizioni annesse di maschilità e femminilità, corrisponde altresì la possibilità di decostruzione e denaturalizzazione. È in questa prospettiva dinamica del genere, in quella esperienza definita del «divenire 16 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE disfatti» (Butler 2006), che risiede la possibilità del cambiamento, oltre alla libertà soggettiva di incorporare le cognizioni e di prenderne le distanze. Il presente lavoro prende spunto da una ricerca sul campo su e con le donne di un territorio provinciale conosciuto più per essere annesso ad un modello virtuoso di sviluppo italiano, che per le specificità del loro ruolo ricoperto nel passato e nel presente. Il lavoro di ricerca, di cui qui si presentano i risultati, ha nel suo titolo il richiamo alla figura mitica di Penelope1, donna che sotto lo sguardo dei Proci e lontana dal suo Ulisse, sperimenta la sua autonomia attraverso la sapienza nel tessere e poi disfare nascostamente la tela. Con ridotti margini di libertà neppure Penelope, donna moglie e prigioniera dei suoi oppressori, faceva eccezione al principio crozeriano per cui le persone sono una mente, un progetto e una libertà (Crozier, 1978), nonostante e in virtù delle limitazioni esterne. Penelope, un po’ per caso e un po’ non, è qui la tramite di una visione della soggettività femminile, del suo agire autonomamente, piuttosto che congelata nell’impasse della diseguaglianza2. La lettura dei percorsi femminili e maschili attraverso il farsi e disfarsi, assume i soggetti nella loro autonomia, come pure in relazione alle limitazioni ed ostacoli che si frappongono al raggiungimento della stessa3. Essa ben si adatta ad una prospettiva sociologica che pone al centro l’interscambio tra soggetti e contesti. Le limitazioni sono qui fondamentali in quanto rimandano alle relazioni con il contesto più ampio, a quell’insieme di risorse materiali e simboliche le cui modalità di accesso designano le opportunità soggettive (individuali e collettive)4. Da una parte, dunque, i soggetti, dall’altra i contesti che danno vita al sistema di relazioni, così come di opportunità. Partendo dai soggetti, emerge con evidenza la sfasatura tra un relativo immobilismo del contesto e il cambiamento operato dalle donne che non sfugge all’attenzione di un’attenta osservatrice come la Hochschild: «Le donne sono cambiate, ma non le loro occupazioni fuori casa, né gli uomini che le aspettano a casa, né 1 Il titolo del progetto è Penelope cosa fa? Indagine sulla condizione femminile. I dettagli metodologici saranno illustrati nel capitolo 3. 2 La stanza del telaio secondo la Arendt è proprio il luogo simbolico in cui l’agire «irrompe imprevedibile e orienta il futuro in uno dei suoi percorsi possibili» (1988, p. 127). Per una lettura critica della figura di Penelope si rimanda a M. Durst (2005). 3 «Costruire e decostruire, fare e dis-fare, tessere e sfilare, montare e smontare sono alcuni dei modi attraverso i quali indichiamo due operazioni che, solo se prese in coppia, imprimono all’esperienza umana il movimento che ne rivela l’intima vitalità» (Fraire, 1995, p. 11). 4 «Se è vero che il genere è una sorta di agire, un’incessante attività in svolgimento, in parte, inconsapevolmente e involontariamente, è vero che anche per tale ragione essa non è automatica o meccanica. Al contrario, è una pratica di improvvisazione all’interno di una scena di costrizione» (Butler, 2006, p. 25). LA CONCILIAZIONE 17 la società che le circonda» (2006, p. 9). Così scrive la studiosa statunitense e parlando di «rivoluzione in stallo», in cui sarebbero rimasti intrappolati le donne come gli uomini, si dedica ad indagare i complessi meandri del dilemma tra amore e denaro, facendo affiorare le dinamiche di genere quali motore delle azioni quotidiane degli individui. L’essere uomini o donne ha un profondo significato, non solamente nel privato individuale. Intorno alle differenze sessuali le società hanno costruito e consolidato una mole rilevante di norme, regole, costumi, valori e modelli di comportamento (Gherardi, 2003a). In merito al genere le società hanno cumulato un bagaglio di grande rilevanza che è al tempo stesso risorsa e vincolo. Risorsa, in quanto permette di individuare e decodificare le diversità, vincolo, nella misura in cui a queste ultime si ricorre quale base legittimante delle disuguaglianze. Le società sono attrezzate intorno al genere e di ciò ne sono evidenza i modelli di organizzazione sociale che via via si sono andati costruendo, quasi mai prescindendo da una visione gerarchica dei sessi. Tuttavia, la competenza di genere non è di per sé una condizione sufficiente perché i e le competenti siano inseriti in un sistema equo di relazioni e di distribuzione delle risorse. Dunque le donne sono cambiate, ma a resistere al cambiamento sono spesso gli stessi schemi interpretativi sulle donne. La tendenza universale a pensare la diversità sotto il segno della gerarchia e della disuguaglianza (Badinter, 2004) rende questa un aspetto culturalmente necessario alle relazioni di genere, nonché alla loro lettura e interpretazione. La disuguaglianza è annessa all’ordinamento gerarchico tra i sessi, come un assunto da cui deriva il discorso sociale di genere. Ci si rivolge così più spesso alla disuguaglianza che alla diversità, divenendo più difficile sbarazzarsi di tale categoria mentale piuttosto che del «dominio maschile» (Bourdieu, 19985). La lettura non critica della disuguaglianza rende questa inevitabile e ineluttabile, al punto da giungere a costituirsi come saldo punto di riferimento: la rassicurante continuità del noto, del non avvenuto mutamento, della tradizione, insomma delle radici. Riflesso di ciò, tra l’altro, la formulazione di un’agenda politica che si mantiene saldamente ancorata ad una rimozione dell’oggettivo e persistente svantaggio sociale delle donne, trascurandolo in tutta la sua urgenza6. Le risposte ad un problema – e altrettanto le mancate 5 Bourdieu (1998) mette in evidenza la «straordinaria autonomia delle strutture sessuali da quelle economiche», tale da permettere al dominio maschile un perpetrarsi attraverso i secoli nonostante le trasformazioni sociali e dei modi di produzione. 6 Emblematico a tal proposito è l’approccio al problema nel documento ministeriale Italia 2020. Programma di azioni per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro a cura dei due ministri, rispettivamente per le Pari Opportunità e del Welfare (www.pariopportunita.it). Si introduce il piano sottolineando «i progressi e i persistenti ritardi» che vedono comunque 18 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE risposte – hanno un valore in ragione «del loro radicamento in una visione dei processi sociali di lungo periodo» (Paci, 2005, p. 13) e pertanto non può attribuirsi meramente alla casualità che tra le molte riforme sociali urgenti – come asserisce lo stesso Paci – si annoveri la costante della crescita di occupazione femminile a tutt’oggi senza soluzione. Peraltro, non solo non esiste la soluzione, ma sembra persino che non venga neppure perseguita a livello di indirizzo europeo7; ancor più nel nostro paese dove l’arretramento delle donne, specie dal mondo del lavoro, procede speditamente verso una regressione storica8. La diseguaglianza non solo diviene una categoria interpretativa facilmente disponibile e disinvoltamente utilizzata, ma spesso si pone a fondamento del vivere sociale, tanto più in questo scorcio d’epoca in cui, pur riducendosi le distanze fisiche, quelle simbolico-culturali e materiali continuano ad l’occupazione femminile aumentare tra il 2008 e il 2009, nonostante la congiuntura di crisi, e che fa registrare, per giunta, un arresto di quella maschile». Ora, il primo problema nasce dall’assumere l’equivalenza delle caratteristiche occupazionali maschili e femminili, soprattutto a partire dagli effetti che la crisi economica corrente produce su entrambi. Ma vi è da aggiungere che senza alcuna relazione tra quantità e qualità dell’occupazione si continuano a formulare politiche e interventi che assumono soggetti con eguali possibilità di accesso alle risorse lavorative, mentre nulla si dice rispetto alla qualità delle condizioni umane e lavorative che, al di là dei punti percentuali, esse designano. Sono proprio i dati relativi al 2010 e 2011 a mostrare una crescita preoccupante di donne in difficoltà che da soli basterebbero a smorzare i toni entusiastici da cui suddetto piano prende le mosse. 7 Si guardi ad esempio la nuova Strategia europea per l’occupazione dell’Europa 2020 che così commentano Mark Smith e Paola Villa: «Dal punto di vista dell’uguaglianza di genere, la strategia Europa 2020 appare contrassegnata da un marcato arretramento rispetto alle precedenti formulazioni. In primo luogo, la visibilità del tema dell’occupazione femminile risulta fortemente ridotta e limitata in un’ottica preoccupata esclusivamente di aumentare l’offerta di lavoro, senza grande attenzione alla qualità dei lavori e alle disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro. In secondo luogo, sono inoltre stati eliminati obiettivi quantitativi specifici: l’obiettivo della Strategia di Lisbona (che identificava un tasso di occupazione femminile, 15-64 anni, pari al 60%) è stato sostituito con un obiettivo generale: raggiungere entro il 2020 un tasso di occupazione per uomini e donne, 20-65 anni, pari al 75%. Infine, è scomparso il richiamo trasversale al mainstreaming di genere [.....] In breve, uguaglianza, parità e mainstreaming di genere non sono presenti né nella Parte I né nella Parte II delle linee guida integrate. L’assenza di un esplicito riferimento al mainstreaming di genere nei documenti di Europa 2020 non deve forse sorprendere, dato il progressivo declino della visibilità della dimensione di genere fin dalle prime fasi della Seo» («La nuova Europa 2020 sa di vecchio», 2010, www.ingenere.it). 8 Così commenta Saraceno i dai Istat della Rilevazione continua sulle Forze lavoro relativi al penultimo trimestre 2010: «In controtendenza con il resto dei paesi sviluppati ed anche con quanto era avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni, la percentuale di donne italiane che non ha, né cerca, lavoro ha ripreso ad aumentare e riguarda oggi quasi la metà di tutte le donne in età da lavoro – una percentuale da anni sessanta» («Le donne a caccia del lavoro», Repubblica, 3 ottobre 2010). LA CONCILIAZIONE 19 ampliarsi. Alla diversità come sinonimo di disuguaglianza la nostra società riserva uno spazio importante della socializzazione, attraverso un articolato percorso dalla famiglia alla società, lungo il quale il patrimonio biologicamente determinato dei soggetti viene sollecitato da strumenti che ne disciplinano l’espressione, entro comportamenti precodificati, affinché gli altri e le altre possano riconoscervisi essendone al contempo rassicurati. In ciò è già ravvisabile una prima contraddizione che le donne si trovano a vivere rispetto agli uomini: se da una parte la società si orienta verso modelli più aperti e percorsi maggiormente opzionabili nel loro farsi, rispetto al passato, vi è comunque una controtendenza di resistenza al cambiamento e di conservazione di parte della femminilità tradizionale, la quale si esprime soprattutto nel privato. Questo grava sulle scelte femminili in maniera tanto più significativa quanto più centrale è il valore dell’autodeterminazione esprimibile nel progetto esistenziale e personale, non meramente circoscritto al lavoro o al posto di lavoro. L’annessione della diseguaglianza al genere, come osserva anche Touraine nel suo Monde de femmes (2006), non supporta adeguatamente l’interpretazione di alcuni mutamenti sociali rilevanti, non supporta, appunto, l’essere delle donne soggetti sociali, il loro agire nel senso di una «ricomposizione del mondo», finalizzato al superamento dei dualismi e delle derivanti contraddizioni oramai palesi. Il limite di questo agire per la ricomposizione è comunque rappresentato dallo scoglio di un gruppo dominante maschile – a cui Touraine dedica il suo libro – che, non riconoscendo le donne in quanto tali (dunque come soggetti autonomi o meglio in cerca di tale autonomia), si autodefinisce e si autoleggittima: una egemonia maschile che continua a fondarsi sulla dualità. Ma le donne sono, appunto, cambiate; agiscono, hanno proprie aspirazioni attraverso le quali, peraltro, si manifestano i principali cambiamenti che le riguardano. Il diritto alla libera progettazione del proprio futuro è un punto fermo delle giovani generazioni, mentre i modi in cui le scelte sono operate continuano a fornire la misura della distanza di genere. Si tratta di un aspetto centrale per quanto riguarda il rapporto tra differenza e disuguglianza. Le condizioni di realizzazione del sé sono oggi legate non tanto all’appartenenza sociale, quanto piuttosto all’essere individui in sé, condizione, questa, che risulta inscindibile dalle differenze di cui si è portatori e portatrici. L’appartenenza copre uno spazio limitato dell’esistenza soggettiva, sempre più segmentata, fuggevole e transitoria. Un processo che prende a rendersi evidente dalla modernità in poi, ma che trova oggi la sua piena espressione, non in un differenzialismo separatista, bensì nella condizione di uguali e diversi nell’insieme sociale «diversificato e polifonico» (Baumann, 1999) 20 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE in cui gli ingressi e le uscite dai gruppi sociali designano un’appartenenza sociale fluida e transeunte. Non si tratta dunque di preferenze individuali alla Hakim (2000) tra work e family centred, bensì di percorsi che si concretizzano in relazione alle opzioni individuali e alle opportunità del contesto. Infatti, come ricorda la Nussbaum (2002) le preferenze non sono precognizioni individuali, ma il risultato di una combinazione tra scelte e risorse, tra individuo (in questo caso donna) e società. Il risultato di tale combinazione è ancora oggi tendenzialmente squilibrato tra donne e uomini, questo a parità di meccanismi e di percorsi. Il rapporto tra scelte-risorse e opportunità si compone in un sistema sessuato iniquo. Se la disuguaglianza connessa con la differenza sessuale diviene parte costitutiva dell’ordine sociale, rischia di essere penalizzata proprio la libertà individuale, in particolare delle donne, che, quanto meno si riconoscono e sono riconosciute nei e dai modelli dominanti, tanto più facilmente sono collocate nella condizione di minoranza, vale a dire “nell’eccezione”, “nella coda della distribuzione gaussiana”. Ma la differenza non è affatto eccezione, né è liquidabile come tale, ciò è quanto mai vero nella società contemporanea pluriaffermativa. Inoltre, l’affermazione di sé prende proprio le mosse dalla differenza di cui di volta in volta si è portatrici/portatori (Sen, 2000) e per cui si è uguali e/o diversi. Come ricorda Vincenti «Non tenere conto delle differenze, così come tenerne conto può portare a riprodurle. Ma tenere conto delle differenze per reificarle potrebbe portare a celare quei processi di potere che hanno prodotto le disuguaglianze non solo tra gruppi, ma anche all’interno dei gruppi stessi» (Vincenti, 2008, p. 437). Ecco che la questione dell’eguaglianza deve essere proprio riaffrontata in virtù di ciò che rappresenta e perché si tratta di una questione – rubando le parole a Joan Tronto – di confini morali entro le relazioni tra i sessi: «[…] assumo che le questioni centrali della teoria morale attuale riguardino il modo di trattare moralmente altri da noi distanti che riteniamo simili a noi» (Tronto, 2006, p. 17). I.2. Come sono cambiate le donne «Se le ambizioni di ragazze e ragazzi sono alla pari, le opportunità non lo sono ancora» (Zajczik, 2007). Il mutamento di percorso operato dalle donne è riconducibile ad un crescente investimento in istruzione e ad un’incorporazione dell’aspettativa lavorativa, come diffusa, specie tra le più giovani generazioni. Tuttavia, qui tornano le resistenze del contesto, le opportunità LA CONCILIAZIONE 21 di realizzazione e di affermazione personale nel lavoro di gran lunga più deboli rispetto a quelle della popolazione maschile. La persistente bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, che gli ultimi dati pubblicati descrivono persino in crescita (Istat, 2010a; Istat, 2011a), va a sovrapporsi ad altre disparità strutturali, prime fra tutte quelle per età e territoriali, connotando nell’insieme le peculiarità del mercato del lavoro nazionale quale punitivo ed escludente nei confronti di donne e giovani. La multidimensionalità dello svantaggio sociale delle donne trova proprio nel lavoro, a partire da esso, il senso profondo della discriminazione e di tutte le sue molteplici componenti (Gottardi, 2003). Mentre l’accesso equo alle risorse sociali, nella fattispecie lavorative, è la cornice entro cui le disparità tra donne e uomini sono qui lette ed interpretate, la spinta sociale individualizzante diventa il propellente per il moltiplicarsi delle stesse, alla luce proprio di quella ricerca di opportunità di realizzazioni del sé e di appartenenza sociale, estesa all’arco dell’esperienza possibile individuale. L’individualismo non è necessariamente sinonimo di ego-ismo sociale, quanto piuttosto l’affermazione di un diritto ad esprimere quante più opzioni possibili all’interno del personale percorso di vita (che include quello lavorativo). Nondimeno, tale diritto, per essere sostanziato, necessita di riconoscimento e condizioni di espressione, la cui debolezza, di fatto, diviene terreno fertile per l’interpretazione delle differenze come diseguaglianze. Il misconoscimento, piuttosto che il sostegno ai percorsi individuali differenti, è negazione della differenza come valore in sé e, al contempo, delle legittimazioni al sistema, dell’insita iniqua distribuzione delle opportunità e delle risorse. Ignorare come si distribuiscono le risorse lavorative in base alla differenza per sesso (oltre che per età, etnia, provenienza geografica, ecc.) è altresì sottovalutare che la dotazione sociale individuale si pone come la base principale per lo sviluppo del percorso vita-lavoro (Carbone, Ceravolo, 20099). Soprat9 «Poiché tutti i dati di ricerca mostrano sistematicamente che le risorse cosiddette «ascritte» – vale a dire connesse con le caratteristiche della famiglia in cui abbiamo la ventura di nascere senza merito o colpa – condizionano ancora oggi pesantemente le nostre chances sociali, lo studio della mobilità sociale di fatto corrisponde all’analisi del modo in cui le disuguaglianze sociali si riproducono nel tempo» (Carbone, Ceravolo, 2009, p. 12). Anche se tra le risorse ascritte non viene menzionato il sesso che, oltre alle caratteristiche familiari e di estrazione sociale, è la variabile interpretativa con un portato elevato, significativo in termini di interpretazione della disuguaglianza, è importante rilevare come si sia fatta strada una idea della diseguaglianza come fenomeno in sé, quasi indipendente dalle coordinate storico-temporali entro cui prende forma e soprattutto dalle specificità dei soggetti. Rimane comunque difficilmente inconfutabile il dato relativo ad una immobilità strettamente legata alla «stabilità delle diseguaglianze» (Carbone, Ceravolo, 2009; Eve, Meraviglia, Favretto, 2003). 22 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE tutto in un paese immobile come l’Italia (Schizzerotto, 2002) le chances di vita (Dahrendorf, 2005) sono fortemente ancorate al capitale sociale e umano, che in buona parte viene trasmesso per «ereditarietà intergenerazionale»10. Si tratta di un ulteriore indicatore di vulnerabilità socio-economica delle donne italiane, quale risultante della combinazione di una discriminazione ascritta con un processo di frammentazione e di progressivo isolamento dei singoli: «In Occidente, il capitalismo si accompagna a un’ideologia di individualismo laico, che spinge il singolo ad attribuirsi merito per la prosperità economica e colpa personale per le fasi di stallo: che ci spinge cioè a percepire gli eventi sociali come personali. Si tratta di un’ideologia punitiva nella sfera personale che fa il paio con un sistema economico punitivo a livello esterno» (Hochschild, 2006, p. 59) in cui può riconoscersi appieno anche l’andamento del contesto italiano. Mentre l’aspettativa di lavoro mantiene intatta la sua rilevanza sociale, tendendo persino ad ampliarsi a fasce di popolazione precedentemente escluse, il lavoro continua a rappresentare l’ideale realizzativo e il cemento della coesione sociale. Tuttavia, passando dal livello ideale al piano dell’esperienza del lavoro, si assiste piuttosto ad un ripiegamento sul privato che diventa cardine e rifugio, nonché compensativo del rischio di insuccesso11. Il ripiegamento sul privato da una parte, la diffusione del desiderio di lavoro più inafferrabile dall’altra (nelle sue caratteristiche di stabilizzatore esistenziale e di realizzazione del sé), fa sì che le donne siano più presenti ma anche più fragili nei confronti del mondo del lavoro, riproponendo l’attualità del dilemma tra realizzazione lavorativa e famiglia. Badinter (2010), a tale proposito, osserva come, per una serie di ragioni che si intrecciano, si assista oggi al riesacerbarsi del conflitto di ruolo donna-madre-lavoratrice, sia per la rimessa al centro dei percorsi delle donne della maternità come destino, sia perché la crisi economica ha rigettato le donne nella stessa situazione degli anni ’90: a casa a guardare i figli, che spesso è un lavoro più soddisfacente di quello mal sicuro, precario e mal pagato sul mercato12. 10 Si veda a tal proposito il rapporto Ocse (2010) Policy Reform. Going for Growth, in particolare il capitolo 5, significativamente titolato Family Affair. Intergenerational Social Mobility Across OECD Countries. 11 La valorizzazione del privato, del tempo per sé e libero viene a più riprese confermato soprattutto tra le giovani generazioni, per le quali, pur non diminuendo l’importanza del lavoro, acquisiscono altrettanta rilevanza le dimensioni esistenziali extra lavorative; dimensioni particolarmente significative dal punto di vista della ricerca di senso (Farina, 2005; Farina, Vincenti, 2009). 12 Precedentemente la Badinter aveva già riflettuto sull’erosione del ruolo pubblico delle donne e sulla ribalta del ruolo di curatrice a seguito di un processo di arresto del progresso egualitario: «Il connubio tra la crisi economica e il ritorno implicito o esplicito dell’istinto LA CONCILIAZIONE 23 Già la Hochschild (2006) aveva osservato che nella progressiva estensione e destabilizzazione della pervasività del mercato, la figura della madre stava diventando sempre più centrale soprattutto nella sua funzione «rifugio», fino a condensare in essa, quando non a sostituire, il valore della famiglia: «L’ipersimbolizzazione della figura materna è, almeno in parte, una risposta alla destabilizzazione delle basi culturali ed economiche della famiglia – effetti del capitalismo, in quanto sistema altamente dinamico. Più la situazione esterna appare incerta, più sentiamo il bisogno di credere nella solidità della famiglia e, venendo meno questa, nella solidità della figura moglie-madre […] L’effetto congiunto del capitalismo destabilizzante e dell’ideologia individualista che porta al ripiegamento su se stessi è quello di creare il bisogno di un luogo sicuro, di un rifugio in un mondo senza cuore» (p. 59). La conseguenza è che oggi si esprime più un bisogno di madri che di lavoratrici, specie in Italia, dove tutto sommato, l’espulsione delle donne dal mercato risulta funzionale a politiche pubbliche di risparmio della spesa sociale in materia di servizi di cura e di assistenza (Saraceno, 2010). Se infatti il mercato è il centro della vita sociale, le funzioni regolative vengono sempre più svolte da istituzioni non economiche, che comunque operano accanto a quelle economiche (Farina, 2005) e vanno ricoprendo un ruolo di maggiore centralità per la crescente instabilità dei percorsi di vita e di lavoro. Questo diviene tanto più vero quanto più a scarseggiare è proprio la risorsa lavoro. Il rischio che le funzioni regolative svolte dalla famiglia, in particolare dalle donne, andranno a consolidarsi come riempimento di un vuoto istituzionale e in contrasto con il ruolo femminile lavorativo e pubblico, non sembra, di fatto, essere così remoto. La vulnerabilità non solo è condizione del presente, ma è altresì destinata a riprodursi lasciando traccia di sé nelle successive generazioni: «In questo scenario diventa più difficile anche per le donne dei paesi più ricchi ed economicamente dinamici, recuperare i gap di genere, sia che vogliamo misurarli come opportunità di accesso alle risorse che come chance per una competizione alla pari in base al merito. In basso, la maggiore scarsità di risorse tende ad accumulare i gap di partenza, in alto la valutazione per merito sulla strada stretta della mobilità ascendente, trova l’ostacolo dei processi difensivi prodotti dalla cooptazione maschile» (Bimbi, 2007, p. 1). Nella lunga scia internazionale di ampliamento delle distanze sociali, il sistema Italia risulta particolarmente svantaggiato per effetto delle inique distribuzioni di risorse all’interno del paese: oltre che tra uomini e donne, si va aggravando materno ha avuto effetti dirompenti sul cammino verso l’uguaglianza dei sessi. Tutto ha cospirato perché le madri restassero a casa» (Badinter, 2004, p. 133). 24 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE anche lo squilibrio intergenerazionale, per cui vi è molto da riflettere su ciò che sta per ricadere sulle giovani donne. A ben guardare, sembra essersi consolidato un complesso sistema di sostegno dell’accettazione della disuguaglianza, rispetto a cui si mettono in atto isolatamente strategie di superamento e sopravvivenza. La promozione sociale appare un concetto oramai oscurato dalle nuove difficoltà che derivano dall’intermittenza della vita lavorativa e, più in generale, delle relazioni sociali. Aspetto, quest’ultimo, per cui aumenta la dipendenza dal lavoro e dal reddito. Cresce, inoltre, il peso della subordinazione per effetto della debolezza dei contratti di lavoro (Supiot, 2003) e con esso si affievoliscono le opportunità di autodeterminazione dei soggetti. Sono le donne ad essere al centro del turbine sociale dei cambiamenti lavorativi o, per meglio dire, quante tra loro continuano a scommettere su quella, oramai introiettata, necessità di realizzarsi tra vita e lavoro13. I percorsi delle donne parlano oggi al tempo stesso di tendenze e di eccezioni, di devianza dalla norma e di conformismo: tra stabilità e mutamento le donne cercano nuovi equilibri che impongono agli scienziati sociali uno sguardo plurimo, che assomigli di più al vissuto femminile, troppo spesso uniformato proprio sotto l’assunto della disuguaglianza. Il rovescio della medaglia della disuguaglianza è spesso rappresentato dalla retorica della novità. L’inattesa rivoluzione (Aa. Vv., 1997) della diffusa presenza femminile ha dato vita ad una tendenza a stigmatizzare le donne come un’eterna novità. In continuità con quanto detto precedentemente intorno all’ordinamento gerarchico dei sessi e all’assunto della disuguaglianza, il ruolo di portatrici di novità induce a percepire come miracolistico qualsiasi progresso delle donne, avulso dal contesto e senza radicamento. Come di fronte ad un infante che faticosamente conquista la posizione eretta, muove stentatamente i primi passi o pronuncia le prime parole storpiandole in un linguaggio della sua età, così le conquiste delle donne continuano a sorprendere e, al tempo stesso, seppure percepite non perfette in termini di performance sociale, seppure non equiparabili a quelle 13 Anche in questo caso sono le più giovani generazioni ad essere colpite da una rapida tendenza allo scoraggiamento. Se è vero che le donne sono state tra le prime e le più numerose scoraggiate, si assiste oggi ad una estensione anche al maschile del fenomeno. Più che ad un mutamento stiamo oggi assistendo ad un corto circuito, per cui non è possibile considerare quello della flessibilizzazione un percorso virtuoso di messa in circolo di maggiori e migliori opportunità, ma piuttosto un brusco arresto dello sviluppo attraverso le generazioni: «Siamo di fronte a pezzi importanti delle generazioni più giovani che, dopo essersi sentiti dire che dovevano abbandonare il sogno del posto fisso, ora sperimentano la perdita della possibilità tout court di avere un lavoro» (Saraceno, 2009b). LA CONCILIAZIONE 25 degli uomini, inevitabilmente destano il senso della conquista o sono accolte con compiacimento. Il permanere nell’area dell’eccezionalità indebolisce il portato di modificazione strutturale e di lungo periodo. Di fatto, il rafforzamento della posizione femminile, a livello nazionale e internazionale, ad oggi non è stato tale da riportare in pari gli squilibri di genere. Mentre si considerano sufficienti i progressi compiuti14, proprio in virtù di ciò si va a giustificare il mantenimento del gap di genere. Vi è di più: la ri-sessuazione del contesto che pervade molta parte della vita sociale, a partire dai mezzi di comunicazione dove questo fenomeno è sotto particolare osservazione, tende a polarizzare nuovamente modelli maschili e femminili in un’antinomia riduttiva della complessità sociale che è altresì contro-reazione (Faludi, 1992) alla pluralità introdotta dal mutare delle donne. Il compiacimento dei piccoli passi che non induce a riflettere adeguatamente sulle profonde ingiustizie non ancora risarcite, è parte integrante di detto processo. L’accettazione della disuguaglianza ha una sua forza sociale che pervade trasversalmente le categorie sociali e impedisce di focalizzare ulteriori obiettivi di giustizia distributiva, che, al contrario, sembrano allontanati sistematicamente da modelli culturali e provvedimenti che considerano comunque le donne soggetti sociali dimezzati. La «casalinga»15 da una parte, l’istinto materno16 dall’altra, sono la rappresentazione di uno spiccato interesse per le donne fuori dell’arena pubblica anziché per la loro inclusione. Si assiste all’emergere di 14 A sottolineare come sia profondo il bisogno di comprendere il cambiamento delle donne e le sue prospettive future, così scrive Daniela Del Boca (2010): «Nonostante il miglioramento delle condizioni di vita delle donne negli ultimi trent’anni, non sembrano essere cresciuti i livelli di soddisfazione e benessere «soggettivo»; anzi, una recente ricerca mostra che il benessere soggettivo dichiarato è diminuito per le donne e aumentato per gli uomini (Stevenson, Wolfers, 2009). Quando le donne lavorano, gli uomini si trovano con un reddito familiare superiore, derivante dal maggior contributo delle donne, ma non devono affrontare un corrispondente maggior carico di oneri familiari. Per le donne, invece, l’aumento del lavoro per il mercato è stato spesso accompagnato da sacrifici del proprio tempo libero per mantenere un livello adeguato di cura della famiglia. Un altro aspetto suggerito riguarda il fatto che, con l’ingresso delle donne nel lavoro, le donne si confrontano con un mondo più ampio prevalentemente maschile e vedono i propri risultati sistematicamente inferiori» (p. XVII). 15 Il d.lgs. 276/2003 all’articolo 71, indica esplicitamente le casalinghe tra i soggetti cui è possibile fornire lavoro accessorio (vale a dire occasionale), insieme ad altre categorie socialmente deboli quali i disoccupati da oltre un anno, studenti, pensionati ecc., reintroducendo di fatto, dopo oltre trent’anni ciò che era stato abolito con l’approvazione della legge di parità del 1977. 16 È sempre la Badinter a far notare che la combinazione tra crisi economica ed enfatizzazione dell’istinto materno sono nell’insieme una sorta di cospirazione per far si che le madri rimangano a casa; inoltre se la maternità viene di fatto ricondotta ad una matrice istintuale, si riduce drammaticamente lo spazio della relazione e della condivisione dell’accudimento genitoriale (Badinter, 2004). 26 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE un «fondamentalismo materno» che tende a rapportare a sé buona parte, quando non la totalità, della femminilità contemporanea. Esemplificativo lo straordinario seguito ottenuto dal modello di «madre ecologica» (Badinter, 2010) che recupera cioè delle competenze naturali piuttosto che subire quelle imposte dalla medicina e dalla medicalizzazione della gravidanza; esso ben rappresenta la radicalizzazione della maternità per cui le donne scompaiono dietro la loro funzione naturale: «... la bonne mère fait «naturellement» passer les besoins de son enfant avant tout. [...] les besoins des enfants son fixés par la «nature» (p. 104). Assieme alla novità delle donne, senza prescindere dai ruoli del passato, vi è poi la riscoperta del valore economico della risorsa «femminile». A seguito dell’affermazione delle tesi della cosiddetta Womenomics (Matsui, 2005) si è cominciato ad affermare che all’origine del mancato sviluppo vi è il mancato «sfruttamento» delle donne. Da questo punto di vista, la misura della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro diviene un problema non solo delle donne ma dell’intero sistema economico; nonostante un tentativo sotteso di rivalorizzazione dell’apporto femminile, tali assunti si basano su di una immutata concezione delle donne che semplicemente riemergono come bacino di riserva a cui attingere in vista del superamento di una grave fase di stallo; neppure muta la visione più generale delle persone come mezzi funzionali ad un sistema e anziché fini. Se le donne rappresentano un insieme di risorse non ancora utilizzate per nuove prospettive di sviluppo, dunque il loro valore è proprio nella pregressa estraneità ad un sistema, di cui sono parte sub condicione e che scarsamente le rappresenta, ma per cui possono rappresentare la via della salvezza. Sono numerosi gli studiosi, anche uomini, che hanno condiviso la necessità di un migliore utilizzo delle competenze femminili, ravvisando in ciò una possibilità di coniugare sviluppo con innovazione. Ci si è focalizzati così sull’apporto femminile di efficienza e competitività che ha avuto anche dei riflessi in sperimentazioni di pratiche organizzative. Attraverso progetti, certificazioni più o meno rosa, bilanci di genere ecc., si è dato vita, in numerosi casi, a strategie di miglior utilizzo delle risorse femminili nelle unità lavorative, nella convinzione che sia una scelta profittevole per l’unità produttiva e il sistema tutto (Wittenberg-Cox, Maitland, 2010; Del Boca, 2010b). In Italia, Ferrera, nel suo testo intitolato Fattore D nel 2008 (quando ancora gli effetti della crisi globale non erano evidenti e chiari ai più e la nebbia intorno ad essa non era così dipanata) sosteneva l’urgenza di «fare largo alle donne», promuovendone una maggiore occupazione, non solo e non tanto per ragioni di giustizia e di riconoscimento del valore delle pari opportunità, ma LA CONCILIAZIONE 27 anche perché senza le donne l’Italia non avrebbe avuto speranze di crescita17. A quasi tre anni di distanza queste asserzioni appaiono già contraddette da una tendenza esattamente opposta a quella della scommessa sulle donne. Il World economic Forum da tempo richiama l’attenzione sui costi sociali ed economici all’un tempo dell’esclusione delle donne, soprattutto per quei paesi come l’Italia che, unica in Europa, continua a posizionarsi nella misura del Gender Gap Index18 (Hausmann, Tyson, Zahidi, 2010) nella parte bassa di una classifica che mette insieme 134 paesi. Convergono sull’allarme Italia anche i dati sull’occupazione pubblicati dall’Ocse (Oecd, 2010) che la collocano al penultimo posto, tra i paesi considerati, per numero di occupate. Pur nella consapevolezza di quanto i numeri riducano drasticamente la realtà, ma al contempo assumendo che in ogni caso rappresentano un indicatore dell’andamento socio-economico, vi è da chiedersi se la situazione non sia persino peggiore di quella che riduttivamente i ragionamenti meramente quantitativi inducono a fare; secondariamente rimane in sospeso un dubbio relativo all’assunto economicistico della necessità di guardare alle «risorse umane» femminili come profittevoli. L’espressione risorse umane ha qui una valenza critica: come già Gallino (2009) avvertitamente rileva, parlare di risorse e non di persone significa considerare le stesse mezzi e non fini. Tale assunzione, infatti, lungi dal mettere in discussione l’esistente, annette la «risorsa femminile», in quanto funzionale, al sistema, che diviene così 17 Nel 2007 quando gli assunti efficientistici della scommessa sulle donne erano in primo piano, si è originato un dibattito intorno al possibile «sorpasso» economico della Spagna sull’Italia. A tale proposito fu proprio Ferrera a spiegare che questo era dovuto principalmente agli investimenti del Governo spagnolo a sostegno dell’occupazione femminile e conciliazione. Mentre il sorpasso ha avuto ampio spazio nel dibattito politico, la causa principale del balzo verificatosi nell’economia spagnola non avrebbe avuto la stessa risonanza: «Nel dibattito sul «sorpasso» spagnolo pochi si sono soffermati su un aspetto apparentemente secondario e invece molto importante: l’occupazione femminile […]. Ma il nesso fra occupazione femminile e crescita è bi-direzionale. Come dimostrano le ricerche della cosiddetta womenomics, più donne attive uguale più crescita. [...] A dispetto del «declino», l’economia italiana ha ancora molti punti di forza, che la rendono più solida di quella spagnola. Sul fronte dell’occupazione femminile, i dati lasciano tuttavia pochi dubbi su chi è più avanti. E indicano il percorso che anche il nostro governo dovrebbe al più presto imboccare» (Corriere della Sera, 31 dicembre 2007, p. 28). Sulla solidità del sistema italiano oggi avremmo più dubbi di quanti non ne potessero sorgere al momento del dibattito, ma fa riflettere comunque come pur essendo stata colpita duramente dalla crisi, la Spagna non sia arretrata dai suoi investimenti, non solo economici, sulla parità tra i sessi. 18 Il Global Gender Gap Index messo a punto dal World Economic Forum misura le distanze tra uomini e donne in quattro dimensioni della vita sociale: la partecipazione economica e le opportunità, il livello di istruzione, la responsabilità politica, la salute e la speranza di vita. 28 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE utile in quanto produttiva, non «utile» in sé. Vi è in ciò il vizio originario di guardare al sistema economico come un primum a cui tutto è subordinato. Eppure è proprio la disinvoltura con cui questo è stato variamente declinato ad aver originato la crisi attuale, la quale spesso più assomiglia alla fine del modello di capitalismo finanziario avanzato per la cui riproduzione (Bauman, 2009) si necessita di «sfruttare» sempre nuove risorse non altrettanto ulteriormente disponibili. La via femminile allo sviluppo appare debole e poco convincente in un panorama in cui i sistemi lavorativi ed economici continuano ad avvantaggiarsi della progressiva erosione dei diritti delle persone e in particolare delle donne. Il lavoro «indecente» (Gallino, 2009), quale è divenuto, è il risultato di una mancata scommessa sulla sua riqualificazione. Paradossalmente è proprio il tipo di lavoro che per diversi anni nel nostro paese ha visto crescere il numero di occupate, è il lavoro in cui le donne e i giovani sono rimasti intrappolati, contraddicendo quel proposito di perseguimento dello sviluppo che non si riduca a mero aumento del profitto economico. È opinione condivisa che la scomposizione del lavoro in forme più flessibili abbia rappresentato una delle più rilevanti opportunità di ingresso e partecipazione femminile al mondo del lavoro. È difficile, però, non porre interrogativi sulla qualità delle opportunità lavorative, a cui, effettivamente, le donne hanno principalmente avuto, o non, accesso. Il divaricarsi, al presente, di opportunità di lavoro decente e a numero chiuso, dall’ampia disponibilità, viceversa, dai lavori «indecenti» (Gallino, 2009), colpisce in maniera discriminante i segmenti della forza lavoro, senza eccezione di quello femminile19. Si afferma, attraverso l’ideologia della flessibilità20, la visione di un lavoro 19 «In Italia, come negli altri paesi avanzati, tanto la flessibilità quanto gli oneri che ne derivano non colpiscono in modo differenziale soltanto i vari sistemi lavorativi di cui sopra. Entro ciascun sistema, la probabilità che il solo lavoro che si riesce a trovare sia un lavoro flessibile, regolare o irregolare e che i suoi costi personali e familiari siano più gravosi, più estesi e più duraturi è notevolmente più alta per le donne, per i giovani in cerca di prima occupazione al di sotto dei 25 anni, per i disoccupati che superano i 40-45 anni, per chi ha un titolo di studio basso, per gli immigrati, per chi vive in zone meno sviluppate del resto del paese» (Gallino, 2009, p. 95). 20 Da più parti si sottolinea oramai che l’ideologia della flessibilità non ha sostenuto adeguati risultati, prima di tutto in termini di crescita economica, oltre che sul piano di crescita di qualità del lavoro e di sicurezza dello stesso, tradendo così quelle attese di ampliamento delle opportunità che non possono dirsi realizzate solo quantitativamente sui numeri degli accessi al lavoro, omettendone le conseguenze sugli interi percorsi di vita e lavoro, laddove, proprio a partire dalla flessibilizzazione del lavoro, i tempi e i luoghi di vita tendono sempre più ad una con-fusione e all’abbattimento dei reciproci confini più rigidamente stabiliti prima con l’affermarsi del capitalismo e poi con il modello socio-economico fordista. LA CONCILIAZIONE 29 prettamente merce – sottolinea Gallino – non riqualificato e squalificante la vita degli individui, diverso e separato dalla persona che lo svolge, dalle sue competenze, dai suoi bisogni e dai suoi progetti di vita. È questo il terreno su cui il lavoro si estende senza confini e diventa un’opportunità sempre più diseguale in termini di opzioni di vita. Ma la disparità lavorativa ha un ampio e profondo radicamento nel nostro paese di tipo non solo economico, ma sociale più ampio, politico e culturale; in essa si legge una misura del complessivo grado di difficoltà: «In un momento di competizione particolarmente aspra, e perfino di rischio di declino, l’Italia discrimina e rifiuta l’apporto fondamentale di competenze, capacità, conoscenze, di alcuni tra i suoi più preziosi cittadini, le donne. Non per ragioni di calcolo razionale o convenienza economica, ma per motivi culturali, di carenze istituzionali, di preservazione e conquista del potere da parte di élites chiuse» (D’Ippoliti, 2008). Se così è, allora la via femminile allo sviluppo diventa ancor più debole e meno convincente come mezzo di ripianamento delle disuguaglianze di fatto: almeno fin tanto che non siano state affrontate le resistenze culturali, non si sovverte l’ordine di genere né la concentrazione di poteri immobili, reali ostacoli che si frappongono fra le donne e lo sviluppo, fra la società e una redistribuzione più equa delle risorse. Ciò che inoltre non persuade, guardando al contesto più ampio, sono le tendenze, da più parti rilevate e descritte, di una progressiva erosione delle opportunità di scelta quali connotative della condizione femminile contemporanea (Faludi, 1999; 2008; Aa.vv., 2010). L’economia non è concepibile in un procedere isolatamente, così come non è possibile definire l’efficienza economica senza che questa assuma, in una prospettiva di società integrata, uno spessore di questione politica innanzitutto, attribuendo al termine politica l’accezione di questione pubblica, istituzionale, quale ambito di dibattito e di intervento. Del resto, è proprio sul piano della rappresentanza politica che la distanza tra donne e uomini risulta non colmata, tendendo peraltro ad acuirsi, non certo a ridursi. Permane un primato maschile per cui l’esclusione femminile continua ad essere un problema secondario o derivato. La vicenda delle quote rosa è esemplare al riguardo21. La differenza sessuale diviene il motore per un nuovo modello di sviluppo, ma la disuguaglianza ne rimane il principale ostacolo. 21 Quando nel 2006 si propone la modifica dell’articolo 51 della Costituzione per promuovere le pari opportunità nelle cariche elettive e nei pubblici uffici (cosiddetto provvedimento quote rosa), questo viene «sacrificato» in nome della ragion di stato e della mancanza dei tempi tecnici. Dopo aver comunque ottenuto la maggioranza dei voti in Senato il provvedimento non ha trovato posto nell’agenda della legislatura in scadenza. 30 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Mentre appare oramai chiaro che non può essere esclusivamente la crescita economica l’indicatore su cui mettere a punto le misure sociali, pena tra l’altro la loro stessa inefficacia, sono già in atto dinamiche escludenti e scoraggianti, che vanno a colpire proprio le fasce più deboli della popolazione, di cui è prevedibile un acuirsi nel breve futuro per effetto di strategie che, in assenza di una inversione di tendenza, si stanno indirizzando su una politica degli utili al netto della coesione e della giustizia sociale22. I.3. Perché le donne tra vita e lavoro Le riflessioni su come sono cambiate le donne sono strettamente correlate a come è cambiato oggi il lavoro. Il modo in cui si vive e si lavora rimanda costantemente a delle tensioni derivanti da una sempre più intensa fusione tra lavoro e vita23. Il lavoro si è fatto sempre più pervasivo nelle sue molteplici forme e dilatazione di orari, rendendo la vita privata una sorta di permanente terreno di avanzamento. Il limite del suo avanzamento è vissuto criticamente soprattutto dalle donne, per ragioni sia biologico-riproduttive, sia di assetti di genere sbilanciati sul carico di lavoro di cura sempre in linea femminile24. Il lavoro è divenuto più flessibile a spese di una crescente rigidità della vita privata che si definisce per adattamento alla sfera lavorativa. Per tutta una serie di ragioni, quali per esempio l’alterazione tra quantità di lavoro e capacità di reddito25, evidente nella diffusione di lavoratori poveri e anche sottoposti a ritmi e carichi di lavoro che non lasciano traccia in incrementi salariali proporzionali, l’accresciuta instabilità e insicurezza del percorso lavorativo, per cui il bisogno di lavoro si è fatto più urgente per un maggior numero 22 Maria Grazia Campari mentre prende atto della condivisione di una interpretazione di una debolezza economica di alcuni sistemi, quale l’italiano, connotato da spiccato machismo, sottolinea come sia necessario adottare una prospettiva più ampia delle determinanti l’esclusione: «l’esclusione femminile riguarda la sfera pubblica nel suo complesso e determina un circolo vizioso che alimenta non solo disastri economici ma anche deterioramento di relazioni interpersonali, scomparsa dei rapporti di fiducia, abbassamento del livello di democrazia» (Campari, 2010). 23 Non si dimentichi che nel lavoro risiede l’origine delle pari opportunità come questione politica. 24 Si vedano a tal proposito i due rapporti Istat Conciliazione e denatalità, Essere madri in Italia e I nuovi padri (www.istat.it). Si legga inoltre l’articolo di G.C. Giannelli, I veri fannulloni sono in casa, reperibile al sito www.ingenere.it. 25 «Considerando il biennio 2008-2009, la caduta del livello del reddito ha raggiunto in Italia il 6,3 per cento, il risultato peggiore tra quelli delle grandi economie avanzate» (Cnel, 2010, p. 11). LA CONCILIAZIONE 31 e varietà di soggetti; con esso, la conciliazione, quale necessità di ridefinire nuovi equilibri tra le sfere di vita, di armonizzarle. È la vita l’area di disponibilità per un lavoro che tende ad estendersi, massimizzando l’interdipendenza. In tale contesto perde di significato il ricorso alla conciliazione come strategia di composizione delle sfere dell’esperienza operata dalle donne e principalmente da esse. Il lavoro di cura e il ruolo di care giver «inespresso» nel modello di procacciatore di reddito (Saraceno, 2009a) è rimasto a lungo nelle ombre del disinteresse pubblico e soprattutto politico (Okin, 1999)26, poggiando su un ordine di separazione delle sfere di vita pubblico/privato, in continuità con un assetto sociale di genere della “gestione separata”. Persino l’interesse, piuttosto recente e ancora limitato, verso il lavoro di cura e domestico, risente pesantemente di una visione sessuata, ascrivendo alla donna le competenze in merito, acquisite per una socializzazione che, ancora oggi, si basa su una specializzazione di genere. Non a caso, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, specie in Italia, è avvenuto per assimilazione ai modelli maschili, sia di organizzazione del tempo, sia di sviluppo di carriera e pure del significato associato della produttività. La cosiddetta femminilizzazione del mercato del lavoro si è affermata seguendo il modello della «doppia presenza» (Hochschild, 1990; Balbo, 1978), un modello additivo di cui le donne si sono assunte gli oneri (di cura e lavorativi) senza modificare la relazione tra prestatrici di cura e destinatari (Saraceno, 2009a), passando così da non occupate a casalinghe occupate. È oggi che il senso della conciliazione assume un significato del tutto diverso: la scomposizione del corso di vita, così come la fluidità dei confini tra le sfere dell’attività umana, chiamano in causa la necessità di un nuovo patto sociale tra le donne e gli uomini. Le donne, infatti, hanno nel tempo legato maggiormente i loro percorsi al lavoro, studiando di più, mettendolo al centro delle attese e delle esperienze, adattando la scansione del corso di vita ad una ricerca di senso rivolta sì alla sfera privata, ma altrettanto alla partecipazione sociale e lavorativa. L’evidenza di questo mutamento è nell’orientamento delle ultime generazioni. Di fatti, diversamente dalle donne della doppia presenza, le più giovani tendono, più che a un modello alternativo tra vita e lavoro (aut aut), ad un modello di composizione tra le due sfere (et et), che nell’insieme attribuiscono senso all’esperienza. Anche il lavoro entra nel destino lavorativo delle donne la cui «fortuna» (Gherardi, 26 Afferma la Okin (1999) che il disinteresse della politica verso la famiglia è il disinteresse verso un ambito di vita prevalentemente femminile a partire dall’assunto della divisione delle sfere di vita come «naturale», pertanto non necessita di essere giustificata né risulta facilmente modificabile. 32 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Poggio, 2003) di ottenerlo attiene al piano delle reali opportunità, mentre la sua accessibilità è ancora fortemente condizionata dai retaggi culturali da cui nasce il ruolo di lavoratrice, soprattutto di madre-lavoratrice, affermatosi in subordine agli obblighi, socialmente prestabiliti, di cura, gli stessi che forgiano le relazioni private affettive, di coppia e familiari27. Da tali retaggi non sono immuni neppure gli stessi studi sul mercato del lavoro, offrendo letture che assumono, implicitamente o esplicitamente, la dicotomia dei ruoli pubblici e privati, riconoscendo una relazione diretta tra vita e lavoro, soprattutto quando questo è declinato al femminile28. Anzi, sono proprio le donne che lavorano a richiamare «la questione del work and life balance e della conciliazione tra lavoro e famiglia» (Chiarello et al, 2004, p. 95), è a partire dalle donne, dunque, che si impone una messa a questione del rapporto tra qualità del lavoro e qualità della vita. Nel prendere atto del problema della ricerca di equilibrio, non raramente si tradiscono radicamenti stereotipati e sessuati, tali per cui per cui la conciliazione, la ricerca di un migliore equilibrio vita-lavoro o è concepita come la via per un supporto all’occupazione femminile o è comunque derivante e circoscritta alla questione sociale femminile29. Un tale approccio rischia, ancora una volta, di intrap27 Sono dunque principalmente le donne a modificare i loro percorsi e comportamenti mentre i loro partner maschili continuano a non avere «quasi nessun obbligo sociale verso il lavoro di riproduzione. Il contributo maschile, dipende, semmai, da obblighi morali privati, di giustizia affettiva verso le loro partner» (Bimbi, 1995); d’altra parte: «la gratuità è un indicatore economico di forte ingiustizia sociale verso le donne: o perché esse – e quasi solo esse – hanno questo obbligo temporale verso la società, non ricevendo mai alcun corrispettivo diretto o indiretto, per prestazioni sociali e in parte ineliminabili; o soprattutto perché esse –e quasi solo esse– svolgono di fatto un lavoro servile per uomini adulti sani e capaci» (Bimbi, 1995, pp. 396-397). 28 Già nel 1989 è Gallino ad indicare che una delle distorsioni della sociologia del lavoro in Italia è data dal suo essersi concentrata sul lavoro maschile. 29 Ad esempio ad ascrivere la conciliazione al genere femminile sono più spesso gli studiosi che si occupano di interpretare gli andamenti del mercato del lavoro. Scrive a tal proposito Reyneri «Il problema della conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura per la famiglia è centrale per aumentare un tasso di occupazione femminile ancora ben lontano dalla media dell’Unione Europea, senza costringere le donne ad una vita stressante e senza ridurre ulteriormente la già troppo bassa natalità. […] l’arretratezza italiana è dovuta essenzialmente al minor tasso di occupazione a tempo parziale delle donne meno istruite, che ovunque sono le più propense a un impegno lavorativo ridotto per consentire di realizzare un loro forte orientamento alla famiglia» (pp. 159-160) e continua descrivendo come dal 2003 in poi, vale a dire dopo l’approvazione della legge 30, è aumentato il part time involontario delle donne come effetto propulsivo di uno sbilanciamento della flessibilità favorita dalla legge troppo a favore delle imprese che, dice sempre l’autore «rischia di rendere più difficile per le donne conciliare l’impegno lavorativo con l’organizzazione della vita familiare» (2007, p. 160). LA CONCILIAZIONE 33 polare le donne, anche concettualmente, nello status quo di uno squilibrio, senza per nulla interrogare gli uomini rispetto alle loro responsabilità di cura, né riconoscere i bisogni emergenti di riassetto esistenziale, oltre e rispetto al lavoro. A tale proposito, di un certo interesse è lo studio dell’economista inglese Wendy Sigle-Rushton (2010) che, confutando le teorie economiche soprattutto della cosiddetta New Home Economics, si interroga intorno all’ipotesi accreditata di una relazione positiva tra partecipazione lavorativa delle donne e instabilità coniugale (tassi di divorzio). La studiosa conclude che tale ipotesi è stata sviluppata e verificata analiticamente senza mai prendere in considerazione il lavoro non pagato degli uomini come variabile esplicativa della instabilità matrimoniale; introducendo questa variabile, infatti, appare chiaro che una maggiore condivisione da parte dei partner maschili del lavoro «non pagato» è da considerarsi un fattore di protezione dal rischio di separazione e divorzio. Il più delle volte non si registra affatto un ribaltamento di prospettiva e il lavoro di cura, domestico e familiare, è affrontato quale problema che le donne devono risolvere, in derivazione di una visione che assume a priori la loro posizione diseguale rispetto agli uomini. Tanto meno in questi casi vi è la volontà di illuminare il cono d’ombra del lavoro di cura degli uomini, o di rappresentare la condivisione tra lavoro retribuito e non, tra responsabilità di cura e domestiche, come un modello alternativo a quello della specializzazione di genere, il quale, peraltro, avrebbe maggiori probabilità di efficace risposta alle necessità dei soggetti bisognosi di cura, secondo principi di razionalità organizzativa. Si continua a concentrare l’attenzione sulle pratiche delle donne e sulle loro abilità di «acrobate» (Rosci, 2007) tra le difficoltà crescenti che la complessità oppone, ma che magicamente (Pogliana, 2009) si ricompongono grazie alle abilità femminili30 di arrivare a pronunciare un «doppio sì» (Aa. vv., 2008). Si tematizza in tal caso di una donna che agisce isolatamente, avulsa da un contesto relazionale, che, a prescindere dall’estrazione sociale, è supposta in grado di scegliere di tenere tutto insieme e necessariamente su di sé, anche il conflitto. In assenza di dialettica tra i due sessi (Melandri, 2009), il conflitto appare infatti tutto interno alle donne, correlato ai ruoli che esse scelgono (per possibilità e volontà). Emblematicamente sono le 30 La donna acrobata: «È una donna che aspira a una vita nella quale ci sia posto per tanti ingredienti diversi: il lavoro, la maternità, l’amicizia, l’amore, gli interessi e i valori personali, i sogni per il futuro. Non volendo negare nessuna delle sue aspirazioni, le dosa nelle diverse fasi della vita a seconda dei problemi che si pongono, trovando equilibri sempre nuovi» (Rosci, 2007, pp. 27). 34 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE donne-madri ad essere poste al centro di tale prospettiva, mentre le altre divengono conseguentemente residuali rispetto al sistema consolidato. A cadere in trappole di visioni sessuate sono le stesse politiche sociali di cosiddetta conciliazione, quando, in una non coerente applicazione, assumono le donne come principali destinatarie, con l’effetto perverso di irrigidirne il ruolo, al crocevia tra attività di lavoro e di vita, in maniera sperequativa rispetto agli uomini. Peraltro, l’obiettivo assistenzialista è più spesso perseguito da tali politiche, anziché quello promozionale e di mutamento culturale nelle relazioni, nonché di più giuste condizioni di lavoro e di vita, vale a dire una più decente condizione umana, per parafrasare, una volta di più, le parole di Gallino (2009), finendo per avallare le disparità esistenti, prima fra tutte quelle dello squilibrio di genere, pubblico e privato. Si sta configurando uno scenario paradossale per cui mentre le condizioni di lavoro regrediscono soprattutto sul piano della equità, dei diritti e della qualità, il dibattito sulla condizione umana che, a partire dal lavoro, o rispetto al lavoro, si disegna, appare debole, frammentata e incoerente. Marina Piazza (2008) rileva uno scarto significativo tra le conoscenze teoriche acquisite in materia di conciliazione e la distanza dalle politiche che appaiono non informate dalle stesse, con il risultato ultimo di non andare mai al punto e di declinare la conciliazione come una sorta di tutela al ribasso per le donne; un insieme di strumenti per l’occupazione femminile e una migliore occupabilità, che da ultimo guarda alla conciliazione come un problema delle donne ma non della collettività, un insieme di strumenti che finiscono per gravare le stesse di responsabilità a senso unico. Dentro il tema della conciliazione vi sono tutti gli aspetti della divisione di genere insieme a quelli relativi alla qualità del lavoro e della vita. La necessità di maggiore tempo da dedicare ai figli, alla famiglia o a se stessi, mentre andava sotto l’etichetta politico-ideologica di tempo liberato negli anni settanta, oggi sfuma in un’organizzazione del tempo che non riconosce più un limite al tempo di lavoro, rischiando di attuare una grave omissione di una sfera esistenziale di senso. La progressione dell’estensione del tempo di lavoro e spazio di vita riguarda tutti donne e uomini e, per essa, la ricerca di nuovi assetti ed eventuali equilibri: «Gli uomini e le donne flessibili rappresentati da Sennet (1998) e da Gallino (2001) sono soggetti dall’identità multipla, pronti ad adattarsi ad ogni situazione, malleabili di fronte ai continui stimoli della società, senza più certezze e riferimenti, assoggettati al vento come le canne di deleddiana memoria. In queste rappresentazioni la flessibilità non aiuta a comporre tempi di vita e di lavoro, ma li sovrappone, li confonde, elimina le barriere e lascia che il lavoro invada la vita» (Gherardi, Poggio, 2003, p. 5). LA CONCILIAZIONE 35 Si tratta dunque di guardare alla conciliazione con una prospettiva di maggiore aderenza alla realtà, de-costruendo la bi o tripartizione tra tempo di lavoro e tempo libero o tempo altro da lavoro, su cui si è consolidata l’esperienza delle società occidentali e di quelle che progressivamente hanno aderito a modelli capitalistici31. La concezione del tempo lineare o del tempo bipartito tra vita e lavoro, mentre ha ben rappresentato il modello avanzato di capitalismo nella declinazione fordista, ha posto in ombra i percorsi femminili che difficilmente possono essere compresi dall’adozione di una tale quadratura del cerchio (Dahrendorf, 1984; 1995). Il tempo delle donne tra scelte produttive e riproduttive non è rappresentato da una scansione lineare e unidimensionale. Il tempo libero delle donne, anche se tempo altro da lavoro retribuito, difficilmente, persino storicamente, può essere ridotto a tempo ricreativo per nuovo lavoro, se non in misura parziale, nelle società rurali (Pescarolo, 1996), così come in quelle industriali32 e post industriali. La compressione del tempo per sé è stata, e continua ad essere, uno degli elevati costi che le donne pagano in cambio della partecipazione sociale e lavorativa, in misura molto più netta di quanto continui a non accadere agli uomini (Istat, 2008). Sul tema della conciliazione sembra imporsi una preliminare operazione di disvelamento dei comportamenti «ignorati» (Badinter, 2004). A tal fine si prenda atto della necessità di tenere insieme vita e lavoro, superando una visione dicotomica che non restituisce, se non residualmente, la realtà dei soggetti, donne o uomini che siano. I ritmi di vita sono oggi scanditi a partire da processi di «densificazione» e «intensificazione» (Gallino, 2001) del lavoro, da cui la conciliazione, definita come tensione verso il raggiungimento di un equilibrio esistenziale soddisfacente, rappresenta una via alla riqualificazione della condizione umana (Gallino, 2009) che, altrimenti, rischia di essere depredata da necessità economiche e, soprattutto per le donne, da asimmetrie ataviche. A tal fine occorre tenere in adeguato conto le oggettive condizioni entro cui prendono vita le relazioni di genere, sia nella sfera pubblica, sia nella sfera privata. Flessibilità e competitività sono le due coordinate entro cui si disegnano le emergenti forme lavorative. Competitività per una risorsa lavoro apparen31 Come sottolinea anche Laura Balbo (2008) nella società del dopo welfare donne e uomini vivono in una realtà in cui lavoro e «atti quotidiani» sono sempre più saldamente intrecciati. 32 Thompson (1981) mette ben in rilievo che nell’economia contadina a svolgere il lavoro più faticoso e più lungo era la «moglie del bracciante», aggiungendo che la donna che abbia anche dei bambini non è ancora uscita dalle convenzioni proprie della società pre-industriale, in quanto permane per lei quella che lui chiama una «percezione imperfetta» del tempo che segue altri ritmi umani. 36 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE temente più disponibile, ma in misura inversamente proporzionale al livello di qualificazione. Questo porta ad una flessibilità che favorisce sistemi di relazione maschili, dove il lavoro schiaccia il privato e la flessibilità diventa una richiesta illimitata di disponibilità senza stabilità, garanzie, diritti non esigibili, ma negoziabili entro relazioni di forza sperequata tra chi offre e domanda lavoro (Supiot, 2003). Fin quando la soddisfazione del bisogno di un migliore equilibrio non sarà riconosciuto come un diritto soggettivo e non un onere, tra i sempre più numerosi, a carico di chi lavora, la connotazione sessuata della conciliazione continuerà ad essere uno degli elementi di debolezza delle donne su siffatto mercato del lavoro, supportante “relazioni pericolose” per il portato di svantaggio su cui si fondano. Sul piano del lavoro sono infatti le donne a continuare a pagare i principali «costi sociali della flessibilità» (Gallino, 2001; 2009), con una probabilità più elevata di essere occupate in percorsi «atipici» (che disegnano oramai una loro tipicità) frammentati e instabili, a più elevata imprevedibilità di vita e di lavoro, a più alto rischio di espulsione dal mercato, senza menzionare le persistenti dinamiche segreganti. La contraddizione tutt’affatto risolta, tra l’altro, è la crescente attrazione del lavoro nei confronti del genere femminile, nel momento in cui esso diviene più difficilmente afferrabile: il suo farsi flessibile, forse dovremmo dire soprattutto labile, altera persino la relazione di “proporzionalità” tra lavoro e reddito associato, tra carico di lavoro, sostenibilità esistenziale e progettuale. Si rafforza la centralità del lavoro che si estende su fasce più ampie di popolazione, ma si amplia soprattutto l’area del lavoro low cost, tutto ciò mentre la legislazione e le politiche pubbliche spostano l’attenzione dalla promozione femminile alla conciliazione. Il fulcro dell’attuale sistema di flessibilità sono i lavoratori o meglio le lavoratrici che, rinunciando ad ogni forma di sicurezza, vivono con urgenza la necessità di conciliare gli impegni e gli equilibri fra le sfere di vita per rimanere “attaccate” ad un lavoro. Non solo si ribadisce una logica dicotomica vita e lavoro che privilegia la prima ed esclude principalmente le donne, specie nel lungo periodo, ma è il lavoro che per la sua fluidità finisce per condizionare, molto più che nel passato, la vita dei singoli senza intaccare quella privato-familiare: la quale rimane su assetti di ripartizione dei compiti che prescindono dai mutamenti del lavoro. I.4. Intorno alla conciliazione La conciliazione evoca piuttosto la stipula di un nuovo patto sociale di genere, chiamando in causa donne e uomini in una relazione di reciproca LA CONCILIAZIONE 37 «responsabilità» (Vincenti, 2005) e di condivisione di una condizione umana più libera: «un processo di passaggio da uno stato di costrizione a uno stato di libertà di scelta. Per questo il tema della conciliazione, che riguarda apparentemente tanto gli uomini quanto le donne, trova la sua declinazione al femminile, perché la nostra cultura storica, sociale, economica ha consegnato il genere femminile ad una condizione di svantaggio» (Zurla, 2006, p. 11). La prospettiva del bilanciamento delle sfere di vita, ponendo i soggetti coinvolti in relazione di mutualità, sembra più adatta al perseguimento di un obiettivo di reale supporto alle donne e al loro valore sociale di cittadine e lavoratrici, nonché a scardinare quelle pratiche consolidate del «dominio maschile» (Bourdieu, 1998) nel senso della «de-familizzazione» femminile e di una simultanea «ri-familizzazione» maschile (Saraceno, 2009a). Oltre all’iniquità di un così grave sbilanciamento dei ruoli, come si presenta a tutt’oggi nel nostro paese, vi è anche l’evidenza dei limiti di siffatto sistema. Il primo tra questi, anche il più menzionato nel pubblico dibattito, è quello demografico. È oramai acquisito che, a partire dalla fine degli anni ‘90, non è più sostenibile un’assunzione a priori di conflitto tra scelte produttive e riproduttive, giacché sono proprio i paesi che offrono maggiori chances lavorative alle donne a mostrare migliori andamenti nei tassi di natalità. La denatalità, che connota oramai da decenni il nostro paese, non è interpretabile in un mero computo demografico ed in funzione della sostenibilità dei sistemi economici nazionali. Essa è, all’opposto, l’evidenza che l’esclusione è prima di tutto un costo sociale e dunque anche economico; tributo pagato a saldo di una grave sfasatura tra tempi sociali e tempi biologici (nonché tra rispettive opportunità) limita nettamente la libertà di scelta: «La spiegazione di questo apparente paradosso sta nel basso livello di eguaglianza in un contesto sociale e culturale in cui le donne invece se la aspettano in misura crescente, ed anche nella scarsità degli strumenti di conciliazione tra responsabilità familiari e impegni professionali e di altro genere in società che ancora affidano largamente alla famiglia alla sua divisione del lavoro in base al genere il soddisfacimento di tutti i bisogni di cura degli individui, dalla prima infanzia alla vecchiaia» (Saraceno, 2005, p. 1). Ciò che rimane fuori dalla prospettiva demografica è il legame profondo tra produzione/ produttività e riproduzione/riproduttività, quasi in un automatismo di gettito di risorse umane funzionale al sistema “produttivo”. L’attenzione va dunque spostata dal tasso di natalità ai gradi di libertà del contesto, alla qualità della vita, alla reale opzionabilità dei percorsi. È difficile pensare oggi ad un’organizzazione sociale in cui la libertà di scelta delle donne sia almeno di misura pari a quella degli uomini, giacché l’incidenza di matrimonio e figli sui percorsi lavorativi continua ad essere ancora troppo elevata e visibile non 38 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE solo in termini di interruzione degli stessi percorsi (Isfol, 2006), ma anche di «scoraggiamento» (Cnel, 2010, 2012; Saraceno, 2010) quale rinuncia a monte a realizzare l’aspirazione ad un lavoro. Ma non solo la maternità accresce l’asimmetria nella coppia e nella sfera sociale e lavorativa, è sufficiente essere donne per essere percepite nel ruolo di care giver e potenziali madri, in quella che Mantegazza stigmatizzava come la «divina missione» estesa a tutto il genere femminile, finanche alle vergini33. Attraverso le declinazioni della conciliazione, si può individuare una ulteriore sfasatura che riguarda il mondo femminile. Essa deriva dalla negazione delle pluralità delle scelte operate dalle donne, più facilmente ricondotte ad unico modello di aspiranti mogli-madri, nonostante l’eterogeneità del mondo femminile contemporaneo, in cui le variabili di estrazione sociale, livello di istruzione, età, etnia ecc., contribuiscono ad ampliare o a limitare le scelte soggettive. Il mondo delle donne è oggi più variegato, ma anche più polarizzato, rispetto a quei gradi di libertà che connotano l’accesso alle opportunità negli specifici contesti. Il riposizionamento al centro della maternità non rispecchia interamente l’esperienza femminile, ma piuttosto una pressione sociale ad uniformarsi al modello focalizzato come dominante. Esiste uno scarto significativo tra centralità attuale del modello materno e la diversità delle aspirazioni femminili, per cui alcune, numerose donne, non sono disposte a sacrificare la loro autonomia finanziaria, la loro vita sociale e un certo modo di affermazione di sé (Badinter, 2010), specie con la consapevolezza di dover pagare un costo individuale elevato. La gravidanza è procrastinata nella più parte dei casi, in altri, come dice Pascale Donati (2003) non è rifiutata, ma «inattivata». In altri casi, benché più rari, il/la bambino/a non ha nessun posto nella vita delle donne (Badinter, 2010). Come sottolinea la Badinter, dal momento in cui le donne hanno cominciato a studiare, ad invadere il mercato del lavoro e gestire la loro riproduzione, la maternità non è più un destino, ma una questione. Le motivazioni ad avere o non figli, per le donne come per gli uomini sono descritte da coordinate spazio temporali, si definiscono di volta in volta in base a condizioni di vita, aspirazioni e opportunità. Sono le childfree che pongono la questione della maternità come le donne non l’hanno mai posta prima, derivando essa stessa da un’originaria supposta necessità naturale. Il vero tratto distintivo di questo scorcio d’epoca consisterebbe dunque proprio nella ideale libertà di scelta 33 È Lea Melandri a richiamare Mantegazza mettendo in evidenza una progressiva femminilizzazione dello spazio pubblico che si consolida scomparendo il conflitto tra i sessi. La solida continuità della femminilità oblativa è il filo rosso che tiene insieme la diffusa presenza femminile e l’immutata matrice patriarcale (Melandri, 2009). LA CONCILIAZIONE 39 o non della maternità34, mentre le politiche sociali e familiari difficilmente, specie nell’Italia familista, recepiscono tale complessità sostenendo i desideri delle donne, piuttosto si limitano al sostegno della madre e della vita familiare, mentre il resto è affrontato come scarto dalla norma. La condizione delle donne è oggi segnata da un’esaltazione di un modello materno oblativo imposto «per natura», sempre più in contrasto con le più dure e pressanti richieste del mondo del lavoro. La donna-madre «negoziatrice» è la protagonista di una trattativa mai compiuta una volta per tutte: «evolve a secondo dell’età e dei bisogni dei bambini ma anche della situazione e occasioni professionali. Lo spettro della cattiva madre si impone alla negoziatrice tanto più crudelmente quanto più ella ha interiorizzato inconsciamente l’ideale della buona madre. In questo conflitto la donna e la madre si sentono egualmente perdenti. È questo esattamente il modello femminile con cui un numero crescente di donne non vuole essere confrontata» (Badinter, 2010, p. 191)35. Tale è la situazione contraddittoria in cui si trovano le donne italiane e questi i fondamenti di un sistema di relazioni di genere per cui il ruolo femminile pubblico continua a non essere, al pari degli uomini, un «destino» ma un’aspirazione o una «fortuna» (Gherardi, Poggio, 2003). I bassi tassi di attività, di occupazione, il crescente scoraggiamento, la vulnerabilità lavorativa connessa con la maternità, lo squilibrio dei carichi di cura, le ridotte opportunità di carriera, i salari più bassi e i crescenti differenziali (Barbieri, Cutuli, 2010), non sembrano per nulla recepiti dalle politiche sociali, incluse quelle di conciliazione, che continuano a prediligere la via del familismo entro un progressivo radicarsi del paradigma di un welfare comunitario. Dunque una via per cui tutte le distorsioni menzionate risultano di fatto ignorate, mentre i rischi connessi e la soluzione, continuano a scandire una vita quotidiana di compromessi con le personali aspirazioni e un adattamento ad una «condizione umana stagnante», nel lavoro così come nelle altre sfere di vita. Lo stallo egualitario che ne deriva appare quasi una rimozione sistematica della necessità di rifondare le politiche sociali, in aderenza alle scelte ed aspirazioni dei soggetti reali, prefigurando scenari che non tradiscano quelle attese di autonomia e libertà in una dissonanza culturale e sociale per cui a pagarne i costi sono, senza sorpresa, i soggetti più deboli. «Le donne italiane lavorano poco perché si stancano, comprimono il 34 Come mostra Kristine Park (2005) se la prima motivazione a non avere figli, da parte delle donne, risulta essere la libertà personale, la seconda è legata al grado di soddisfazione per la vita coniugale. 35 Nostra traduzione. 40 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE tempo libero ed il sonno per poter lavorare. Non ce la fanno a fare una vita lavorativa della durata media europea. La conciliazione, quindi, diventa un punto assolutamente ancora più dolente che altrove […] proprio perché si può incidere solo garantendo la conciliazione, per tutti e due i generi; perché naturalmente noi siamo anche un Paese in cui i padri quando hanno un figlio lavorano di più e non di meno, perché ovviamente le esigenze di reddito diventano prevalenti. La conciliazione, allora, per tutti e due i generi è un modo per migliorare la qualità della vita di tutti e per muoversi in questo progetto di nuovo che è uno degli aspetti fondativi dell’Europa oggi, che è il progetto di social quality, cioè la qualità della vita non solo a livello soggettivo, individuale, rilevata nelle inchieste di opinione, ma quella vera, quella societaria» (Trifiletti, 2007, p. 108). Se l’osservazione si sposta dal livello macro dell’elaborazione teorica dei significati della conciliazione, alle pratiche sessuate di vita quotidiana, appare più chiaro l’affanno delle donne e la sfasatura tra i bisogni e le risorse disponibili, tra le aspettative e le opportunità. Detto altrimenti, ciò che appare chiaro è che il familismo, a conti fatti, appare una scelta quasi ideologica per il contenimento di minoranze sociali entro modelli di ruolo funzionali ad un sistema sociale che non punta né sul cambiamento né sullo sviluppo, inteso, quest’ultimo, nel senso più ampio possibile. Resta da valutare quanto questa rappresenti la via italiana allo sviluppo in una combinazione tra welfare informale ed economia informale (Alesina, Ichino, 2009), quanto di fatto coincida con uno sviluppo oltre lo steccato del Pil e verso il benessere delle persone (Stiglitz, Sen, Fitoussi, 2009), quanto, infine, risponda alla libera scelta delle donne e quanto la garantisca. Ciò che il sistema forzatamente privato e privatistico della conciliazione ha sino ad oggi dimostrato è che questa non funziona e non ha effetti sociali adeguati sul piano dell’equilibrio tra le sfere di vita e nelle relazioni tra i generi. Di fatti, ciò che manca è un’azione di conciliazione che coinvolga i sistemi locali e nazionali, che consideri l’interazione tra attori diversi, sgravando i singoli soggetti da sforzi conciliativi, i quali, siffatti, sortiscono solo effetti parziali, non vanno a cumulare un patrimonio di risorse collettive, con il risultato di una debole efficacia rispetto all’obiettivo della parità tra i sessi, lasciando inalterato il sistema delle disuguaglianze e i singoli oppressi dal compito di agire individualmente nella ricerca dell’equilibrio tra vita e lavoro. I.5. Riflessioni Alcune riflessioni possono essere fatte sul cammino delle donne fin qui tracciato, ma molto ancora è da maturare sul peso quotidiano di un privato LA CONCILIAZIONE 41 così oneroso che le “isola” rendendole “invisibili” politicamente e socialmente. È nelle dinamiche del privato che gli stereotipi contro le donne ancora trovano terreno fertile di riproduzione, frapponendosi ad ostacolo di una più equilibrata partecipazione pubblica in tutti i settori della vita sociale e lavorativa. In certo senso, l’affermazione della donna lavoratrice come simbolo dell’emancipazione femminile, ha prodotto principalmente l’effetto di estendere la logica mercantile al privato, senza necessariamente intaccare le gerarchie delle disuguaglianze di genere. Il primato del paradigma lavorativo e l’estendersi dello stesso nella cultura della differenza e delle donne, ha posto in subordinazione una riflessione altrettanto profonda ed estesa sulla divisione sociale del lavoro nel sempre più chiuso mondo del privato. «La divisione del lavoro salariato si è costruita gettando nell’ombra tutte le forme di lavoro non di mercato […] si è costruita anche per […] incorporazione della divisione pubblico/ privato» (Supiot, 2003, p. 64), ma ora che il contratto non spiega il lavoro svolto (perché non c’è, perché non corrisponde alla prestazione lavorativa, perché esula da esso, perché passa attraverso altre forme di regolazione del rapporto di lavoro, perché i tempi del contratto non sono sovrapponibili a quelli della prestazione lavorativa), la divisione pubblico/privato perde senso. La condizione lavorativa è un continuum dall’occupazione alla non occupazione e, in entrambi i casi, le dimensioni del pubblico e del privato sono contemporaneamente chiamate in gioco, mentre il paradigma della separazione continua a sopravvivere come punto di riferimento culturale dei maschi e come contraddizione per le donne. Capitolo secondo POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE: I LIMITI DELLA FEMMINILIZZAZIONE II.1. Donne e uomini... concilianti A distanza di oltre un decennio dall’approvazione della legge n. 53/2000, ancorché non priva di limiti né debolezze, appare sino ad oggi un atto isolato di un tentativo di introduzione ex lege del principio di redistribuzione dei carichi di cura genitoriali (e non solo), declinato altresì come un diritto da esercitare piuttosto che un dovere cui adempiere secondo nascita e sesso. Nel testo di legge questo è contemplato in una visione del tempo personale non disgiunto dalle altre sfere di vita, ma anzi necessitante di armonia tra le molteplici dimensioni dalla cura, alla genitorialità, alla formazione, alla relazionalità e via dicendo. I limiti e la debolezza di impatto di questo dispositivo di legge sono ancor oggi evidenti: ben lungi dal colmare le disparità, esso fa i conti con una pratica del tempo individuale sempre più dispari, per genere, per posizione lavorativa e grado di stabilità della stessa. Il doppio standard di obbligatorietà per le madri e opzionabilità per i padri, che regola la fruizione dei congedi parentali, mentre da una parte è un intervento nella direzione del cambiamento, dall’altra si conferma debole nella sua efficacia, andando a confermare gli squilibri preesistenti. Su ciò gravando anche lo scarso investimento di risorse finanziarie che avrebbero dovuto rendere prassi quanto sancito in via di principio come un diritto. Nel lungo termine, un solo atto legislativo si è rivelato inefficace in relazione al suo obiettivo più ampio, essendo di fatti rimasto l’ultimo investimento, in senso lato, verso la parità anche dell’uso del tempo personale e della opportunità di giocare il proprio ruolo. Per il resto si è andato verificando una sorta di restringimento della concezione della conciliazione ed in esso un nascondimento della parità di genere come valore in sé. 44 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Molti sono i paradossi alla base di tale nascondimento. Il primo è quello di una sfasatura tra l’impianto legislativo in materia di parità e l’arretratezza delle condizioni ad essa commisurata. Un cleavage che non può essere colmato legiferando, ma che al contempo abbisogna di misure adeguate di sostegno e di implementazione dei principi la cui enunciazione, pur non sufficiente, rimane necessaria. Resta un’ambiguità di fondo sull’enunciazione stessa dei principi che fanno da sfondo alle contraddizioni sul piano della realtà. La marginalità della conciliazione nel dibattito giuridico è secondo Gottardi (2010) un tratto distintivo del nostro ordinamento, discostatosi così da quello europeo che assegna a questo tema un ruolo strategico e centrale1. La conciliazione non acquisisce dunque rilevanza in sé, ma permane un elemento accessorio di una condizione tale che vede proprio nelle relazioni tra i sessi, l’affanno di una società gender resistant. Le radici delle resistenze al mutamento risiedono nelle divisioni territoriali, nei problemi strutturali del mercato, dell’economia, e, più di tutti, nel paradigma culturale dominante del familismo, non proprio moralmente equo2. Un insieme di fattori che hanno alimentato una condizione di fatto più squilibrata che altrove e meno “sensibile” allo sviluppo di una strategia di riequilibrio delle posizioni sociali di genere. Se da una parte è il familismo che definitivamente ascrive la conciliazione tra i suoi fondamenti, dall’altra le madri sono principalmente soggetti “riproduttivi” più che produttivamente attivi. Un’ambivalenza radicatasi in una società che porta le madri agli altari di una inversione demografica in favore dell’innalzamento di uno dei più bassi tassi di natalità, mentre, negando di fatto un pieno diritto al lavoro, ne fa pagare alle stesse i costi sociali (ed economici), dimezzandone la cittadinanza. In Italia le madri sono fortemente penalizzate in termini di partecipazione al mercato del lavoro3, nonostante che l’enfasi sulla maternità 1 Così testualmente scrive l’autrice: «..iscritto a pieno titolo solo nelle indagini e nelle analisi dedicate alla tutela delle lavoratrici e alle politiche di pari opportunità, soprattutto sul versante delle azioni positive. Questo approccio è caratteristica peculiare del nostro ordinamento. Si può rilevare, infatti, un andamento diacronico a seconda che lo si guardi dalla prospettiva europea, dove risulta centrale, o da quella nazionale, dove appare sempre più relegato a ruolo di comprimario di uno stato sociale in via di smantellamento» (Gottardi, 2010, p. 23). 2 Tratto distintivo del welfare dei paesi mediterranei tra cui l’Italia è il fondarsi su due elementi costitutivi che sono l’adattamento e la solidarietà familiare (Naldini, 2003). 3 Una delle pratiche illegali che più colpisce le donne sul mercato del lavoro italiano è quella delle cosiddette dimissioni in bianco. Un fenomeno diffuso che ha trovato in qualche modo nuova rilegittimazione con l’abolizione dell’unico provvedimento attuato dal Governo Prodi il 17 ottobre del 2007 (l. 188) e cancellato dal successivo, con la promulgazione della legge 133 del 6 agosto 2008. La vacanza di provvedimenti è terreno fertile di un fenomeno siffatto che prolifera nell’informalità e nella discrezionalità di chi detiene la posizione di forza POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 45 sia posta funzionalmente ad un sempre più marginale sistema di welfare oltre che ad esigenze economiche di ricambio generazionale per il sostenimento del sistema economico e della spesa pubblica, appesantiti da un invecchiamento della popolazione che pone molti interrogativi sul loro futuro. Nello stesso tempo, proprio quei figli che “mancano” hanno oggi meno speranze di realizzare se stessi attraverso lo studio, la formazione, il lavoro, la casa e la famiglia, di quante non ne abbiano avute i loro padri e madri, ma, oramai al tornello del ricambio generazionale, dovremmo dire dei loro nonni e nonne. Sembrano riprodursi due piani contraddittori: primo fra tutti quello di un familismo propagandato che non poggia su misure atte ad innescare meccanismi virtuosi tali da produrre ricadute su un contesto sostenibile e sostenuto da un pieno diritto di cittadinanza degli uomini e delle donne. La bassa occupazione femminile, la denatalità, la diseguaglianza tra i sessi, sono effetti che chiamano in causa una responsabilità politica ad attuare misure adeguate perché divengano obiettivi da perseguire e raggiungibili. Diversamente, sul piano delle pratiche, osserviamo che scelte di alleggerimento dello stato sociale, quando non di «smantellamento» dello stesso (Gottardi, 2010), continuano a sostenere più che un diritto di cittadinanza, un’aspirazione di assistenza che allontana le fasce più deboli da una condizione di pari partecipazione e libertà di scelta. Di fronte al progressivo divaricarsi delle distanze sociali per età e per sesso, emergono risposte che chiamano in causa le responsabilità individuali4, ma non altrettanto la struttura delle diseguaglianze nel rapporto di lavoro. Tali pratiche sono alla base di comportamenti discriminanti che hanno a che fare con una percezione delle donne come tutte potenziali madri e dunque gravanti sul costo del lavoro, indesiderabili e temibili a fini produttivi. Come osserva la Consigliera Nazionale di Parità, si tratta di un fenomeno che vive oggi una recrudescenza e che si presenta con tutta la sua urgenza: «Si sottolinea inoltre che per quanto riguarda il Rapporto del monitoraggio delle Convalide dimissioni delle lavoratrici madri/lavoratori dimissionari ex art. 55 dlgs 151/01 per l’anno 2010 [...] i dati in generale ci dicono che le dimissioni convalidate sono state pari a 19.017 e che pertanto il dato è in crescita rispetto al 2009 nel corso del quale lo stesso era pari a 17.676. Dunque in generale, considerando anche le motivazioni delle dimissioni che dal Rapporto si possono rilevare, i dati sopra riportati che denunciano una crescita del peggioramento dei reati e dunque della condizione della lavoratrice madre, la tutela e la promozione di strumenti di politiche attive è una priorità sulla quale intervenire a supporto e sostegno dell’occupabilità femminile per contrastare le discriminazioni e sostenere la permanenza delle donne nel mercato del lavoro» (Instant book in progress dalla parte delle donne e del lavoro: per un 2011 di integrazione e sviluppo delle nostre energie e del bene comune, 21/02/2011, www.lavoro.gov.it). 4 Nei due documenti ministeriali programmatici per l’occupazione giovanile e femminile il concetto di responsabilità individuale è a più riprese ribadito. Per quanto riguarda i giovani si ricorda che i «processi di cambiamento non possono mai prescindere dalle responsabilità e dall’impegno personali» rispetto a cui le eventuali riforme rappresentano uno stimolo. 46 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE sociali che ne descrive le condizioni di partenza. Le modificazioni di ordine strutturale necessariamente hanno come focus la dimensione collettiva nelle sue diverse e diseguali articolazioni, piuttosto che quella individuale, pena il limitarsi a sancire le condizioni fattuali. Nel nostro paese l’essere madri è costituzionalmente un impedimento ad una piena partecipazione lavorativa e sociale, proporzionalmente e in funzione della quantità e qualità delle risorse di cui si dispone. La penalizzazione delle donne-madri, ma non dei padri, come evidenziato da più parti5, scaturisce da una combinazione di nascita dei figli e disponibilità/indisponibilità di reti di aiuto, nella quasi totalità primarie, composte da familiari e soprattutto dai nonni. A cominciare dalle reti di cura, poco è avvenuto nel nostro paese da quando la famiglia allargata rappresentava un’organizzazione flessibile, basata sulla condivisione, tutta in linea femminile, della cura della prole e della famiglia. La famiglia, o meglio, le famiglie contemporanee si appoggiano più spesso su un’organizzazione informale basata su un mix di reti familiari e servizi dedicati all’infanzia, oppure solamente sui secondi, laddove disponibili. In entrambi i casi cresce sia la complessità sia la rigidità dell’organizzazione: la necessità di pianificare, armonizzare e combinare chiama in causa nel suo complesso maggiori competenze, sforzi e mobilità per liberare tempo per ulteriore lavoro di cura o tempo-lavoro. Tutto a carico, prevalentemente, delle donne, mentre gli uomini mantengono un ruolo di supporto, siano essi padri siano essi i nonni, indispensabile al mantenimento della posizione lavorativa (Istat, 2008; 2010c). La sopravvivenza lavorativa delle madri è proporzionale al loro grado di istruzione ma inversamente proporzionale alla loro età (Casadio, Lo Conte, La responsabilità individuale è chiamata in causa sia nella individuazione del «patto intergenerazionale» quale risposta, principalmente offerta dalle donne, ai bisogni delle famiglie, sia nel modo in cui si auspica un «rilancio delle misure di conciliazione». Si afferma infatti che l’ammissibilità dei progetti di conciliazione finanziabili debbano sì passare attraverso un accordo, ma questo non necessariamente debba essere «di natura sindacale e collettiva ma possa anche riguardare, almeno nelle imprese di minori dimensioni, direttamente lavoratrice e datore di lavoro – continua aggiungendo – È forse anzi questo l’aspetto che maggiormente ha inciso sulla non soddisfacente esperienza dei primi dieci anni di applicazione dell’articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53». La condizione sociale delle donne diventa dunque responsabilità delle donne in una visione più che politica autopoietica difficilmente sostenibile in considerazione delle sperequazioni di forza e di rappresentanza che si vanno prefigurando nella realtà globale e sui mercati del lavoro. 5 «Mentre negli altri paesi europei l’occupazione femminile aumenta al crescere dell’età dei figli, con un tipico andamento a «U» (cioè con una rapida discesa nei tre anni immediatamente successivi alla nascita del figlio e un successivo graduale ritorno al lavoro), in Italia continua a diminuire» (Cnel, 2010, p. 13). POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 47 Neri, 2008). Quest’ultimo aspetto richiede una particolare riflessione su come il modello di “donna in carriera” si configuri in una manifesta limitazione nelle opportunità di scelta. Quella condizione di conflitto di ruolo additata dalla Badinter (2010) come oramai connotante l’epoca presente, ha radici profonde nella struttura socio-economico-produttiva del nostro paese. Si descrive un quadro per cui la presenza delle donne è la risultante di una selezione operata da una serie di fattori favorevoli o sfavorevoli. Non ultima la collaborazione dei partner, debolmente incentivata per legge e per gli strumenti messi a disposizione dalle norme sui congedi da lavoro, rimane residuale fenomeno, appannaggio di fasce ristrette di popolazione che, ancora una volta, presentano gradi di istruzione maggiormente elevati. «Le donne con un titolo di studio più elevato tendono [...] a conciliare meglio lavoro e famiglia: sono in grado di mobilitare più risorse, beni e servizi di mercato e tempo dei familiari (inclusi i partner che collaborano di più nelle coppie più istruite), e di utilizzarle in maniera più efficiente e razionale» (Cnel, 2010, p. 13). Se si guarda alle fasce più istruite come quelle in cui i mutamenti verso la condivisione si fanno precocemente più evidenti, è possibile egualmente osservare che sono comunque le dotazioni singole a colmare le maglie larghe della rete sociale, della mancanza di armonia e continuità tra la vita e il lavoro. Livelli di istruzione, disponibilità di reddito e di reti di supporto familiare: questi i principali fattori su cui si basa un’artigianale conciliazione, che scommette su un «patto intergenerazionale»6, il quale nulla di diverso continua ad essere da una insufficienza di risorse pubbliche e universalistiche, piuttosto la presa d’atto del ricorso, laddove possibile, alle risorse private e individuali che permettono la singola e personale sopravvivenza. Soprattutto il su menzionato «patto intergenerazionale» chiama in causa le donne ed esclusivamente ad esse si rivolge, sancisce un loro bisogno di conciliazione ma non altrettanto quello di realizzare un’aspirazione lavorativa in percorsi paritari. Tutto ciò procede di concerto con una dominante visione allocativa delle risorse che pone in secondo piano, ma più spesso trascura, la congruenza con la qualità delle stesse, nel senso, tra l’altro di una rispondenza alle istanze dei soggetti sul territorio. È qui, in questa assenza, che continua a sostenersi manifestamente o implicitamente un ruolo femminile sempre più oberato ed un ruolo maschile che, al più, esprime un’opzione persino rispetto alla genitorialità, la propria. Il ruolo di cura dei padri non ha acquisito sino ad oggi una propria autonomia, mentre quello femminile risulta segnato come 6 Tale patto viene testualmente menzionato nel già citato documento ministeriale programmatico per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Consultabile nella versione integrale sui siti del ministero del Lavoro e Politiche sociali e Pari Opportunità. 48 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE un destino già scritto. La crescita dello spazio della cura, come spazio della condivisione, non può prescindere da un ordine sociale di genere in cui i soggetti di sesso diverso siano intercambiabili, complementari e, in quanto tali, ambedue necessari in egual misura. Non si tratta di assimilare il ruolo paterno a quello materno e, più in generale, il ruolo femminile a quello maschile, bensì di liberare risorse perché lo svantaggio sociale non sia in certo modo acquisito per nascita, così come il vantaggio, in un migliore equilibrio esistenziale in cui le sfere di vita acquistano la stessa rilevanza e opportunità di presenza e partecipazione da parte degli individui. Il sancire nuovi diritti ispirati alla parità produce spesso un ampliamento delle disuguaglianze sociali. Questo a tutti i livelli, ma soprattutto laddove ci sono in gioco ruoli sessuali e sfera privata. Si consideri ad esempio proprio il congedo di paternità, sancito sulla carta dalla legge 53 del 2000 che pure afferma un pari diritto dei padri (anche se non tutti e prevalentemente i dipendenti, nonostante un ampliamento recente del tipo di destinatari), a godere di un periodo di congedo per prendersi cura dei neonati figli/e. In assenza di misure di accompagnamento che agiscano sul retroterra culturale e siano in grado di mettere in discussione l’assunto per cui il benessere del neonato è legato ad una presenza quasi esclusiva della madre, a tutt’oggi, la legge risulta essere poco efficace nella logica di una redistribuzione del carico del lavoro di cura che la nascita di un figlio comporta in più. Ad avvantaggiarsene saranno quanti, più aperti ad un pensiero «materno» (Ruddick, 1989) in termini di socializzazione, non vivranno il congedo di paternità come un rischio di stigmatizzazione sociale, bensì come un’opportunità in più per affermare appieno il proprio ruolo. Le ricerche sin qui condotte, pur non essendo numerose, mettono in luce che sono gli uomini con un impiego stabile e un profilo mediamente qualificato a mostrare una relativa maggiore propensione ad esercitare attivamente la cura paterna. Il bilanciamento da parte di questi padri avviene attraverso un minore investimento nella carriera. Sono coloro che non riducono il loro percorso ad una dimensione, quella lavorativa, a porsi il problema della conciliazione e di liberare tempo per la cura. Tuttavia, ciò che appare evidente è che i fruitori di congedi sono soggetti pre-socializzati ai valori della parità di genere e della presenza accudente del padre (Zanatta, 2007; Crosta, 2008)7. Detto 7 Si tratta di soggetti che sperimentano nuove dimensioni dell’agire maschile anche e soprattutto se confrontati con l’«eredità pesante e ingombrante» (Deriu, 2005) ricevuta dai loro padri: la lentezza dei mutamenti è da mettersi in relazione, tra l’altro, con la necessità di risolvere la continuità/discontinuità con il ruolo paterno interiorizzato, da cui dipende la trasmissione alle future generazioni. POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 49 altrimenti i congedi si rivelano una opportunità per coloro che mostrano nel proprio background una sensibilità pregressa, mentre non altrettanto risultano strumenti efficaci nell’intaccare le fondamenta del modello asimmetrico delle relazioni tra donne e uomini. Nonostante ciò, anche in presenza di dinamiche di condivisione, le relazioni di coppia mostrano una persistente asimmetria nello svolgimento delle attività domestiche (Istat, 2007), a cui collaborano di più i padri e, tra questi, quelli che vivono in coppia con una donna occupata (Istat, 2010c). Sin quando il ruolo paterno non acquisirà lo stesso stato di necessità del ruolo materno (la mamma è sempre la mamma!), si potrà continuare a teorizzare un patto intergenerazionale che si basi sullo spirito devoto delle donne, ma che poco o nulla chiede agli uomini. Si tratta tuttavia di una visione miope, giacché non tiene conto di quanto questo ricada sulla qualità di vita di donne e uomini, sulla stabilità dei percorsi di vita e delle stesse famiglie, tanto tenute in considerazione nel pubblico dibattito tutto italiano, ma non altrettanto nei provvedimenti attuati. Rimane molto da fare proprio sul piano del riconoscimento sociale del ruolo del padre e partner accudente, che appare ancora oggi un terreno incolto e, al tempo stesso, risulterebbe il reale sostegno ai pur lievi mutamenti di riduzione delle asimmetrie all’interno delle coppie (Istat, 2010c)8. Mentre le donne in coppia vanno riducendo le attività di lavoro domestico per liberare tempo di cura per i figli, gli uomini non aumentano significativamente il contributo al lavoro familiare9. 8 Il contributo dei padri italiani allo svolgimento del lavoro domestico e familiare, molto al di sotto di quello dei padri europei, è soprattutto discontinuo e occasionale. Anche per quanto riguarda i congedi, quelli dei padri sono più brevi e frammentati di quelli delle madri che, oltre che essere la quasi totalità, si distinguono per il protrarsi di tempi più lunghi. 9 «Negli ultimi sei anni, prosegue la strategia di contenimento del lavoro familiare da parte delle donne. Ad esempio, confrontando i collettivi di donne alle due date di indagine, la durata del lavoro familiare cala di 15 minuti, ma tale tendenza non riguarda tutte le donne: essa si concentra sulle madri ed in particolare sulle madri lavoratrici, per le quali il tempo di lavoro familiare scende da 5h23’ a 5h09’. Anche negli ultimi sei anni, la riduzione del tempo dedicato al lavoro familiare si associa ad una redistribuzione delle attività che ricadono al suo interno: cala di 14’ il tempo delle madri per il lavoro domestico (17’ per le occupate) e cresce, anche se lievemente, il tempo per la cura dei bambini fino a 13 anni [...]. Nello stesso periodo è stabile il tempo dedicato dagli uomini al lavoro familiare (1h43’), mentre diminuisce il numero di quanti, in un giorno medio, svolgono almeno un’attività di lavoro familiare (dal 77,2% al 75,9%). Solo in presenza di figli e di una partner occupata si evidenzia un incremento di 9’ (da 1h55’ a 2h04’) del tempo di lavoro familiare, che riguarda soprattutto il lavoro di cura dei bambini fino a 13 anni (+6’), e a cui corrisponde un aumento di circa due punti percentuali anche nella frequenza di partecipazione. È interessante inoltre sottolineare che cresce il coinvolgimento nel lavoro domestico dei padri con partner occupata, anche se ciò non si traduce in un aumento del tempo dedicato» (Istat, 2010c). 50 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Attraverso le diverse analisi sino ad oggi condotte, appare emergere una ipotesi trasversale, di relazione inversamente proporzionale tra investimento lavorativo e investimento nella cura da parte degli uomini. Tale ipotesi conduce direttamente verso quello che è il riconoscimento del ruolo pubblico maschile e di padre. Se il contesto sociale diviene supportante verso un ruolo paterno-accudente (come per esempio avviene nei paesi del Nord Europa), maggiori sono le opportunità di riduzione delle asimmetrie di genere all’interno della coppia. Se è vero che tra i compiti familiari gli uomini tendono a preferire le attività «che conservano una dimensione “pubblica”» (Ruspini, 2008 in Zajczyk, Ruspini, p. 106)10, un contesto sociale che riconosca il ruolo paterno parimenti utile e necessario, ha maggiori chance di agire più profondamente, alle radici di quegli stereotipi che, di fatto, ostacolano il cambiamento e congelano le relazioni di genere in un’asimmetria invalicabile. Proprio la scuola in questo può avere un ruolo molto importante, non solo per la sua funzione formativa delle più giovani generazioni, ma anche ricostituendo le basi di una diversa rete sociale e rinunciando ad intessere un dialogo con le famiglie che passi quasi esclusivamente attraverso le madri. Il mondo della scuola italiana non solo parla al femminile per il prevalere di una componente di addette donne, ma privilegia una relazione con le madri, in una prassi quotidiana di comunicazioni che indirizzano ad esse, in misura preponderante, la responsabilità di seguire la vita scolastica dei figli e delle figlie. A partire dall’osservazione di tali prassi, si possono comprendere la quantità e qualità delle difficoltà che si frappongono al raggiungimento di una meta di mutamento. Al di là della retorica, l’intercambiabilità dei genitori è un’idea che non trova riscontro nelle pratiche quotidiane, al contrario, perlopiù incentrate su una divisione sessuata del lavoro genitoriale. Non lo si trova nella scuola, nei contenuti degli insegnamenti, come nelle pratiche di relazione. Le stesse operatrici scolastiche (il femminile è in questo caso d’obbligo) nelle diverse mansioni necessitano di strumenti di sensibilizzazione su questi aspetti, che, senza entrare nel contenuto delle trasmissioni educativo-cognitive ai bambini e alle bambine, tendono a legittimare la presenza delle madri ma non altrettanto quella dei padri, i 10 I padri che collaborano al lavoro domestico ricoprono il ruolo di helpers delle madri afferma Ruspini: «La collaborazione maschile parte dai compiti tradizionalmente svolti dagli uomini come le piccole riparazioni [....] e le attività fisicamente più impegnative […] Osserviamo come il cucinare e l’occupazione della cucina in generale costituiscano un passo successivo verso la collaborazione tra i partner. Gli ultimi passaggi verso un impegno paritario sembrano quelli della polvere, della pulizia del bagno e soprattutto dello stirare» (Ruspini, 2008 in Ruspini, Zajczyk, p. 106). POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 51 quali spesso appaiono più intrusi che responsabili, una presenza comunque tutt’altro che scontata. L’idea di base su cui si stabilisce una siffatta relazione marcatamente sessuata tra le due principali agenzie di socializzazione (famiglia e scuola) è riconducibile ad un maggior impegno lavorativo da parte dei padri e maggior tempo “libero” delle madri da dedicare alla cura dei figli e alla loro vita scolastica. Un caso paradigmatico è rappresentato dalla diffusa pratica degli inserimenti scolastici. Il cosiddetto inserimento dei bambini e delle bambine che fanno il loro ingresso nei nidi d’infanzia (pubblici) e nelle scuole di infanzia, per cui si richiede siano accompagnati per il primo periodo (peraltro di incerta durata in termini di giorni e di ore) da un genitore che, nella quasi totalità dei casi, è la madre. Raramente sono i padri a farsi carico dell’inserimento, che diventa nella pratica della consuetudine una questione delle madri con i loro figli e figlie, una precipua gestione del distacco dalla figura materna. Ciò accade non solo con continuità di esercizio del ruolo di principale accudente, ma anche perché l’inserimento non dà diritto ad alcun permesso da lavoro; dunque la madre occupata, si trova spesso nella condizione di negoziare la propria assenza ricorrendo a permessi da lavoro, giorni di ferie, quando non ad una trattativa personale col proprio datore di lavoro. In ragione dei numeri e della ripartizione per tipologie di occupate e non, sono le donne che più spesso hanno maggiore flessibilità, sia perché più frequentemente non lavorano, sia perché un uomo difficilmente negozierebbe credibilmente ore di permesso a causa dell’inserimento scolastico dei figli. Peraltro, mentre questa pratica che si è andata consolidando nel sistema scolastico italiano negli ultimi anni, necessiterebbe ad oggi di un bilancio e di una riflessione sui suoi benefici e costi, rimane invece un limbo sia nella sua realizzazione, sia pure dal punto di vista degli studi sul tema. Pur essendo marginale rispetto al carico di cura e contestualmente circoscritto, si tratta di una modalità di ingresso che ha una grande rilevanza concreta in termini di tempo e simbolica. Per il fatto di essere messa in atto proprio nel momento maggiormente critico della relazione con i figli, in termini di separazione, ma anche di rientro spesso alla propria occupazione11, essa appare un forte richiamo alla responsabilità materna in una modalità che passa sopra le norme vigenti (possibilità di chiedere permessi ad hoc), si afferma come una priorità e una condizione di accesso ai servizi per l’infanzia, in una modalità non opzionale ma uguale per tutti ed inoltre privilegiando la direzione di dialogo madre-istituzione. A fondamento della pratica di ingresso attraverso 11 Per esempio questo è un ambito di intervento da ricomprendere tra le misure di accompagnamento al rientro dal congedo per maternità. 52 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE un periodo di inserimento, vi è la convinzione diffusa che questo procuri un beneficio per i bambini con un passaggio “meno traumatico” dalla famiglia al sistema dei servizi o da un sistema scolastico all’altro (per esempio dall’asilo nido alla scuola d’infanzia12). Un beneficio, tuttavia, che rimane da valutare alla luce anche delle contraddizioni che questa pratica introduce, a cominciare dall’idea che l’ingresso a scuola debba o possa essere traumatico, che debba avvenire non riconoscendo autonomia al soggetto da inserire, ma al contrario, cogliendolo proprio nella sua dipendenza. Dunque l’inserimento diventa una sorta di “rito di consegna” del minore da un ruolo accudente all’altro, con la rassicurazione che il distacco dalla madre sia solo parziale. In un paese come l’Italia, in cui il retroterra culturale di resistenza alla cura extrafamiliare è ancora oggi diffuso e radicato, per tutte le ragioni sin qui considerate, vi è da domandarsi se il costo pagato dalle madri non sia superiore al beneficio derivante dall’accesso al sistema scolastico e di cura della prima infanzia, subordinato rigidamente ad una pratica informale, con elevato grado di incertezza e di indeterminatezza, che espone le donne ad una vulnerabilità lavorativa per la richiesta di tempo sottratto a quello di lavoro e/o eventualmente concesso o comunque da concedersi a discrezione dei datori di lavoro. Non è da escludersi che anche questo diventi piuttosto un fattore di scoraggiamento che va ad aggiungersi alle difficoltà di accesso ai servizi per l’infanzia, specie quelli per la prima infanzia (offerta scarsa, liste di attesa, ecc.). Certamente, sul piano delle pratiche di conciliazione questa è, a tutt’oggi, una zona d’ombra, un campo inesplorato che meriterebbe di essere approfondito per contribuire al miglioramento della relazione tra istituzioni di cura e famiglia, anche nel senso di un maggiore coinvolgimento dei genitori copresenti e intercambiabili. Bisogna riconoscere alla legge 53 un atto coraggioso, soprattutto nel panorama del mammismo italiano, nell’attaccare indirettamente non tanto la logica di ripartizione sessuata dei ruoli, quanto l’idea che gli uomini possano essere legittimati nel loro ruolo anche al di fuori del mondo del lavoro, facendo prevalere alternativamente, come le donne, il ruolo di lavoratori a quello di genitori. L’introduzione di tale dispositivo non è di per sé una risorsa; la possibilità che lo diventi passa attraverso l’individuazione di azioni positive dirette ad affrontare ed indebolire gli stereotipi culturali su cui si basano le pratiche di maternità e paternità, anche relativamente all’utilizzo dei congedi. Il congedo, infatti, rende socialmente visibile il ruolo e la responsabilità genitoriale, pertanto anche gli uomini più propensi ad utilizzarlo si 12 Per chi fruisce prima del nido e poi della scuola di infanzia, il rito dell’inserimento si ripete; ovviamente è richiesto per ogni figlio/a che entra nel sistema scolastico. POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 53 trovano ad affrontare l’interruzione di una pratica di genere che fino a tempi recentissimi li ha esentati del tutto dal lasciare, anche temporaneamente, il lavoro per ragioni legate alla cura della prole. Tuttavia, proprio nell’attuazione delle azioni positive e soprattutto nelle lungaggini tra la presentazione dei progetti, la loro approvazione e dunque realizzazione, risiede una delle principali difficoltà di attuazione di quanto previsto dall’impianto normativo, in termini di modificazione delle pratiche maschili e femminili, così come di quelle lavorative. Scrive Semenza: «I congedi parentali, in particolare quelli dei padri, sembrano funzionare solo quando sono delle misure standardizzate e fruibili da tutti in modo uguale, cioè impostate dallo Stato e socialmente accettate. In questo caso i rischi di marginalizzazione nel lavoro sono visti come molto ridotti» (2004, p. 104). Al di là del dettato normativo, di fronte al rischio di stigmatizzazione e di introdurre nuove vulnerabilità individuali, falliscono gli intenti riequilibrativi degli stessi interventi conciliativi. È ancora in divenire la costruzione di una pratica di genere che diventi un punto di riferimento al maschile, così che quanti desiderino ricorrere al congedo parentale non rappresentino una eccezione ma piuttosto una tendenza, benché nuova. Probabilmente più che della «standardizzazione» di cui parla Semenza (2004) vi è bisogno di consolidare una pratica al maschile13 affinché il congedo parentale divenga socialmente, culturalmente conciliabile con l’immagine ed il ruolo della mascolinità, ma soprattutto lo divenga la condivisione del lavoro di cura. Di fatti, mentre la standardizzazione finisce per normalizzare le differenze rivolgendosi a soggetti neutri, puntare sulla fruibilità significa contemplare l’accessibilità di queste ultime, fino ad attribuire loro valore in quanto necessarie anche nel lavoro di cura14. Le stesse politiche di conci- 13 A tale proposito non manca chi come la CGIL, oramai da diversi anni, sostiene la battaglia a favore dell’obbligatorietà per il congedo di paternità al fine di accelerare il «cambiamento culturale che coinvolge si gli uomini ma anche le donne troppo spesso incapaci di delegare il lavoro di cura» (Querzé R., Papà a casa solo 4 su 100, «Corriere della Sera», 29 gennaio 2008). Rispetto alla capacità/incapacità delle donne essa è da mettersi in relazione non certo alle abilità personali ma all’estrazione sociale, alla posizione lavorativa e al suo grado di stabilità e sicurezza, reddito, livello di istruzione, insomma tutti quei fattori che contribuiscono a consolidare lo status individuale e dunque ad acquisire potere negoziale anche dentro la relazione di coppia e familiare. Da questo punto di vista l’obbligatorietà rischia di divenire un boomerang che si rivolge contro le stesse donne che non ne riconoscono il valore strumentale verso il cambiamento. 14 «La conciliazione si può aiutare con varie misure: sostegni economici, congedi, servizi all’infanzia, ma se non si scardinano stereotipi e tradizioni radicati circa la distribuzione dei ruoli, l’obiettivo non si raggiunge. Le politiche di conciliazione sono rilevanti per il tema più ampio delle pari opportunità, perché una mancata conciliazione preclude le pari opportunità» (Treu, 2007, p. 96). 54 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE liazione si reggono su una normativa che spesso sembra prescindere dalle reali relazioni di genere, al punto da risultare difficilmente applicabile nella stessa misura per tutti (Trifiletti 2003; Semenza, 2004). Stando così le cose, l’effetto è quello di legittimare disuguaglianze anche nell’effettivo esercizio di un diritto universalmente formulato ma parzialmente esercitabile nei suoi fini di flessibilità. Le disuguaglianze che si disegnavano intorno alle rigidità della contrapposizione tra insider e outsider, si vanno oggi moltiplicando per tutta quella serie di posizioni che va a coprire il continuum tra occupazione e disoccupazione. La conciliazione si regge in larga parte sugli sforzi personali delle donne ed anche su un “patto” solidale tra le stesse, per cui in alternativa all’utilizzo di servizi di conciliazione non disponibili sul territorio si ricorre molto più frequentemente alla rete parentale. Nella fattispecie, alle nonne appartenenti a quella generazione che ha scelto o la via della cura domestica oppure della doppia presenza, ma che in ambedue i casi ha sempre liberato risorse di cura come competenza esclusiva e non condivisa. Il rovescio della medaglia del tessere costantemente reti sociali, tenute insieme dal vincolo parentale e dunque non istituzionale, è quello di presentare, come titola una pubblicazione dell’Istat «una sfida quotidiana» (2006). Ciò richiede, infatti, costantemente ai soggetti implicati una riorganizzazione su base quotidiana e di mediazione dei bisogni di quanti coinvolti come prestatori/prestatrici di cura insieme a destinatari/e della stessa. Il tutto in una sorta di inversione dei ruoli per cui i genitori organizzano e supervisionano, mentre i nonni sussidiariamente si prestano ad educare i nipoti. Peraltro, è stato evidenziato che il supporto dei nonni anziani risulta essere decrescente rispetto al numero dei figli da accudire, per cui passando da uno a più figli comunque aumenta la necessità di affidarsi ad istituti per l’infanzia (Istat, 2006). Questo si spiega con il carico incrementale che mal si accompagna all’età elevata dei nonni, ma anche con il peso organizzativo che comporta l’avere più di un figlio/a. Il prevalere delle risorse personali e familiari sostiene meglio, tra l’altro, una preferenza culturale a conciliare privatamente, associata ad una diffusa sfiducia nei confronti soprattutto dei servizi alla prima infanzia: «Esistono ancora forti resistenze all’utilizzo dell’asilo nido. Questa resistenza in parte dipende dalla radicata convinzione che i figli piccoli stanno meglio con le loro madri in un contesto dove finora le alternative sono state poche e non sempre di alta qualità» anche se la fiducia varia a secondo del contesto e «i dati mostrano che nelle regioni dove la qualità e la diversità dell’offerta è alta [...] c’è una maggiore fiducia dei genitori negli asili e una domanda crescente di servizi» (Del Boca, 2007, p. 101). Si deve anche aggiungere che l’offerta dei servizi per l’infanzia, laddove essa esiste, è comunque prevalentemente tarata POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 55 su standard uniformi. La prima criticità riguarda la ridotta flessibilità dell’orario di erogazione del servizio, che è poi l’aspetto maggiormente discrepante dalla reale esperienza lavorativa e di vita delle persone, in special modo delle donne, i cui numeri dell’occupazione e disoccupazione confermano, più degli uomini, essere presenti proprio in quegli impieghi sinteticamente definibili come non standard15. La preferenza a conciliare privatamente rende l’asilo nido una seconda scelta, specie di qualità, della cura del bambino. Esiste senza dubbio una relazione tra risorse economiche investite e qualità del servizio. A sua volta, il costo per la fruizione dell’asilo-nido tende ad essere giudicato in misura inversamente proporzionale alla qualità percepita del servizio offerto, incidendo così significativamente sulla scelta di quelle che in letteratura sono indicate come le diverse forme di affido (in Italia principalmente riconducibili agli asili nido). Non va taciuto, tuttavia, che in ogni caso il costo dell’asilo nido, oltre che essere difforme nelle diverse regioni e aree del paese, risulta più elevato che altrove (Cittadinanza Attiva, 2010), probabilmente anche per il proliferare piuttosto recente di servizi privati e che vanno colmare un’annosa lacuna. I pregiudizi che sostengono la cura intrafamiliare insieme alla diseguale disponibilità di risorse per l’infanzia sul territorio nazionale16, descrivono opportunità e percorsi altrettanto diseguali delle donne, delle famiglie e dei cittadini più piccoli. Lo status lavorativo della donna, il livello reddituale, insieme a più elevati livelli di istruzione sono fattori che incidono favorevolmente sulla scelta dell’asilo nido (Bripi, Carmignani, Giordano, 2011; Zollino, 2008). Viceversa, minore è la propensione tra le meno istruite e soprattutto fra le non lavoratrici. La fuoriuscita della cura dallo spazio famigliare allargato, rappresenta nel nostro paese un’opportunità per pochi, al punto da costituire una sorta di privilegio. I posti disponibili coprono una parte ridotta della domanda di cura potenziale ed espressa. Inoltre, il prevalere della visione della cura come affare di famiglia, meglio delle madri, si rende evidente nella scelta di non ricorrere al nido nella prima 15 «Indisponibilità di posti e scarsa flessibilità degli orari per l’affido risultano in genere i principali ostacoli nei paesi europei, mentre i costi assumono rilevanza solo nelle regioni in cui meno stringente è il razionamento della domanda» (Zollino, 2008, p. 5). 16 La discontinuità sul territorio nazionale è ampiamente confermata anche per quanto riguarda la fruibilità di servizi per la prima infanzia. Non solo. Anche in merito a ciò non si è raggiunto l’obiettivo fissato dal Trattato di Lisbona nella misura del 33% del fabbisogno potenziale per i bambini fino ai 3 anni, ma si rileva una grave e «netta spaccatura tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, con l’Emilia Romagna che raggiunge il 27,7% e la Campania che registra soltanto l’1,8%. Lo stato dei servizi all’infanzia nelle regioni meridionali rappresenta, inoltre, una delle cause che concorre ad aggravare il basso tasso di natalità e dell’occupazione femminile» (Cnel, 2010a, p. 7). 56 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE infanzia in una misura che va ben oltre la metà della domanda potenziale. Dunque, sommando i diversi fattori, continua a prevalere nel nostro paese un ricorso al nido come residuale, una forzatura per quante “costrette17” dalla mancanza di aiuti che sono, per definizione, quelli famigliari. L’apertura della rete di cura allo spazio extra familiare sconta nel nostro paese un grave ritardo rispetto ad altri paesi europei. La persistente preferenza di un modello di cura familiare-tradizionale gioca in ciò un ruolo significativo (Istat, 2005; Bripi, Carmignani, Giordano, 2006; Del Boca, Pasqua, 2010). Come osservano Del Boca e Pasqua (2010) «é ovviamente difficile dire a priori se l’utilizzo del tempo dei nonni, conveniente perché a costo zero, abbia anche valenze positive sullo sviluppo dei bambini […]. Quali sono gli inputs dati dai nonni ai nipoti? Certo cura e amore, ma forse anche un perpetuarsi di standards tradizionali di ruoli tra i sessi e scarsa socializzazione con altri bambini problematico in un paese in cui i figli unici stanno diventando la maggioranza» (p. 12). Le ricadute della cura familiare sono molto poco osservate e problematizzate alla luce di quanto sottolineato. In altri contesti comincia invece ad essere corposa una letteratura, pur spesso contraddittoria, che fornisce elementi di riflessione, anche critica, sui modelli dominanti e le scelte possibili. A tal proposito, studi recenti sottolineano l’esistenza di «una correlazione diretta tra la presenza dei servizi 0-3 anni in un determinato territorio e i bassi livelli di abbandoni scolastici e di ricorso ai servizi sociali»18. L’inserimento in un sistema di relazioni istituzionali e di istruzione pre-scolare offre occasioni di arricchimento, di riscatto dal peso della dotazione familiare, dunque dell’ereditarietà intergenerazionale. Una risorsa riequilibrativa, ma anche di prevenzione del rischio sociale, inteso nel senso più ampio di svantaggio, come di esclusione. Tale osservazione meriterebbe una maggiore attenzione sia da parte della ricerca sia da parte del decisore politico. Poco si conosce dell’impatto di lungo periodo dei servizi socio-educativi e forse ancora troppo poco è tenuto in adeguato conto in una prospettiva che coniughi sviluppo e benessere. 17 A tale proposito appare di un certo interesse l’osservazione per cui l’assenza di un genitore convivente e la presenza di più di un figlio, risultano essere fattori che vanno a sostenere una maggiore propensione al ricorso a cure esterne alla famiglia. Più aumentano i carichi di cura e meno sono condivisi per effetto di mancanza di uno dei due genitori, questo apre ad un bisogno in senso stretto di supporti esterni. Su tale aspetto vale la pena di spendere più di una riflessione soprattutto in relazione alla crescente instabilità familiare che porta spesso le donne ad essere le principali se non le uniche erogatrici di cure familiari. 18 Rapporto del Consiglio scientifico statunitense citato nel Rapporto Unicef Come cambia la cura. dell’infanzia, 2008. POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 57 Tra i pregiudizi che sostengono nel nostro paese l’onere di cura della prole nella primissima infanzia, vi è il nesso stabilito tra due “necessità” della donna: quella di lavorare e quella, in virtù della prima, di ridurre il più possibile il tempo di rientro al lavoro. È in base a ciò che il part time viene individuato come il mezzo ottimale per combinare la duplicità del ruolo femminile. È al part time che più di frequente si rivolge l’attenzione come strumento di composizione di responsabilità familiari e aspirazioni lavorative delle donne. Quanto meno occorre usare molta cautela nello stabilire una relazione diretta e positiva tra la tipologia di lavoro a tempo ridotto e il vantaggio occupazionale per la forza lavoro femminile. Così posta la questione del part time diventa tutt’altro che una scelta delle donne, quanto piuttosto un accomodamento in condizioni di vincolo. Pertanto, anche nel crescente ricorso al part time che si è verificato negli ultimi anni19, resta da stabilire quanto sia attribuibile alla volontà delle donne e quanto sia piuttosto una scelta “obbligata” tra vincoli di cura, mancanza di opportunità lavorative a tempo pieno, comunque alternative. L’individuazione del part time quale soluzione ai problemi della conciliazione ha come obiettivo principale quello di garantire la continuità del lavoro di cura svolto dalle donne, ma non altrettanto una prospettiva di carriera lavorativa20. Il part time si fonda così sulla comprimibilità del lavoro delle donne, dunque di marginalità dello stesso; un lavoro che, a tali condizioni, assume un valore più strumentale che espressivo e autorealizzativo21. Se il part time risponde 19 La quantità di lavoro part time tra le donne italiane è cresciuta quasi del doppio negli ultimi dieci anni circa, con un tasso di occupazione femminile a tempo parziale molto vicino alla media europea. L’incremento femminile tra il 1998 e il 2008 è del 75%, quello maschile dell’1,7% (Signorelli, De Vita, Santomieri in Zanfrini, Riva, 2010). Un aumento occupazionale in cambio di mezza partecipazione. 20 Anche dal punto di vista datoriale difficilmente si investe su una lavoratrice che «dedica» un tempo ridotto al lavoro. Tutt’altro. Ad esempio il «patto perverso» (Piazza, 2006), conosciuto come mommy track, in cui si scambia un lavoro conciliante con la rinuncia alla carriera e alla crescita lavorativa, traccia un percorso lavorativo bloccato che proprio nel part time trova una delle maggiori diffusioni. 21 La quarta indagine di Eurofound sulle condizioni di lavoro mette in evidenza come in tutti i paesi europei le donne lavorano un numero complessivo maggiore di ore, ma meno nel lavoro retribuito. I loro redditi sono infatti mediamente più bassi. Interessante è inoltre il raffronto tra donne e uomini entrambi in forme di lavoro parziale. Per i part timer il tempo dedicato al lavoro di cura rimane sostanzialmente invariato rispetto a quelli che lavorano a tempo pieno. Il tema della redistribuzione dei carichi di cura è dunque una precondizione per una pari redistribuzione dei carichi lavorativi. Nella stessa ricerca peraltro emerge come siano maggiormente soddisfatti per la loro condizione di vita-lavoro quanti hanno orari regolari, mentre i più insoddisfatti sono quelli che lavorano per tempi più lunghi e imprevedibili, Quarta indagine europea sulle condizioni di lavoro (2011) www.eurofound.europa.eu. 58 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE ad una logica disgiuntiva, il risultato è quello di raggiungere l’obiettivo di compressione del tempo lavoro senza perseguire obiettivi paritari. Di qui le difficoltà di aprire fattivamente alla reversibilità la riduzione a parziale del tempo di lavoro. Una reversibilità che peraltro è ostacolata anche da strategie familiari che solitamente si attuano all’interno della relazione di coppia. Al bisogno di cura dei figli nei primi anni di vita si tende a rispondere con una riduzione del tempo di lavoro, se non di interruzione dello stesso, da parte della madre ed un concomitante aumento di quello del padre (Istat, 2008; Trifiletti, 2007). La nascita dei figli consolida gli assetti di disparità, con lo scopo di massimizzare il vantaggio delle risorse più disponibili sul mercato, a fini di utilità personale e familiare. In tal modo il part time diviene una forma difficilmente reversibile e tutt’altro che flessibile. Una conciliazione senza riequilibrio vita-lavoro manca sistematicamente l’obiettivo principale relativo alle condizioni di contesto, entro cui la performance lavorativa (quale che sia la tipologia contrattuale) viene domandata e offerta22. La retorica sul part time come via principe alla conciliazione rispecchia l’ambiguità che permea un contraddittorio orientamento verso la stessa. Persino mentre si afferma la necessità di politiche pubbliche supportanti la conciliazione della famiglia tra vita e lavoro, emergono orientamenti che ne contraddicono la possibilità che questa si realizzi se non ampliando le distanze tra uomini e donne, contraddicendo l’enunciazione di perseguimento di obiettivi riequilibrativi, tra ambiti esperienziali, tra ruoli maschili e femminili. Emblematicamente un documento dell’Istituto di Ricerca degli Innocenti pone la questione dell’occupazione delle donne associando ad essa un duplice e opposto significato. Mentre si guarda all’occupazione femminile come un indicatore di pari opportunità ed in tal senso da accogliersi come un segnale positivo, se ne descrive la generica «preoccupazione»23 nella misura in cui la scelta delle donne di lavorare è conseguenza di pressioni economiche (Unicef-Irc, 2008)24. Preso atto che le pressioni economiche, 22 La massima incidenza del part time per i maschi si ha nell’età tra i 15 e i 24 anni a cui segue una caduta nelle classi di età centrale «per le donne la condizione di «lavoratrice a metà» sembra essere una caratteristica permanente delle modalità di partecipazione alla vita produttiva» (Signorelli, De Vita, Santomieri 2010, p. 47 in Riva, Zanfrini, 2010). 23 Anche se non si specifica da parte di chi emerge tale preoccupazione. 24 Peraltro il documento continua affermando che «Più è povera la famiglia, più pressante è la necessità di tornare al lavoro, un lavoro spesso generico e malpagato» (Unicef-Irc, 2008, pp. 5-6). È abbastanza discutibile la messa in relazione tra status lavorativo più basso e necessità di rientro, poiché sappiamo che anche le lavoratrici più qualificate vivono la necessità di “stringere i tempi” della maternità al minimo necessario per non andare incontro a deposizionamenti di vario tipo. Senza contare che per le lavoratrici autonome, le imprenditrici e le lavoratrici atipiche, spesso la pratica di conciliazione è o il risultato di una negoziazione POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 59 di pari peso, non vengono in egual misura considerate sugli uomini, viene da domandarsi come può essere la donna in un sistema paritario dal punto di vista delle opportunità se sul suo ruolo di lavoratrice incombe il grave dello stato di necessità, di fatto o presunta, principale legittimazione/assoluzione del suo ruolo pubblico? L’ambiguità con cui si sancisce la lavoratrice dimezzata, si proietta sulla definizione di conciliazione quale strategia problem-solver (senza peraltro risolvere i problemi reali) piuttosto che perseguire obiettivi di riequilibrio nelle relazioni, nelle opportunità e tra le sfere di vita, nonché una migliore qualità delle opportunità di socialità e anche formative. Di converso, per quanto le risorse private-familiari siano maggiormente disponibili e in alternativa a quelle sociali e istituzionali più ampie, si giunge fino al configurarsi di una privazione relativa di quanti non accedono alle risorse istituzionali, per ragioni di preferenza o di difficoltà di accesso. Il vantaggio relativo di socialità, formazione, che i servizi dell’infanzia rappresentano con la loro fruizione, è oggi, più che in precedenza, una risorsa di valore. Mentre in un recente passato, anche se diversamente, la socialità tra coetanei passava attraverso una rete di relazioni familiari più ampie e di vicinato, che principalmente avevano per contesto il “cortile” o altro luogo simile, oggi assistiamo, oltre che ad una perdita di autonomia dei minori dentro una famiglia maggiormente protettiva verso un numero inferiore di figli, anche ad un depotenziamento delle relazioni che, con maggiore frequenza, sono relazioni con adulti, in misura proporzionalmente più elevata di quelle con i coetanei. L’inserimento nella rete dei servizi per l’infanzia rappresenta così un’occasione di socialità tra pari in una società che non riserva ad essi altri spazi altri e opportunità simili. Da tale prospettiva, i servizi per l’infanzia sono considerabili un tramite per l’innalzamento di standard qualitativi di vita di tutti i soggetti adulti e minori, donne e uomini. Questo in via di principio, mentre sul piano della realtà, dell’offerta e della fruizione, si registrano notevoli sfasature. Gli scarti più ampi si concentrano nella fascia di età fino ai 3 anni: nella maggior parte dei paesi OCSE si assiste ad un profondo mutamento nella cura della prima infanzia che, con una svolta recente tende a spostarsi in proporzione rilevante in strutture esterne alla famiglia; tendenza da cui l’Italia si distacca significativamente con una delle incidenze più basse delle istituzioni preposte e con l’evidente prevalere della famiglia (Unicef-Istituto Ricerca degli Innocenti, 2008). con il datore di lavoro o della compressione dei tempi, al di là della necessità di lavorare, piuttosto per mancanza di strumenti accessibili da questa tipologia di lavoratrici. 60 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE I servizi per l’infanzia e le politiche di conciliazione più che dei mezzi di contenimento delle difficoltà «delle donne» al presente, vanno considerati in una prospettiva di sviluppo, un investimento di lungo periodo25; tutt’altra direzione da quella intrapresa dei tagli ingenti e progressivi sulle casse degli enti locali, che comportano pesanti ridimensionamenti di detti servizi, là dove già presenti, mentre si preclude un’aspettativa di potenziamento per contesti meno virtuosi. Un ridimensionamento, quello in atto, che ha ricadute di mancata crescita quantitativa e di abbassamento degli standard qualitativi del servizio erogato. Si pensi solo alle riduzioni operate e ancora in atto del personale addetto, sia di quello ausiliario sia delle educatrici26. L’autonomia dei Comuni riguardo alla progettazione e gestione dei servizi, rischia di rimanere una delega che l’attuale quadro normativo pone senza risorse materiali. Dunque, anche laddove vi sia la volontà politica di investire in questo settore, essa rischia di rimanere inattuata per il progressivo drenaggio di risorse. Una situazione che allontana sempre più dall’idea di una politica nazionale per i servizi di prima infanzia, piuttosto acuisce la frammentazione territoriale e le distanze tra le già diseguali realtà locali. Proprio nel momento in cui studi e ricerche rivolgono la loro attenzione agli effetti positivi della fruizione dei servizi per bambini in età pre-scolare, si assiste nel nostro paese ad un’accelerazione del processo di depauperamento del sistema di cura e di istruzione esistente, scarsamente diffuso ed in maniera eterogenea sul territorio nazionale. Alla luce dei rapidi cambiamenti in atto, indotti da politiche che forzatamente ridisegnano il sistema, soprattutto pubblico, lasciando insoddisfatta una domanda sociale di maggiore diffusione e qualità, sarà importante rivalutare le conoscenze sin qui prodotte e monitorare l’impatto alla luce delle trasformazioni e delle decurtazioni. In tale scenario, la solidarietà intergenerazionale continua ad essere la via preferenziale alla conciliazione, su cui gravano sollecitazioni derivanti dalle trasformazioni del lavoro, tali da rendere le traiettorie delle donne ben più incerte e debolmente tutelate27, sia pure da una prospettiva di ricambio intergenerazionale, dove la risorsa delle “giovani nonne” non sarà più 25 «Interventi di ottima qualità nella prima infanzia hanno effetti duraturi.[…] Investimento sono i soldi impegnati nella prima infanzia, perché poi, determinando una crescita individuale delle persone, ciò potrà avere ricadute economiche. Oggi abbiamo anche gli strumenti per dimostrarlo», James Heckman, premio Nobel per le scienze economiche dell’anno 2000 – intervista riportata in «Bambini», gennaio 2009. 26 Peraltro colpendo uno dei settori in cui si concentra una elevata presenza femminile. 27 L’indagine annuale di Almalaurea (2011) sulle condizioni occupazionali dei laureati individua una tendenza all’accrescimento dei differenziali occupazionali e di reddito tra laureati e laureate, tutt’altro che indirizzata verso una inversione. POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 61 altrettanto disponibile nella popolazione, sia perché saranno meno giovani della generazione precedente, per effetto del dilatarsi dell’età riproduttiva, sia perché non vi sarà una disponibilità a tempo pieno, garantita oggi ancora da quel residuo di occupazione fordista basato sulla separazione dei tempi di vita e di lavoro, così come dei sessi; in terzo luogo per gli interventi sul sistema previdenziale che hanno spostato in avanti l’età del pensionamento anche per le donne28. Il patto tra generazioni presuppone poi un certo immobilismo difficilmente sostenibile alla luce dei rapidi cambiamenti che attraversano le sfere di vita tutte. Proprio le modificazioni dei percorsi dei più giovani, l’accrescimento della mobilità territoriale, renderanno sempre più residuale quel patto intergenerazionale su cui si basa buona parte dell’erogazione di cura familiare all’italiana, favorita dalla prossimità geografica delle famiglie (Keck, Saraceno, 2008) e anche da una relativa omogeneità demografica. La pressione migratoria, per quanto relativamente più bassa che altrove, contribuisce oggi a descrivere una composizione demografica più diversificata, così come i mutamenti di stili e aggregazioni familiari rendono le reti tradizionali parzialmente adattabili a rispondere ai bisogni di bilanciamento tra vita e lavoro. Allo stesso tempo vi è da considerare il problema dell’invecchiamento delle reti di supporto, dovuto all’allungamento della speranza di vita, per cui i suoi componenti divengono essi stessi sempre più latori di bisogni di cura29 che travasano in ulteriori carichi per le donne, schiacciando i percorsi delle stesse tra rigidità organizzative del mondo del lavoro e pluralità di istanze del privato familiare30. Insomma, scommettere quasi esclusivamente su un patto tra generazioni sia tra giovani e adulti, sia per quanto riguarda la riduzione delle sfasature sempre più ampie tra vita e lavoro, è del tutto 28 Molte sono le riserve espresse intorno a questo provvedimento, ma più di tutto si può notare come sia attuato in base al principio di parità presunta tra i sessi, in un contesto in cui è la realtà stessa a contraddirlo. 29 Proprio in un quadro di invecchiamento significativo della popolazione, i servizi all’infanzia diventano nel nostro paese un’occasione di socialità con coetanei che difficilmente oggi si può sperimentare all’interno del nucleo familiare. 30 La debolezza delle risorse pubbliche, l’asimmetria su cui si basa la divisione del lavoro di mercato e familiare divengono un ostacolo insormontabile per avviare un circolo virtuoso di migliori e più numerose opportunità: «La scarsità dei flussi di popolazione più giovane potrebbe consentire una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro, mentre l’aumento dei bisogni di assistenza per la popolazione più anziana, accompagnato da un inadeguato sistema di servizi per le diverse fasce di popolazione e da una carente divisione dei ruoli sociali maschili e femminili, finiscono per incidere negativamente sulla tenuta occupazionale e sui percorsi di carriera delle donne, in presenza di rigidità organizzative e gestionali del mondo dell’impresa» (Battistoni, 2005, p. 10). 62 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE insufficiente rispetto alle carenze, ai bisogni e ai cambiamenti in atto. Più di tutto è inefficace in relazione a quello che è il problema centrale del grave squilibrio privato e lavorativo tra donne e uomini. Quasi tutte le misure di conciliazione attuate e programmate sono riconducibili ad una interpretazione della stessa quale supporto alla doppia presenza femminile. Un modello che peraltro, come abbiamo già modo di sottolineare, non si confa agli stili di vita e di lavoro affermatisi nella società post fordista. Questo è il prodotto di una visione della conciliazione ascritta alle donne come bagaglio di responsabilità familiari, che prescinde dalla pluralità dei soggetti, dal parametro con cui la conciliazione e gli strumenti ad essa dedicati devono misurarsi: il lavoro. È importante infatti distinguere, sia concettualmente sia in termini di messa a punto degli strumenti e delle azioni, che la conciliazione è l’ambito di intervento dedicato a lavoratrici e lavoratori, e, tra essi soprattutto le prime le cui esistenze sono di fatto gravate da vincoli maggiori che limitano pesantemente la libertà di scelta e di partecipazione sociale. Nel mondo del lavoro gli esempi virtuosi sono ancora oggi pochi e spesso isolati, concentrati sui bisogni di cura familiare e, in ragione di ciò, sbilanciati sul versante delle fruitrici. Nel tenere separata l’organizzazione del lavoro da quella territoriale, si finisce per divergere da quell’obiettivo di ascolto e sostegno ai bisogni che permetterebbe di tener conto delle differenze di cui i soggetti sono portatori, riproducendo, al contrario, le medesime contraddizioni. Esiste un ampio scarto tra quanto oramai da più decenni avvenuto nella scomposizione della forza lavoro “uniforme” fordista e la rigidità organizzativa che ancora oggi non permette un’adeguata diffusione di forme realmente flessibili, nonché adeguate alle esigenze di lavoratori e lavoratrici. La prestazione lavorativa di presenza, a tempo pieno, con orario di lavoro pur flessibile ma prestabilito, con margini ridotti di autogestione, continua a rimanere un punto saldo di riferimento, considerata garanzia di produttività, nonché probabilmente rispondente anche ad esigenze di controllo della stessa. Ciò, nonostante l’alterazione tra tempo di lavoro e tempo altro, in una tendente dilatazione del primo sul resto della sfera esperienziale, ovviamente più per le donne che per gli uomini. Tali rigidità hanno condotto solo di recente il mondo del lavoro italiano a cominciare ad introdurre misure di conciliazione dentro le organizzazioni lavorative31. 31 Determinante a tal proposito è stato il ruolo dell’Unione europea nell’individuare la conciliazione come obiettivo strategico e nel finanziare buona parte delle azioni fino ad oggi realizzate. Tuttavia la spinta propulsiva esterna da essa derivante non è stata né originata da un bisogno interno al contesto italiano, né tantomeno da un obiettivo politico che ancora POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 63 Le pratiche organizzative miranti a favorire la conciliazione sinora sperimentate non sono giunte al punto di costituire un sistema; per converso, rimanendo prassi isolate costitutive di banche dati che si limitano a censirle, contribuiscono ad acuire la frammentazione più che a ridurre le discrasie tra le sfere di esperienza, tra le donne e gli uomini. Tutto ciò a fronte di un’esperienza, sino ad oggi maturata, che fornisce evidenze di ricadute positive sui soggetti lavoratori e lavoratrici, sulla loro prestazione lavorativa e sulla qualità della vita organizzativa, non ultimo sul piano della riduzione delle disparità tra donne e uomini (Poggio, 2010). Tali interventi, d’altro canto, riflettono una mancanza di visione complessiva del ruolo e significato della conciliazione: sono rivolti quasi esclusivamente alle donne, sono misure indifferenziate rispetto al contesto in cui vengono attuate, scarsamente orientate al cambiamento. Gli indirizzi nazionali pongono più acutamente gli accenti sulle politiche sociali, a prescindere da quelle del lavoro, mentre i contesti territoriali da una parte e le singole realtà lavorative dall’altra, disegnano una mappa discontinua per condizioni di vita e di lavoro. Servizi, strumenti che liberano tempo, misure per la flessibilità organizzativa e la riarticolazione del tempo di lavoro, progetti di sostegno al rientro dalla maternità, restituiscono una realtà che assembla esperienze e progetti singoli, in quanto tali non in grado di produrre mutamenti strutturali. Va inoltre aggiunto che l’inefficacia è spesso accompagnata da una debole e non sempre presente relazione con le concrete opportunità di lavoro che i contesti locali offrono, declinando così le misure e le azioni positive più sul versante dell’assistenza che su quello della promozione. Vi è tra le due una sostanziale differenza giacché solo la promozione agisce dentro l’esercizio della cittadinanza politica e sociale, riconoscendo il valore della parità. Viceversa l’assistenza sancisce lo status quo in una logica da “riduzione del danno”. Detto questo, qualsiasi provvedimento che guardi a soggetti singoli32 o a frammenti di esperienza, rischia di divenire parametro intorno a cui misurare la dis-unità del paese. oggi difficilmente viene messo a fuoco sul piano delle politiche riequilibratrici tra generi, vita e lavoro. 32 «Ad esempio, se una grande azienda come la Telecom decide di sostenere le «mamme» con un libretto di assegni-tempo fino ad un massimo di 50 ore, non vi è dubbio che favorirà le donne che esprimono contingentemente quello specifico bisogno di tempo». Tuttavia, il sostegno alle singole mamme (e non ai padri) manca totalmente l’obiettivo di parità sancendo una volta di più una diseguale condizione rispetto alle responsabilità di cura ad esse ascritte, nonché una diminutio della loro posizione lavorativa. Il fatto che questa azione sia censita come buona prassi dallo stesso ministero per le Pari Opportunità, rimarca la debolezza dell’obiettivo politico di riequilibrio nelle relazioni tra sessi. 64 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE II.2. Prove pratiche di conciliazione Al fondo di tutto vi è il radicamento di una risorsa lavorativa femminile che, quando non è chiamata in causa a far ripartire il motore dell’economia, è pensata per regolare informalmente i conflitti tra famiglia e lavoro. La staticità culturale e politica, tuttavia, si accompagna a rapide e profonde trasformazioni del mondo del lavoro, tali per cui le donne, né diventano strategiche per l’economia, né fuoriescono da un incastro dove la necessità e la volontà di lavorare diventa una sfida personale contro gli ostacoli sociali, culturali, di modelli di genere che sanciscono una subordinazione del lavoro femminile alla cura familiare e domestica, insieme al primato della femminilità nel percorso di vita familiare. Si nota oggi che la casualità, o forse meglio dire la occasionalità, risultano essere uno dei principali descrittori del lavoro femminile, della sua fragilità in termini di permanenza e stabilità sul mercato. Aspetto quest’ultimo, che tende ad acuirsi in traiettorie che, avendo un orizzonte temporale più ristretto con un margine di incertezza più elevato, aumentano le difficoltà progettuali e di porre in atto un agire strategico, fondamentale al fine della valorizzazione dell’esperienza, nonché delle competenze delle donne (Leccardi, 2002). Agire strategico significa uscire definitivamente dal meccanismo della casualità per rendere maggiormente solido, visibile e socialmente utilizzabile il contributo delle donne; oltre che permettere alle stesse di avere una vita privata e lavorativa meno dipendente dalle possibilità e capacità (Sen, 2000) personali di compiere acrobazie. La liberazione delle capacità individuali, in ragione di un ampliamento delle opportunità di vita, offre un’interessante prospettiva di ridefinizione anche della conciliazione, liberandola dall’obiettivo di contenimento hic et nunc, riposiziona gli individui come fini delle misure attuate e attuabili, unendo a ciò uno sguardo di più lungo periodo verso il futuro, ben oltre l’emergenza del momento e individuale. Affrontare il tema della conciliazione significa sempre più andare dentro i percorsi degli individui, metterne a fuoco le pratiche per estrapolare i bisogni emergenti di un nuovo equilibrio esistenziale. Anche le istanze degli uomini necessitano di essere focalizzate ed esternate più liberamente rispetto alla preponderanza del ruolo lavorativo, il quale imperativamente riconduce a sé buona parte delle opportunità di espressioni altre. Nella misura in cui la minoranza degli uomini, che sconfina dal modello tradizionale, continua ad essere considerata come un gruppo di occasionali invasori del territorio di competenza femminile, si allontana la possibilità di ridefinizione del loro ruolo e della loro identità di genere. La conciliazione sembra essere il luogo simbolico privilegiato per l’ideazione e la realizzazione di misure atte a tenere POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 65 insieme vita personale, familiare e lavorativa, mirando ad una riqualificazione delle relazioni tra soggetti e ambiti di azione. Se la vita quotidiana riconduce ad una realtà in cui le varie sfere dell’esperienza sono tra loro comunicanti, diversamente le politiche, le organizzazioni del lavoro, tendono a guardare ad esse separatamente, in ragione degli scopi perseguiti dal sistema economico-produttivo e commisuratamente all’ordine sociale di genere dominante. Ne risulta che è la separazione a prevalere sulla ricomposizione. Una separazione, che comporta oggi elevati costi sociali di qualità di vita personale e lavorativa, e che, di fatto, è tutt’altro che razionale dal punto di vista del vantaggio che ne deriva, sia esso considerato meramente dal punto di vista economico, da quello sociale o da entrambi. Sul piano della ricomposizione dei mutamenti, che fa da sfondo alla conciliazione e alla ricerca di equilibrio esperienziale, mancano politiche di governance che rendano i tempi, gli spazi di lavoro e di vita tra loro maggiormente concilianti, dentro una prospettiva di condivisione relazionale, di cura delle responsabilità familiari, egualitaria per quanto concerne le opportunità di partecipazione: insomma politiche che supportino la libertà a partire dal proprio genere; libertà di scegliere le modalità di partecipazione alla vita pubblica come a quella privata, relazionale e affettiva. Nell’era di propagazione intellettuale della riscoperta della felicità da parte dell’economia (Kahneman, 2007), l’armonia non può continuare a sottrarsi all’attenzione sia dei decisori istituzionali, sia pure di quanti, osservatori e scienziati sociali, continuano a ridurre la realtà entro una tripartizione prototipica della società industriale: Stato, Economia e Famiglia (Balbo, 1976). Sembra inoltre verificarsi un allontanamento da quei principi di gender mainstreaming che pongono al centro di ciascun intervento una prospettiva di genere, di valutazione delle ricadute sui soggetti considerati nelle loro specificità di appartenenza di genere, di cambiamento operato non tanto “per” le donne quanto “con” le stesse. Se le condizioni di partenza sono diseguali, lo sarà anche l’impatto delle politiche messe in atto, degli interventi organizzativi ecc. Un altro aspetto rilevante nella prospettiva di gender mainstreaming è l’intento di attivare il contesto, le sue risorse, al fine di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di condizioni di parità. Insomma, una direzione esattamente opposta a quella attualmente intrapresa in Italia in cui, da una parte si mettono in atto provvedimenti che contribuiscono a rendere meno disponibili le risorse pubbliche (servizi per l’infanzia, scuola, sanità ecc.) e a frammentare il contesto, in una logica di cesura fra i diversi livelli di intervento (nazionale vs. locale). Laddove si privilegia la singola tessera di un puzzle che non si compone più, il raggiungimento della parità, quantomeno risulta un obiettivo debolmente messo a fuoco. Le risorse esistenti, quelle a disposizione dei 66 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE singoli, il loro capitale sociale, vengono chiamate in causa come strategiche per un modello che solidamente costituisce il perno del nostro paese e che ha la caratteristica di essere discriminante e svantaggiante per le donne: una resa, insomma, al raggiungimento dell’obiettivo di parità. La conciliazione non può non avere fra i suoi obiettivi quella del ristabilire un nuovo equilibrio tra vita e lavoro, a partire dall’esistente modello sessuato. Ma, al contempo, conciliazione è anche tutto ciò che, pur nelle rispettive priorità di vita e di lavoro, rende agli individui una maggiore libertà di scelta nel corso di vita, a prescindere dall’identità sessuale, anzi affrancando dai vincoli di partenza derivanti dalle ascrizioni al ruolo sessuale in ciascun contesto. II.3. Della conciliazione e del lavoro La crescente presenza delle donne sul mercato del lavoro, viene sinteticamente indicata con il termine di femminilizzazione: si tratta di un concetto che non trova un omologo al maschile, non vi sono ambiti di vita e di lavoro che si sono maschilizzati, questo semplicemente perché la maschilizzazione è consolidata, è il dato per scontato, è la base solida su cui si costruisce anche la diversità parametrata sulla misura maschile, che è la norma. Inoltre, la femminilizzazione sta di frequente ad indicare la funzione svolta dalle donne di manodopera di riserva in settori e mansioni di progressivo abbandono da parte degli uomini; settori e mansioni di minore prestigio, a più bassi livelli di retribuzione, con minori livelli di responsabilità e di potere. La femminilizzazione non indica una progressione, né una presenza incrementale lineare, bensì un fenomeno complesso, di cui le contraddizioni e i problemi irrisolti sono parte integrante. Il concetto di femminilizzazione, che sembrerebbe un contagio delle donne di settori precedentemente immuni, oltre che del mercato del lavoro nel suo complesso, non spiega come dall’esclusione, dunque da una «una discriminazione dal mercato del lavoro» si sia passati ad una discriminazione «sul mercato del lavoro» (Cnel, 2010) e come le due forme di esclusione quantitativa e qualitativa, si sovrappongano senza preludere al superamento delle stesse, dando vita a gravi sperequazioni per sesso, per area, per settore lavorativo, ecc. Vi sono spaccature e dualismi interni al paese e al mercato del lavoro che fanno da specchio ad un modello dominante di maschilità e femminilità priva di uno spazio per un’equa condivisione degli ambiti pubblici e privati, ma che al contrario si va riproducendo e consolidando per opposizione ed antagonismo. La scommessa contenuta nel Trattato di Lisbona del raggiungimento del 60% di occupate entro l’ormai passato 2010, è stata recepita POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 67 come un mero obiettivo quantitativo senza cogliere l’opportunità (e la necessità) di ridefinire assetti organizzativi, di genere e stili di vita. In Italia ciò è avvenuto in maniera netta, al punto da rendere il paese particolarmente esposto agli effetti negativi della crisi, che hanno finito per erodere persino i livelli occupazionali pregressi33, accrescendo significativamente la distanza dalla percentuale media degli altri paesi europei. Lo scarso impatto degli strumenti predisposti sulla base della legislazione relativa alla conciliazione, deriva anche dall’essere stata considerata, nella sua costruzione anche concettuale, separata dal lavoro, dalle condizioni materiali delle donne, comunque incentrata più sulla famiglia che sul lavoro e sulla vita privata34. Di fatti, non si può trascurare che il diritto al lavoro precede quello alla conciliazione. Non vi è conciliazione senza lavoro e alcune fasce di popolazione, specie nel Sud del paese, vedono negato in primis il diritto al lavoro. Senza considerare il lavoro, la speculazione intorno alla conciliazione rimane confinata nell’ambito di cura dispensata, per cui rimane aperto il problema del riconoscimento del suo valore e di chi lo eroga. Nulla a che fare con la conciliazione che, per definirsi tale, si colloca in una zona liminare tra sfere di azione e di esperienza multiple, relate ad altrettante richieste sociali, le cui risposte sono spiccatamente connotate in base all’appartenenza di genere. Un tiepido tentativo di ricondurre le politiche di conciliazione al lavoro è stato introdotto con la modifica all’articolo 9 della legge 53 (legge 2009 art.38), dove sono previsti incentivi per le imprese che promuovano una nuova cultura organizzativa e del lavoro; tuttavia queste trovano difficilmente attuazione per il permanere di incertezze applicative e lungaggini burocratiche. Ne risulta, pertanto, che l’interpretazione della conciliazione non è a partire dal lavoro, ma a partire da sé, vale a dire dalle capacità ed esigenze individuali. Aver distolto l’attenzione dalle condizioni lavorative delle donne e per differenza degli uomini, ha portato a costruire un sistema, anche concettuale, di strumenti di conciliazione che hanno finito per riprodurre le tradizionali divisioni sessuate, in qualche misura persino contribuito a ridargli forza, entro un quadro di vita e lavorativo di grande complessità, oltre che 33 I dati Istat continuano a registrare un andamento della occupazione femminile altalenante e tendente al ribasso, con un tasso di disoccupazione che tende a crescere insieme a quello di inattività (che accomuna anche la componente maschile della forza lavoro) (Istat, gennaio 2011) www.istat.it. 34 Una separazione sancita ulteriormente da un approccio istituzionale che ha collocato la conciliazione nell’ambito delle politiche sociali disgiunte da quelle del lavoro: «le politiche di conciliazione sono state lasciate gestire interamente dal ministero degli Affari Sociali nel quasi completo disinteresse del ministero del Lavoro» (Calafà, 2003, p. 1). 68 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE ad elevato contenuto di incertezza e imprevedibilità. Al lavoro di cura non è riconosciuto valore in sé, perché ancora legato alla tradizionale divisione tra pubblico e privato e ad un sistema di genere gerarchico al cui vertice vi è il lavoro produttivo maschile35, principale mezzo di sostentamento e di realizzazione delle aspirazioni di mobilità sociale. È nel lavoro produttivo che la società del lavoro ha individuato la base per la costruzione dell’identità e il riconoscimento sociale, stabilendo così un primato del lavoro che è andato a sovrapporsi al primato della produzione sulla riproduzione36, del consumo e del mercato sulla “gratuità” della cura. In tal modo, la società industriale, nella declinazione del modello fordista incentrato sul male breadwinner, ha risolto le preoccupazioni (Sarti, 1999) derivanti dall’ingresso delle donne nella forza lavoro (e dunque nel mercato) con l’avvento della società industriale37, garantendo la continuità del lavoro di riproduzione, per di più nell’ombra dell’ambito familiare, attraverso cui, di fatto, ha tenuto sotto controllo anche la temuta concorrenza intergenere. Di riflesso, le politiche del lavoro hanno continuato a mantenere una distanza dalle trasformazioni degli stili di vita delle donne e degli uomini, dalla scomposizione delle biografie “fordiste”, ma soprattutto dai cambiamenti che descrivono oggi la pluralità delle convivenze familiari. All’accelerazione del sistema produttivo non ha seguito un’adeguata risposta sul piano del potenziamento di servizi di cura, in Italia più che altrove, dove relativamente più forte è la resisten35 Raffaella Sarti sottolinea come il passaggio alla società industriale sia accompagnato da un dibattito incentrato su riflessioni e preoccupazioni per il lavoro extradomestico svolto dalle donne, percepito talvolta come minaccia di «sovvertimento delle tradizionali gerarchie di genere», talaltra più sul ruolo concorrenziale della manodopera femminile su quella maschile: «Ecco allora, ad esempio, denunce del fatto che il lavoro extradomestico femminile porterebbe alla disoccupazione maschile e ad un mondo alla rovescia in cui uomini disoccupati sarebbero costretti a stare a casa a badare alle faccende domestiche: una prospettiva tanto più inquietante quanto più va diffondendosi anche nella classe operaia quella breadwinner ideology secondo la quale è il maschio capofamiglia che deve mantenere dignitosamente la moglie casalinga e i figli con il suo salario» (Sarti, 2006, p. 2). 36 «Come osserva Marx, la prima divisione del lavoro fu storicamente quella fra maschio e femmina. Storicamente: ma fatta passare per naturale, e ciò non solo in ambiti culturali in cui la nozione di storia non c’era o era carente, ma anche nei momenti alti dello sviluppo storico-culturale e della consapevolezza storica» (Petrilli, 2009, p. 7). 37 «L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. [...] Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l’industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell’età e del sesso» (Marx e Engels 1848, Il manifesto del partito comunista, consultabile anche nel sito www.marxists.org). POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 69 za alla esternalizzazione del lavoro di cura e familiare. Non trascurabile al proposito è il peso di una cultura cattolica che sostenendo il primato della cura donata su quella comprata e venduta, rende questa connotante la femminilità. Tutto ciò ha portato all’affermarsi di un familismo inglobante che grava pesantemente sulla vita delle persone e delle famiglie in ordine crescente alla fragilizzazione delle reti di cura38. L’apertura al tema della conciliazione ha riflessi significativi proprio nel portare alla luce «il lato oscuro» (Mingione, 2001) delle relazioni intrafamiliari e interpersonali tra i sessi che si sono andate disegnando e consolidando, nella coppia, nella famiglia, così come tra generazioni, sulla relazione di dipendenza dal procacciatore di risorse39. Dal canto loro, le politiche di conciliazione hanno in parte reso visibile e portato una maggiore attenzione rispetto al carico e al grado di coinvolgimento attorno ad esso, ma non hanno portato la cura al centro delle relazioni sociali, neppure hanno contribuito a spostare il baricentro delle relazioni di genere. La conciliazione e le politiche di sostegno ad essa, piuttosto individuano come obiettivi primari, da una parte la necessità di aumentare l’occupazione femminile, ampliando quantitativamente l’offerta totale. Dall’altra si dirigono verso l’obiettivo di “sollevare”, almeno parzialmente, le donne dall’onere della cura, di risolvere un conflitto di ruolo, tutto al femminile e intrafamiliare, riducendo il carico di lavoro retribuito per liberare tempo ed energia da dedicare ad altro lavoro di cura. Il risultato è un indebolimento del sistema di pari opportunità dalle sue fondamenta: le donne sul mercato del lavoro continuano a presentarsi con una disponibilità inferiore a quella maschile. Solo considerando quanto profondo sia il radica38 L’inefficacia e l’insufficienza del mancato sviluppo di servizi di cura, insieme ad un indebolimento del welfare, sovraccarica le reti di cura di compiti che ricadono oggi sulla famiglia nucleare nelle sue diverse declinazioni; comunque, non su una famiglia allargata che mette in comune risorse e ripartisce carichi. Una situazione che diventa tanto più gravosa quanto più le richieste di cura aumentano, così come cresce l’instabilità delle stesse reti primarie, sia sul piano della continuità relazionale quanto della continguità. 39 Quello che si è affermato come un modello «normativo» stabile attraverso le generazioni viene trascurato a lungo dalle scienze sociali, soprattutto dalle ricerche in ambito lavorativo, in quanto cardine di un modello economico-produttivo: questo è da interpretarsi più che come uno stato di necessità (Mingione, 2001; Ruspini, Zajczick, 2008) una delle vie possibili intraprese, che ha permesso al nostro paese di affrancarsi da uno stato di povertà e sviluppare ricchezza, ma non altrettanto di redistribuire la stessa equamente né, tanto meno, di provvedere uno sviluppo duraturo. Il sacrificio delle donne alla cura domestica più che una necessità è stata una scelta prima di tutto in continuità con l’assetto tradizionale; in secondo luogo la meno costosa in termini di conflittualità sociale e rischi di frattura, essendo le donne soggetti meno partecipi alla vita sociale, politica ed economica. Si è affermata tuttavia in tal modo una concezione schizofrenica della ricchezza e dello sviluppo che ha sacrificato le donne, le loro opportunità nella vita pubblica, nonché di indipendenza e autonomia. 70 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE mento della femminilità e della mascolinità intorno alla cura, alla divisione dei ruoli produttivi e riproduttivi, possiamo mettere in relazione le condizioni di pari opportunità con gli obiettivi di parità. Portare la cura al centro del sistema delle relazioni significa riconoscere in essa il punto di mediazione tra pubblico e privato, ma anche fra le diversità di genere, di etnia, di età, ecc. Il lavoro di cura è in controtendenza con la spinta all’individualizzazione che la sempre più pregnante cultura del mercato è andata imponendo al soggetto razionale e produttivo. Parlare di cura significa considerare l’individuo nell’insieme dei suoi aspetti extramercantili ed extrarazionali. Il lavoro di cura diviene in questa prospettiva principale fonte di coesione sociale, le cui protagoniste sono le donne in un percorso di ricongiungimento con il sociale, dove è indispensabile affrontare e misurarsi con il mercato. Sono le donne che portandosi verso il centro del vivere sociale hanno contribuito ad indebolire i presupposti della logica duale maschio/femmina, lavoro/privato ecc., su cui si è basata l’organizzazione sociale e del lavoro. «La dirompenza» di questo movimento – afferma Cigarini – fa pensare che tenendo ferma la differenza sessuale la ricomposizione soggettiva passa attraverso il portare «tutto dentro al mercato»: soggettività e relazioni, passioni e affettività, figli e amore, ecc. Non separare cioè la sfera relazionale dal mondo come si è fatto finora» (Cigarini, 2006, p. 36)40. Dunque, considerare la cura come una fonte di coesione sociale ma anche di risposta ai bisogni relazionali dei soggetti individuali e collettivi. Questo implica che non solo le madri esprimono tali bisogni, ma le donne tout court e i soggetti tutti. In particolare, tali bisogni si fanno più urgenti in una rete di relazioni, dal pubblico al privato e viceversa, complessa, discontinua e frammentata. Mentre le donne operano scelte plurali di avere o non avere figli, di essere o non essere in coppia, la conciliazione parla, per la quasi totalità, dei bisogni delle madri e delle famiglie (pur rispondendo parzialmente anche in questo caso ai bisogni reali). In realtà, la popolazione femminile, in Italia come nel resto dell’occidente, esprime un desiderio di riproduzione 40 «Alcuni teorici del lavoro oggi scrivono della differenza sessuale come creativa di nuove strade per chi cerca il cambiamento, altri parlano della necessità di «interiorizzare gli interessi e le competenze femminili e di trattenerle», altri ancora parlano delle donne come possibili autrici della ricomposizione dell’esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata, ed altro ancora. Ciò significa che proprio alcuni uomini attenti a ciò che succede nel lavoro e con la volontà di trovare una strada per modificare le cose esistenti, mettono al centro la differenza sessuale e le sue pratiche politiche. Oggi assistiamo così a un movimento non meno dirompente di quello degli anni Settanta ma in senso inverso, per cui la dirompenza non è più dovuta come allora al fatto di donne che si separano dalla società maschile, ma al movimento di un loro portarsi al centro. In questo movimento ci incontriamo con quegli uomini che sono critici delle risposte che oggi si danno ai problemi del lavoro» (Cigarini, 2006, p. 36). POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 71 così come non lo esprime (Megg, Ongaro, 2007). Tale pluralità è ben lungi dall’essere recepita dalle politiche pubbliche. Addirittura, il concetto di conciliazione risulta ancora fortemente correlato a quel modello di doppia presenza, consolidatosi intorno alla madre lavoratrice, come emblema della trasformazione profonda che la crescente presenza di donne sul mercato del lavoro ha contribuito ad innescare. Pertanto, il padre lavoratore, oltre a risultare ridondante dal punto di vista del suo significato, tal ché difficilmente gli uomini coniugati con figli vengono sì definiti, rimane effettivamente ai margini del sistema disegnato dalla conciliazione. Il riconoscimento, nonché autoriconoscimento, dell’identità di genere, si colloca in tal modo entro una visione per cui per favorire una maggiore occupazione è necessario sostenere le donne, per farle lavorare meno e continuare a svolgere il pur essenziale ruolo di cura, che in epoca di scarsità di risorse aumenta il suo valore. Questo è un esempio di come la centralità della crescita di occupazione, assunta come obiettivo di parità in sé e per sé, mette in secondo piano le condizioni di pari opportunità che dovrebbero presiedere al raggiungimento degli obiettivi. Porre al centro le condizioni di pari opportunità da una parte implica una maggiore mobilitazione di risorse per l’innovazione, volte a mediare la cura tra uomini e donne, coinvolgendo l’intero sistema di valori e riferimenti culturali intorno a cui donne e uomini forgiano la loro identità sociale di genere. D’altra parte, giacché la conciliazione nasce dall’esigenza di combinare in maniera equilibrata vita e lavoro e la stessa attenzione alla conciliazione a sua volta dalla necessità di trovare risposte al mutamento dei percorsi delle donne così come alle trasformazioni del mercato del lavoro, non sembra esservi via d’uscita. Alla luce delle flessibilità, più o meno imposte dal mercato, arroccare la conciliazione nella sfera femminile appare oggi in partenza a rischio di efficacia. La qualità della vita è oggi fortemente dipendente dalla conciliazione o meglio dalla possibilità di tenere in equilibrio gli spazi e i tempi di vita. Se nel passato l’equilibrio era assicurato da una corrispondenza tra tempo parcellizzato e gerarchicamente ordinato, gestione separata dei sessi della produzione e della cura, oggi la società plurale, segmentata e sostanzialmente instabile, non può più fare leva su una linearità che non c’è. La realtà privatofamiliare è difficilmente riconducibile all’uniformità che connotava suddetto sistema e, da parte sua, il mondo del lavoro in regime di flessibilità rende maggiormente complesso ordinare, preordinare tempi e spazi. Famiglia e lavoro, sfera privata e lavoro, convivono senza soluzione di continuità, facendo ciascuno i conti con le conseguenze dei profondi cambiamenti organizzativi, funzionali e simbolico-culturali. 72 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Mentre anche nel nostro paese la famiglia basata sul matrimonio e sulla coppia eterosessuale con figli si avvia ad essere non più il modello centrale di convivenza solidale e riproduttiva in senso lato, il lavoro ha lasciato il posto ai lavori (Dahrendorf, 1986; Farina, 2005) con la loro discontinuità e dunque necessità di regolazione complessa41. Il lavoro dell’uomo non è più un fattore di protezione dal rischio di povertà, cui oggi le famiglie risultano particolarmente esposte. Neppure il lavoro dell’uomo è più quello di procacciatore di risorse, per cui anche quello delle donne diviene necessario per rispondere ai bisogni materiali, soddisfare attese di autonomia e realizzazione personale. Nel mentre, le donne sono più occupate, ma sono anche tra i soggetti a più alto rischio e condizione di povertà. Il lavoro perde forza. In Italia la rottura della corrispondenza garantita dalla doppia presenza delle donne ha aperto un’ampia problematica intorno alla conciliazione. Conciliare è divenuto più problematico e più costoso che in altri paesi e questo è vero «per tutto l’arco del ciclo vitale» (Del Boca, 2007, p. 97). Infatti, il mercato del lavoro italiano presenta da questo punto di vista molte peculiarità che possono tradursi in nuovi fattori di rischio, in quanto combina una pressoché totale assenza di nuove forme di protezione sociale coerenti con la flessibilizzazione tanto tardiva quanto vorticosa (Trifiletti, 2003; Biagioli, Reyneri, Serravalli, 2004), a fronte di una maggiore lentezza del cambiamento sul piano dei modelli culturali e familiari. L’instabilità familiare, che rende la coppia una esperienza transitoria, modifica altresì i comportamenti lavorativi degli uomini e delle donne, per cui il bisogno di indipendenza economica tende (anche culturalmente) a farsi più urgente e diffuso. Che l’Italia abbia tenuto un profilo più basso nei confronti della flessibilità è uno dei luoghi comuni da sfatare nell’analisi del mercato del lavoro nazionale. Secondo Biagioli, Reyneri e Serravalli (2004) «al contrario [...] l’Italia ha marciato speditamente in tale direzione già a partire dalla metà degli anni novanta e [...], anzi, nell’ultimo anno – a seguito dell’approvazione della legge 30/2003 e del d.lgs. 276/2003 – le politiche del lavoro sono state indirizzate verso una vera e propria «deregolazione» con effetti rilevanti sulla composizione e sui comportamenti del mercato del lavoro» (p. 277). Tale riflessione va accompagnata a quella del forte indebolimento delle reti di protezione contro la mancanza di lavoro: «Se si confronta il Libro Bianco con la legge delega e il decreto legislativo, ci si accorge che uno dei suoi 41 «Quello che è saltato è una corrispondenza puntuale che c’era tra la famiglia che prevaleva nel mondo, nei comportamenti, quella che prevaleva sul mercato del lavoro e quindi chiedeva delle regolazioni di un certo tipo, e la famiglia tipo delle politiche sociali» (Trifiletti, 2007, p. 108). POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 73 assi portanti è scomparso. Nel Libro Bianco c’era l’idea di flexsecurity, cioè alta flessibilità e grande sicurezza per chi rimane privo di lavoro, e si dava gran rilievo alla necessità di sviluppare gli ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione e sussidi) oltre che di migliorare la funzionalità dei servizi per l’impiego. […] questo modello è stato nei fatti abbandonato e ora l’Italia ha grande flexibility senza alcuna security» (p. 284). Nel regime della flessibilità cresce il bisogno di ricomposizione tra le sfere di vita e del percorso personale. La fluidità dell’esperienza si traduce in una compenetrazione tra pubblico e privato. Prevalentemente è il pubblico, nella fattispecie del mercato, che tende a travalicare il confine del privato ristretto e costretto in spazi mobili, paradossalmente più rigidi e vincolanti, in quanto squilibrati dalla debordante richiesta mercantile di flessibilità. Il tutto in assenza di adeguate politiche rivolte allo sviluppo di un agire strategico, che tenga sotto controllo la dispersione dell’esperienza individuale, soprattutto da parte delle donne, che più frequentemente sperimentano la flessibilità, sia per ragioni legate al corso di vita, sia perché di gran lunga più collocate in attività lavorative discontinue, in condizioni in cui il confine tra flessibilità e precarietà si fa sempre più labile. La flessibilità volontaria e involontaria nei percorsi lavorativi può (deve) essere riequilibrata attraverso adeguate politiche di conciliazione. È proprio la componente involontaria che oggi rischia di divenire dominante, indebolendo anziché rafforzando, la presenza e il radicamento dell’esperienza femminile in ambito lavorativo. La cumulazione dell’esperienza attraverso la ricomposizione avrebbe così il vantaggio di raggiungere il duplice obiettivo di un nuovo equilibrio esperienziale e di valorizzazione del patrimonio lavorativo femminile, tale da funzionare da riferimento per tutte le donne che, non dal caso, ma da strategie adeguate e consapevoli necessitano di essere orientate nel mondo del lavoro odierno. II.4. Osservazioni conclusive Cresce il bisogno di lavoro e con esso quello di politiche concilianti che sono oggi urgenti per proteggere e prevenire la pauperizzazione di lavoratrici, lavoratori e nuclei familiari. Piuttosto che continuare a pensare a politiche ed ammortizzatori si tratta di pensare a strumenti in grado di riportare in squadra le sfasature della società e di integrare a pieno titolo quell’ingente volume di risorse femminili di cui il nostro paese fa un macroscopico spreco, attraverso il sistematico esercizio della negazione. In generale, con la legge n. 53/2000 «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il 74 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE coordinamento dei tempi delle città», il legislatore aveva lo scopo di promuovere un maggior equilibrio tra i tempi di lavoro, di cura, di formazione e relazione. Nello specifico, uno dei sotto-obiettivi di tale normativa è stato quello di incentivare la redistribuzione dei carichi di cura tra donne e uomini, al fine di realizzare una maggiore parità tra di essi attraverso una diversa suddivisione delle responsabilità familiari, con particolare riferimento alla cura dei figli. Per comprendere se e come stanno mutando i comportamenti delle famiglie italiane nella cura della prole e nella conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro, l’istituto del congedo parentale è un indicatore particolarmente significativo, proprio in quanto non obbligatorio. È oramai evidente, dagli studi e analisi sin qui condotte, che l’approccio alla conciliazione come problema delle donne non sostiene la costruzione di relazioni egualitarie, anzi, esattamente il contrario. Il fatto che nonostante le evidenze, trovi un suo ampio radicamento negli indirizzi politici nazionali e locali, indica una refrattarietà dell’agenda politica rispetto alle istanze egualitarie delle donne. Altro elemento che ancora imbriglia le politiche è quello di legare non solo alle donne, nella fattispecie lavoratrici, il tema/problema della conciliazione, bensì in maniera pressoché esclusiva alla famiglia, come se il lavoro di cura fosse solo quello delle donne in coppia, di cura dei figli e degli anziani in condizione di relativa o assoluta mancanza di autonomia. Anche l’accordo sottoscritto dal ministro per le Politiche sociali e tutte le parti sociali, richiamando l’attivazione di risorse nelle organizzazioni del lavoro e sulla necessità di finanziare sviluppo di servizi per l’infanzia, tematizza una conciliazione tra famiglia e lavoro42. È facile comprendere dunque che la mancanza di lavoro delle donne e per le donne è persino utilizzata come risorsa liberata per il lavoro di cura per delega della comunità e delle istituzioni. Ciò che è assente, questo è evidente anche da quanto sta accadendo nel mondo del lavoro e nel silenzio assoluto della politica in questo campo, è una visione di più ampio respiro del bisogno di lavoratori e lavoratrici di riequilibrare le sfere di vita, considerando il lavoro tra le esperienze significative, ma non l’unica. La dimensione del tempo libero ha oramai assunto un ruolo centrale verso cui si rivolgono istanze di ricerca di senso che spesso non vengono soddisfatte dal lavoro: l’attesa di lavoro si accompagna a quella di tempo libero. Stiamo invece 42 Si tratta dell’accordo titolato «Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro», sottoscritto dal ministro per le Politiche sociali e da tutte le parti sociali, il 7 marzo 2011, una data simbolicamente rilevante collocandosi alla vigilia della Giornata internazionale della donna. POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE 75 assistendo all’insediarsi di un paradigma di lavoro scarso e vorace, volto alla massimizzazione della produttività individuale misurata sulla presenza e sulla illimitata disponibilità di tempo e di energie sul e per il luogo di lavoro. Si è ristretta la visione del lavoro anche rispetto a quel modello capitalistico che si è affermato nella divisione tra tempo di lavoro e tempo libero, assumendo il secondo in funzione del primo come tempo riproduttivo e rigenerativo. È dunque facile comprendere come in assenza di assunti egualitari guida, le donne siano costrette, a più riprese nel ciclo di vita, a prendere una delle vie alternative nel conflitto di ruolo che si presenta periodicamente e anche in misura differente rispetto al contesto, all’età, all’estrazione sociale, al grado di istruzione, ecc. Il punto è che le politiche pubbliche sono difficilmente indirizzate all’obiettivo politico dell’uguaglianza e questo risulta ancora più chiaro quando le destinatarie sono le donne. Le donne, soggetti e oggetti delle politiche pubbliche, non indossano che i panni di erogatrici di cure, divengono il cardine di un welfare che non riesce e non tenta di diventare il luogo simbolico-fisico istituzionale di ricucitura, di una coesione sociale messa a rischio dalla frammentazione, oltre che dal dilagare del rischio di svantaggio e/o di esclusione sociale. Mentre da quest’ultimo precedentemente ci si salvaguardava attraverso un accesso a servizi, mondo del lavoro meno instabile e maggiormente universalistico, nonostante nell’universalità fosse assunta un’uniformità che non contemplava adeguatamente la differenza, tantomeno la differenza di genere, come un valore in sé, ma anzi si riproduceva in una divisione dei ruoli, degli spazi sociali, pubblici e privati, in un ordine sessuato più rigido. Nella società della flessibilità appare sempre più centrale il bisogno di cura che nel nostro paese rimane ancorato alla figura femminile in maniera pressoché esclusiva. La promozione dell’uguaglianza di genere è un obiettivo debole sostituito nel tempo dalla conciliazione. Conciliare è più ricorrente e più importante di promuovere. Il lavoro delle donne non risponde al principio di indispensabilità ma di sussidiarietà: per tale ragione è prioritario investire nella conciliazione piuttosto che nella promozione, trovando cioè la via per cui le scelte, anche lavorative delle donne, non vadano a confliggere oltremodo con la distribuzione delle oramai sempre più esigue risorse sociali sui territori. Capitolo terzo DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA III.1. La ricerca, le sue ragioni, obiettivi e ricadute Scendere sul terreno per condurre una ricerca è sempre un’esperienza importante al di là dei risultati. È l’esperienza del cedere il più possibile il passo a coloro che interpretano la propria soggettività nelle pratiche del quotidiano e nel contesto in cui vivono, all’interno del sistema di relazioni che, attraverso l’agire, contribuiscono a creare, consolidare e certamente a modificare. Questo il punto di vista sul gruppo di donne e sul contesto indagato nel corso dell’indagine che è alla base del presente lavoro. La ricerca che viene qui illustrata è stata svolta nel periodo tra il settembre 2008 e il gennaio 2009. Un arco temporale molto ristretto, per la mole di lavoro che ha richiesto, determinato da una richiesta esplicitata direttamente dal territorio. L’esperienza di ricerca, i cui risultati saranno presentati e analizzati nei prossimi capitoli, ha di fatti la peculiarità di nascere direttamente dall’esigenza espressa da alcune donne residenti, ricoprendo al momento localmente incarichi istituzionali e politici. Una domanda dal basso che ha significativamente intercettato un bisogno rivelatosi diffuso, tra la popolazione femminile residente, di trovare uno spazio di espressione. Un bisogno raccolto dalle istituzioni locali con la realizzazione di un’indagine che ha visto una significativa risposta e partecipazione1. La necessità di descrivere e analizzare la condizione di vita e di lavoro delle donne sul territorio, è nata dalla constatazione di una scarsa partecipazione delle residenti alla vita pubblica2. Di qui, la motivazione ad 1 Committente della ricerca è l’Assessorato alla Formazione e Lavoro della Provincia di Pesaro Urbino. 2 Altro dato significativo è legato all’origine dell’interesse verso la partecipazione femminile sul territorio in oggetto, problematizzata all’interno di un Corso di Formazione e Aggior- 78 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE approfondire le ragioni di un silenzio e di una invisibilità femminile, che per il resto si coniuga con una vita attiva e di impegno quotidiano. La ricerca dunque origina da uno stretto legame con il territorio e le sue peculiarità socio-economiche di area ascrivibile al modello descritto da Fuà (1988) di sviluppo senza frattura, di imprenditorialità diffusa, del modello altrimenti definito della Terza Italia. La volontà delle donne del territorio e la loro capacità di attivare risorse utili sono il fondamento della realizzazione del progetto Penelope cosa fa? Attraverso le donne si è raggiunta una proficua relazione con l’amministrazione provinciale, che ha permesso di indagare il tema in profondità ed estensivamente. Altri uomini hanno messo a disposizione le loro competenze di conoscenza del territorio e organizzative per coordinare la messa in atto di tutte le attività connesse con la ricerca, attivando così una rete in favore dell’iniziativa. La costruzione e la realizzazione del progetto si è avvalsa di una metodologia partecipativa in tutte le fasi fino alla conclusione con attività e incontri di divulgazione dei risultati sul territorio. Preliminarmente, mentre la progettazione e la definizione degli strumenti sono stati curati dal gruppo di ricerca, le questioni sono state individuate in un confronto con gli attori del territorio, ascoltando le istanze provenienti dal basso. La fase di somministrazione del questionario è stata preceduta da incontri con i rappresentanti delle scuole dei comuni dell’area interessata, così come da una campagna di comunicazione locale di diffusione dell’iniziativa e che ha avuto allo stesso tempo lo scopo di sensibilizzazione della popolazione intorno ad essa. Sono poi stati organizzati localmente due incontri finali per la presentazione e la discussione pubblica dei risultati. Il coinvolgimento di amministratori locali, cittadine e cittadini, associazioni, istituzioni scolastiche ecc., ha saldato l’attività di ricerca al territorio fino alla conclusione del progetto. I risultati emersi sono stati utilizzati per pianificare interventi a supporto delle residenti, mentre si è diffusa una maggiore consapevolezza di quanto sia necessario supportare le donne che vivono una particolare situazione di fragilità nei percorsi lavoro-vita, a causa della quale difficilmente fuoriescono dalla dimensione del privato per una più allargata partecipazione sociale decisamente squilibrata nella rappresentanza. namento sulle Pari Opportunità presso la Facoltà di Sociologia di Urbino, frequentato dalle amministratrici che poi hanno promosso il progetto di cui qui si dà conto. DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 79 III.2. Le tecniche di rilevazione e le intervistate In questa sezione si dà conto dell’intero percorso di ricerca, delle caratteristiche del segmento di popolazione coinvolta, delle tecniche e degli strumenti utilizzati per la rilevazione dei dati. La ricerca ha riguardato direttamente le donne con e senza figli di un vasto territorio all’interno della Provincia di Pesaro Urbino. La scelta di indagare su questa area, come già illustrato nell’introduzione, nasce da una domanda espressa dal territorio, al fine, tra l’altro, di colmare una lacuna di conoscenza che contrasta con un orientamento delle azioni di ricerca concentratesi nel tempo sulla zona costiera piuttosto che sull’entroterra. Il campo di indagine è costituito da un’area socio-geografica che si estende in 13 comuni dell’area della Val Metauro3, al cui interno sono state coinvolte le donne residenti. In particolare, sono stati selezionati due segmenti della popolazione femminile, rispettivamente le donne con figli minori fino ai 10 anni e le donne, con età compresa tra i 18 e i 45 anni, senza figli. Al fine di cogliere la complessità dei processi approfonditi nei capitoli precedenti, si è ritenuto di ricorrere alla combinazione di strumenti differenti di rilevazione per mettere a fuoco le condizioni individuali insieme a quelle di contesto e per cogliere altresì le specificità dei due gruppi di intervistate, oltre alle comunalità. III.2.1 Le intervistate con figli Il principale segmento di popolazione su cui si è indagato riguarda le donne con figli minori in età fino ai 10 anni, frequentanti le scuole d’infanzia fino alle scuole primarie. Considerando che in questa fascia di età i figli sono in relazione di dipendenza dai genitori (con conseguenze sul carico di cura), si è ipotizzato che questo coincida con una fase della vita, specie delle madri, in cui le strategie di conciliazione si realizzano sotto la pressione di richieste molteplici e sovrapposte di cura dei figli, dei familiari, oltre che di attese di realizzazione personale. Le residenti con figli fino a 10 anni sono state intervistate attraverso un questionario autosomministrato distribuito nelle sedi scolastiche dei tredici comuni, selezionate, rispettando la rappresentatività territoriale. Attraverso i 3 I Comuni sono i seguenti: Barchi, Cartoceto, Orciano, Piagge, Fossombrone, Isola del Piano, Mondavio, Montefelcino, Montemaggiore, Saltara, San Giorgio di Pesaro, Sant’Ippolito, Serrungarina. 80 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE criteri del campionamento areale, in ciascuno dei comuni compresi nell’area territoriale da indagare, sono state selezionate le scuole primarie e di infanzia su cui effettuare la rilevazione. Nel rispetto della rappresentatività territorialecomunale, anche relativamente all’ampiezza dei comuni, dei plessi e della numerosità della popolazione scolastica, sono state selezionate le unità di rilevazione, vale a dire prima le sedi scolastiche e, all’interno di esse, le classi in cui distribuire i questionari. Il questionario è stato distribuito nella prima settimana di novembre 2008, grazie alla collaborazione dei/delle dirigenti e del personale dei distretti e dei plessi scolastici. Il contatto preliminare con i responsabili dell’ambito territoriale e con i dirigenti scolastici del territorio ha permesso un buon coinvolgimento nel progetto e un successo evidenziato dall’elevato tasso di ritorno dei questionari4. La restituzione è avvenuta nelle due settimane seguenti. Sono stati distribuiti 1.941 questionari con un tasso di ritorno di oltre il 54%, pari ad un totale di 1.060 questionari validi. Si tratta di un questionario standardizzato, con domande incentrate sugli equilibri e relazioni tra vita e lavoro, articolato in 5 aree problematiche e preceduto da una presentazione del progetto complessivo e dei suoi scopi, nonché da brevi istruzioni per la compilazione. La struttura dello strumento di rilevazione è abbastanza complessa: si compone di 38 domande, la maggior parte delle quali chiuse e una parte aperte per offrire alle intervistate la possibilità di inserire commenti, osservazioni ed integrazioni di risposte ai quesiti. Qui di seguito la descrizione delle aree problematiche in cui è suddiviso il questionario: A. Dati personali. La prima area contiene domande volte alla raccolta dei dati socio-anagrafici delle intervistate (comune di residenza, età, titolo di studio, numero di figli, condizione occupazionale, ecc.) e dei componenti il nucleo familiare. Lo scopo di questo gruppo di domande è descrivere le caratteristiche personali e dei familiari, in particolare i figli e il partner/marito/convivente. B. Il lavoro. La seconda area è quella relativa al lavoro. Qui sono state formulate domande relative alla condizione occupazionale personale della rispondente e a quella degli eventuali partner (mariti, conviventi), agli orari di lavoro, ai tempi di percorrenza verso la sede di lavoro ed i mezzi di tra4 Un particolare riconoscimento va a Susanna Marcantognini per il lavoro svolto nella distribuzione e raccolta dei questionari. La sua disponibilità, tenacia e conoscenza del territorio sono stati fondamentali per la realizzazione della ricerca. DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 81 sporto utilizzati, l’importanza attribuita al lavoro. In questa area le domande sono volte a descrivere sia la situazione lavorativa presente e, ove possibile, quella passata, nonché quella desiderata e/o attesa per il futuro. C. La famiglia. In questa area le domande sono volte a comprendere l’organizzazione familiare, gli eventuali aiuti esterni e l’articolazione delle reti di cura, la divisione dei compiti di cura all’interno della coppia, verso persone e cose. Questa è l’area più propriamente focalizzata sul tema della conciliazione tra tempo di vita e di lavoro, sulla gestione del tempo e sul bisogno di tempo da parte delle intervistate. D. Il territorio. In questo caso le questioni poste sono tutte volte a descrivere il territorio in cui le intervistate risiedono e a valutarne i servizi. Con una serie di domande mirate le intervistate sono state invitate ad esprimere un giudizio numerico, ma anche in forma aperta e discorsiva, su una serie di principali servizi, valutandone disponibilità, qualità e orari di fruizione. E. Altro. L’ultima sezione del questionario contiene domande volte ad indagare le priorità delle intervistate. In particolare sono state considerate le questioni dell’avere figli, avere tempo libero per sé, avere un compagno/marito ecc. Si tratta di quesiti che hanno funzione di controllo e approfondimento rispetto ai precedenti. Le domande sul tempo per sé hanno lo scopo di approfondire la percezione della disponibilità, del bisogno più o meno soddisfatto. Inoltre, come domanda conclusiva è stato chiesto alle rispondenti di indirizzare suggerimenti agli amministratori e alle amministratrici locali in favore delle donne. Da ultimo, in uno spazio libero è stata prevista la possibilità di scrivere le proprie osservazioni, commenti e opinioni sui temi proposti e sulla ricerca stessa. III.2.2 Le intervistate senza figli Il secondo segmento di popolazione femminile su cui la ricerca ha indagato, è quello delle donne senza figli, residenti nel territorio, in una fascia di età compresa tra i 18 e i 45 anni. In questo caso è l’età delle intervistate, insieme alla condizione del non avere figli, a rappresentare il criterio di selezione dei soggetti. Nell’includere le donne senza figli nei piani dell’indagine, ci si è posti l’obiettivo di guardare alla costruzione delle strategie di vita e di lavoro, oltre che ai problemi derivanti dalla ricerca del difficile equilibrio fra le due sfere di vita, operando un raffronto con il gruppo delle madri. Questo 82 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE supplemento di indagine è stato fortemente voluto dal gruppo di ricerca, al fine di introdurre un approfondimento su tutta la popolazione femminile che potesse cogliere più adeguatamente la complessità dei percorsi delle donne e la varietà delle loro scelte, così come i diversi legami con il contesto che si instaurano a partire dai rispettivi stili di vita. Vi è altresì la chiara volontà di impostare le strategie di ricerca in una visione allargata della cosiddetta conciliazione e non riduttiva, vale a dire non entro un’equivalente della maternità. Indagare sulle donne con figli e, contemporaneamente, su quelle senza figli ha anche senso nel considerare la maternità e l’assenza di essa sia un discrimine delle differenti posizioni, sia una continuità del femminile in senso più ampio. Le opinioni e le storie delle donne senza figli sono state raccolte attraverso interviste di gruppo, una tecnica che ha permesso di andare in profondità nei temi proposti, oltre che risultare più adeguata a rispondere ad esigenze di tipo esplorativo su una fascia di popolazione troppo spesso ignorata rispetto all’oggetto di ricerca. Un ulteriore vantaggio offerto da questa modalità di intervista è di riuscire a cogliere, insieme alle testimonianze singole, le interdipendenze nel confronto tra le diverse donne ed esperienze di vita, che di fatto condividono una condizione sociale comune. Sono state realizzate tre interviste di gruppo con donne senza figli residenti nei comuni interessati. Le intervistate sono state individuate attraverso il passaparola messo in atto dai gatekeeper sul territorio. Le interviste di gruppo sono state realizzate in 3 serate diverse, nell’arco di circa un mese nel periodo tra novembre e dicembre 2008, in orario serale, trattandosi da una parte di donne libere da impegni derivanti dalla cura dei figli, dall’altra impossibilitate a partecipare durante il giorno perché (come si vedrà) occupate con lavori quasi sempre a tempo pieno e con orari piuttosto impegnativi (anche a causa degli spostamenti verso e dal luogo di lavoro e/o di studio). Le interviste hanno avuto una durata media di 1 ora e mezzo circa e sono state tutte registrate, previo consenso delle intervistate, poi letteralmente trascritte al fine di predisporle per l’analisi. La discussione di gruppo è stata guidata sulla base di una scaletta di intervista semi-strutturata, volta ad indagare le seguenti aree: A. Mappa. La mappa è stato lo strumento utilizzato a stimolo iniziale dell’intervista. È stato domandando alle intervistate di disegnare o descrivere, nei modi che più ritenevano confacenti, una loro giornata tipo a scelta della settimana lavorativa, prestando particolare attenzione non solo alle attività svolte sequenzialmente, ma agli spostamenti necessari e i mezzi per essi uti- DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 83 lizzati. Per ogni spostamento si è chiesto di indicare l’attività corrispondente, il mezzo di trasporto utilizzato, l’orario e il tempo impiegato. Una volta ricostruita la mappa personale, è stato chiesto a ciascuna delle intervistate di descriverla al gruppo. B. Il territorio. Le intervistate sono state invitate a raccontare da quanto tempo risiedono nel territorio, gli eventuali trasferimenti vissuti e per quali ragioni. Inoltre, è stato chiesto loro di esprimere dei giudizi sulla qualità del vivere nel territorio (opportunità del tempo libero, trasporti, partecipazione sociale, opportunità per le donne, ecc.) evidenziando sia gli aspetti positivi, sia quelli negativi. C. Il lavoro. In questa sezione sono state di volta in volta rivolte alle intervistate domande relative sia all’attività lavorativa svolta al momento della rilevazione, sia alle eventuali esperienze pregresse. Altre domande hanno riguardato i rapporti e le opportunità lavorative e, più in generale, le differenze tra uomini e donne che hanno potuto osservare ed esperire nei luoghi di lavoro e nel mercato del lavoro locale. Particolari approfondimenti sono stati dedicati all’importanza del lavoro, al rapporto tra lavoro e altre sfere di vita, tra ruolo familiare, materno/genitoriale e lavorativo. D. La Famiglia. In questa area sono state collocate domande volte ad approfondire l’organizzazione del lavoro di cura all’interno delle famiglie delle intervistate, siano esse le famiglie di origine sia il rapporto con il partner, con lo scopo di cogliere i diversi assetti di divisione del lavoro di cura e domestico e il loro riferirsi a modelli sessuati. Altre domande hanno riguardato l’importanza della famiglia, il modello familiare esperito, l’importanza di avere o non figli. E. Tempo libero. Qui sono state raggruppate le domande relative al tempo libero o al tempo di lavoro. A tale scopo si è chiesto alle intervistate di indicare le attività abitualmente svolte e la frequenza; allo stesso tempo si è indagato sugli eventuali desideri in relazione al tempo disponibile per sé, di quanto effettivamente ne dispongono e di quanto vorrebbero invece disporne. F. Valutazione e prospettive. Le interviste si chiudono con due domande. La prima relativa alle aspettative future, in particolare cosa ciascuna intervistata si augura per sé nel prossimo futuro. La seconda invece è un invito rivolto alle intervistate ad immaginare di ricoprire un ruolo di amministratrici del 84 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE territorio e, in quanto tali, decidere un intervento importante in favore delle donne residenti. Queste le aree e l’articolazione della scaletta di intervista. Prima dell’inizio della stessa, e a seguito della preliminare presentazione del progetto e delle intervistatrici, è stato distribuito a ciascun gruppo un breve questionario, articolato secondo le medesime aree di quello somministrato alle donne con figli, ma con un numero di quesiti minore. Ciò al fine di rilevare, in maniera rapida e funzionale allo svolgimento dell’intervista, i dati anagrafici e personali delle intervistate, mantenendo una comparabilità con le risposte fornite dalle donne con figli su alcuni temi comuni. Il questionario compilato dalle donne senza figli è infatti articolato in 13 domande tutte chiuse e diviso in 3 sezioni corrispondenti alle sezioni A. Dati anagrafici, B. Il lavoro, D. Il territorio. Il questionario, oltre che strumento di rilevazione, ha altresì rappresentato lo spunto per l’inizio della discussione di gruppo. III.3. Il contesto della ricerca La Provincia di Pesaro-Urbino è l’area in cui è stata realizzata la ricerca. Un’area con sue precipue caratteristiche, sia demografiche sia socio-economico produttive, su cui ci soffermeremo nei prossimi paragrafi. L’unità provinciale è un riferimento territoriale significativo in termini di analisi. Il numero di comuni piuttosto elevato, passato da poco da 67 ad un totale di 605, rende il territorio piuttosto frammentato. Al suo interno si individuano aree intercomunali relativamente omogenee soprattutto per specificità del tessuto socio-economico e demografiche. A partire dalle caratteristiche demografiche, una prima distinzione interna al territorio è quella tra area costiera ed entroterra. Ricordiamo che la ricerca è stata realizzata nell’entroterra, nell’area della Comunità Montana Zona E, includendo altresì il Comune di Cartoceto. Esistono, tra l’area costiera e l’entroterra, significative differenze in primo luogo socio-demografiche (Regione Marche, 2009). La distribuzione della popolazione nella regione, come pure nella Provincia di Pesaro-Urbino, mostra una preferenza verso la zona costiera (v. Tab. III.1). Qui circa un quarto della popolazione risiede nel capoluogo, in proporzione più elevata di quanto non accada nelle altre province della regione (Regione Marche, 2010a). La zona dell’entroterra, infatti, presenta tassi di natalità più bassi e una maggiore concentrazione di popolazione 5 Sette comuni sono di recente passati sotto la Provincia di Rimini. 85 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA anziana. In controtendenza risultano gli insediamenti degli stranieri nella regione, che invece seguono un andamento esattamente opposto, andando a privilegiare le zone più interne, vale a dire aree più prossime a siti produttivi e con mercati immobiliari di maggiore accessibilità. Proprio nella Provincia di Pesaro-Urbino, l’andamento del mercato immobiliare determina i costi più elevati della regione anche per quanto riguarda gli affitti (Regione Marche, 2009). Tabella III.1 - Abitanti per Kmq - Zone altimetriche Pesaro e Urbino Ancona Macerata Ascoli Piceno Fermo Marche Montagna interna Collina interna Collina litoranea Totale Superficie (Kmq) 35 80 19 24 16 38 79 171 86 207 86 104 373 371 323 330 322 351 143 247 117 174 207 167 2564,21 1940,16 2773,75 1228,23 869,51 9365,86 Fonte: Regione Marche, Sistema Informativo Statistico, 2010b Se infatti la popolazione della regione Marche si distingue oramai da anni per tassi di invecchiamento della popolazione molto più elevati di quelli della media nazionale (età media della popolazione 45,4 anni contro i 42,8 a livello nazionale) (Regione Marche, 2011), a livello regionale, come provinciale, questo riguarda prevalentemente la zona dell’entroterra più di quella costiera. Generalmente sono le donne le più longeve. Specularmente, questo si riflette sull’indice di dipendenza6 per cui si rileva un carico sociale più elevato, ancora una volta nell’entroterra piuttosto che sulla costa. Ad abbassare l’età media della popolazione contribuisce la componente di popolazione immigrata: in continua crescita nella Provincia presenta un’età media che, a livello regionale, risulta più bassa di quella nazionale. Si tratta di una tendenza rilevante per la composizione della popolazione, un elemento di significativa trasformazione della realtà locale in termini di crescente eterogeneità. In due anni la presenza degli stranieri nella Provincia passa dal 7,6% al 9,2%. Questo a fronte di un contestuale calo nella popolazione residente per effetto della fuoriuscita dall’area di competenza provinciale di ben 7 comuni. 6 L’indice di dipendenza nella regione Marche è del 56% circa, contro il 52% calcolato su base nazionale (Regione Marche, 2011). 86 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Tabella III.2 - Popolazione residente - densità abitativa nei comuni dell’area indagata Residenti Fossombrone Cartoceto Saltara Mondavio Montemaggiore al Metauro Serrungarina Orciano di Pesaro Sant’Ippolito San Giorgio di Pesaro Piagge Barchi Isola del Piano Pesaro-Urbino 9.897 7.966 6.758 4.011 2.710 2.526 2.203 1.602 1.441 1.026 1.013 654 365.788 Densità per kmq 92,8 344 677,8 136,1 207,8 109,9 92,6 81,2 69 118,7 58,8 28,4 143 Fonte: nostra elaborazione da demo.istat.it, 2010 La forma prevalente di convivenza è quella fondata sul matrimonio, di cui una buona tenuta mostra il rito religioso, sebbene in misura decrescente rispetto a quello civile che segna un incremento nel tempo. I matrimoni civili sono poco meno del 40% (Sistar Marche, 2010) (v. Fig. III.1) del totale dei matrimoni con una percentuale lievemente più bassa rispetto a quella del paese. La tendenza segue quella nazionale per tasso di nuzialità (circa 3,2), il quale nella Provincia di Pesaro-Urbino si attesta stabilmente ad un livello lievemente più basso (a partire dal 2007) delle altre province. Per quanto riguarda l’area in cui è stata condotta la ricerca, l’incidenza del matrimonio appare di qualche punto più bassa rispetto alla Provincia di riferimento e del territorio regionale. Bassi risultano anche i tassi di divorzio e separazione. Il matrimonio, anche nella realtà locale osservata, è soggetto a rilevanti cambiamenti, prima di tutto in relazione alla scansione del corso di vita. Da diversi decenni l’età del primo matrimonio7, anche tra la popolazione marchigiana, tende a spostarsi verso un’età più elevata. Se nel 1970 l’età media al primo matrimonio era di 27 anni per i maschi e 23 per le femmine, nel 2010 è rispettivamente di 34 e 31. Tra la popolazione femminile, lo spostamento è superiore di un anno a quello rilevato nella popolazione 7 Il secondo matrimonio ha nella regione una incidenza dell’8% sulla popolazione di riferimento. 87 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA maschile. L’effetto di una diversa socializzazione, ma soprattutto l’incidenza di un accesso massivo agli studi da parte delle donne, ha di fatto ridefinito il corso di vita, anche in relazione alla tappa del matrimonio. Il numero dei matrimoni nella fascia di età più giovane è esiguo, dato in linea con i cambiamenti della società più ampia. (""" '""" &""" %""" *+,-./01+2+-3*+,-.4+5+10 $""" !""" #""" " !""" !""# !""! !""$ !""% !""& !""' !""( !"") Figura III.1 - Matrimoni per rito civile e religioso – 2000-2008. Fonte: nostra elaborazione da Sistar Marche, 2009. Tabella III.3 - Popolazione per stato civile (val.%) Provincia Pesaro Urbino Comunità montana/Cartoceto Regione Marche Celibi/Nubili Coniugati/e Divorziati/e Vedovi/e Totale 40,37 37 39 50,38 47 51 2 1 2 7 7 8 100 100 100 Fonte: nostra elaborazione da Sistar Marche-dati aggiornati al 1° gennaio 2010. Recenti osservazioni (Regione Marche, 2010a) mostrano come proprio nella regione Marche la permanenza dei giovani in famiglia risulti al momento ulteriormente prolungata. La crisi economica ha innescato una nuova «riorganizzazione sociale» verso una «riaggregazione familiare»8 (Regione Marche, 2008; 2010a; 2011): aumenta il numero dei componenti del nucleo 8 Lo stesso fenomeno è stato osservato dal punto di vista abitativo. L’indagine sulle famiglie marchigiane del 2009 rileva rispetto all’anno precedente una diminuzione dello spazio abitativo pro-capite. 88 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE familiare9 e diminuisce, al suo interno, quello dei percettori di reddito10 (nonché, contestualmente la già bassa percentuale di famiglie unipersonali). A confronto del periodo precedente la “crisi”, é dunque in aumento il numero di giovani che permangono in famiglia, mentre diminuiscono quelli che si sposano e hanno figli, con effetti peraltro evidenti sull’andamento dei comportamenti riproduttivi. Nel 2010, nella fascia di età tra i 20 e i 30 anni risulta sposato/convivente solo il 6% dei giovani, l’87,5%11 vive con i genitori, percentuale, quest’ultima, misurata al 72% appena nel 2008 (Regione Marche, 2011; 2010a). Si osservano pertanto strategie adattive agli esiti erosivi della crisi a livello locale, la quale induce una ridefinizione delle relazioni, in una direzione che torna verso forme di convivenza tra generazioni diverse all’interno dello stesso gruppo familiare. Sebbene non sia possibile descrivere una tendenza consolidata, è interessante notare come emergano segnali di una riorganizzazione sociale che ricompatta le famiglie facendole assomigliare maggiormente a quelle allargate della tradizione del passato recente, non solo per il tendenziale incremento del numero dei conviventi, ma anche per gli effetti di redistribuzione del reddito tra gli stessi all’interno degli aggregati familiari. Per quanto concerne la provincia di Pesaro-Urbino, il numero di componenti per famiglia si aggira intorno ad una media di 2,5, mentre per i Comuni su cui è stata condotta la ricerca la media è compresa tra i 2,4 di Isola del Piano e i 2,7 di Serrungarina (v. Tab. III.4). Altro dato relativo ad un tendenziale ripiegamento su assetti familiari “tradizionali” riguarda la figura prevalente del capofamiglia. Nella quasi totalità siamo in presenza di un capofamiglia maschio (96% dei casi rilevati dall’indagine Famiglie della Regione Marche del 2010), considerato cioè responsabile delle entrate economiche. L’organizzazione familiare intorno al reddito del marito capofamiglia è persino più accentuata nelle coppie coniugate. Le donne capofamiglia sono più frequentemente separate, divorziate o vedove. In ogni caso, il reddito della donna capofamiglia è mediamente più basso di quello dei maschi capofamiglia. 9 I nuclei familiari nella regione sono composti mediamente da 2,8 componenti per 1,8 percettori di reddito (Regione Marche, 2011). 10 La situazione di difficoltà delle famiglie nelle Marche ha mostrato nel 2010 segnali negativi anche per quanto riguarda le ricadute sulla capacità di risparmio delle famiglie: «La contrazione del reddito disponibile delle famiglie ha continuato a ostacolare l’accumulazione del risparmio finanziario. La raccolta finanziaria è stata debole e in decelerazione rispetto a dodici mesi prima» (Banca d’Italia, 2011). 11 I giovani marchigiani tra i 20 e i 30 anni sposati/conviventi erano l’8% nel 2009, mentre i conviventi con i genitori erano l’85,7% (Regione Marche, 2011). Si tratta dunque di una tendenza alla immobilità che tende ad acuirsi negli ultimi anni. 89 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA Tabella III.4 - Popolazione residente per sesso, numero di famiglie, convivenze e numero di componenti – anno 2009 Comuni Barchi Cartoceto Fossombrone Isola del piano Mondavio Montefelcino Montemaggiore al Metauro Orciano di Pesaro Piagge Saltara San Giorgio di Pesaro Sant’ippolito Serrungarina Provincia Pesaro Urbino Popolazione al 31 Dicembre 2009 Maschi Femmine Totale Numero di famiglie Numero di convivenze 495 3991 4844 338 1982 1402 1352 1082 501 3406 720 794 1270 179043 518 3975 5053 316 2029 1417 1358 1121 525 3352 721 808 1256 186745 1013 7966 9897 654 4011 2819 2710 2203 1026 6758 1441 1602 2526 365788 385 3075 3896 268 1575 1092 1031 863 398 2536 559 612 927 149117 1 2 8 1 1 0 0 3 0 2 0 0 0 181 Fonte: nostra elaborazione da sistema statistico Regione Marche. L’elemento più saldo dell’organizzazione sociale locale rimane la famiglia nella sua forma tradizionale: pur non priva di spinte al mutamento, questo risulta, alla luce dei fatti, residuale, se non nell’eccezione del declinare del rito religioso (comunque maggioritario) in favore di quello civile. Oltre un quarto delle famiglie della regione è composta da coppie con un figlio minore, cui seguono per incidenza le coppie in coabitazione con figli maggiorenni (circa il 18%), le famiglie anziane senza figli (15%) che per la metà sono costituite da anziani soli (Regione Marche, 2008). Si rileva un’articolazione abbastanza variegata del panorama familiare; d’altra parte, la figura maschile, fulcro dell’organizzazione familiare e principale procacciatore di reddito, risulta persino rafforzata. Il numero dei figli è nella provincia, così come nell’intera regione, al di sotto del tasso di sostituzione. La fecondità segue nella popolazione un andamento crescente tra il 2002 e il 2008, anno in cui si registra una lieve diminuzione. Le famiglie straniere hanno un numero di figli più elevato rispetto alla popolazione autoctona, soprattutto quelle in cui il capofamiglia ha un livello di istruzione più basso. Esattamente l’inverso di quanto non accada nella popolazione autoctona in cui il numero di figli tende ad aumentare con il livello di istruzione del capofamiglia (Regione Marche, 2010a). 90 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Un elemento di differenziazione importante nella composizione demografica locale è costituita dalla popolazione immigrata. Da un’indagine condotta dalla regione Marche risulta che nel 200812 le madri straniere hanno un livello di istruzione mediamente inferiore, tendenzialmente coerente con quello dei coniugi. Questi ultimi, sono maggiormente esposti al rischio di disoccupazione rispetto ai corregionali autoctoni. Per quanto riguarda la relazione tra maternità e condizione lavorativa emerge invece che le madri marchigiane, nell’anno osservato, risultano prevalentemente coniugate (v. Tab. III.5) e, tra queste, la maggioranza (70%) ha un’occupazione, mentre circa un quarto (25%), al momento della nascita del figlio, risulta essere casalinga. Tabella III.5 - Condizione lavorativa delle madri per stato civile - Regione Marche anno 2008 Occupata Nubile Coniugata Separata Divorziata Vedova Totale Casalinga Studentessa N % Disoccupata N % N % N % N Totale % 1888 7472 181 81 13 9635 69 70 77 41 76 69 271 504 13 7 1 796 10 5 6 3 6 6 442 2680 37 13 2 3174 16 25 16 6 12 23 110 61 2 0 0 173 4 1 1 0 0 1 2806 10717 233 202 17 13975 100 100 100 100 100 100 Fonte: nostra elaborazione da Regione Marche, 2008. Una percentuale che appare essere più elevata tra le straniere, tra cui la condizione di casalinga raggiunge oltre la metà del totale delle madri; sono più giovani e rappresentano meno di un terzo delle madri. Complessivamente la condizione di casalinga ha una significativa incidenza, proprio nel periodo seguente la nascita dei figli, che coincide con il momento di massimo rischio di caduta di partecipazione lavorativa per le donne. Del resto, come in buona parte del paese, la copertura dei servizi di prima infanzia, lascia supporre anche in questa regione un’ampia “delega in bianco” alla rete di cura familiare. La copertura nazionale dei servizi per la prima infanzia supera di poco il 13% (Istat, 2010d) della domanda potenziale, con un aumento di 12 Si tratta dell’indagine condotta dall’Osservatorio epidemiologico sulle diseguaglianze della Regione Marche che ha condotto un’analisi dei dati riportati dai certificati di assistenza al parto in 18 punti nascita della Regione con una copertura del sistema pari al 97,3% del totale dei parti regionali. Per ulteriori informazioni si veda il rapporto Gravidanze e nuove nascite nella regione Marche. Primo rapporto sui dati del Certificato di assistenza al parto. Anno 2008, consultabile al sito www.ars.marche.it. 91 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA appena il 2% dal 2000 (Zollino, 2008), a fronte di una media italiana pari al 10,4% nell’anno scolastico 2008-2009 (v. Tab. III.6). Tabella III.6 - Asili nido indicatori territoriali - anno 2008 Regione e ripartizione geografica Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole ITALIA Percentuale di comuni coperti dal servizio (2) Indice di copertura territoriale del servizio (3) (per 100 bambini 0-2 anni residenti nella regione) Indicatore di presa in carico degli utenti (4) (per 100 residenti 0-2 anni) 28,0 78,4 56,2 53,4 65,2 77,2 38,3 81,8 64,5 54,3 48,0 23,0 25,9 5,9 15,4 31,8 21,4 13,9 33,6 14,1 44,3 69,4 43,9 18,9 24,0 40,9 74,0 91,2 84,1 77,0 83,3 91,7 88,1 96,8 91,3 88,9 84,5 77,2 68,8 37,5 37,8 59,3 56,9 42,9 68,3 57,0 81,9 89,1 83,3 47,8 65,9 73,4 11,4 22,0 13,3 9,3 9,8 11,7 13,1 24,0 16,9 18,6 13,3 11,8 7,8 4,3 1,7 3,9 6,7 2,3 5,9 6,5 12,9 15,2 14,0 3,1 6,0 10,4 (1) Questa voce comprende sia le strutture comunali che le rette pagate dai comuni per gli utenti di asilo nido privati. (2) Percentuale di comuni in cui è attivo il servizio. Per il Nord-est e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano. (3) Percentuale di bambini tra 0 e 2 anni che risiede in comuni in cui è presente il servizio. Per il Nordest e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano. (4) Utenti per 100 bambini tra 0 e 2 anni. (5) Dati al 31.12.2007. Non è disponibile il dato relativo al numero di comuni coperti dal servizio. Fonte: Istat, 2010d. 92 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Dal 2004 al 2008 «la percentuale di comuni che offrono il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o mediante trasferimenti pubblici a sostegno delle famiglie che usufruiscono delle strutture private, ha fatto registrare un progressivo incremento, dal 33,7% del 2004 al 40,9% del 2008. Di conseguenza, i bambini tra zero e due anni che vivono in un comune che offre il servizio sono passati dal 67,4% al 73,4% (indice di copertura territoriale)» (Istat, 2010d). Si è dunque ampliata l’area di copertura sul territorio, tuttavia molta parte della domanda rimane a tutt’oggi insoddisfatta. Osservando l’andamento generale, la regione Marche ha investito considerevolmente sui servizi all’infanzia. Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2009 nella Regione Marche si può calcolare che i posti nido in gestione diretta o convenzionata13 sono aumentati del 56%, passando da un numero di 3.863 a 6.046. Tale incremento non ha gravato sui fondi regionali, bensì su quelli comunali e sulle famiglie attraverso gli aumenti delle rette che negli ultimi anni sono stati considerevoli. Diversamente la survey condotta dalla Regione Marche sulle Famiglie marchigiane e mercato del lavoro (Regione Marche, 2008) mostra che quasi il 30% delle famiglie marchigiane con minori nella fascia d’età 0-2 usufruisce del servizio di asili nido. I dati descrivono da una parte servizi insufficienti rispetto al fabbisogno, dall’altra reti di cura primarie corte e cortissime. Tabella III.7 - Strategie di cura delle famiglie con minori di età 0-2 nelle Marche Tipologia Famiglia % Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni nelle Marche Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni che utilizzano: Asili nido pubblici Asili nido privati Baby sitter Parenti non retribuiti Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni nelle Marche che utilizzano asili nido pubblici o privati Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni che utilizzano: Né asili né parenti (carico di cura sulle famiglie stesse) Solo asili o solo parenti Sia il servizio di asilo (pubblico o privato) sia i parenti Totale 6,7 19,6 12,7 3,8 0,38 29,8 46,7 38,9 14,4 100 Fonte: Regione Marche, 2008. 13 Si tratta di posti per cui la Regione Marche eroga un contributo su fondi ex lr. 09/2003. DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 93 Come emerge dal rapporto dell’appena citata indagine (v. Tab. III.7), una famiglia su cinque nella regione Marche può contare su servizi di asilo pubblici (19,6%) prevalentemente, ma anche privati (12,7%). Più raramente ci si affida ad una persona pagata per la cura dei figli quale classicamente individuabile nella figura della babysitter, pratica dichiarata dal 3,8% delle famiglie. Primariamente è la rete familiare a farsi carico della cura dei figli in questa fascia di età (38%), tuttavia, mentre per la metà delle famiglie interessate emerge la possibilità di far conto sia sui servizi, sia su almeno una persona nella rete parentale, risulta significativo il numero di famiglie, poco meno della metà del totale (46,7%), che dichiara di non ricorrere né al servizio di asilo, né al supporto di parenti. Queste sono le famiglie che si fanno totalmente carico della cura dei figli, senza supporto alcuno di servizi e di reti primarie. Si aprono intorno a questi dati riflessioni sulle trasformazioni delle comunità locali e in merito alle ricadute sui percorsi individuali: in sovrapposizione alle diseguaglianze strutturali esistenti, il rischio di nuove14. Al suo interno la regione presenta una situazione considerevolmente eterogenea che porta ad individuare due diverse sub aree regionali: da una parte Pesaro-Urbino e Ancona, dall’altra Macerata e Ascoli, denotano due diversi modelli di distribuzione e accesso ai servizi di asilo nido. Vi sono poi segnali di grande difficoltà che per effetto della congiuntura economica, crescente precarizzazione e scarsa disponibilità dei servizi, rendono evidente un processo in atto di ulteriore fragilizzazione delle donne del territorio. Secondo i dati della Direzione regionale del lavoro ed elaborati da CGIL Marche, le dimissioni delle donne nel primo anno di vita dei loro figli sono state 578 nel 2010 e 620 nel 2011, pari ad un incremento del 7,3% nell’arco di un anno, di cui ben 196 i casi nella provincia di Pesaro-Urbino. Nei due anni precedenti nella stessa provincia le donne dimissionarie sono state 120 nel 2008 e 135 nel 2009. Si tratta in prevalenza di lavoratrici cittadine italiane, dipendenti di piccole imprese nel settore dei servizi e del commercio. Quanto alle motivazioni dichiarate dalle stesse “dimissionarie”, al primo posto vi è la mancanza di accoglimento del neonato al nido, cui segue l’assenza di aiuti da parte di parenti. Due i dati rilevanti: il primo è quello di un andamento crescente, il secondo di una significativa incidenza sul territorio pesarese del fenomeno. Nel biennio 2009-2011 le neo-madri 14 Nel rapporto citato viene altresì evidenziato come l’accesso ai servizi d’infanzia sia diseguale per classe sociale d’appartenenza, per cui le classi sociali più svantaggiate risultano tali soprattutto per gli effetti negativi prodotti dall’interazione con la variabile che descrive la mancanza di aiuti familiari. 94 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE dimissionarie sono state 1.750 in tutta la regione ma nella provincia di Pesaro si è registrato il più significativo incremento. I recenti provvedimenti di legge a livello nazionale, insieme alla sopravvenuta congiuntura di contrazione economica, sembrano impattare gravemente sulle condizioni delle donne in questa porzione regionale e in particolare sulla realtà provinciale pesarese. Tabella III.8 - Famiglie con compiti di cura e accesso a risorse di aiuto per provincia Provincia Pesaro-Urbino Ancona Macerata Ascoli Piceno Totale % famiglie con figli nei nidi % famiglie con aiuti di cura (parenti e/o servizi) 34,4 31 25 26,1 29,8 48,8 59,3 51,1 46,6 53,3 Fonte: Regione Marche, 2008. Vi è qui da rilevare la maggiore incidenza dell’effetto congiunto di crisi economica e occupazionale, condizioni discriminanti preesistenti di accesso al mercato locale, insufficienza dei servizi rispetto alla domanda e andamento demografico. Tutto questo va ad accrescere le difficoltà di partecipazione delle donne, che non possono essere ridotte alla mera disponibilità/indisponibilità di servizi per l’infanzia. Infatti, paradossalmente, la più elevata copertura di asili nido si registra proprio nella provincia di Pesaro-Urbino in cui si arriverebbe ad una percentuale di utenti autodichiarati pari al 34,4% del totale delle famiglie con età tra 0 e i 2 anni, contro il 25% di Macerata. Quanto ai servizi innovativi (micronidi, nidi di famiglia e servizi per la prima infanzia) e alla loro diffusione nel territorio regionale (v. Tab. III.9), anche in questo caso la situazione marchigiana è in linea con quella nazionale e in particolare con quella del Centro Italia. Nell’insieme si conferma una relativa stabilità nel tempo, ma che lascia insoddisfatto larga parte del fabbisogno potenziale, non coperto da alcuna forma di servizio pubblico. I servizi per l’infanzia nella regione Marche, presentano nel complesso una situazione relativamente migliore rispetto ad altre regioni. La percentuale di Comuni serviti è del 48%; tuttavia persistono disomogeneità territoriali che riguardano la stessa Provincia in esame, sia in termini di presenza e diffusione del servizio, sia di capacità di soddisfare la domanda. Si tratta, inoltre, di una situazione che va colta alla luce della fluidità della ricomposizione demografica, in relazione, in particolare, all’impatto della 95 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA Tabella III.9 - Servizi integrativi o innovativi (1) per la prima infanzia – anno 2008 Percentuale di comuni coperti dal servizio (2) Indice di copertura territoriale del servizio (3) (per 100 bambini 0-2 anni residenti nella regione) Indicatore di presa in carico degli utenti (4) (per 100 residenti 0-2 anni) Piemonte 24,2 52,5 3,0 Valle d’Aosta 5,4 30,5 6,4 Lombardia 23,6 33,1 3,1 Trentino Alto Adige 38,1 70,5 5,9 Veneto 15,3 32,4 2,2 Friuli Venezia Giulia 40,6 61,7 3,2 Liguria 51,1 78,8 3,7 Emilia Romagna 42,2 65,0 4,1 Toscana 43,9 68,4 4,6 Umbria 42,4 75,1 4,8 Marche 19,5 48,6 2,6 Lazio 10,6 52,5 0,8 Abruzzo 30,8 37,8 2,0 Molise 2,2 15,5 0,5 Campania 43,2 40,6 1,1 Puglia 20,9 27,3 1,0 Basilicata 0,8 0,5 0,1 Calabria 2,2 13,2 0,4 Sicilia 3,3 7,4 0,1 Sardegna 10,1 36,0 3,5 Nord-ovest 25,5 41,9 3,2 Nord-est 29,8 50,0 3,4 Centro 25,2 58,4 2,5 Sud 22,3 31,1 1,0 Isole 6,6 13,5 0,8 ITALIA 23,7 40,8 2,3 (1) In questa categoria rientrano micronidi, i nidi di famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia. (2) Percentuale di comuni in cui è attivo il servizio. Per il Nord-est e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano. (3) Percentuale di bambini tra 0 e 2 anni che risiede in comuni in cui è presente il servizio. Per il Nordest e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano. (4) Utenti per 100 bambini tra 0 e 2 anni. (5) Dati al 31.12.2007. Non è disponibile il dato relativo al numero di comuni coperti dal servizio. Fonte: Istat, 2010d. 96 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE componente straniera del territorio a cui si deve buona parte dell’incremento di natalità. Come si evince dai dati, la diffusione di tale tipologia di servizi ha, ad oggi, un’incidenza significativamente bassa nella regione, come nel resto del paese, con conseguenze sia di lenta diffusione di forme innovative di servizio e maggiormente rispondenti alle plurime esigenze familiari di accudimento, sia di persistenza di un’area piuttosto significativa di domanda insoddisfatta. La spesa sociale per asili nido e servizi per la prima infanzia, copre buona parte della spesa sociale totale nella regione; altrettanto avviene nei comuni della Provincia. Due dati sono da evidenziare: il primo è relativo alla disomogeneità di spesa sociale per abitante, l’altro riguarda la diminuzione della stessa in ben otto Comuni della Provincia di Pesaro Urbino tra il 2007 e il 2009, tra cui uno dei Comuni interessato dalla ricerca in oggetto15 (CGIL, 2010). Altri due Comuni vedono invece raddoppiata la spesa sociale, nonostante una riduzione della spesa corrente, tra cui Fossombrone, il maggiore per estensione e numero di abitanti nell’area in cui è stata svolta la ricerca. Va aggiunto che nel processo, sempre più accentuato, di esternalizzazione dei servizi, non tutte le voci di spesa transitano per i capitoli di bilancio, per cui vi è l’eventualità che possano risultare sottostimati. Da un punto di vista qualitativo, si tratta di un’informazione mancante, che meriterebbe un’attenta riflessione, in quanto attiene ad un processo che va a modificare strutturalmente e qualitativamente l’erogazione dei servizi sul territorio. Tale processo è già del tutto evidente nei servizi di prima infanzia come nelle scuole d’infanzia, dove negli ultimi anni il personale addetto dipende sempre più non direttamente dagli enti comunali ma da organizzazioni esterne, quali cooperative, che selezionano, assumono e gestiscono per conto del Comune e su richiesta dello stesso, personale da dedicarsi a mansioni di assistenza come di relazione diretta con i bambini presenti nelle sedi scolastiche. È questo il processo cosiddetto di esternalizzazione dei servizi, che proprio nell’anno in corso sta vedendo sul territorio una netta accelerazione. In termini di conseguenze di tale scelta, vi è da considerare in primo luogo il mantenimento di standard qualitativi di servizio consolidato sul territorio, attestatosi sino ad oggi a buoni livelli. Secondariamente vi è da ragionare sulla deprivazione in termini di prospettive di espansione nell’immediato futuro. A fronte di un bisogno crescente di servizi per l’infanzia la strada intrapresa è quella di una decurtazione degli stessi. L’esternalizzazione, così come operata, rappresenta un disinvestimento che apporta elementi 15 Si tratta del Comune di Isola del Piano. 97 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA di incertezza a quanto sino ad oggi raggiunto e all’immediato futuro. Se è vero che le quote di spesa per nidi e servizi per l’infanzia non spiegano del tutto la qualità del servizio prodotto, è vero anche che la prospettiva di scendere al di sotto della soglia consolidata, al presente già piuttosto bassa se commisurata alla richiesta, è con buona probabilità il preludio ad uno scenario di erosione, piuttosto che di sviluppo. Come già accennato, evidenze di ciò sono ravvisabili sia nelle modalità di selezione e impiego del personale addetto, sia nell’abbattimento del rapporto numerico tra educatrici e bambini. La stessa eterogeneità di spesa per i servizi d’infanzia riscontrata a livello locale, si ripropone a livello nazionale. Tra le regioni esistono significative disparità se si considera non solo la spesa totale, ma anche la ripartizione tra quota pagata dai comuni e quota a carico degli utenti. La spesa complessiva per la regione Marche nel 2007 risulta essere complessivamente di 34.592.267 Euro e, come si vede dalla Tab. III.10, esistono grandi differenze tra le aree del paese, soprattutto tra il Centro e il Nord rispetto al Sud e alle Isole. Tabella III.10 - Asili nido (a) utenti, spesa, compartecipazione degli utenti per ripartizione geografica e Regione Marche - anno 2008 Ripartizione Geografica Marche Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole ITALIA Spesa media per utente Totale spesa impegnata (Spesa pubblica e degli utenti) Percentuale di spesa pagata dagli utenti Quota pagata dai Comuni Quota pagata dagli utenti 34592267 408156078 368798830 420541070 81765948 88074721 1367336647 24,3 22,4 21,5 13,5 12,3 8,2 17,9 4658,1 5482,2 5819,3 7987,6 5650,5 7179,8 6344,8 1497,2 1597,7 1595,5 1245,6 793,7 641,4 1387,3 (a) Questa voce comprende sia le strutture comunali che le rette e i contributi pagati dai comuni per gli utenti di asilo nido privati Fonte: nostra elaborazione da Istat, 2010d. Tali differenze riguardano anche la quota parte a carico degli utenti: per le Marche questa è del 24,2%, superata solo da Lombardia (25%) che impegna un volume di spesa di gran lunga superiore e Basilicata (24,9%), regione che spicca per una spesa complessiva tra le più basse, dopo il Molise e la Calabria. La regione con più elevata spesa complessiva per i servizi d’infanzia e contemporaneamente anche più elevata spesa a carico degli utenti è la Lombardia seguita dal Lazio e dall’Emilia Romagna che, tuttavia, pongono 98 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE a carico degli utenti una spesa percentualmente più bassa, rispettivamente pari al 7,8% e 22% 16. Oltre al deficit di copertura che emerge nelle varie aree del paese, il dato complessivo conferma difformità e frammentarietà, al punto da disegnare contesti di vita qualitativamente significativamente differenti. La disponibilità di risorse da investire è sicuramente una condizione necessaria, mentre l’eterogeneità territoriale è con buona probabilità da mettersi in relazione con una volontà politica di formulazione di un’agenda in cui i servizi per l’infanzia divengano una priorità. Tabella III.11 - Numero di scuole d’infanzia (statali e non statali) e bambini della Regione Marche per Comune – A.S. 2009/2010 Territorio Scuole Bambini Residenti 3-5 anni Fano 25 1650 1784 Pesaro 34 2520 2469 Urbino 9 363 375 Cagli 4 202 209 Unione Comuni Pian del Bruscolo 12 1102 1167 Altri Comuni PU 77 4404 4245 161 10241 10249 Provincia Pesaro-Urbino Provincia di Ancona 174 12915 12887 Provincia di Macerata 120 8467 8590 Regione Marche 605 41797 41625 Fonte: nostra elaborazione da Sistar Marche. Quanto alle scuole d’infanzia la situazione provinciale pesarese e, al suo interno, dell’area indagata, presenta una buona diffusione dei siti scolastici, anche nei Comuni più piccoli. Tuttavia, anche in questo caso, la sempre minore disponibilità di risorse da parte degli enti locali pone anche la scuola d’infanzia in una situazione di affanno. La riorganizzazione dei plessi e delle politiche di servizio locale sul territorio, sono negli ultimi anni condizionati da riduzione di personale ed una esternalizzazione sempre più spinta di servizi vari. La stessa dislocazione dei plessi nei diversi Comuni, specie i più grandi, è messa in discussione da prospettive di riaccorpamenti e riorganiz16 Per maggiori dettagli sulla distribuzione della spesa dei Comuni italiani per i servizi d’infanzia si veda Interventi e servizi sociali dei comuni singoli o associati – anno 2007, consultabile al sito www.istat. 99 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA zazioni del servizio17. Ancora una volta è dunque nel rapporto tra quantità di risorse e qualità della loro allocazione che prende forma la relazione tra territorio e la sua fruibilità da parte della cittadinanza. Il territorio marchigiano, in particolare quello pesarese, si trova in una fase di messa in discussione degli standard di vita e, come vedremo, di lavoro sin qui raggiunti. Tabella III.12 - Numero di scuole d’infanzia (statali e non statali) e bambini per comune – della Comunità Montana e Provincia di Pesaro Urbino – A.S. 2009/10 Comune Barchi Cartoceto Fossombrone Isola Del Piano Mondavio Montefelcino Montemaggiore Al Metauro Orciano Di Pesaro Piagge Saltara San Giorgio Di Pesaro Sant’Ippolito Serrungarina Provincia di Pesaro e Urbino Scuole Bambini 1 3 4 1 3 1 1 1 1 3 1 2 1 57 22 267 292 24 109 72 83 53 29 247 34 60 68 3880 Fonte: Nostra elaborazione da Sistema Statistico Regione Marche. Il riassetto dei servizi lungo la direzione della cosiddetta esternalizzazione, mentre impone una ridefinizione degli standard qualitativi, apre nuove questioni circa i costi economici e sociali di una manovra che va a produrre profonde modificazioni nei rapporti di lavoro delle operatrici della scuola. Per essa si alimenta una già evidente tendenza alla precarizzazione del personale addetto, che a sua volta si inserisce in una cornice di progressivo indebo17 Ad esempio nel Comune di Pesaro è già stata attuata nelle scuole d’infanzia la riduzione di quarantacinque minuti che anticipano la chiusura del servizio pomeridiano. Questo peraltro corrisponde già da diversi anni ad una politica di svuotamento del servizio pomeridiano in netta cesura con quello mattutino. Nel pomeriggio prevalgono educatrici provenienti dal mondo cooperativo. Nella giornata scolastica viene meno la continuità non solo in termini di presenza delle insegnanti e di presenza discontinua delle stesse, ma anche per mancanza di coordinamento delle attività svolte, cosa che finisce per ridurre le ore pomeridiane a mero contenimento, a scapito della ricchezza dell’attività scolastica. 100 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE limento delle posizioni lavorative delle donne. L’esternalizzazione, mentre permette alle amministrazioni locali di abbattere i costi di gestione, sostiene un mercato del lavoro locale in cui il risparmio sulla spesa per il personale consolidano rapporti lavorativi al ribasso di reddito e di diritti associati. Si predispone in tal modo una cornice per un contesto in cui le donne risultano indebolite, sia come utenti, sia come lavoratrici. È evidente che il tema della conciliazione si inserisce in un quadro crescentemente complesso, per cui le trasformazioni occupazionali e i tagli ai servizi erogati pongono importanti ipoteche sul futuro, con dosi di incertezza al presente che eccedono le capacità soggettive di farvi fronte. Su questa via i servizi per l’infanzia, entro una logica di risparmio a tutti i costi che non sia accompagnata da una ridefinizione qualitativa, rischiano di divenire una voce progressivamente decurtabile, nella misura in cui i costi sociali non vengono computati. Esattamente al contrario, la questione dei servizi d’infanzia appare sempre più cruciale per un territorio in cui le modificazioni demografiche vanno verso il progressivo invecchiamento della popolazione autoctona da una parte e dall’altra è interessato da una considerevole immissione di flussi di popolazione straniera. Ne consegue che anche le reti di supporto comunitarie parentali-familiari, come si è già visto piuttosto deboli, si troveranno ben presto ad essere ancor più deficitarie rispetto ai bisogni emergenti. Tutto ciò ha sullo sfondo una crisi globale con importanti ricadute anche sul territorio locale. III.4. Il mercato del lavoro locale Le riflessioni sul mercato del lavoro locale portano immediatamente a porre l’attenzione su un andamento che risente fortemente della congiuntura di crisi, cercando di mettere a fuoco soprattutto le criticità strutturali ed emergenti, tenendo altresì conto della ripartizione per genere delle risorse lavorative. Sebbene il contesto marchigiano, in particolare quello provinciale pesarese, si sia distinto per diversi anni per una elevata partecipazione al mercato del lavoro anche da parte delle donne, con tassi di partecipazione che, a partire dagli anni ‘70 si sono attenuti al di sopra della media nazionale, dal 2007 segnali di arresto sono evidenti a partire da un innalzamento del tasso di disoccupazione passato dal 5,3% del 2004 al 7,8% del 2009. L’andamento virtuoso del mercato locale è oggi messo in discussione da segnali opposti che modificano profondamente le dinamiche di domanda e di offerta. All’interno della regione, la provincia di Pesaro-Urbino è quella che sta subendo più di altre l’impatto della contrazione economica. In particolare, 101 DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA sono le donne a pagare maggiormente i costi della crisi, sia dal punto di vista del calo occupazionale sia del calcolo delle assunzioni. Il dato sulle assunzioni nella provincia di Pesaro Urbino evidenzia un andamento inverso tra donne e uomini. Mentre nel 2009 si era verificato un crollo dell’occupazione maschile, nell’anno successivo essa tende a riprendere e contemporaneamente diminuisce quella femminile. Il dato Istat al terzo trimestre 2010 indica una flessione nel numero di occupati dell’1,5% nel territorio provinciale pesarese e circa 10.000 posti di lavoro in meno rispetto al terzo trimestre del 2009. Tale calo è attribuibile soprattutto alla componente femminile in una misura del – 3,7%. Il calcolo a saldo tra assunzioni e cessazioni da lavoro segnala come sia stata proprio la provincia di Pesaro-Urbino ad aver subìto maggiormente gli effetti della crisi nel corso del 200918. 6 ) ) (7) (7( '7) ( '7( '7' '7# ' &7$ & %7( %7& %7( %7! 8,91+9 :9/4;0 % $ ! # " !""% !""& !""' !""( !"") !""6 Figura III.2 - Andamento del tasso di disoccupazione Marche-Italia – valori percentuali. Fonte: Sistema statistico Regione Marche. In particolare, è l’area di Fano quella in cui la recessione ha eroso maggiormente l’occupazione. Ancora una volta, citando l’indagine regionale sulle famiglie nelle Marche, risulta nell’unità territoriale di Fano la più elevata percentuale di cittadini in condizioni di povertà (Regione Marche, 2010a). Il profilo delle famiglie in condizioni di povertà è quello di un capofamiglia operaio con basso titolo di studio, mentre un livello di istruzione più 18 Dati successivi e più recenti, relativi al primo trimestre 2011, confermano tale tendenza insieme ad una maggiore vulnerabilità delle donne, la gran parte delle 46 mila persone in cerca di occupazione nella regione Marche (CGIL Marche, 2011), con un calo di occupate che colpisce soprattutto le lavoratrici dipendenti. 102 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE elevato si conferma come fattore di maggiore protezione dalla perdita di lavoro. L’andamento inverso tra maschi e femmine, proprio nel momento in cui le risorse lavorative locali si fanno più scarse, va di pari passo con un ragionamento sulla qualità dell’occupazione. &' &% &! &" %) :934;+ <0==+>0 %' %% %! %" !""6 !"#" Figura III.3 - Andamento delle assunzioni per sesso Provincia Pesaro-Urbino – 2009-2010. Fonte: nostra elaborazione su dati provinciali CIOF19. L’occupazione femminile nella provincia, sebbene quantitativamente rilevante, ha strutturalmente e qualitativamente caratteristiche di maggiore vulnerabilità. Inoltre, seppure considerato più virtuoso di altri, il mercato del lavoro locale ha sempre mantenuto un differenziale occupazionale di genere che, non solo non è mai stato colmato, ma risulta in questo momento ampliarsi. Le assunzioni favoriscono gli uomini anche a fronte di un dato di stock sulle assunzioni che vede le stesse in leggera ripresa nel 2010 rispetto all’anno precedente. L’acuirsi delle disparità di condizione lavorativa tra donne e uomini, a svantaggio delle prime, è evidente anche nella tipologia di lavoro che è cresciuto e continua a crescere negli ultimi anni. I contratti a termine sono in costante ascesa, in particolare tra il 2008 e il 2009, mentre quelli a tempo indeterminato continuano a declinare significativamente. Nel 2010 le assunzioni maschili a tempo indeterminato sono state nella Provincia di Pesaro-Urbino il 12,5% contro la più bassa percentuale femminile pari all’8% (Direzione Provinciale del Lavoro Pesaro-Urbino, 2011). 19 Si ringrazia l’Assessorato alla Formazione e al Lavoro della Provincia di Pesaro-Urbino per i dati gentilmente messi a disposizione. DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 103 Oltre alle donne, sono i giovani ad essere maggiormente penalizzati dall’arresto del dinamismo del mercato locale, soprattutto tra i lavori a bassi livelli di qualifica. La discriminazione per sesso e per età (giovane)20 sono dati tutt’altro che inediti sul mercato locale. Dal punto di vista del livello di istruzione, si nota invece che vengono espulsi dal mercato soprattutto quanti sono in possesso di bassi titoli di studio. Questo non perché nel frattempo siano mutate le caratteristiche della struttura occupazionale locale, tradizionalmente incentrata su medie e basse qualifiche, ma semplicemente per effetto dell’interazione di due diversi fattori: l’innalzamento del livello di istruzione e la maggiore selezione di risorse più qualificate da impiegarsi non necessariamente in mansioni congruenti. Il rischio di sottoccupazione, già evidente per quanto riguarda la componente più giovane e femminile, va nella presente congiuntura aumentando all’interno di siffatta struttura occupazionale. Di conseguenza, l’andamento di domanda e offerta sono, allo stato attuale, in una sorta di corto circuito, per cui risultano essere aumentati i rischi per tutte le componenti la forza lavoro. I titoli di studio più elevati appaiono oggi essere maggiormente protettivi dai rischi di perdita di lavoro, ma non da quelli di perdita di reddito. Come mostra l’indagine delle famiglie condotta dalla Regione Marche (2010a) i redditi da lavoro che hanno subìto un arresto sono quelli delle mansioni a basso livello di qualificazione e quelli a livello più elevato: una sorta di livellamento dei redditi da lavoro in un mercato che, già precedentemente, risultava scarsamente dinamico e competitivo in termini di capacità di acquisizione di competenze elevate. Oltre alla perdita di autonomia descritta dalla riorganizzazione familiare attorno ad un numero declinante di percettori di reddito, i giovani più istruiti sono quelli che al momento incontrano le maggiori difficoltà a raggiungere la propria autonomia al di fuori del nucleo familiare. In controtendenza con l’andamento nazionale, la realtà provinciale pesarese mostra all’ultimo trimestre 2010 una diminuzione anche in termini di persone in cerca di lavoro (-17,3%) e del tasso di attività (-1,7%). Lo scoraggiamento è divenuto un fenomeno più visibile sul territorio, mentre nell’insieme si prefigura una profonda modificazione nella struttura occupazionale locale. Le ore di cassa integrazione a cui le imprese della provincia hanno 20 Il numero dei senza lavoro è nella Provincia di Pesaro-Urbino in costante crescita. I dati più recenti dei Centri per l’impiego Provinciale comunicano che il numero dei senza lavoro è all’ottobre 2011 di 42.771 di cui 25.468 donne e 17.123 uomini. La maggiore incidenza nell’area di Fano si conferma come trend consolidato, così come quella sulle donne e sui giovani, mentre cominciano ad aumentare anche gli ultracinquantenni in cerca di lavoro. Si veda CNA Pesaro e Urbino, Pesaro e Provincia i disoccupati sono 42.000, martedì 25 ottobre 2011, www.cnapesaro.it. 104 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE fatto ricorso, hanno raggiunto, a partire dal 2008, un massimo storico nel 2010 con un picco significativamente più elevato rispetto a quello delle altre province della regione21. Se tra il 2009 e il 2010 le espulsioni dal mercato del lavoro sono diminuite, si rileva da una parte l’ampio ricorso alla mobilità nel biennio 2008-2010, periodo in cui i lavoratori in mobilità sono passati da 1.300 nel 2008 a oltre 4.000 nel 2010, dall’altra segnali contraddittori. # # ?$ $ & ?( ) # ' ?& ) # ?( # ' # ?" $ $ ?) ( % ) 6 % ?6 & # 9> > - .! " " & 9> > - .! " " ' & " ( ?6 ) $ 9> > - .! " " ( ) ' ' ?! # ! 9> > - .! " " ) 9> > - .! " " 6 9> > - .! " # " Figura III.4 - Ore di cassa integrazione guadagni autorizzate nella Provincia di Pesaro-Urbino - 2005-2010. Fonte: Provincia di Pesaro-Urbino. Sono dati rilevanti che pur non travasando direttamente nel computo della disoccupazione indicano gravi difficoltà di mantenimento della posizione lavorativa e dei livelli di reddito da essa assicurati, oltre ovviamente a offrire la misura di un rallentamento del dinamismo locale. La perdita di lavoro in termini di licenziamenti è un fenomeno che ha assunto una certa rilevanza nel biennio di crisi acuta. Tuttavia, questo ha un andamento non uniforme e complessivamente in via di ridimensionamento nell’ultimo anno. Infatti, mentre nel corso del 2010 le espulsioni sono diminuite, rispetto all’anno precedente, del 44,7%, nel 2010 esse appaiono numerose in un settore strategico del distretto pesarese, quello dell’industria del mobile, interessato da una crisi tardiva, con 120 licenziamenti nel corso del 2010, pari ad un incremento del 41,7%. 21 Una tendenza che sembra ben lungi dall’arrestarsi dal momento che i dati del maggio 2011 continuano a confermare una situazione complessiva di difficoltà della Regione tutta. La richiesta di ore di CIG permane a livelli molto elevati (INPS, CGIL Marche, 2011). DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 105 La realtà che descrivono questi dati è quella di una progressiva riacutizzazione di pregresse criticità non risolte. Le evidenze che emergono, nell’ampliarsi delle disparità per sesso e per età, impongono un bilancio sul mancato investimento in termini di riqualificazione della domanda di lavoro locale. Essa è stata dapprima trascinata da processi di deindustrializzazione e di delocalizzazione che hanno spostato altrove il problema della competitività intrinseca al sistema, aggirando l’ostacolo di una riqualificazione interna che garantisse nel tempo la produzione e il controllo della ricchezza (capitale e lavoro). La crisi sopravvenuta su tali processi già in atto, ha finito per impattare negativamente proprio sulla forza lavoro, dunque sul fondamento di una produzione di benessere locale, nonché la risorsa su cui maggiormente ha puntato il sistema produttivo del territorio. Sono stati i settori a più alta intensità di lavoro ad essere maggiormente colpiti, sia dalla competitività internazionale, che li ha scoperti più deboli, sia dallo stallo economico. I legami con il lavoro non sono stati ridefiniti mentre sono stati trascinati dalla crisi economica in misura proporzionale alle pregresse e ben note vulnerabilità lavorative e produttive. Quelle caratteristiche del modello marchigiano22 propellente dello sviluppo regionale, sono divenute più tardi causa di difficoltà di fronte al ridisegnarsi degli assetti economico-produttivi23. Il rapporto tra quantità e qualità del lavoro impone oggi un’attenzione non più rimandabile nella ridefinizione di una prospettiva locale futura che, in vista del benessere recentemente focalizzato come prioritario obiettivo politico dall’agenda provinciale, ha di fronte a sé il primo ostacolo del superamento di diseguali opportunità di partecipazione sociale e lavorativa. Per quanto concerne la partecipazione femminile, negli ultimi anni essa è stata sostenuta, localmente come nel resto del paese, in larga misura da un aumento di offerta di lavoro, coerentemente con l’allargamento dell’aspettativa di occupazione a quella porzione di popolazione che più continua ad investire in istruzione e più difficoltosamente costruisce percorsi lavorativi coerenti e stabili. Nel momento in cui l’innalzamento del livello di istruzione 22 Nella Provincia di Pesaro sono presenti circa 39.000 imprese, con prevalenza assoluta di micro imprese. Il 90% delle imprese sul territorio ha 3-4 addetti (Piano Provinciale 2007-2008 disponibile al sito www.provincia.pesarourbino.it). 23 «La ridotta dimensione aziendale, la specializzazione settoriale della produzione e delle esportazioni centrata sul modello distrettuale, la tipologia imprenditoriale orientata all’impresa individuale e a carattere familiare, hanno avuto una grande rilevanza per lo sviluppo economico del nostro paese [...] Oggi a causa del declino di competitività della produzione industriale nazionale sui mercati internazionali, tale dato si è fortemente ridotto e c’è un’ampia concordanza nell’indicare, nelle stesse specificità dell’apparato produttivo, le attuali cause di crisi» (David, 2006, p. 81). 106 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE delle donne diventa la chiave di volta di una maggiore partecipazione, si rafforza una organizzazione del lavoro che, anche a livello locale, segrega le donne nelle due direzioni orizzontale e verticale. Nella regione Marche questo fenomeno si rende ancor più evidente laddove l’incremento rapido di scolarizzazione delle donne si accompagna a livelli di partecipazione al mercato del lavoro più elevati rispetto all’andamento medio del paese (David, 2010). Al di là dell’enfasi quantitativa sul migliore andamento regionale e, al suo interno di quello provinciale pesarese, dei principali indicatori del mercato, mentre i segnali di crisi non venivano ancora decodificati, quelli della debolezza della partecipazione delle donne erano evidenti ma sottostimati. L’occupazione femminile nella regione Marche ha rappresentato un serbatoio di manodopera ad uso flessibile, funzionale al sistema produttivo locale, riflessa in un andamento altalenante della disoccupazione complessiva, anche in questo caso soprattutto femminile (David, 2010). Dato che sin dalla metà degli anni ‘90 è testimoniato da una permanenza delle donne più duratura ma attendista, di «resistenza»: le donne rimangono sul mercato del lavoro in attesa della migliore occasione, ma nel contempo cresce l’insoddisfazione per lo stesso (Censis, 2006). Una insoddisfazione che è da ricondursi, tra l’altro, allo scarto tra posizione lavorativa e livello di istruzione conseguito, evidente in una sottoccupazione tutta locale che nella regione prende la forma di uno spiazzamento inverso rispetto al contesto nazionale (Reyneri, 2007) dei laureati, soprattutto laureate, nei confronti dei diplomati. La scarsa disponibilità di mansioni ad elevata qualificazione, lo sviluppo di un terziario non troppo avanzato, sono il ritratto di un sistema produttivo in cui prevalgono settore primario e secondario sullo sviluppo di servizi, tali da non supportare cambiamento e innovazione. I dati qualitativi dell’occupazione femminile locale, che spiegano l’erosione progressiva di prospettive di sviluppo, sono legate alle consolidate dinamiche di un andamento altalenante della disoccupazione, di crisi di settori manifatturieri che riducono le opportunità per le donne, di persistenza di differenziali salariali, di reddito percepito in termini assoluti sempre inferiore a quello degli uomini (Regione Marche, 2010a) anche, ma non solo, per un minore numero di ore lavorate. A partire dai differenziali salariali, alle lavoratrici delle Marche spetta una retribuzione media su base mensile più bassa rispetto a quella italiana e delle altre regioni (David, 2010). Per quanto concerne il rapporto tra occupazione e ore lavorate, a lavorare part time sono il 25% delle occupate nell’anno 2009, contro il 6% appena degli occupati maschi24. Sebbene il part time non spieghi tutto lo scarto di ore in 24 Elaborazioni del sistema statistico della Regione Marche su dati Istat, anno 2009. DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 107 meno lavorate rispetto agli uomini, vi è in questo dato una netta indicazione dell’orientamento femminile a comprimere lo spazio lavorativo in favore dello svolgimento del lavoro di cura. La comprimibilità del lavoro risponde ad esigenze non solo di squilibri lavorativi, basati su una divisione sessuata del lavoro per il mercato e di cura, ma su quelli di un modello produttivo distrettuale e microimprenditoriale, improntato sull’originaria derivazione dalla famiglia patriarcale e contadina, dove la regolazione dei rapporti socioeconomici passa prevalentemente per relazioni informali. È questo modo di produzione ad aver trattenuto la forza lavoro femminile in quella componente di riserva, dunque con ridotte possibilità di riequilibrio e di espansione nel mercato, che continua a trarre reddito e vantaggio dal lavoro di cura gratuitamente assicurato dalle donne. Tale assetto è profondamente radicato, in continuità storica, al fondo delle identità femminili25 e maschili nel contesto regionale, ma non senza rischi di mismacht tra condizioni materiali e aspettative maturate dentro corsi di vita profondamente trasformati. Si tratta di rischi tutt’altro che remoti considerando le dinamiche fortemente segreganti per genere in una struttura occupazionale, quale quella marchigiana, in cui le donne, più che in altre regioni simili per struttura produttiva26, nonché rispetto alla media italiana, risultano più numerose nella qualifica operaia e scarsamente presenti tra quadri e dirigenti (David, 2010). III.5. La Provincia tra crisi e felicità Il contesto locale, la sua articolazione e il suo modello di sviluppo hanno una grande rilevanza nel determinare le caratteristiche della domanda e dell’offerta. In particolare, il contesto marchigiano entro cui si colloca l’area indagata della Provincia di Pesaro e Urbino, con la sua struttura distrettuale, di diffusione di piccole e piccolissime imprese, ha basato il suo sviluppo su questo modello socio-economico che ha assegnato un valore strategico 25 «La segregazione lavorativa della popolazione femminile, sia orizzontale (con la rigida divisione di mansioni «da donna» e mansioni «da uomo») che verticale (con l’attribuzione agli uomini dei compiti di controllo dell’organizzazione e del flusso produttivo, nonché della gestione del lavoro altrui), risulta essere un fenomeno fortemente radicato nella realtà produttiva della regione, con inevitabili effetti nel processo di costruzione dell’identità sociale femminile» (David, 2006, p. 63). 26 Le regioni con cui la David opera il raffronto sono, oltre le Marche, l’Emilia Romagna, la Toscana e il Veneto. Peraltro, una notazione interessante, che va ad avvalorare l’ipotesi di un nesso tra il modello dell’industrializzazione diffusa e la costruzione di marginalità strutturale della forza lavoro femminile, riguarda la bassa presenza di donne dirigenti quale elemento comune a tutte e quattro le regioni considerate (David, 2010). 108 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE alla famiglia da una parte, con la sua disponibilità di risorse, prime fra tutto lavorative a basso costo, e al lavoro dall’altra. Valore condiviso sulla base di un’etica del lavoro come sacrificio di tutti e tutte, trasversalmente alla stratificazione per classe, età e sesso. Pur nel quadro di tale etica condivisa, si sono altresì strutturate nel tempo significati e comportamenti lavorativi (attesi e richiesti) diversi per uomini e donne. Sono gli uomini che hanno saldamente e imperativamente mantenuto un legame più stabile e continuativo con il mercato del lavoro, senza eccezione dunque rispetto ad altri contesti regionali e nazionali, con un significato costitutivo del lavoro in termini di specificazione dell’identità di genere maschile. Si è affermato per gli uomini una sorta di dovere di lavorare, interpretando così pienamente il ruolo di breadwinner di eredità fordista, mentre per le donne possiamo parlare di un imperativo a contribuire (Paci, 1982). Di qui l’origine di un legame che nel tempo si è disegnato e protratto più fragile con il mercato del lavoro, anche se questo nulla dice rispetto alla sua rilevanza e intensità. Il dovere di contribuire non vincola la donna ad un percorso lavorativo, apre lo spazio per la formazione di un’identità di genere svincolata dallo status occupazionale e dunque da un continuativo riposizionamento sul mercato. Il lavoro per il mercato è un elemento accessorio e non costitutivo dell’identità femminile, mentre lo diviene il contributo. La vera differenza è l’autonomia economica che ne deriva, laddove alternativamente prevale il contributo retribuito per l’attività produttiva o quello, gratuito, per l’attività riproduttiva. La non stretta e necessaria relazione tra attività femminile e autonomia economica, dentro una logica espansiva di mercato, ha originato un sistema sessuato in cui le donne sono state relegate ai margini. Posta un’assunta disponibilità delle donne, questa è stata diretta di volta in volta verso le priorità della produzione e della riproduzione, nelle fasi altalenanti del ciclo di vita ed economico delle attività lavorative. Sebbene sia spesso difficile individuare il confine tra le due sfere dell’attività femminile, specie nella tipologia di impresa familiare che ha costituito uno dei pilastri del modello produttivo locale, le donne in questo contesto hanno di molto contribuito allo sviluppo sociale ed economico, ma faticosamente acquisito una visibilità del loro ruolo, che è stato piuttosto interpretato e derivato come la disponibilità di uno dei capitali di riserva. Le donne di territori con simili caratteristiche entrano ed escono dalla forza lavoro; spesso non vi entrano, ma comunque contribuiscono, attraverso forme di collaborazione familiare che mascherano prestazioni lavorative a basso o nullo costo, oppure più frequentemente entrano ed escono in funzione delle necessità del corso di vita. È così che uno sviluppo diffuso procurato attraverso la laboriosità e il successo economico delle Marche-distretto ha DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 109 posto in secondo piano la questione dell’occupazione femminile, della sua qualità e continuità: per molto tempo essa è stata assunta positivamente nel suo andamento quantitativo prescindendo da una relazione con la qualità della stessa. Le trasformazioni demografiche dovute al processo di invecchiamento della popolazione nella regione, è all’origine di una delle principali fonti di tensione del sistema produttivo locale. È la componente immigrata che fornisce una possibilità di sostenibilità del sistema: la giovane età degli immigrati compensa l’invecchiamento della popolazione (Della Zuanna, 2004) abbassando il rapporto tra lavoratori e pensionati; d’altra parte la presenza di forza lavoro straniera disponibile sostiene un sistema di welfare in cui la famiglia è il perno, mentre il pubblico mantiene un ruolo marginale con forti conseguenze di polarizzazione delle diseguaglianze all’interno della popolazione e di quella femminile, nonché di ostacolo ad uno sviluppo qualitativo dell’occupazione delle donne. È chiaro che la congiuntura presente fa avanzare diversi dubbi anche sulla forza del sistema locale a sostenere una crescita, anche meramente quantitativa, della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nel territorio provinciale di Pesaro-Urbino l’occupazione femminile è stata negli ultimi anni indirettamente promossa attraverso progetti mirati a favorire la conciliazione27. Progetti rivolti principalmente alle donne, i quali hanno ottenuto i loro migliori risultati sul piano dei servizi dell’infanzia piuttosto che nel rimodulare organizzazioni lavorative e orari di lavoro. Per una serie di ragioni, tra cui la difficoltà delle procedure burocratiche e la scarsa incentivazione economica, l’erogazione di voucher per le donne e il rafforzamento dei servizi per l’infanzia sono stati i risultati più evidenti. Il 27 Uno degli interventi a livello locale al riguardo è stato il progetto Conciliando, realizzato dalla Provincia di Pesaro-Urbino tra il giugno 2007 e l’aprile 2008 e finanziato dalla Regione Marche. Il progetto ha interessato l’ambito territoriale n. 1 ed è stato finalizzato a favorire: a) una migliore conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro di donne e uomini in particolare per le lavoratrici madri e i lavoratori padri dipendenti delle imprese locali; b) migliorare quantitativamente e qualitativamente l’offerta dei servizi pubblici e privati di supporto alla cura dei bambini e delle bambine; c) accompagnare il gruppo di imprese aderenti al progetto, operanti sul territorio e diversificate per settore e dimensioni, alla formalizzazione e sperimentazione di misure di articolazione della prestazione lavorativa dei propri dipendenti che abbiano finalità conciliative; d) coordinare e sperimentare nuove soluzioni di mobilità casa-lavoro-servizi. Il progetto non ha avuto seguito nella sua formulazione iniziale di azioni integrate mirate alla conciliazione, mentre è proseguito il sostegno alla conciliazione sotto forma di voucher alla conciliazione. Inizialmente l’intervento è stato mirato su un’area territoriale circoscritta, in seguito altre aree hanno fatto richiesta di coinvolgimento, inclusa l’area su cui è stata realizzata l’indagine Penelope cosa fa?. 110 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE punto è che una strategia siffatta non arriva al cuore del sistema. Non mette in discussione le radici della struttura che affondano profondamente in un modello non redistributivo rispetto ai sessi, ma che anzi è ancorato alla tradizionale separazione dei compiti. Anche se va rilevato che i contratti con le aziende del territorio in contrattazione decentrata che prevedono misure concilianti per lavoratori e lavoratrici sono nel frattempo aumentati, segno di uno spazio di azione su cui è possibile investire nel prossimo futuro affrontando proprio i nodi qualitativi del sistema produttivo locale. In generale, tuttavia, gli interventi a favore della conciliazione risultano piuttosto deboli dal punto di vista dei risultati e soprattutto lenti ad emergere positivamente. Il procedere per progetti non prefigura un agire strategico di lungo termine volto a mettere a sistema la conciliazione, la qual cosa appare di gran lunga distante dagli obiettivi istituzionali che continuano a collocare pari opportunità e lavoro in regimi separati. La conciliazione rientra più facilmente negli interventi a favore delle famiglie con scarsa considerazione del fatto che dal lavoro e in relazione ad esso scaturiscono le fonti primarie di difficoltà. Il rischio principale che emerge nel presente è quello di uno spiazzamento della conciliazione sull’occupazione. La crisi ha infatti rafforzato i meccanismi di attivazione delle risorse di un welfare forgiatosi sulla riproduzione della società industriale, con una posizione centrale maschile e periferica femminile. Dal punto di vista del territorio, l’intervenire per progetti è un agire frammentato entro cui proliferano differenziazione e frammentazione28. Nello scenario della riformulazione del benessere, le fratture fra cittadini e sistema sociale, mercato del lavoro locale e diseguaglianze per sesso, si misurano sulla divaricazione fra benessere e sviluppo che invece ha caratterizzato il contesto regionale, più di altre aree omogenee per specificità del modello produttivo, anche a scapito di una minore accumulazione di ricchezza ma con una qualità della vita percepita più elevata29 (Bordignon, 2004). 28 Non a caso il secondo bando per il progetto Conciliando ha visto una partecipazione maggiormente eterogenea sia dei richiedenti (Comuni) sia dei progetti. Se il primo progetto ha dunque attirato l’attenzione di altri soggetti istituzionali locali, questo ha significato una difficile composizione tra tessere non coincidenti di un puzzle territoriale non sempre componibile, caratterizzato, per di più, da fratture socio-territoriali di cui la conciliazione rischia di divenire una lente di ingrandimento. 29 Una recente classifica delle provincie italiane sulla base del Pil e comparativamente dell’indice di benessere, vede la provincia di Pesaro Urbino alla sesta posizione su 110 province, che scende a metà classifica per Pil (Provincia per provincia l’Italia del benessere, «Il Sole 24 ore», 21 settembre 2009). Questo, sebbene vada considerato un primo tentativo di mettere a fuoco un indicatore di benessere che superi il riduzionismo economico, è tuttavia una indiretta conferma di come il quadro locale si sia assestato diversamente dalla aree più simili del Centro Nord Est in cui negli ultimi anni si sono evidenziate tensioni derivanti da DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA 111 Molto significativa è la corrente riformulazione dell’agenda politica provinciale che rimette a fuoco un «benessere interno lordo» quale misura del raggiungimento della felicità nel territorio, in cui il lavoro mantiene la sua centralità accanto alla constatazione di essere giunti ad una fase critica. Tuttavia, nel Piano strategico per la Comunità felice30, recentemente messo a punto, non vengono mai menzionate le donne come soggetti su cui investire. L’omissione delle sperequazioni di genere fa sorgere il dubbio che una volta di più le questioni poste a tutto tondo non si discostino dall’assetto tradizionale, il quale permane come principale unità di misura31. Ignorare il genere significa continuare a far passare sotto silenzio quanto l’attuale sperequazione sia un costo pagato dalle donne, un tributo al raggiungimento di un livello di sviluppo locale che ha reso questa regione una delle più dinamiche del paese. È stato proprio il lavoro il fattore di riscatto, a cui donne e uomini hanno, in un sistema di divisione del lavoro, contribuito, pur con differente riconoscimento di status. Mentre il metal mezzadro è divenuto la figura simbolo del sistema produttivo radicatosi sino ad oggi, le figure femminili prevalenti sono state «la lavorante a domicilio/artigiana e la contadina/coadiuvante», figure emblematiche, hanno sostenuto uno sviluppo locale fondato su «un’industrializzazione cresciuta tra i campi [e] tra le mura domestiche» (Pristinger, 1985, p. 96). Oggi le donne rischiano di perdere terreno, di rimanere tra le mura domestiche in una sostanziale infelicità derivante da un percorso di grande cambiamento che non trova riscontro né collocazione nelle strategie locali di un benessere redistribuito. La mancanza di visibilità del ruolo di lavoratrici, al pari di quello di lavoratori, si presenta rinnovato in un’argomentazione lavorativa a prescindere dal genere: un implicito assunto di neutralità rispetto una crescita rapida di sviluppo economico a scapito di un deterioramento del territorio e di una insoddisfazione crescente per la qualità della vita. 30 Il documento è stato curato dalla Presidenza della Provincia di Pesaro-Urbino ed è consultabile al sito istituzionale www.provincia.pesarourbino.it. Al piano strategico si accompagna un accordo stipulato con l’Istat per la messa a punto di nuovi indicatori di benessere, di cui la felicità rappresenterebbe una delle dimensioni. Secondo tale accordo la Provincia di Pesaro si presta per un progetto pilota al raggiungimento di tale scopo. 31 Dal 27 maggio al 4 giugno del 2011 la Provincia di Pesaro-Urbino ha promosso la prima edizione del Festival della Felicità (www.festivaldellafelicita.it) che ha coinvolto in varie iniziative culturali l’intero territorio. Nonostante il sottotitolo recitasse la felicità in tutti i sensi, le donne sono state contemplate come presenza tra i relatori e le relatrici, ma non nell’agenda di programma con temi e incontri dedicati. Il Festival si inserisce all’interno di una più ampia progettazione le cui linee guida sono messe a punto nel Piano Strategico per una comunità più felice di cui si è fatto promotore in particolare l’attuale Presidente della Provincia di Pesaro-Urbino. 112 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE e intorno alle caratteristiche fondanti una delle principali fonti di squilibrio del sistema. Sembra dunque che vi sia una continuità di approccio e indirizzo politico tra il livello nazionale e locale nel non individuare l’egualitarismo, la parità di opportunità come obiettivo politico, su cui riformulare le strategie, le azioni, ecc. Ad essere focalizzata invece, da quanto emerge, è la felicità della “comunità” ideale provinciale, ma non un medesimo grado di benessere declinato in senso egualitario. Il lavoro, ancora una volta, è tacitamente assunto quale sinonimo di lavoro maschile: è a partire da esso che se ne radica la visione anche in prospettiva futura. Capitolo quarto SENZA FIGLI... IV.1. Introduzione In questo capitolo si analizzano i risultati delle interviste alle donne senza figli (v. capitolo terzo). In particolare, le analisi qui a seguire, si basano sulle interviste di gruppo condotte in altrettanti comuni1 del territorio indagato. Lo scopo di questo supplemento di ricerca, inizialmente non previsto dalla committenza, è di esplorare e sottoporre alla verifica dei fatti, una delle principali ipotesi guida formulate, secondo cui la maternità e con essa in particolare la condizione di madre, rappresentano di per sé un discrimine significativo relativamente alle opportunità reali di partecipazione sociale e lavorativa. Si distinguono queste due dimensioni a partire dalla constatazione di una duplice debole rappresentanza delle donne, sia nell’ambito del mercato del lavoro, sia pure in quello sociale politico-culturale. Del resto, è proprio dalla presa d’atto di tale situazione che dal territorio è emersa la volontà di promuovere un’indagine che ne approfondisse ragioni e condizioni. L’analisi dei risultati si sviluppa principalmente in due diverse aree emerse come significative: la prima relativa ai dati personali delle intervistate e alla loro partecipazione lavorativa, presente, passata ed attesa. La seconda area è volta ad indagare il rapporto con il territorio, il modo in cui è vissuto 1 Nel corso delle tre interviste di gruppo sono stati sottoposti alle intervistate altri due strumenti di indagine. Il primo è una scheda di rilevazione contenente, oltre alle richieste di informazione circa i dati personali (residenza, età, titolo di studio, occupazione), alcune delle domande del questionario più ampio sottoposto alle intervistate con figli, in modo da tenere la comparabilità su alcuni aspetti tra cui la pagella del territorio. Inoltre, l’intervista prendeva le mosse dalla richiesta rivolta alle intervistate di disegnare su un foglio bianco la mappa della loro giornata tipo indicando gli orari, gli spostamenti e i mezzi utilizzati. Questo ha permesso di raccogliere molte informazioni anche delle rappresentazioni diverse circa il quotidiano, l’organizzazione del tempo e il modo in cui il territorio viene vissuto. 114 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE e le opinioni delle intervistate intorno alla qualità di vita offerta e percepita nella realtà locale. IV.2. Biografie e lavoro Le donne intervistate hanno una età media di 31 anni, in un range tra i 22 e i 40 anni. Per la maggior parte sono nubili e vivono con la famiglia di origine, mentre in 7 su 26 convivono con il partner, solo 2 sono coniugate. Vi è quindi tra le intervistate una varietà di condizioni che rispecchia pienamente i mutamenti sociali più ampi a cui il territorio è tutt’altro che estraneo. Si tratta di donne che hanno, nella più parte, conseguito un titolo di studio medio-alto; solo in due casi il titolo posseduto corrisponde a quello di licenza media inferiore, mentre per il resto 12 sono diplomate e 11 laureate. I loro partner, per quelle che sono in coppia, perlopiù sono diplomati, uno laureato e due hanno un titolo di studio post-laurea. All’interno delle coppie, le rispondenti hanno un titolo di studio in tre casi superiore a quello del rispettivo partner e, nei restanti, di pari grado. Passando alla condizione occupazionale rilevata, quasi tutte le intervistate sono risultate occupate, ad eccezione di tre. Di queste, due sono disoccupate e una pensionata per ragioni legate ad una invalidità fisica. Prevale la condizione occupazionale di dipendente, ad eccezione di una lavoratrice autonoma, mentre in sette casi le intervistate si sono collocate alla voce «altra condizione lavorativa», specificando di essere al contempo studentesse e lavoratrici. Si tratta delle più giovani che frequentano corsi di studi universitari mentre svolgono attività lavorative varie. Quanto alla congruenza tra titolo di studio e occupazione lavorativa non si rilevano particolari differenze tra diplomate e laureate. Prevalgono occupazioni che risultano solo in parte in continuità con gli studi compiuti, in modo particolare per le laureate. Tra le diplomate si distinguono tre intervistate la cui attività lavorativa risulta congruente con il titolo di studio conseguito. Aspetto questo che verrà approfondito più avanti. Dalle testimonianze delle intervistate emerge uno scarto tra il lavoro svolto e il lavoro idealmente atteso. Mentre sono accomunate dal riconoscere al lavoro un ruolo centrale nel personale percorso esistenziale, l’esperienza lavorativa è più spesso la risultante di un compromesso raggiunto mediando tra quanto sperato ed atteso e le reali opportunità offerte dal contesto. Il mercato del lavoro locale è percepito in particolare per una limitatezza delle opportunità lavorative, specie per la forza lavoro femminile. Constatazione che non si accompagna ad un desiderio di progettare la propria vita altrove. SENZA FIGLI... 115 Il lavoro seppure ridimensionato nei fatti, rimane un’aspirazione e un’esperienza imprescindibile ed è collocato nel territorio anche idealmente. La socializzazione al lavoro per la maggior parte corrisponde ad un percorso relativamente (all’età) lungo. In numerosi casi l’occupazione presente è solo una parte, la tappa più recente, mentre la storia lavorativa delle intervistate riferisce di esperienze precedenti, svolte e conclusesi. Considerando l’insieme delle intervistate, si nota una varietà di esperienze lavorative che tendono a diversificarsi anche dal punto di vista del contratto e del grado di stabilità che ad esso si accompagna. Prevale indubitabilmente (15 casi) il lavoro regolato attraverso un contratto a tempo indeterminato; daltronde appare significativa la rappresentatività di altre tipologie all’interno di questo gruppo indagato. La frammentarietà delle forme di lavoro, come si è visto dalla precedente analisi del contesto, è un fenomeno che, più recentemente rispetto ad altre realtà geografiche, tende ad espandersi con rapidità nella regione e localmente. Un mutamento che non sfugge all’attenzione delle intervistate, le quali ne incorporano le caratteristiche nella percezione delle concrete opportunità occupazionali. Sia dal punto di vista delle caratteristiche personali, sia da quello della condizione lavorativa, emerge uno spaccato altamente eterogeneo, di un microcosmo sociale che ha in sé tutti i segni del mutamento, così come della specificità del contesto di appartenenza. Per lo più sono nell’attuale posizione lavorativa da poco tempo; questo in parte dovuto all’età delle più giovani ma anche per il fatto, come diverse intervistate dichiarano, di aver cambiato lavoro ed essere giunte all’attuale solo di recente. La permanenza delle donne sul mercato del lavoro, anche a fronte delle denunciate crescenti difficoltà, si fonda sull’importanza riconosciuta all’avere un lavoro. L’autonomia e l’autorealizzazione attraverso il lavoro sono aspetti che trovano particolare enfasi nelle loro parole, più della sua strumentalità, il lavoro è sì un mezzo di sussistenza ma è soprattutto il mezzo di acquisizione d’indipendenza. Le più istruite associano al lavoro aspirazioni di maggiore elevazione che, come già detto, incontrano il principale limite nelle opportunità sul territorio. Come si può rilevare dalla tabella seguente che riporta la distribuzione delle risposte delle intervistate, l’importanza dell’avere un lavoro risiede principalmente nel valore, ampiamente condiviso, dell’essere autonome e indipendenti. L’indipendenza è un valore a cui tendere, come sottolineano le parole di alcune intervistate: «... sono sempre stata una persona indipendente.... se non hai il lavoro non puoi avere la tua indipendenza» (F2)2. L’indipendenza economica mantiene tutta la sua 2 Di qui in poi i brani delle interviste verranno riportati con i seguenti riferimenti: M1 per il gruppo di Mondavio, F2 per quello di Fossombrone, S3 per Saltara. 116 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE rilevanza anche dentro una relazione affettiva e di coppia per poter decidere autonomamente e non dipendere dal reddito altrui: «il lavoro è fondamentale, ti senti non realizzata tanto perché chissà cosa puoi fare, ma un po’ di indipendenza ce l’hai, anche perché non tutti trovano il marito così dolce, accondiscendente, perché poi conosco anche quello che fa pesare... di passare di mantenerle se la donna non ha un lavoro» (F2). A conferma di quanto detto si possono leggere i dati contenuti nelle tabelle seguenti. In questo caso è stato chiesto alle intervistate di indicare il grado di importanza di alcuni ambiti vitali (Tabb. IV.1 e IV.2). I risultati mostrano che al primo posto, per grado di importanza, c’è il lavoro, segue il tempo libero da dedicare a se stesse e subito dopo rispettivamente avere dei figli e avere un compagno o un marito. Rilevato che tutte le istanze intorno a cui le intervistate sono state chiamate ad esprimere il loro giudizio, sono riconosciute come importanti, è evidente che le stesse hanno chiaramente stabilito delle priorità intorno a cui costruire il loro percorso vita-lavoro. Di fronte all’esplicita richiesta di indicare delle priorità tra lavoro, figli, marito, il tempo per sé, è emersa una difficoltà a stabilire una “graduatoria” stabile nel tempo, valida nelle diverse fasi della vita; il lavoro non viene escluso, rappresentando così una costante della personale progettazione esistenziale: – «Tutto. – Non si può scegliere. – Per me il lavoro, sono sempre stata una persona indipendente.... se non hai il lavoro non puoi avere la tua indipendenza. – Penso il lavoro, se non ho il lavoro non posso vivere, se non ho il marito posso vivere lo stesso. – Penso il lavoro. – Il lavoro serve però anche avere una persona a fianco, aiuta, per trascorrere il tempo insieme sennò sempre lavoro, lavoro, lavoro» (F2). Tabella IV.1 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado di importanza per lei*: Valore medio Avere Avere Avere Avere un lavoro tempo libero (per sé) dei figli un compagno/marito 1,07 1,2 1,4 1,5 * Valore medio calcolato su un punteggio da 1 = molto importante a 4 = per niente importante. 117 SENZA FIGLI... Tabella IV.2 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado di importanza per lei* Avere un lavoro Molto importante Abbastanza importante Poco importante Per niente importante 24 2 0 0 Avere un compagno/marito 16 7 2 1 Avere dei figli 15 11 0 0 Avere tempo libero (per sé) 20 6 0 0 * Valori assoluti La priorità del lavoro risiede proprio nell’accesso a gradi di autonomia che non mettano in discussione il diritto all’autodeterminazione, anche nella vita di coppia. Accanto all’autonomia e all’indipendenza, di cui il lavoro rappresenta il principale mezzo di accesso, vi è un’altrettanto importante motivazione espressiva, che riguarda piuttosto la ricerca di senso, manifestata attraverso la definizione del bisogno di sentirsi utili, identificandosi nell’attività che si svolge e riconoscendo il significato di ciò che si fa: «per me il lavoro è anche importante per sentirmi utile, nel senso che quello che faccio aiuta me, sia quelli con cui lavoro, sia la persona con cui mi relaziono» (F2). L’importanza che la propria attività abbia un senso è sottolineata in varia misura e a più riprese dalle intervistate; idealmente tenderebbero a coniugare le motivazioni espressive con una soddisfacente condizione economica, ma la realtà non porta quasi mai ad un bilancio positivo in tal senso: «[...] anche perché tu vai a letto e dici oggi ho fatto questo e quello. Lei ce l’ha questo lavoro però l’aspetto retributivo […] c’è insomma sempre qualcosa che non torna» (F2). La ricerca di un lavoro soddisfacente, dal punto di vista esistenziale, rimane una priorità per le intervistate la cui insoddisfazione deriva piuttosto dal non riuscire a tenere insieme un’esperienza lavorativa significativa con una fonte di reddito adeguata: «si, io ho anche pensato di cambiare lavoro, anzi ce l’avevo, era già lì, poi mi sono fermata, perché mi sono detta adesso mi alzo per andare ad aiutare loro, dopo mi alzo per andare a dare la cremina, perché era commessa in profumeria, alla signora. Per due o tre giorni ho pianto disperatamente perché non sapevo cosa fare, però sono rimasta qua, nonostante lo stipendio di partenza là era molto più alto» (F2). 118 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE È proprio nel raffronto tra aspettative ed esperienza che emergono le principali criticità del rapporto con il lavoro. Il legame concreto che si stabilisce con esso porta le intervistate ad operare continui bilanci tra la situazione presente e quella ideale. Un ulteriore fattore di criticità è dato dal grado di stabilità/instabilità della posizione lavorativa e, con essa, della certezza vs. incertezza di una fonte di reddito. Una condizione tutt’altro che estranea alle intervistate. Diverse sono le storie lavorative caratterizzate da lunghi anni di precariato e redditi bassi, per cui all’incertezza si unisce una difficoltà a raggiungere l’indipendenza, nonché a progettare un futuro, oltre che a godere senza preoccupazione dei frutti del lavoro: «io sono otto anni che sono a tempo determinato, da quest’anno con la stabilizzazione che sono un po’.. però quando cominci a stare tutti gli anni co’ sta spada di Damocle, la voglia del parrucchiere, del cinema, te passa. Cominci a dì io c’ho 32 anni, vorrei fa ’na famiglia e vorrei anche mette i soldi da parte per fa ’na cosa, per costruirmi il futuro» (F2). Commenta al riguardo un’altra intervistata: «Fai dei ragionamenti diversi quando t’arriva tutti i mesi lo stipendio» (F2). Le testimonianze delle intervistate rimandano ad un intreccio di fattori che le porta costantemente a mediare per la costruzione di un’identità che appare persino contraddittoria. Se il lavoro infatti è una dimensione imprescindibile di consolidamento dell’identità personale e sociale, in ciò non si ravvisano istanze emancipatorie, per cui neppure si trovano d’accordo con una visione del lavoro che strumentalmente supporta le donne nell’«avere più voce in capitolo». Allo stesso tempo esprimono un concorde disaccordo verso un orientamento per cui «potendo scegliere è meglio rimanere a casa». Tabella IV.3 - Grado di accordo con alcune affermazioni associate al lavoro Il lavoro dà l’autonomia Il lavoro è importante per sentirsi utile Il lavoro è importante per la realizzazione personale Una donna che lavora ha più voce in capitolo Lavorare è più importante per gli uomini che per le donne Quando ci sono i figli è meglio che la madre non lavori Potendo scegliere è meglio stare a casa Molto Abbastanza Poco Per niente 23 11 2 14 1 1 0 0 15 11 0 0 2 9 3 11 1 1 10 14 1 4 15 6 1 4 11 10 SENZA FIGLI... 119 Stare a casa per la maggior parte di loro non è neppure messo in conto, piuttosto adattano le loro aspirazioni lavorative alle opportunità sul territorio. È l’effetto già precedentemente descritto, di una socializzazione al femminile che per le giovani generazioni ricomprende il lavoro e l’aspettativa dello stesso come meta del percorso di vita. La parità con gli uomini non è in gioco, né problematizzata, ma semplicemente assunta. Il lavoro e la famiglia sono tenute insieme in qualità di mete a cui tendere. Una definizione di ruoli apparentemente non fondata sul valore dell’eguaglianza, si coniuga con una domanda di flessibilità che incontra le giovani generazioni di donne (l’offerta) con aspettative differenti, di continuità lavorativa e di carriera. È a tali aspettative che rispondono con strategie di azione dai caratteri ambivalenti. Lavorare equivale per le donne ad avere un progetto di vita “non a scadenza”. Le loro strategie prevedono istanze considerate di segno contrario (lavoro e famiglia) costituenti però un’opposizione non dialettica che, in quanto tale, non consente una scelta “definitiva”. Scegliendo in maggioranza il modello dell’ambivalenza, anche queste intervistate non pongono in opposizione la scelta della famiglia e del lavoro già nel momento in cui gettano le basi del loro futuro, consapevoli delle difficoltà a cui vanno incontro. È interessante come questa mancanza di problematicità, associata alla partecipazione delle donne al mondo del lavoro, emerga anch’essa nei colloqui con le intervistate. Le problematicità sono declinate al singolare, non elaborate quale condizione generalizzata delle donne, esse emergono solo approfondendo la discussione e risalendo all’esperienza personale di ciascuna. Le diseguaglianze emergono nel momento in cui si scende nel dettaglio della personale situazione lavorativa, rispetto a cui fioriscono racconti di disparità di trattamento, di opportunità di lavoro e di retribuzione come di carriera. Quando le intervistate si addentrano nella descrizione del tipo di opportunità di lavoro che le donne e gli uomini del territorio hanno, il ritratto del contesto, della distribuzione delle risorse, diventa meno uniforme ed emergono le differenze quanto le diseguaglianze. La prima differenza rilevante è individuata in senso diacronico, come mutazione intergenerazionale delle donne. Il richiamo alle generazioni precedenti evoca l’immagine del lavoro faticoso, svolto prevalentemente in fabbrica, a differenza delle più giovani, orientate verso lavori migliori e meglio retribuiti: «ora si mira ad avere un lavoro ben pagato e che si fatichi poco, una volta le donne andavano nelle fabbriche, ma oggi... non ci sono neanche più le fabbriche nella nostra zona, ...si ci sono... ma non è che danno tutte queste opportunità» (M1). 120 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Le intervistate si sentono diverse dalle loro madri, affermano personalmente un diritto acquisito a stare sul mercato del lavoro ed egualmente a godere della propria autonomia. Le loro madri, pur lavorando, hanno avuto minori chances di determinare il proprio percorso, di ampliare gli ambiti di relazione sociale al di fuori della sfera lavorativa e soprattutto familiare. Queste le opinioni delle intervistate. Il confronto con le madri non è basato su una discontinuità del modello femminile, specie per quanto concerne il ruolo all’interno della famiglia, ma ancora una volta sul grado di autonomia che sentono di avere personalmente acquisito in misura più elevata. Gli elementi che minacciano tale condizione sono ravvisabili nel contesto esterno, sia esso il mondo del lavoro, considerato così come è, sia il contesto storico, che di fatto pone le donne in una particolare difficoltà nella ricerca di un lavoro adeguato. Dunque se in passato le opportunità erano quantitativamente maggiori anche per le donne, oggi il cambiamento sta nella ricerca di un lavoro dalle caratteristiche qualitativamente migliori o percepite tali. Un’attesa che le stesse intervistate sentono difficilmente realizzabile specialmente a causa della congiuntura negativa che colpisce il mondo economico e del lavoro anche a livello locale «13-14 anni fa era diverso!!» (F2). La contrazione delle opportunità è nettamente percepita ed esternata nel corso delle interviste; ad essa si riconduce un cambiamento profondo nel sistema locale, le cui conseguenze sono giudicate pesantemente penalizzanti, in particolare per le donne. L’andamento negativo del mercato è per le intervistate il principale fattore condizionante i loro percorsi, rispetto a cui meno diretta è la relazione con altri tipi di ostacoli, specie con quelli che hanno a che fare con radicamenti pregiudiziali contro le donne, debolmente messi a fuoco. Solo marginalmente vengono chiamati in causa in diretta relazione con un accesso paritario e in forma stabile al sistema occupazionale. Questo non significa che le intervistate non ne riconoscano l’esistenza, ma semplicemente non vi attribuiscono rilevanza, né stabiliscono un nesso di necessità con le forme segreganti nel mercato del lavoro e tanto meno con il tipo di opportunità che di fatto si aprono o chiudono alle donne. L’orientamento largamente prevalente tra le intervistate è quello di un’adesione ad un ruolo femminile cui si ascrive, in maniera pressoché esclusiva, la responsabilità di radicare la propria vita al confine tra lavoro e famiglia, subordinando per di più, anche preventivamente, le scelte lavorative. In primo luogo sentono di essere non madri al momento, ma potenzialmente tali, in una visione della maternità che per essere assunta appieno avrebbe bisogno di alleggerire il peso del lavoro. La sfera privata è preponderante e tutto ad essa è ricondotto in una lettura individualista della realtà che non SENZA FIGLI... 121 contempla una relazione più ampia con un sistema di genere escludente. La stessa maternità è attesa come un costo da pagare personalmente, proprio in virtù della scelta compiuta. Insomma, è un affare da donne! Perciò accettano, più che contrastare o criticare, l’atteggiamento discriminante, che ritengono diffuso tra i datori di lavoro, di preferire assunzioni maschili a quelle femminili. Sanno per esperienza personale, per domande dirette sulla loro vita privata rivolte durante colloqui di lavoro, per racconti riferiti da altre donne, che essere percepite come madri significa divenire un costo da pagare per un’ascritta limitata disponibilità che verrà: «comunque ho un’amica che sta cercando lavoro e dicono ah le donne non le vogliamo, c’è ancora questo luogo comune perché dicono che poi si sposano, ci sono figli....» (M1). Se le intervistate sottolineano come questo sia solo parzialmente coerente con la realtà, tuttavia non ne prendono totalmente le distanze, appoggiandosi piuttosto ad un sistema sociale che sostiene una divisione sessuata dei ruoli, tradizionalmente tracciabile attraverso il confine tra pubblico e privato, di cui esse stesse sono parte integrante e a cui si conformano. Il rapporto di lavoro contrappone donne la cui aspettativa è quella di rimodulare la loro vita intorno alla maternità, eventuale e futura, a datori di lavoro che accettano o meno di investire su di loro. La difesa dei rispettivi interessi è lecita dal punto di vista delle intervistate, ragion per cui non si giunge a collocare in una cornice dialettica o di rivendicazione il ruolo delle donne e a declinare la maternità come svantaggio competitivo relativo. Semplicemente la realtà lavorativa con cui si confrontano, locale in particolare, è percepita come intrinsecamente poco accogliente verso le donne. Infatti, l’assetto produttivo del territorio è a più riprese descritto strutturalmente in contrasto con le stesse e dalla debole capacità di includerle. I settori produttivi definiti «specifici» delle donne, sono quelli legati a mansioni che riproducono le attività domestiche, anche se svolte in fabbrica, mentre sul territorio prevalgono attività «maschili»: «io lavoro qua nei dintorni e ne vedo tantissime, allora per il lavoro le donne proprio non le vogliono, le operaie stanno diminuendo tantissime, a parte quelle cucitrici, quelle cose proprio specifiche.. oppure ah ecco stireria, a parte queste cose qua il part time non lo vogliono dare; il part time proprio raramente, tendono a non assumere le donne almeno che non ci sia una legge che se ne possono avvantaggiare» (M1). Secondo le intervistate più facilmente disponibili per le donne sono i lavori impiegatizi, di badante e come «cameriera, quello a volontà» (S3). Si tratta per la più parte della constatazione di una situazione di fatto. La visione pregiudiziale nei confronti delle donne, reale e/o percepita, non è messa in discussione dalle intervistate, che comunque condividono una visione dei 122 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE ruoli maschili e femminili di tipo tradizionale. Il fatto che vi siano, a detta delle stesse, più opportunità del lavoro per gli uomini che per le donne, è dato in qualche modo per scontato. Le intervistate hanno acquisito implicitamente tale cognizione, nell’esperienza, nel vivere il territorio, che per la quasi totalità è il luogo di residenza da sempre. È nel farsi delle interviste che emerge l’esistenza di una richiesta diversificata di lavori e lavoratori/lavoratrici. Gli annunci di ricerca di personale che appaiono sui giornali locali, in particolare nei centri Informagiovani, sono giudicati indirizzati solo agli uomini, in quanto principalmente riguardanti settori quali la meccanica. A parere delle intervistate, sono le donne a recarsi più frequentemente presso i centri di informazione, sono loro i soggetti ritenuti più difficilmente orientabili. Ciò sia per una debole domanda locale di lavoro femminile, sia per una difficoltà dichiarata nell’orientare la ricerca delle donne, la cui offerta di lavoro comunque si presenta sul mercato con un grave comparativamente più elevato di vincoli: «a livello lavorativo non è che qua si può chiedere all’amministrazione..., molte fabbriche come lei diceva prima... prima le donne erano impegnate molto qua nelle fabbriche ora stanno chiudendo. Io per esempio a Lucrezia vedo che stanno costruendo tante fabbriche; da noi quelle che ci sono impiegano più gli uomini, molte metalmeccaniche, tutto il settore del legno, a parte le lavanderie industriali, un paio di stirerie, confezioni» (F2). «Lavorando in questo campo3 vedo che di offerte per le donne ce ne sono davvero poche, ogni volta che c’è un’offerta è sempre per uomini.. a livello di operaio, di impiegato però è sempre per uomini, sempre e comunque rivolti a uomini. Infatti, tutte le schede di quelli che vengono qui, le ragazze sono la stragrande maggioranza mentre i maschi sono pochi.. le ragazze poi cercano lavori di badante... lavori che insomma sono poi anche difficili da trovare, semmai per passaparola... devi cercare di consigliare con la casa, la famiglia; – eh esatto anche part time, che non prenda tutto il tempo; – ah il part time non te lo da nessuno; – ..infatti... neanche per gli uomini; – gli uomini non hanno il problema della famiglia, dei figli» (S3). I vincoli sono dunque sia quelli che pone il territorio, in una rigida divisione sessuata della domanda di lavoro, sia quelli derivanti da un assetto relazionale che colloca le donne come responsabili monopolistiche del lavoro di cura, soprattutto verso i figli. Un assetto in cui, peraltro, le donne si riconoscono, da cui non prendono né le distanze, né mostrano insofferenza, semplicemente lo assumono come diseguale nei comportamenti quanto 3 A parlare è un’operatrice del Centro Informagiovani. SENZA FIGLI... 123 nelle aspettative. La diseguaglianza è un dato di conoscenza e aspettativa insieme. Purtuttavia nello svolgersi dell’intervista e nello scambio reciproco di opinioni, emergono descrizioni di condizioni lavorative diseguali nel lavoro, cui si associano interpretazioni diverse, come lo sono i punti di vista espressi. Il mercato del lavoro locale, complessivamente, è descritto come iniquo e non propriamente dinamico. Quanto all’iniquità essa è messa in relazione con la condizione originaria delle donne, del loro essere care giver, in un contesto lavorativo in cui le opportunità di lavoro, soprattutto stabile e qualificato, si vanno rarefacendo. Si tratta di un aspetto molto rilevante, poiché il lavoro è una risorsa cercata ed offerta sul territorio. I legami fiduciari, l’essere sul territorio sono preminenti. La mediazione tra chi cerca e offre lavoro, secondo i racconti delle intervistate, è regolata primariamente attraverso canali informali: conoscere ed essere conosciute è ciò che favorisce l’occasione più spesso menzionata nel trovare il lavoro attuale: «io l’ho trovato perché un’amica mi ha detto da me cercano ho fatto un colloquio» (M1); «a me mi ha contattato direttamente la titolare del negozio che conoscevo» (F2); «a me cercavano delle persone mi hanno contattato perché conoscevo un’altra ragazza» (S3). La dimensione territoriale ha una ricaduta rilevante sul percorso esistenziale e lavorativo, specie in termini di scarto tra percorso di studi, aspirazioni lavorative e concrete opportunità. Le parole delle intervistate rivelano disillusione rispetto alla possibilità di un lavoro che sia congruente con le aspettative maturate anche attraverso il percorso di istruzione compiuto o che per alcune si deve ancora concludere: «si, perché appena uscita dalla scuola ho trovato, vicino casa, solo che non è quello per cui ho studiato, io faccio la commessa e invece sono diplomata in ragioneria, faccio tutto tranne che la ragioniera» (M1). Il titolo di studio maggiormente spendibile sul territorio è ritenuto essere il diploma in ragioneria, l’unico in grado di garantire un’occupazione nel breve tempo dall’uscita dal percorso di studi, proprio per la specificità del tessuto produttivo locale: «qui è pieno di ditte un lavoro lo troviamo tutti...»; «..io ho trovato subito, mia sorella ha trovato subito, da noi non c’è nessuno che non ha trovato, è una rarità nel settore mio» (S3), asserisce una delle intervistate alludendo al suo diploma in ragioneria. Diversamente, passando a gradi di istruzione superiore aumentano le difficoltà: «la laurea non serve a niente» dichiara seccamente una delle intervistate, mentre un’altra riferisce: 124 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE «Io mi mantenevo agli studi lavorando nelle scuole con una cooperativa, poi va beh mi so laureata e adesso non faccio quello che vorrei fare, come tanti di noi, poi continuo a formarmi però serve a poco... se ci si dà da fare qualcosina a progetto.... Adesso ci sono anche questi progetti di ricerca a cui ho partecipato, ho cominciato. Poi sono stata assunta da questa agenzia, poi sono entrata in maternità4 e quindi... ho fatto poco, comunque ho trovato in internet, ho visto un annuncio cercavano stagista scopo assunzione, ho fatto il colloquio e sono stata assunta, però certo ho cambiato settore, tutta un’altra cosa, l’ho fatto solo per fare non un part time ma un tempo pieno, per avere più soldi, perché con la cooperativa sono 600 euro al mese quindi non potevo continuare così» (S3). Le intervistate che lavorano raccontano di una discriminazione come prassi nei luoghi di lavoro, parte del quotidiano; riferiscono di trattamenti differenziati per donne e uomini rispetto agli sviluppi di carriera e all’attribuzione di incarichi, ma anche di differenziali salariali evidenti, per cui a parità di mansione (e non necessariamente di competenza, a detta delle intervistate) si associano redditi diversi, secondo che si tratti di lavoratrici o di lavoratori. Non emerge una rielaborazione dei problemi enunciati in termini di conflittualità e di necessità di superamento, ma anzi è soprattutto l’impotenza a venire in primo piano ed anche una certa difficoltà a mettere a fuoco tali aspetti come critici od ostacolanti, piuttosto che come prassi. Come già accennato, il momento attuale è percepito acuto e critico. Le piccole e medie imprese presenti nel territorio rappresentano un’opportunità sempre più ristretta, misurata sulla crescente difficoltà di cambiare lavoro. Nella tendenza di crisi le aziende sono descritte sempre più nettamente orientate agli uomini. In generale la situazione per le donne è divenuta più difficile anche per il diffondersi del lavoro precario e perché il lavoro part time è sempre meno disponibile, così come meno opzionabile è la scelta di fronte al lavoro e al tipo di lavoro. Una delle intervistate racconta, per esempio, della sua situazione attuale in cui si trova a svolgere un lavoro part time che era inizialmente full time, non per sua scelta, ma per effetto di «un peggioramento» delle condizioni di lavoro, cosa che porta la stessa a definire questo come: «un part time finto, perché poi quando c’è più da fare si va prima, si comincia prima, non stai a guardare gli orari; è una cosa che ho trovato peggiorata nel tempo, quindi prima ero full time e poi ci hanno proposto il part time e ci hanno detto se volete accettare è così… a me e tutte le mie colleghe.. tutte donne siamo in cinque più un’apprendista. Nel momento in cui abbiamo finito l’apprendistato ci hanno detto se volete accettare il part time sennò andate via» (M3). 4 L’intervistata è in stato di gravidanza al momento dell’intervista. SENZA FIGLI... 125 Mentre un’altra delle intervistate osserva che «se magari c’era un omo era a tempo pieno», la prima ribadisce «mah no, penso di no, uomo o donna chiunque sia stata penso che è così» (M3). Prevale la convinzione che sia il sistema a designare le condizioni del lavoro, a prescindere dalle specificità dei soggetti e soprattutto a prescindere dalle specificità di genere. Le disparità in termini di accesso e partecipazione al mercato del lavoro sono un dato di fatto piuttosto che di ostacolo, parte dell’ordine delle cose. A prevalere è invece l’insieme delle difficoltà derivanti da una situazione che al presente va, per effetto di una modificazione della struttura occupazionale locale, divenendo via via più restrittiva per le donne. Le cause individuate sono quelle della crisi economica globale, i cui effetti locali sono sintetizzati dal fatto che ora «ci sono più opportunità per gli uomini». Prevale una sorta di determinismo economico per cui sono le congiunture a stabilire le priorità di volta in volta, così come sono le esigenze di mercato che rendono stringenti le condizioni di partecipazione, è a partire da esse che si opera una lettura della realtà in cui le specificità soggettive esprimono l’unica opzione possibile di adeguarsi o non. A fronte di ciò, il lavoro è un valore solido e profondamente radicato. L’importanza attribuita al lavoro è un saldo punto di riferimento, a prescindere dall’analisi delle condizioni in cui si esplica. Le intervistate ben rappresentano una generazione di donne che ha interiorizzato il lavoro al punto da farne oggetto di aspettativa diffusa e non elitaria. A tal proposito così eloquenti sono le seguenti affermazioni: «io ho sempre pensato che fosse importante avere il lavoro che ti piace e tutti mi dicevano: «No basta che hai il lavoro, capirai, basta che ti pagano bene». Io non credo, nel senso che, io non so, io sceglierei un lavoro che mi piace, di responsabilità, per come sono fatta io, e ovviamente di responsabilità presuppone un certo stipendio, ovviamente, no? Dopo ci sono dei momenti, lavorando dico no, forse è meglio di no, perché non se ne può più, però io personalmente sceglierei quello e cercherei di gestire tutto il resto in funzione di quello perché credo sia importante. Sono un po’ in conflitto, comunque sia credo che anche la famiglia, i figli e tutto sia importante, però credo che cioè se hai un compagno che riesce a, insomma a fare le cose insieme, si può fare tutto. Io ho visto mia madre, ha sempre lavorato, mio padre non ha mai fatto niente dentro casa» (M1). L’aspettativa di lavoro coincide con l’attesa di una parità concepita come acquisita. Anche questo appare come tratto di appartenenza generazionale. La parità non è una criticità ma una questione di giustizia misurata sugli stili di vita consolidati delle donne loro contemporanee, indubitabilmente affermati nel vivere quotidiano collettivo: «é giusto che la donna lavori, abbiamo la parità, che la donna lavori che la donna non sia discriminata» (F2). Il lavoro 126 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE è importante ma non in assoluto. I percorsi occupazionali sono pensati dalle intervistate come progressivamente (e quasi necessariamente) modificabili nel corso di vita. Anzi, è questo l’aspetto centrale da cui dipende la possibilità di continuare a mantenere o meno il proprio lavoro. L’argine del lavoro, simbolico e materiale, è sempre la maternità futura, per cui il peso dell’occupazione si vorrebbe meno grave, specie se osservata in prospettiva. Nella realtà la maggior parte delle intervistate svolge un lavoro a tempo pieno, come i loro partner (di cui nessuno è impiegato a tempo parziale), ma esprime il desiderio di un orario più breve, per ragioni in parte di qualità di vita, in parte preventive: in quanto donne, affermano loro stesse, sanno di dover ripartire il loro tempo tra lavoro e famiglia, di più dei loro attuali e/o futuri partner. La soluzione più agevole individuata è nel part time. L’avere o non avere figli per le intervistate è una sorta di spartiacque tra stili di vita e lavorativi. Criterio che le intervistate mostrano di aver fatto proprio nella misura in cui si attendono, per il futuro, di dover contenere lo spazio dell’attività lavorativa in favore di tempo per la cura. Ed ecco quindi che è proprio nel part time la via conciliante: «sì, io magari, per una donna...; – io sì per me è il massimo anche perché io parto la mattina alle 8 e torno a casa alle 7, 7 e mezza. Io non ho figli ma se uno volesse avere figli diventa complicato; – io per esempio ho un marito che lavora per conto suo e devo riuscire ad incastrare tutte le cose. Faccio stare meglio lui e magari sbaglio e magari sto bene anche io e poi per una donna che ha dei figli» (M1). Intorno al tempo libero da lavoro si forgiano le aspettative e gli orientamenti occupazionali. Allo stesso tempo, non minore rilevanza assume la retribuzione economica. Di fatti, ciò che rende meno desiderabile il part time, è la ridotta retribuzione economica ad esso associata, tal ché alcune delle intervistate indicano il lavoro ideale in un «Part time pagatissimo» oppure un «Part time con un buon stipendio, col pomeriggio libero» (M1). La capacità di reddito trova molta attenzione da parte delle intervistate, pertanto una sua decurtazione è piuttosto una rinuncia in favore di un orario di lavoro contratto che non occupi interamente la giornata: «io ho sempre lavorato tanto, forse con gli anni.. io ho mio marito... adesso non è che.. però posso permettermi di stare a casa, sto dando molta più importanza alla qualità della vita, nel senso di mangiare bene, magari preferisco rinunciare a qualcosa per me nel senso se mi chiedono vai a lavorare magari un lavoro sfigato, magari preferisco rinunciare a determinate cose. Questo negli anni, prima no. Però certo farsi delle belle passeggiate, cucinare, farti delle cose tue a casa, ho maturato questa cosa negli anni. Dopo se c’è un bel lavoro è chiaro che a un bel lavoro non si rinuncia mai, però con SENZA FIGLI... 127 dei lavori non eccelsi, certo l’indipendenza è un peso che va calcolato, preferisco la qualità della vita. Magari rinunci a qualcosa, magari non mi compro una borsa che costi una certa cifra» (F2). La relazione tra le diverse sfere esperienziali è stretta e complessa. Il confine è labile, mentre la ricerca di senso è rivolta alla vita come al lavoro. Al tempo di non lavoro si presta molta attenzione, esso è qualificante di una costruzione identitaria che non riconosce ad esso la posizione dominante e tanto meno monopolistica sull’esistenza. Mentre il lavoro si afferma come una priorità, intorno ad esso si forgiano le aspettative della vita privata. Quando il lavoro è declinato come necessità, ad essere maggiormente chiamate in causa sono le motivazioni strumentali, che hanno a loro volta una relazione con modelli femminili operosi primariamente rispondenti ad un dovere di contribuire al sostentamento economico. La necessità di lavorare ha un forte legame con quella del sostentamento economico. Ciò implica, a parere delle intervistate, che donne e uomini contribuiscano entrambi alla produzione di reddito. A fronte di ciò, permane il dilemma intorno alla gestione della duplice necessità, appunto di reddito da una parte e di cura dall’altra. Si struttura un legame con il lavoro sub condicione per cui le donne riferiscono di scendere a patti con i lavori di fatto disponibili, consapevoli di andare incontro a percorsi accidentati, laddove i carichi di cura saranno tali da risultare inconciliabili. È in ciò la radice di una fragilità del percorso lavorativo femminile che risente delle scelte della vita privata in misura nettamente maggiore di quanto non accada agli uomini. È la cura dei figli a porre più di tutto il dilemma: «oggigiorno lavorare è vitale, nel senso che in una famiglia difficilmente si riesce ad andare avanti con uno stipendio, dunque oggigiorno lavorare diventa obbligatorio, anche se mi rendo conto che nei primi anni di vita sarebbe più importante che una figura stesse in casa per seguire i figli. Io poi lavorando a scuola vedo i risultati di tante situazioni in cui i bambini crescono.. io sono alle superiori però ho lavorato anche alle medie e comunque anche quest’anno che ho dei ragazzi di prima superiore si vede quando alle spalle c’è una famiglia che li segue, presente, ma presenti non tanto perché non vogliono essere presenti, presenti perché tante volte non possono» (S3). Vita e lavoro sono due dimensioni in conflitto, o potenzialmente tali, nella pratica quotidiana: in tal modo sono percepite dalle intervistate, che di fatto mettono in atto comportamenti volti a gestire o persino a prevenire le fonti di produzione del conflitto, orientando le proprie scelte verso modelli femminili ritenuti concilianti: 128 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE «[vorrei] un lavoro flessibile, nel senso un lavoro che mi piace, con un orario flessibile, tutti i pomeriggi, così se uno ha una famiglia con dei figli, così riesce ad aggiustarsi tutto» (M1). Sono le stesse donne a farsi carico di responsabilità di cura e familiari: non chiamano in causa la coppia, piuttosto una personale responsabilità. Le dinamiche tra i partner e familiari di cui danno conto, sono in continuità con tale accezione personalistica della cura. Pur non essendo in gioco il ruolo di madre, che non appartiene, almeno per il momento, alla sfera della loro esperienza, riferiscono di un menage familiare quale attribuzione femminile: loro stesse, rispetto ai loro partner o in qualità di figlie, insieme alle madri, nella famiglia di origine, presidiano il territorio della cura domestica in una netta ripartizione di attribuzioni differenziate rispetto alle figure maschili dei padri e dei partner, ben lungi dall’essere basata sulla cooperazione: «ah io faccio tutto, nel senso che io lavo, stiro, pulisco faccio tutto e magari il mio moroso è più portato per le cose, tipo monta gli armadi, mette a posto gli attrezzi, invece per pulire la casa faccio tutto io; – io per esempio che lavoro fino alle 7,30-8 d’estate in piena stagione arrivo a casa anche alle 8,30 – 8,45, arrivo a casa, la tavola è apparecchiata.. per carità, noi mangiamo a casa solo la sera, però arrivo a casa a quell’ora, devo cucinare, io fino alle 10-10,15 non ho mai finito di pulire la cucina lavare i piatti… sembra che non c’è un attimo, poi una volta stiri, una volta pulisci...» (S3). Nell’espressione usata da una delle donne intervistate «faccio tutto io», vi è l’affermazione di un’adesione concreta al ruolo di protagonista della vita privata e responsabile delle attività di cura. Ai partner non è richiesto di cooperare e questo prescinde da ciò che sanno o non sanno fare, semplicemente non è previsto un loro apporto paritario: «io uguale, un po’ come lei... cioè faccio un po’ tutto io, a maggior ragione adesso che sto a casa [in maternità] però anche prima che tornavo la sera anche abbastanza tardi mi ritrovavo un po’ io, poi ovvio sta anche a me dire «cioè guarda dividiamoci i compiti» mi rendo conto che un po’ è anche causa mia anche perché facendo i turni da infermiere potrebbe fare, in più sa anche cucinare quindi non è che è proprio negato, ha vissuto da solo quindi, però è una comodità. Adesso non glielo chiedo nemmeno, però insomma quando lavoravo così tanto probabilmente sì, era meglio che mi desse una mano. Poi anche lui è bravo a fare altre cose, lavare e stirare non ci pensa proprio, non sa nemmeno programmare la lavatrice, per altre cose è bravissimo a programmare, però la lavatrice, che è la cosa più semplice, non lo sa fare chissà perché; -...ma il mio sa anche fare ma non lo fa!» (S3). SENZA FIGLI... 129 Si ha la consapevolezza di un’alternativa paritaria nella relazione di coppia, ma questa appare distante dallo stile di vita adottato e dalle quotidiane pratiche messe in atto. La coppia è dispari. Al di fuori di essa si sperimentano ruoli diversi, che sconfinano in quelle che al suo interno sono le altrui attribuzioni. Dentro la coppia i ruoli si ripolarizzano, tornando ai rispettivi ambiti di competenza: «io quest’anno sono rientrata a stare con i miei, ma fino all’anno scorso ho vissuto da sola o con delle colleghe. Quando sei da sola in casa si fa di tutto anche i lavori che in genere fanno gli uomini, che so smonto i lavandini, smonto l’impianto elettrico, smonto l’interruttore, sistemo l’antenna della televisione… mi piace fare le attività pratiche normali» (S3). Il domestico tratteggia un destino precipuamente femminile. Lo squilibrato impegno di tempo e di lavoro tra donne e uomini appare consensuale, ad esso si risponde con un’organizzazione di vita a forte connotazione sessuata. I margini che le interessate testimoniano di avere sfociano in comportamenti adattivi rivelatori di condizioni restrittive entro cui opzionare il presente e il futuro: «io dico che purtroppo o devi fare troppo o devi stare a casa... la donna non è contemplata nel senso che una donna in casa ha da fare sempre più del marito, nel senso della cucina le pulizie le fa la donna e dopo lei è già fortunata che ha un marito che collabora, e quindi voglio dire il tempo libero di un uomo e quello di una donna non possono essere paragonati perché a casa dopo ti aspetta tutto quanto; – una donna torna a casa e ha diecimila cose da fare; – l’uomo non corre secondo me; – e poi se fate caso nei separati le donne stan benissimo sono autonome in tutto gli uomini son disperati» (F2). Dalla posizione di responsabili della cura degli affetti, delle relazioni, delle cose che affollano la vita privata, gli uomini sono giudicati inadeguati e inefficienti, al punto che anche in caso di collaborazione questa non muta l’ordine delle cose: «allora anche io per esempio, anche mio marito, dice «ah perché devi andare più spesso in palestra», io dico, no, tu torni, io vabbé sono partita al mattino faccio orario continuato, lui torna io faccio la spesa, cucino faccio tutto, va beh accendo la stufa, lui torna che da mangiare è già pronto sul tavolo, sto facendo, tutto a posto, ma io ho corso da stamattina fino adesso che tu ti siedi a mangiare, per quanto poi, lui a lavare i piatti me li lava lui, mi prepara la colazione al mattino, passa l’aspirapolvere non mi posso lamentare perché è una persona eccezionale, però noi corriamo di più perché tanto certe cose le possiamo fare solo noi... perché l’uomo non è capace; 130 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE – questo forse prima ero più d’accordo, io vedo la differenza tra mio padre e mio fratello. Mio padre, vecchia generazione, tornava a casa e non faceva più niente, mentre mio fratello, mia cognata lo fa fare, lo fa stare con i bambini, aiuta a cambiarli; – si, ma metti sulla bilancia il tempo che lavora tuo fratello e sua moglie, il tempo che lavora tua cognata e tuo fratello è uguale? – lavora di più mia cognata sia fuori casa sia in casa, tre figli, insegna. Però sta mettendo sotto mio fratello, cioè mio fratello è molto partecipe. Secondo me è un’educazione che deve nascere dalle madri con i figli maschi è un discorso che parte proprio dalle origini» (F2). A parere delle intervistate solo sotto un’accurata direzione è possibile indurre i partner alla collaborazione, così come ritengono che persino la loro mancata collaborazione sia riconducibile ad una richiesta che non viene espressamente formulata. Mentre l’asimmetria è implicita nella relazione di coppia, un suo eventuale spostamento verso una redistribuzione dei compiti in senso cooperativo ed egualitario dipende dalla volontà stessa delle donne, cosa tutt’altro che scontata. Mascolinità e femminilità dentro la coppia si riferiscono entrambi a modelli tradizionali che trovano ampio spazio di riproduzione proprio nel quotidiano familiare. IV.3. Il territorio La dimensione territoriale rappresenta il legame materiale e simbolico con l’identità soggettiva e collettiva, ma soprattutto è qui che l’interazione con le risorse del contesto disegnano specifiche strutture di opportunità e disuguaglianze. Durante le interviste è stata prestata molta attenzione al legame con il territorio, intendendo con esso qualcosa di più del luogo fisico di residenza e pertanto approfondendo il modo in cui esso è vissuto, percepito, giudicato e anche idealmente progettato. Il ricorso alle mappe, che le intervistate sono state invitate a disegnare prima dell’inizio dell’intervista, ha fornito un efficace strumento di rappresentazione libera della scansione delle attività quotidiane, nonché degli spostamenti, con relative modalità ad esse legati. La mappa delle intervistate è una illustrazione libera di una giornata lavorativa infrasettimanale scelta come esemplificativa. Lo scopo di tale strumento è di descrivere, anche attraverso una rappresentazione grafica, le attività, gli spostamenti e la scansione della vita quotidiana. Il modo libero in cui ciascuna è stata realizzata, ha consentito alle intervistate di esprimere il personale punto di vista, condiviso e discusso poi con le altre donne del gruppo. Un primo elemento che emerge dalle mappe riguarda la mobilità sul SENZA FIGLI... 131 territorio: le rappresentazioni fornite indicano spostamenti che si effettuano in un’area piuttosto circoscritta, anche se intercomunale, per la più parte riguardanti tragitti abituali da e verso il luogo di lavoro: «tutto si svolge normalmente fuori dal comune» (M1). Lavoro e studio, per le più giovani, sono le attività principali, quelle intorno a cui si organizza il quotidiano, cosa che si evince dalle mappe stesse. Si disegnano percorsi abituali e organizzazioni del tempo routinarie, soprattutto per quante percorrono abitualmente tragitti più lunghi per raggiungere la sede di lavoro. La scansione del tempo è per la più parte regolata da schemi ripetitivi, rispetto a cui, le attività altre dal lavoro diventano residuali. Sia che si tratti di lavoro, sia di tempo libero, ci si rivolge molto frequentemente ad aree limitrofe fuori del Comune di residenza, che diventa quasi un luogo di transito. Tale modo di vivere il territorio è poi rappresentato da specifiche immagini dello stesso, per cui a fronte di una scarsità di opportunità percepite nel luogo di residenza, si tende a guardare più frequentemente “fuori confine”. Gli stessi giudizi sul territorio risentono del modo di vivere lo stesso. Nel raffronto tra il dentro (il territorio di residenza) e il fuori, il proprio Comune risulta essere deficitario, con specificità che vengono variamente rimarcate per le diverse età e fasi del corso di vita. Esempio di mappa 1 132 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Esempio di mappa 2 Esempio di mappa 3 SENZA FIGLI... 133 Lavoro e tempo libero descrivono un raggio di azione più ampio del luogo di residenza, ma che tuttavia insiste per frequenza in luoghi ricorrenti, entro un’area tutto sommato limitata. In comune tra le intervistate vi è poi l’uso preponderante dell’automobile come unico mezzo di spostamento: D. «...e vi spostate sempre con la macchina? – Sì sempre con la macchina, anche perché dopo l’esperienza della scuola...; – il problema è degli orari» (S3). «Anche perché i mezzi pubblici qui...; – sì, da un mese ci sono ogni ora i mezzi pubblici per Fano e Urbino; – manca la mentalità da noi nei piccoli paesi di dare i servizi pubblici; – secondo me non è neanche organizzato bene, cioè io sono stata a scuola a Urbino è stato un dramma, per cui adesso che ho la macchina non ci rinuncio» (M1). Vi è un certo grado di accordo attorno all’idea che l’automobile rappresenti una sorta di affrancamento da servizi di trasporto pubblici inadeguati, soprattutto dal punto di vista degli orari dilatati che gli stili di vita impongono; andando a ritroso nei racconti delle intervistate l’automobile diventa un simbolo del passaggio all’età adulta. A tale proposito, in tutti e tre i gruppi il momento della frequenza scolastica è ricordata come un peso. Il provenire da piccoli comuni portava le giovani studentesse a spostamenti faticosi verso i Comuni più grandi. Il dipendere dai mezzi di trasporto locali significava avere persino stili di vita differenti dagli altri coetanei dei Comuni più grandi. Il tempo impiegato nel trasporto aveva infatti un effetto sulla riduzione del tempo libero a disposizione, contraendo così lo spazio per lo studio e ricreativo. La frequenza scolastica nei ricordi delle intervistate, risultava di gran lunga appesantita, giacché il tempo impiegato per gli spostamenti rendeva la giornata da studentesse molto lunga e impegnativa: «svegliarsi all’alba per andare a scuola sinceramente è stato un trauma»; – la carenza di istituti superiori nella zona, si andava a scuola a Senigallia, Fano, Pesaro; – poi non è neanche necessario fare 7 ore di scuola perché fatte bene ne bastano 5, ma fatte bene; – però guarda da noi lo dicevano i professori quelli che venivano dai paesini come noi erano quelli che si impegnavano di più erano quelli che rendevano meglio» (M1). L’essere dipendenti dai mezzi pubblici e risiedere in questo territorio significa avere minori opportunità, soprattutto nell’età più giovane. A fronte di un profondo attaccamento al territorio, che la maggior parte delle intervistate 134 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE dichiara, vi è però il riferire di una porzione socio-geografica relativamente deprivata. Da questo punto di vista lo spostarsi con l’automobile, secondo motivazioni ed esigenze del tutto personali, rappresenta un ampliamento di possibilità. Solo infatti attraverso lo spostamento si raggiunge ciò che è desiderabile per quanto concerne le occasioni più che altro di svago, che il territorio più circoscritto non offre. La valutazione del territorio è dunque operata, in primo luogo, nell’ambito di quello che è il luogo di residenza, per la quasi totalità da sempre, ad eccezione, in qualche caso, di periodi di tempo trascorso fuori per ragioni di studio o di lavoro. Il secondo parametro di valutazione è il territorio vissuto, quello cioè in cui si lavora o si trascorre il tempo libero per acquisti, svago e altro. L’ambito più circoscritto è quello meno dinamico, più ripiegato su se stesso e povero di luoghi di aggregazione: «beh locali da noi diciamo non c’è molto... va beh basta che vai a Fano; anche a Fano ce ne sono due...; – i giovani che hanno la macchina si spostano..; – se ci fosse il coprifuoco non sarebbe così deserto; – se vuoi fare qualcosa puoi anche sbatte la testa sul muro; – io lo trovo avvilente... lo trovo avvilente.. quello che vorrei trovare io non credo che un territorio così lo possa offrire, non so attività culturali, cose che coinvolgano le persone al di fuori della televisione. È ovvio che questo implica una maggiore comunità di persone per cui queste cose si possano organizzare, qua c’è solo il bar; – e la parrocchia» (S3). Accanto alla scarsa offerta culturale, nel territorio più circoscritto, viene lamentata una socialità che si va contraendo in favore di un ripiegamento sull’individualità. Le spiegazioni fornite in merito sono diverse. La prima riguarda la mancanza di centri e dunque di occasioni in cui incontrarsi. Il bar è uno dei principali luoghi di socialità, tuttavia esso non è percepito come un luogo accogliente per tutti e tutte, bensì principalmente deputato all’incontro tra uomini che, in virtù di ciò, comparativamente sono percepiti in vantaggio per opportunità di socialità. I bar sono i luoghi più diffusi sul territorio, ne consegue che gli uomini hanno maggiori chances di conoscenza reciproca e incontro: «anche se volessi semplicemente conoscere le ragazze del territorio non è possibile, adesso noi non ci conoscevamo neanche le une le altre. Adesso se noi fossimo state dei maschietti da mo’ che ci conoscevamo eh... al bar, questo secondo me è una cosa gravissima» (M1). Dunque, persino l’intervista viene apprezzata dalle partecipanti come un momento di confronto tra donne, che si auspica addirittura possa venire replicata; al di fuori di tale situazione, non vi sono luoghi deputati sul territorio, SENZA FIGLI... 135 mentre le occasioni sono rare e scarsamente partecipate. La seconda ragione della poca socialità, soprattutto al femminile, è individuata nella mancanza di partecipazione, disvelatrice di una difficoltà ad uscire dalla dimensione del privato. Ciò è letto dalle intervistate come un sistema di vita e in parte invece è messo in relazione con una trasformazione della comunità territoriale, innescata da un’aumentata presenza di residenti stranieri, concentratasi proprio nell’area corrispondente ai comuni in cui loro stesse risiedono. In seguito a ciò, si sarebbe abbassato anche il livello di sicurezza e circolare nelle ore serali è ritenuto più pericoloso. I mutamenti nella composizione demografica della popolazione locale ricevono una particolare attenzione da parte delle intervistate, le quali sottolineano quanto la popolazione negli ultimi anni sia cresciuta per effetto di spinte migratorie extranazionali ed extraregionali. Una politica di espansione edilizia unitamente ad una disponibilità di alloggi a costo inferiore rispetto ai centri più grandi hanno attirato nuova popolazione: «anche perché questi paesi stanno crescendo a dismisura, anche la mattina c’è un traffico di giorno uscendo dalla superstrada, il paese è cresciuto a dismisura rispetto a dieci anni fa e giustamente anche le strutture cominciano ad essere inadeguate; – sì, per via dell’immigrazione che c’è stata; – sì, ma non solo per l’immigrazione, perché la gente si sposta e prendono casa qua, perché non si possono permettere di stare in città come Fano» (S3). Tali mutamenti non sono importanti solo come dato di per sé, ma nella misura in cui risultano stabiliti nessi con un processo di ridefinizione delle relazioni dal punto di vista qualitativo. La comunità locale, ad oggi, risulta più diversificata e meno omogenea, con effetti giudicati negativi in termini di propensione alla partecipazione sociale, alla socialità tout court: «anche per esempio qui da noi a Calcinelli facevano sempre le feste di quartiere, non le fanno più d’estate per ritrovarsi per conoscersi; – ma il problema è che a un certo punto ci si è accorti che nessuno usciva più. È negli ultimi anni che il paese è cresciuto così tanto e hanno costruito case che hanno attirato molte persone dal sud e molti extracomunitari; – ma infatti anche secondo me al di là di tutto c’è una mancanza di partecipazione, molte cose che hanno organizzato qui gli incontri con la psicologa ecc. ma non c’è voglia di partecipare; – per esempio «Donna salute»5 che poteva essere una cosa interessante ma non c’è voglia di partecipare, non hanno voglia di uscire di casa la sera» (S3). 5 Si fa riferimento ad un ciclo di incontri organizzato presso il centro Informadonna intitolato appunto Donna salute. 136 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE La bassa partecipazione alla vita sociale nell’ambito di territorio di residenza viene a più riprese descritta come un tratto oramai costitutivo del vivere sul territorio, proprio dei e delle residenti. A riprova di ciò vengono riportati esempi di eventi organizzati che comunque hanno riscontrato un basso interesse da parte della popolazione, attirando che pochi residenti: «da noi hanno cominciato a organizzare delle riunioni tra noi [donne] vediamoci..., abbiamo fatto il cineforum, poi hanno organizzato la mostra fotografica, poi dicevano di organizzare degli incontri con i medici» (F2). Sono i e le giovani ad avere maggiore propensione all’uscita serale e allo svago. Sono loro che principalmente nei comuni di appartenenza frequentano i bar locali. D’altro canto, si prende atto di come la preponderanza della dimensione privata condizioni gli stessi stili di vita della popolazione di più giovane età. Osservano infatti le intervistate che laddove la vita privata va strutturandosi in un legame stabile come il fidanzamento, questo necessariamente si trasforma in una chiusura nei confronti della vita pubblica, soprattutto delle donne, anche quelle più giovani: «secondo me anche perché non vogliono, per esempio io ho visto anche le mie amiche, le fidanzate si sono barricate in casa, però io penso che non c’è motivo, non c’è motivo, no!; – ma perché oramai è un sistema che si è formato così; – ma perché metti che noi stasera decidiamo che vogliamo cambiare vita... dove andiamo? Che facciamo?» (M1). Laddove la dimensione privata diviene più “intensa”, essa tende a modificare l’agenda di vita assorbendo buona parte del tempo e delle attività delle intervistate. Una volta di più l’attrazione del privato è descritta come connotante le pratiche femminili, dentro un contesto che la sostiene direttamente e indirettamente nella misura in cui le alternative di partecipazione pubblica si rarefanno. IV.3. Il tempo libero nel territorio Il tempo libero è una dimensione che è andata via via assumendo una crescente significatività nei percorsi dei singoli, mutando profondamente comportamenti e stili di vita, per cui la ricerca di senso esistenziale nella sfera pubblica è diretta alternativamente alle attività lavorative e di tempo libero in pari misura, quando non si assiste ad una prevalere del secondo 137 SENZA FIGLI... sulle prime. Il tempo libero diviene, almeno in certa parte, misura di libertà, di scelta personale tra diverse alternative contingentemente accessibili che talvolta il lavoro non offre. Cosa fanno le intervistate, come spendono il tempo libero, in quali attività, sono questioni poste loro direttamente attraverso una batteria di domande elencante una varietà di attività del tempo libero e per ciascuna la relativa frequenza. Come si può evincere dalle informazioni riportate in tabella (Tab.IV.4), lo sport, la lettura, sono le attività più spesso praticate, cui seguono frequentare ristoranti e andare al cinema. Sono dunque poche le attività svolte nel tempo libero, mentre di gran lunga più numerosi sembrano i bisogni espressi durante le interviste. Tabella IV.4 - Attività del tempo libero e loro frequenza Più di una volta la settimana Sport Associazioni (culturali, politiche) Ristoranti Corsi di formazione Lettura Cinema Teatro Parrucchiere Centri estetici Viaggi Una volta la settimana Una volta al mese Meno di una volta al mese Poche volte l’anno Mai 16 1 2 - 5 2 2 5 3 2 7 7 1 12 5 2 1 1 11 3 10 - 10 4 1 5 5 4 7 7 2 2 6 4 10 3 3 3 13 2 1 12 11 8 8 0 6 1 2 7 1 7 7 Una volta di più va ribadito quanto la dimensione territoriale sia da questo punto di vista ritenuta limitante. Alla situazione presente, tutt’altro che non apprezzata, non vedono alternative. Nella maggioranza dei casi non vi è volontà di progettare il proprio futuro fuori del territorio di appartenenza, verso cui mostrano un profondo attaccamento, sentono un legame che desiderano mantenere stretto e quotidiano: «io c’ho pensato [ad andare fuori, ndr] ma ho paura di andare via da sola, la famiglia....; – io partirei, ma siccome sto frequentando una persona di fuori, deve essere una cosa più stabile, altrimenti sarei partita, non per il lavoro, giusto perché ho casa sennò sarei partita, dopo quando uno ha casa è più difficile» (F2). 138 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE I motivi di radicamento e attaccamento al contesto locale non impediscono di giudicare la realtà in cui vivono limitante sul piano della ricchezza delle esperienze extra lavorative: «certo... però io vorrei tornare a casa dopo una giornata di lavoro e vorrei dire oh stasera che cosa posso fare? Allora che c’è? Perché sarà che io a casa sinceramente, non è che a casa, cioè io non ho una mia indipendenza.» (M1). Il contesto ha il suo peso: la distanza anche fisica tra la residenza e le opportunità, quantitativamente maggiormente disponibili e qualitativamente più attraenti, diventa un ostacolo di partecipazione, sia per motivi di tempo sia di costi. Al pendolarismo per lavoro si aggiunge dunque un pendolarismo del tempo libero che è tutto legato alle possibilità e necessità individualmente elaborate: «...essendo rientrata adesso dopo 4 anni non mi ci ritrovo... conosco anche poco le possibilità che offre [il territorio], al di là del cinema, teatro, e non mi ci ritrovo nella realtà piccola dopo aver vissuto in città. Adesso che mi sono fatta l’abbonamento a teatro esco per forza, l’ho fatto anche per quello, però difficilmente esco il pomeriggio e torno a Fano almeno che non sia una cosa che mi interessa particolarmente, forse iniziative ci sono ma forse non le conosco» (S3). Spostando l’attenzione verso i comuni limitrofi di maggiore dimensione, il confronto diviene subito penalizzante. È nei comuni più grandi che si concentrano occasioni di svago, culturali e di incontro: «io sono abituata a vivere un po’ di più, se posso andare una sera al cinema, una sera a teatro... perché dalle parti nostre, delle compagne di classe, chi s’è fidanzata da una parte, chi dall’altra, se abitassi a Pesaro almeno i colleghi di lavoro li vedrei, magari la partita del basket la sera, che è una cavolata, ma almeno un po’ di gente la vedi e poi gli incontri culturali che si tengono a Pesaro, in Provincia quanti ce ne sono! La stagione teatrale al Rossini. Anche a Fano è lo stesso; – quando ti arriva il libricino del Teatro della Fortuna, sì bellissimo, ma non è vero che ci vai, costa la benzina, costa il teatro» (M1). Per età e condizione di vita le intervistate ritengono di essere al culmine delle opportunità di partecipazione, almeno in via teorica. Intanto si affaccia una idea secondo cui la partecipazione sociale delle donne segue una curva declinante con l’età e soprattutto con la maternità. Questo non riferisce dell’osservazione di un andamento, piuttosto di un destino che incombe ineluttabile. Concordemente, la presenza dei figli è l’attesa di un evento limitante la socialità, che si andrà ad aggiungere alle restrizioni poste dalle risorse giudicate scarse nel luogo in cui vivono: «il problema è se non SENZA FIGLI... 139 lo fai adesso dopo non lo fai perché magari c’hai i figli» (F2). Il corso di vita è determinante per le intervistate nel definire il bisogno di socialità e le sue concrete possibilità di soddisfarlo. Non è solo la maternità a fare da spartiacque tra una partecipazione libera ed una vincolata, bensì un mutamento nel rapporto con il contesto locale che varia di pari passo al trascorrere degli anni. Loro stesse riferiscono di realizzare un mutato atteggiamento verso il loro territorio, giudicato severamente in età più giovane quando il confronto con i coetanei è stringente: «mi ritrovavo con le stesse idee quando ero al liceo che noi dei paesini con la corriera ci si alzava alle 6,30 e poi si aspettava le ore per tornare, si tornava a casa alle 3. Anche io me ne volevo andare perché qui non c’era niente poi ho vissuto un pochino a Perugia come cittadina un pochino più grande e già c’erano più cose, però mi mancava molto che eravamo come degli estranei anche nell’appartamentino dove ero. Non è come nel nostro paese che magari ci conosciamo tutti, allora un saluto, non so magari ti serve qualcosa? ….Quando ero a Perugia io per tre anni non sapevo chi era nella porta di fianco, non ho fatto una parola, quindi ho rivalutato la mia zona. Anche andando a lavorare a Fano, il caos, le macchine, la confusione. E adesso costruisco casa a San Giorgio, quindi davanti a casa mia, quindi la pace la tranquillità, girare per casa in pigiama, urlare, sentire la musica, avere gli uccellini che mi svegliano, non so... mi mancava il rumore degli uccellini, la tranquillità, io qui mi sento libera, la libertà non me la toglie nessuno, poi gli interessi culturali me li creo, mi leggo un libro... al cinema non è che io ci vado tutti i giorni a me la natura, le passeggiate in campagna, a me mi ricaricano (M1). «Anche io mi arrabbiavo con i miei perché volevo andare alla pallavolo e non c’era, adesso me ne vado a camminare e la ginnastica me la faccio da sola, mi sono comprata il tappetino, c’ho i miei orari, mi faccio la mia ginnastica, con la musica, tanto con i miei orari non riesco a fare tutto...»; -…..si certo una volta volevi andare fuori, andare a Fano adesso apprezzi di più la tranquillità» (M1). La tranquillità è una risorsa effettivamente disponibile del vivere locale: nell’età adulta questa meglio risponde ad esigenze di qualità di vita che non sono una priorità in età più giovane, quando cioè tende a prevalere un bisogno di ampliamento delle relazioni e delle esperienze: «al lavoro sto in uno stato confusionale, torno a casa c’è la pace e la tranquillità» (M1). La tranquillità emerge come valore aggiunto della propria realtà, uno degli aspetti maggiormente positivi, che sostengono un elevato livello di qualità della vita secondo le intervistate. Dal punto di vista dell’organizzazione territoriale e dei servizi presenti, le intervistate si mostrano meno indulgenti. Il territorio è giudicato severamente per la numerosità, qualità e orari di alcuni servizi sottoposti al loro 140 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE giudizio. Come si vede dalla pagella del territorio qui di seguito riportata, si conferma la criticità in particolar modo per quanto concerne i servizi per il lavoro e le strutture ricreative. Solo nel caso dei negozi si supera, anche se di poco, la sufficienza e il punteggio medio complessivo si attesta appena al di sopra della stessa. La pagella conferma la duplice criticità, percepita dalle intervistate, del lavoro e delle strutture ricreative. Questi sono i due aspetti che limitano fortemente l’agire locale. A prescindere dal tipo di attività, preminente è la capacità o possibilità di muoversi autonomamente in un’area territoriale ampia quanto le opportunità che si intende cogliere. È così che divengono al proposito significative le attività del tempo libero, che rimandano inevitabilmente a spostamenti verso le strutture ricreative. Tabella IV.5 - La pagella del territorio Negozi Uffici pubblici Impianti sportivi Strutture sanitarie Trasporti pubblici Servizi per il lavoro Strutture ricreative Media Totale Numerosità Qualità Orari Media Servizi 6,4 5,4 5,4 5,1 4,7 4,4 4,1 5 6,3 5,7 5,4 5,4 4,8 4,9 4,5 5,2 6,8 5,7 5,8 5,3 4,8 4,8 4,6 5,4 6,5 5,6 5,5 5,3 4,7 4,7 4,4 5,2 * Medie di punteggi attribuiti dalle intervistate in un intervallo da 1 (minimo) a 10 (massimo). Qui gli ostacoli sono posti principalmente dalle distanze per raggiungerle, per cui non sempre e non tutte sono in grado di percorrerle. La scelta si pone dunque tra il percorrere lunghi tragitti o rinunciarvi. Praticare sport, per esempio, pone la difficoltà dell’aggravio di pendolarismo, fatto sufficiente a porsi come fattore di scoraggiamento, specie se messo in relazione con le differenti condizioni sociali, culturali ed economiche dei soggetti: «sì, per esempio gli impianti sportivi, impianti sportivi bisex non ci sono impianti per le donne non ci sono, se vuoi fa’ aeorobica, pallavolo, non ci sono, non c’è niente; – se vuoi andare in piscina almeno 10 km» (S3). A quanto riferiscono le intervistate, le strutture esistenti non sono adeguatamente curate e spesso versano in uno stato di abbandono. Vengono menzionati due percorsi pedonali che in entrambi i casi sembrerebbero frequentati dalla popolazione locale, nonostante che se ne trascuri la ma- SENZA FIGLI... 141 nutenzione e manchino dispositivi per la messa in sicurezza, quale l’illuminazione. Questo a dimostrare che a fronte di un bisogno di strutture, la risposta dell’amministrazione non risulta a tutt’oggi incontrare le esigenze della cittadinanza: «per fare le camminate c’è una via che passa per le campagne, vanno a camminare tutti lì; l’hanno indicato come percorso pedonale per cui hanno messo un limite di velocità bassissimo; – lì ci si trova tantissima gente a camminare; – io sarà che l’ho fatta non di notte ovviamente però sul tardi e non c’era tanta gente e sinceramente non mi dà molta sicurezza; – era carino il parco, lì in teoria c’è un vero e proprio percorso però non è curato; c’era un laghetto, c’è ancora ma ora ci sono dei topi esagerati. Il problema qui delle amministrazioni che si sono succedute è stato quello di creare delle cose per cui dopo che sono state create vengono abbandonate; – anche lì c’era un percorso vita e poi c’era una di quelle teleferiche solo che è tutto abbandonato» (S3). L’utilità di tali strutture è individuata non solo nella disponibilità di un luogo in cui svolgere attività fisica, ma anche nella possibilità di incontro tra donne. Il tema è molto sentito e per questa ragione il loro potenziamento rientra tra i suggerimenti che le intervistate rivolgono ad amministratori e amministratrici locali per migliorare la qualità della vita del territorio: «L’area sportiva che dicevamo prima così ci si incontra tutte lì» (F2). Il territorio necessita di essere rivitalizzato e questo significa investire sullo stesso e sui soggetti che vi risiedono. Per contro, le intervistate puntano il dito su un certo abbandono, sull’aver trascurato proprio quei bisogni di socialità e partecipazione che allo stato attuale risultano latenti e insoddisfatti: «investire di più sulle donne in generale; – aprire un bel centro commerciale. Fossombrone è rimasta indietro, non c’è un centro commerciale perché non l’hanno mai voluto, sono conservatori; – da noi basta che fanno le rotatorie; – Fossombrone si è fermata; – a Fossombrone da quello che so io perché c’è il corso, cioè ci sono i commercianti pesano; – non c’è un teatro, a Cagli vengono degli spettacoli favolosi... da noi una roba piatta a parte i bar non c’è niente; – anche per i giovani, la musica, non c’è niente... un cinema, non fanno mai niente, niente di interessante; – con le associazioni di volontariato si è provato a fare qualcosa; – gli ospizi ne abbiamo già due ne stanno facendo un terzo là vicino al cimitero; – dovrebbero puntare più sui giovani e credere di più sui giovani; – infatti ci stiamo spopolando...adesso un attimino c’è un po’ di ritorno; 142 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE – poi ci sono i ragazzini e le persone più grandi dai 25 ai 40 non ci sono; – sì, infatti quando c’è qualcosa per i giovani tipo “In viaggio6” la gente viene; – è che non ci crede l’amministrazione» (F2). Non vi sono sufficienti impianti sportivi, né possibilità di frequentare corsi, anche serali (lingue straniere, ginnastica, yoga, ecc.). Anche se il tempo a disposizione è ridotto (a causa del pendolarismo lavorativo e della distribuzione del tempo di lavoro nella giornata), si tratta di donne che esprimono bisogni culturali, molte di loro hanno un livello di istruzione medio-alto7. Sono bisogni tuttavia disattesi nel territorio, per cui per tutte il punto di riferimento rimane il comune più grande dell’area in cui risiedono. Molti dei suggerimenti vertono su possibili interventi di potenziamento delle strutture aggregative, ricreative e sportive. Ritengono di disporre di abbastanza tempo libero da dedicare a sé stesse, più di quanto non ne abbiano le loro conoscenti con figli, pertanto vorrebbero poterne disporre con maggiore libertà, per attività di qualità che non riscontrano nei luoghi in cui vivono: «è questo secondo me, perché anche io che non sono sposata, sono fidanzata, però mi accorgo quanto è importante; sì, collaboro, però al momento giusto mi prendo del tempo, questo è importante, poi l’ora per andare dal parrucchiere si trova, invece vedo mia sorella è sposata oppure altre colleghe che son sempre di corsa; – dipende poi dai lavori, perché per esempio io è vero che il pomeriggio sono impegnata a correggere i compiti e le verifiche, ma se io al pomeriggio voglio andare in un negozio torno e faccio dopo cena quello che avrei dovuto fare al pomeriggio.. questo non significa che il lavoro nella scuola è solo il mattino ma diciamo mi posso giostrare abbastanza; – io per esempio quando avevo un lavoro d’ufficio le 8 ore non ti lasciano il tempo per fare niente, quindi per esempio anche per andare dalla parrucchiera, per forza di sabato» (S3). Il tempo per sé come afferma una intervistata: «non è mai abbastanza», il principale limite è nel tempo lavorativo che per queste donne è dilatato nella giornata, cui si aggiungono distanze e spostamenti. Comparando la sua situazione attuale con quella precedente di lavoratrice, così commenta una delle intervistate: «io non posso rispondere perché ne ho abbastanza, vedo però la differenza quando lavoro mezza giornata e quando lavoro tutta la giornata, quando lavori tutta la giornata è difficile ritagliarsi tempo per sé... devi tagliare qualcos’altro» (F2). 6 Si tratta di una manifestazione giunta oramai alla sua decima edizione, che nel mese di agosto propone una serie di iniziative vertenti sul tema della interculturalità. 7 Naturalmente non si può sottacere che ciò è dovuto all’autoselezione che si verifica quando si chiede la disponibilità a partecipare a ricerche. SENZA FIGLI... 143 Al tempo per sé viene attribuita una grande rilevanza anche in funzione di un allentamento dei ritmi concitati del quotidiano, per esercitare una libertà di fare e non fare. È l’assenza di vincoli che al tempo per sé si associa, a rendere lo stesso significativo e desiderabile. Il problema non è di quanto tempo disporre ma piuttosto della libertà con cui disporne, che di per sé rimanda già ad un apporto di qualità nella pratica quotidiana: «per me non è importante quantizzare ma l’importante è disporne quando ne hai bisogno» (S3). «Io vorrei minimo 3 ore; – ma già magari anche 2; – forse perché uno non è abituato ad averlo e 2 ore sembrano già tante; – o forse anche per correre di meno, cioè io vado sempre di corsa, salgo su per le scale con le borse della spesa, mia sorella fa 6 ore al giorno, beata lei è lì che parla con mia madre che abita nella casa vicino, io abito sopra a mia madre, io torno lei è lì tranquilla che parla; io torno di corsa, sì ciao vado a cucinare... per avere una vita più tranquilla; – io un po’ quello che dice lei che se devi far qualcosa lo puoi fare con calma, già quello, poi per fare una qualsiasi attività che può essere una passeggiata, uno sport andare a teatro qualsiasi cosa; – andare all’Auchan, tranquilla che nessuno ti rompe; – anche io trovare più tempo per fare più o piscina palestra, anche se a volte penso che guardando bene la giornata questo tempo si potrebbe riuscire a trovarlo. Poi io sono pigra. Poi adesso se penso a due ore tutti i giorni un po’ mi spaventa» (F2). L’altro argomento su cui le donne insistono è quello della conciliazione. Un problema che, ritengono, al momento non riguardarle direttamente, ma che comunque mettono in conto di dover affrontare in prima persona. A tal fine indirizzano proprio verso questo ambito i suggerimenti di intervento per le donne del territorio. La conciliazione insomma è un problema delle donne, in quanto tali, oltre che loro personale, pur non nell’immediato: «forse io vedo più il problema degli asili nido, ce ne è solo uno e contiene pochi bambini; – poi c’è quello privato che va tanto ma certamente ha un costo; – però asili nido solo a Calcinelli e Saltara se no a Fano asili nido nel territorio nostro ce ne sono; – i privati vanno tanto» (S3). La questione asili nido è centrale. Essa rappresenta una emergenza, giacché la crescente numerosità della popolazione locale ha reso rapidamente le strutture esistenti, che comunque garantivano una copertura parziale, 144 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE attualmente del tutto insufficienti. Inoltre, va sottolineato ulteriormente che l’asilo nido non è solo un servizio erogato, bensì ricopre un’importanza nell’un tempo materiale e simbolica, in quanto percepito come un sostegno alle donne. È su questa base che si auspica un maggiore impegno dell’amministrazione locale. Lavoro e maternità sono le due istanze intorno a cui ruota la progettualità delle intervistate, che si compongono in un modello ambivalente mantenendo un segno opposto. Capitolo quinto CON I FIGLI... V.1. La ricerca Questa parte è dedicata alle donne con figli residenti nell’area dei 13 comuni e intervistate nel corso della ricerca. Come precedentemente già precisato, si tratta di 1.060 interviste per altrettante intervistate1. L’oggetto dell’approfondimento di ricerca è collocato in una visione della conciliazione quale insieme delle diverse modalità di relazione tra vita, lavoro e partecipazione sociale. Pertanto la conciliazione è qui osservata, descritta e analizzata attraverso le strategie delle donne e le precipue pratiche di mediazione fra le sfere di vita. Non sono tanto importanti i confini tra le sfere dell’esperienza personale, quanto piuttosto il modo in cui esse si combinano nel percorso e nel progetto individuale, nella considerazione della loro rispettiva mutevolezza e interdipendenza. Una visione dell’intreccio degli ambiti esperienziali che fa riferimento non alla condizione occupazionale, né a quella familiare-privata prese singolarmente, bensì al «paradigma della condizione lavorativa delle persone che non viene definita dall’esercizio di una professione o di un impiego determinato, ma che ingloba le diverse forme di lavoro (di mercato e non di mercato) che ogni persona è suscettibile di compiere nel corso della propria esistenza» (Supiot, 2003, p. 66). L’interesse principale della ricerca è dunque la complessità dei percorsi delle donne, in una relazione biunivoca tra vita e lavoro, laddove le opzioni vengono di volta in volta ridefinite in considerazione delle opportunità accessibili e percepite tali, sia sul piano privato-familiare, sia nell’ambito lavorativo e pubblico sociale. Dal punto di vista analitico si distinguono principalmente 1 Si veda il capitolo terzo per i dettagli metodologici. 146 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE due ambiti: da un lato, la dimensione strutturale dei percorsi e delle carriere formative-lavorative, dall’altro, il significato attribuito a tali percorsi, nonché alle aspettative che nel tempo vengono messe a fuoco ed orientano le scelte. Si parla qui di donne con figli, la cui presenza ha rappresentato il criterio di selezione delle intervistate di questa che è poi la parte preponderante della ricerca. La complessità dell’intreccio vita-lavoro, per quanto concerne le donne coniugate con figli fino a 10 anni protagoniste della presente ricerca, si riflette, quantitativamente e qualitativamente, sulla partecipazione sociale e lavorativa, sulle modalità in cui essa si esprime e non. Sulla partecipazione e sulla mancanza della stessa si sono concentrate le osservazioni a partire dal lavoro di indagine svolto. La ricerca ha di per sé rappresentato un evento significativo per il territorio, intorno ai temi proposti si è rivelata una grande sensibilità da parte delle donne coinvolte. L’elevata risposta, esplicitata nella considerevole percentuale di questionari di ritorno e validi, è indicativa di quanto la ricerca abbia contribuito di per sé ad illuminare una realtà a lungo trascurata, intercettando un bisogno delle donne di essere ascoltate, nonché di esprimere il proprio punto di vista sulla condizione personale e della vita sul territorio. La situazione favorevole è stata sostenuta dalla convergenza verificatasi tra l’interesse delle istituzioni locali e la disponibilità delle cittadine intervistate a mettersi in gioco, a rispondere alle domande, ma anche a porre domande al territorio, alle istituzioni. Il bisogno di maggiore conoscenza delle specifiche realtà delle donne nei contesti locali, si pone in controtendenza con l’orientamento dominante di ricondurre le stesse entro le letture di andamenti presunti omogenei, per aggregati regionali, modelli produttivi ecc., che non descrivono adeguatamente la pluralità delle condizioni femminili, lasciando in ombra le pratiche quotidiane su cui si fondano i percorsi esistenziali. In questo caso, come mostrano i risultati, la popolazione femminile coinvolta testimonia di una realtà inedita per la letteratura consolidata, che arriva a mettere in discussione le dinamiche virtuose aprioristicamente assunte e presunte dal modello socio-economico e culturale dominante. La risorsa flessibile e disponibile rappresentata dalle donne nel modello della piccola impresa e dell’industrializzazione senza frattura, ha consolidato un sistema ad opportunità per loro stesse ridotte, funzionale ad una produzione che nella continuità tra risorse familiari e produttive ha individuato il suo fulcro. Attraverso l’analisi dei dati si approfondiranno, oltre che preliminarmente le caratteristiche delle rispondenti, la condizione lavorativa personale e di coppia, insieme all’aspettativa di lavoro e non lavoro; l’organizzazione familiare e la divisione del lavoro di cura tra i partner, le reti di cura fami- 147 CON I FIGLI... liari ed extra familiari; il rapporto con il territorio e la qualità in esso della vita e dei servizi2. V.2. Voci di donne: le intervistate L’età delle intervistate è compresa tra i 23 e i 54 anni. La classe più numerosa risulta quella tra i 35 e i 40 anni e l’età media è di 40 anni. Considerando che si tratta di madri di bambine e bambini con età fino ai 10 anni, il gruppo delle rispondenti ben rappresenta il trend demografico dello spostamento in avanti della maternità. Ciò, a fronte di una tenuta, che abbiamo già precedentemente evidenziato come tratto regionale, di stili familiari tradizionali: la più parte dichiara infatti di essere sposata, mentre l’incidenza delle convivenze (4,8%) e delle separazioni (3,6%) è significativamente basso. Anche il dato sullo stato civile e sulla tipologia delle forme familiari risulta coerente con l’andamento del contesto regionale. Le Marche sono tra le regioni che, più di altre, preservano la formula matrimoniale nelle scelte di convivenza di coppia. La famiglia tradizionale trova nel territorio indagato, come nel resto della regione, un profondo radicamento: ciò è già stato evidenziato dalle intervistate senza figli ed anche sul piano delle aspettative risulta confermato dalle rispondenti con figli. 5&6/7/0/89$4,7:$/0/ ;(<* +,-4$4&-0& 3(1* =&9,4/ >(3* !"#$%& '()* +,-$"./0/ 12(3* Figura V.1 - Stato civile intervistate. 2 Più esattamente Dati personali: dati socio-anagrafici delle intervistate; lavoro: condizione occupazionale delle rispondenti e quella dei loro partner; famiglia: l’organizzazione familiare e la divisione dei compiti di cura verso le persone e le cose; il territorio: valutazione del territorio e dei servizi presenti, partecipazione alla vita sociale locale e modalità di fruizione del tempo libero; altro: importanza attribuita all’avere un lavoro, avere un figlio e avere tempo libero; suggerimenti per chi amministra il territorio. 148 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE Oltre il 70% delle rispondenti ha due figli; la percentuale scende significativamente passando a 3 nel 16,8% dei casi; arrivano a 4 figli il 3,3% delle intervistate e a 5 figli solo lo 0,5%. Tabella V.1 - Incidenza percentuale del numero di figli per rispondente N° figli % 1 2 3 4 5 8,7 70,7 16,8 3,3 0,5 Il ritratto della popolazione femminile, nella circoscritta realtà in esame, trova nel livello di istruzione una conferma di quello che negli ultimi decenni è stato uno dei principali canali di promozione sociale femminile: l’investimento in istruzione. Come nel resto della popolazione del paese, anche le intervistate presentano titoli di studio medio-alti. Come raffigura il grafico qui a seguire, quasi la metà risulta diplomata e l’8,6% laureata. ?> 3?(3 3? ;1(2 3> 3)(3 ;)(3 ;? ;> I$G6,-9&-0$ @? @> F/70-&7 '? 1(< )(? '> ? '(1 @(? '(? >(< > A%&B&-0/7& C&9$/ D$6%,B/ E/"7&/ F,G0H%/"7&/ Figura V.2 - Rispondenti e loro partner per livello di istruzione La percentuale di laureati è più bassa tra i partner, così come meno numerosi sono tra di essi i diplomati. Passando ai più bassi livelli di istruzione, si conferma una maggiore incidenza dei partner. Anche in questo caso si riscontra una congruenza con gli andamenti dei livelli di istruzione nella 149 CON I FIGLI... popolazione più ampia, per cui è la componente femminile a raggiungere con maggiore frequenza i titoli di studio di più alto grado, incluso il dottorato, di recente interessato da un superamento di donne sugli uomini per numero di titoli conseguiti. Ma è intorno alla condizione lavorativa che si configura un vero e proprio gap. Sono infatti senza occupazione quasi un terzo delle rispondenti, di cui il 22,7% si dichiara casalinga e il 3,9% disoccupata. La disoccupazione incide in misura molto meno significativa tra i partner (0,9%) e non si riscontra tra questi una condizione equivalente a quella di casalinga. Quanto alla tipologia delle occupazioni, le rispondenti sono soprattutto impiegate ed operaie, mentre i partner sono più frequentemente operai e lavoratori autonomi. Nel complesso prevalgono occupazioni a medio-bassa qualifica per entrambi. Tabella V.2 - Occupazione delle rispondenti e dei loro partner Intervistate Partner Dirigente, direttivo, quadro Insegnante di scuola media inferiore o superiore Insegnante di scuola materna elementare Impiegato/a Capo operaio, operaio subalterno ed assimilati Apprendista Lavorante a domicilio per conto di imprese Altro – dipendente Imprenditrice/ore Libera/o professionista Lavoratrice/ore in proprio Socia/o di cooperativa Collaboratrice/ore familiare Altro – in conto proprio Occupate/i 0,7 1,1 4,4 18,1 16,8 1,4 1,1 12 2 2,4 9,5 0,6 1,9 1,3 – – – 14,2 29,7 0,2 0,8 12,3 6,7 7,2 19,2 0,9 0,2 2,7 Senza occupazione Casalinga Disoccupata Totale 22,7 3,9 100 -0,9 100 Una prima considerazione riguarda le «senza occupazione», tra le quali risulta una percentuale piuttosto modesta di disoccupate con una più significativa incidenza di casalinghe. La condizione di disoccupazione è del 150 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE tutto marginale all’interno del gruppo di intervistate, mentre più significativa e diffusa è quella di casalinga, che, come vi sarà modo di rendere evidente, solo in una minoranza di casi emerge come scelta di vita compiuta una volta per tutte. La “casalinghità” sebbene risulti nel nostro paese diffusa ed assegnata alle donne in maniera pressoché esclusiva, richiede tuttavia di essere letta nel contesto del percorso individuale e certamente in relazione alle contingenze storico sociali, le quali, a loro volta, trovano espressione nel legame territoriale, luogo in cui le chances di vita individuali vengono colte. Per tali ragioni, la “casalinghità” si afferma come status contingente più che irreversibile. Considerando l’insieme delle rispondenti senza occupazione, si rileva come al crescere del numero dei figli aumentino coloro che si dichiarano casalinghe, mentre diminuiscono le disoccupate. Addirittura, oltre i 3 figli non vi sono intervistate nella condizione di disoccupate. Pur avendo tale dato un significato, più che di rappresentatività statistica, di natura esplicativa e descrittiva del gruppo indagato, appare rilevante come lo status di casalinga divenga stabile al crescere del numero dei figli. Un risultato certamente non controintuitivo, ma che pone una ulteriore evidenza alla situazione specifica (oltre che femminile più generale), nonché impone la necessità di ulteriori riflessioni e approfondimenti. Si configura un pattern di partecipazione che concentra nel confine tra ruolo materno e mondo del lavoro un insieme di rigidità tali da rendere la maternità un modello alternativo, quando non ostacolante, dell’assunzione di ruoli molteplici e realmente opzionabili. Tabella V.3 - Rispondenti senza occupazione per numero di figli Rispondenti Casalinga Disoccupata Numero figli 1 22,3 4 2 24,2 3,4 3 31,5 1,2 4 46,7 0 Coloro che hanno al momento della rilevazione una occupazione, sono legate prevalentemente a contratti di lavoro a tempo indeterminato (76%), che dunque offrono prospettive e sicurezze di relativa maggiore stabilità. Tutt’altro che trascurabile, d’altra parte, è la diffusione tra le rispondenti occupate, di contratti di lavoro “diversi” (a tempo determinato, di collaborazione, interinale, apprendistato e di inserimento). Un dato, quest’ultimo, da leggersi anche in relazione alle recenti dinamiche del mercato del lavoro locale, per cui il lavoro a tempo indeterminato tende a diminuire rapidamente il suo peso nel volume dell’occupazione 151 CON I FIGLI... locale. Come è stato recentemente messo in evidenza3, le Marche sono tra le regioni maggiormente interessate dalla rapida espansione di questo fenomeno, più di Toscana ed Emilia Romagna che, simili per modello produttivo e tradizione civico-politica, sono accomunate da un andamento simile ma con un più debole impatto sul mercato del lavoro locale. Se tale fenomeno viene registrato a partire dal 2010, già nel momento in cui la ricerca è stata realizzata emerge una evidente frammentazione della condizione lavorativa soprattutto femminile. Del resto, da più parti la componente femminile della forza lavoro è stata assunta per definizione flessibile e funzionale al modello produttivo marchigiano, in forme differenti a quelle attuali ma che di fatto hanno una continuità con gli attuali lavori non standard. La manodopera di riserva femminile e nelle forme di collaborazione familiare e in quelle di lavoro a domicilio, stagionale, quando non in nero, ha contribuito a sostenere una economia locale i cui profitti si sono basati, tra l’altro e in misura tutt’altro che insignificante, sulla disponibilità di lavoro a basso costo quale appunto quello delle donne. J667&-9$G0/0, ;* M-0&7$-/%& '* D$H$-G&7$B&-0, '* J%07&HK,7B& @* D$HL,%%/#,7/:$,-& ;* JH0&B6,H9&0&7B$-/0, '3* JH0&B6,H$-9&0&7B$-/0, )<* Figura V.3 - Intervistate occupate per contratto di assunzione. Al di là del contratto di lavoro, degno di nota è il dato sull’orario di lavoro. Come mostra la tabella qui di seguito, oltre la metà delle rispondenti occupate svolge un lavoro a tempo pieno, che si conferma largamente dominante. Si noti tuttavia che svolgono un lavoro part time il 37,9% delle rispondenti contro l’appena 2,3% dei loro partner. Tra gli uomini il part time si conferma una forma residuale, mentre l’ampia differenza di orario 3 Si veda l’inserto «Centronord» del Sole 24ore, pubblicato nell’aprile 2011. 152 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE tra donne e uomini, rimanda ad un’organizzazione sociale e familiare tendente a contenere l’impegno lavorativo extra domestico delle donne, specie in presenza di figli. A tal riguardo è stata inserita nel questionario somministrato una ulteriore domanda di controllo relativa al numero di ore giornaliere lavorate fuori casa, da cui risulta che ad indicare 8 ore giornaliere di lavoro sono il 31% delle intervistate, mentre lo stesso numero di ore impegna appena la metà dei loro partner, che superano questa soglia in misura rilevante. Sono le donne, le cui strategie lavorative risultano maggiormente condizionate dai gravi familiari, a contrarre significativamente l’impegno e il tempo di lavoro. Per le donne, il lavoro è possibile nella misura inversamente proporzionale all’impatto sulla vita familiare. L’ambizione a ridurre l’orario di lavoro emerge tra le occupate e tra quante svolgono un’attività lavorativa: a tal fine nel 22,5% dei casi le rispondenti sarebbero anche disposte a pagare il costo economico di una riduzione della retribuzione. In risposta al quesito posto su cosa, potendo, cambierebbero dell’orario di lavoro corrente, emerge una larga domanda di flessibilità, sia essa giornaliera, sia essa come possibilità di fruizione di permessi o di forme di lavoro che non vincolino necessariamente alla presenza sul posto di lavoro. Il tempo di lavoro, hic et nunc, non incontra le esigenze delle intervistate. La sua organizzazione appare come un modello imbrigliato in una ripartizione rigida del loro tempo fra lavoro e famiglia. Tabella V.4 - Orario di lavoro delle rispondenti e dei loro partner A tempo pieno Part time Altro Totale Rispondenti Partner 54,3 37,9 7,9 100 92 2,3 5,7 100 Proprio il tempo, come confermano da più parti i risultati della ricerca, è una variabile cruciale per l’organizzazione personale e familiare e altrettanto per la qualità di vita: ripartito tra vita e lavoro, è, si ribadisce, una risorsa scarsa. Esso implica per le intervistate una razionalizzazione oraria e perfino delle strategie lavorative. Si palesa un contenimento del lavoro come modo di adattamento alle limitazioni e vincoli della condizione personale, una cui ulteriore evidenza è data dalle distanze tra il luogo di residenza e quello di lavoro. Considerando infatti gli spostamenti da e verso il luogo di lavoro, i partner impiegano un tempo per lo spostamento mediamente più 153 CON I FIGLI... lungo, mentre per le donne esso è tendenzialmente minore e più vicino a quello di residenza. Inoltre, più spesso i partner hanno una sede di lavoro non fissa (cosa che accade per una solo delle intervistate) oppure, come scrivono le stesse, lavorano «ovunque». Il luogo di lavoro è per la più parte, donne e uomini, non distante da casa più di un’ora, ma è evidente che la maggior vicinanza del luogo di lavoro per le intervistate sia da mettersi in relazione con una pianificazione di vita che prevede l’alleggerimento, per quanto possibile, del “peso” del lavoro, ivi includendo la pendolarità da e verso di esso: una gestione attenta all’economia del tempo. Nella misura in cui è risparmiato per gli spostamenti esso diviene tempo liberato per la cura ed è intorno a ciò che principalmente si misura la distanza tra le rispondenti e i loro partner. Tabella V.5 - Cosa cambierebbe del suo orario di lavoro? Rispondenti occupate Riduzione dell’orario anche con riduzione della retribuzione Aumento dell’orario con adeguato compenso Maggiore flessibilità oraria nella giornata Maggiore flessibilità oraria nella settimana/mese Lavoro concentrato in quatto giorni settimanali Parte del lavoro da casa Ore lavorative in più da recuperare con permessi retribuiti Più permessi non retribuiti per impegni familiari Maggiore facilità nell’accesso ai permessi non retribuiti Altro % 22,5 12,2 17,7 9,2 9 6,2 8 6,2 1,6 7,6 Dove le differenze tendono ad annullarsi è nella scelta del mezzo di trasporto per raggiungere la sede di lavoro. È intorno all’uso dell’automobile che i comportamenti tra le rispondenti e i loro partner tendono ad assomigliarsi. L’automobile è il mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, ma, come hanno riferito anche le intervistate senza figli, anche per tutte le altre attività. Questo dato è di particolare interesse sia per gli aspetti che riguardano il territorio, confermando così che di fatto la mobilità è per lo più legata ai mezzi privati, nella fattispecie le automobili, sia pure per quanto riguarda le famiglie e la gestione degli spostamenti. Dalla proprietà di mezzi privati dipende principalmente la libertà di movimento. Di conseguenza, le scelte di vita e lavorative risulteranno significativamente condizionate dai mezzi di trasporto detenuti, in considerazione del fatto che gli spostamenti per ragioni di lavoro e del tempo libero avven- 154 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE gono normalmente in un’area intercomunale che, a dire delle intervistate, non è adeguatamente coperta da un servizio di trasporto pubblico o non è ritenuta rispondente alle esigenze di tempo e di una sua razionalizzazione. Certamente si può immaginare che l’automobile incontri meglio le esigenze delle rispondenti, soprattutto le occupate, che disponendo di un mezzo autonomo gestiscono una mobilità territoriale originata da una pluralità di occorrenze personali e familiari: «Per le donne senza patente – scrive una intervistata – ci vorrebbe una navetta che porti da una parte all’altra ogni 30 min., così le donne possono muoversi per andare a fare la spesa, dal dottore, ecc... senza sottostare agli altri» (949). Tabella V.6 - Tempo di percorrenza casa-lavoro Fino a 15 minuti Fino a 30 minuti Fino a 60 minuti Oltre 60 minuti Totale Intervistate Partner 78,4 18 3,4 0,3 100 63,8 24,8 7,2 4,2 100 Una molteplicità di variabili contribuisce a disegnare i percorsi dalla vita al lavoro e viceversa, come pure descrive la gamma delle opzioni possibili di ciascuna. Una mobilità privata prevalente implica un onere di spostamento che ricade per lo più sul singolo soggetto e, presumibilmente, nella misura in cui essa è legata agli spostamenti dei figli per le varie attività, sulle donne. Di fatto, la mobilità privata equivale, nel caso dei figli, ad una mobilità dipendente dalla disponibilità di chi li accudisce. Considerando poi che, come affermano le stesse intervistate, il menage familiare vede un tendenziale aumento e diversificazione degli impegni dei più giovani, questo ricade inevitabilmente su chi ne diviene principalmente responsabile. Il tempo delle donne è dunque la risultante delle articolazioni del tempo personale e di quello altrui. Di questa combinazione il loro bilancio risente fino a divenire misura e vincolo per le scelte da operare. Fermo restando che sulle donne gravano i maggiori vincoli, più di quanto non accada ai loro partner, questi si fanno ancor più evidenti approfondendo le ragioni che definiscono la condizione delle non occupate. Sebbene al momento della rilevazione queste intervistate si dichiarino, a vario titolo, senza occupazione, annoverano per la maggior parte esperienze lavorative nel loro passato. Si tratta per lo più di lavori a bassa qualificazione che tracciano storie lavorative frammentate: cameriera, babysitter, commessa, barista, 155 CON I FIGLI... apprendista in diversi settori (stiratrice, tessile, commercio ecc.), operaia o, più genericamente, indicato con l’espressione “lavoro in fabbrica”. Si tratta di lavori che circa la metà di queste rispondenti dichiara di aver svolto per un periodo massimo di 6 anni. Sono molto meno numerose quelle che affermano di aver svolto tali lavori solo per qualche mese. Diversi poi sono i casi di quante, attualmente senza occupazione, al loro attivo hanno più di una esperienza lavorativa passata: in tali circostanze, mentre non varia il tipo di lavoro, ne varia la durata. Si tratta di esperienze relativamente brevi, svolte, per oltre la metà delle risposte fornite, per un periodo di 2 o 3 anni. Per quante arrivano ad indicare più di due o tre esperienze lavorative precedenti, la tipologia prevalente rimane invariata, a costruire un percorso instabile che finisce per arrestarsi al momento in cui si entra in una nuova fase del corso di vita, segnata, nella più parte dei casi dalla famiglia e più di tutto dalla maternità. Tabella V.7 - Mezzo di trasporto utilizzato nello spostamento casa lavoro A piedi Bicicletta Automobile Moto/Scooter Mezzi pubblici Treno Altro Totale Intervistate Partner 8,4 1,5 87,9 0,4 1,4 0 0,4 100 3,5 0,5 87,8 1,5 0,9 0,9 4,9 100 Sempre tenendo lo sguardo sul gruppo di donne senza occupazione, di grande interesse sono le ragioni che le stesse intervistate associano alla loro attuale condizione. Numerose sono le risposte aperte fornite che hanno permesso di approfondire il dato sul perché del loro status di non occupate e, a seguire, di indagarne le prospettive future. Cominciando dalle ragioni per cui attualmente non lavorano, emergono due diversi orientamenti prevalenti, accomunati dall’assunzione di conflittualità intrinseca tra il ruolo di madre e quello di lavoratrice. Tra i due si rilevano, tuttavia, alcune significative differenze. Al primo orientamento possono essere ricondotte tutte le intervistate che menzionano il tema dell’accudimento dei figli (in totale si tratta di 53 casi), ravvisando in ciò un concreto impegno, nonché impedimento a svolgere attività lavorative fuori di casa. Nelle loro risposte chiariscono che attualmente non lavorano «perché mi devo occupare della 156 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE famiglia» (973) o perché «[Ho] tre bimbi da crescere» ( 85) «devo accudire i miei figli» (87), «devo stare a casa per occuparmi dei miei figli» (32). Il dovere di accudimento, soprattutto dei figli, è assunto dalle intervistate a impegno prioritario. È significativo come numerose intervistate richiamino tout court la presenza di figli piccoli, a indicare una condizione di per sé sinonimo di alternativa a quella lavorativa: «ho una bimba di quattro mesi» (59), «perché ho i figli piccoli» (507), «ho un bambino di due mesi» (640), «perché attualmente ho un neonato di soli nove mesi» (819). Sono i figli più piccoli a richiedere il massimo impegno in termini di accudimento; la loro presenza condiziona le scelte extra familiari delle madri, in particolare quella di lavorare: «[non lavoro perché] ho un bambino piccolo è impossibile trovare lavoro» (8), «sono impegnata con la famiglia» (68), «sono già molto impegnata con quattro figli a casa» (544). Le motivazioni sono dunque legate alla situazione presente, definita dal vincolo di cura, a partire dal quale le intervistate orientano i loro percorsi: «perché avendo tre bimbi da accudire e crescere non rimane tempo libero a sufficienza per svolgere attività lavorative» (24). Ciò nondimeno il vincolo è al presente, perciò non rimanda ineluttabilmente ad una scelta definitiva: «perché aspetto che cresca il mio ultimo genito che attualmente ha solo 5 mesi» (903). Il carattere di temporaneità della scelta e derivante dalla fase di massima di dipendenza dei figli dalle cure genitoriali, è ribadita da più intervistate, che motivano la loro scelta di non lavorare come segue: «per essere più vicina a mia figlia nell’età scolastica» (661); «preferisco ancora per qualche anno seguire i miei figli giorno dopo giorno» (777); «per il momento intendo seguire i miei figli personalmente anche se devo fare tanti sacrifici» (36); ad ogni modo, dalle parole delle intervistate si evince il tratto non risolutivo della condizione presente: «adesso mi occupo della famiglia» (799). In vari casi la scelta è maturata all’interno della coppia, giunta, in maniera condivisa ad una precisa assegnazione dei compiti: «perché per scelta mia e del mio compagno mi occuperò dei bambini finché entrambi frequenteranno scuola e asilo» (1008); «abbiamo deciso io e mio marito che io stia con mio figlio, quindi lavorerò in un secondo momento» (1008). Mentre prevale il dovere presente, la partecipazione lavorativa risulta al momento oggetto di negoziazione tra i partner, in ogni caso rimandata ad una fase successiva. Di fatti, tra le donne senza occupazione, il 27% è attualmente in cerca di un lavoro che nella più parte dei casi viene descritto un lavoro qualsiasi e part time. La questione dell’assistenza familiare appare maggiormente stringente e vincolante nel lungo periodo per quante, invece, menzionano i carichi di cura quale impedimento ad operare una scelta diversa da quella attuale di non lavorare. Si tratta di altri familiari che per ragioni spesso di salute e di età avanzata dipendono dall’assistenza delle stesse intervistate: «per motivi CON I FIGLI... 157 di gestione anziani di famiglia» (7), «casalinga a tempo pieno più assistenza familiare disabile» (45), «ho un figlio disabile e necessita di parecchi impegni» (36), «perché mi prendo cura di mia suocera disabile» (798), «perché mi occupo della famiglia-casa-suocera-ammalata» (865), «perché devo occuparmi dei figli e dei miei genitori anziani» (21). Le incombenze derivanti dalla cura dei figli e dall’assistenza di altri familiari sono tra le motivazioni più ricorrenti a spiegare il perché della condizione di non occupazione. Riferiscono di un dovere cui le intervistate sentono di rispondere personalmente, il quale sfocia in un impegno privato-domestico dominante destinato a divenire persino più oneroso laddove all’elevarsi della numerosità dei membri dipendenti o in presenza di aggiuntivi problemi di salute: «perché la famiglia numerosa richiede la mia presenza a casa» (1040). Tra le intervistate che pongono l’accento sul dovere dell’accudire sembra emergere una risposta normativa ad un imperativo sociale per cui il femminile appare più adeguato a soddisfare le necessità espresse dai diversi soggetti che compongono l’ambito familiare. Un dovere che tuttavia riduce le opzioni delle stesse erogatrici di cura, soprattutto laddove le reti di supporto appaiono essere deboli, caratteristica questa che emerge nettamente come trasversale a tutte le intervistate e al sistema locale cui appartengono. La mancanza di aiuti per la ripartizione delle necessità di cura familiare e più di tutto dei figli, è uno dei principali argomenti, dopo la menzione del dovere di accudimento, affrontati nelle risposte fornite nei questionari. Sono infatti numerose le intervistate che chiamano in causa l’assenza di aiuti quale ostacolo ad una eventuale opzione lavorativa: «non ho nessun aiuto da parte della mia famiglia e di quella del mio compagno quindi non so a chi lasciare i miei figli» (57). Alla mancanza di aiuti non vi è via d’uscita che assumere su di sé il carico di cura alternativamente al lavoro per il mercato: «Ho anche il problema della piccolina di quattro anni che se si ammala non so a chi lasciarla perché i miei lavorano tutti» (535). Le circostanze stesse impongono loro condizioni di vita non necessariamente scelte: «perché sono mamma a tempo pieno e non ho nessun aiuto» (561); «aspetto che il bimbo piccolo, crescendo, diventi un poco più gestibile, non avendo nessun familiare su cui contare come aiuto» (1002). Le rispondenti intravedono nello stare a casa l’unica soluzione atta a superare le difficoltà logistiche di cui avrebbero comunque l’onere organizzativo: «trovare un lavoro part time è quasi impossibile e lavorare in orario continuato per le otto ore non riuscirei, anche perché non saprei dove mettere i miei figli e non ho la possibilità di lasciarli da mia mamma, tutti i giorni e per molte ore» (847); «quando non si può contare sull’aiuto di nonni/amici/conoscenti a cui affidare i propri figli in caso di bisogno, è quasi impossibile cercare lavoro anche part time se si considera che i bambini si ammalano, vanno in vacanza... La casalinga ha 158 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE una mole di lavoro non indifferente e una responsabilità non da meno. Non siamo minimamente considerate né riconosciute ed è per questo che il lavoro più nobile che ci sia rischia di farci sentire delle fallite!» (1024). La mancanza di reti di supporto induce alcune intervistate a valutare la scelta di lavorare o meno all’interno di una logica di costi-benefici economici. Sebbene le ricerche offrano evidenze di come questo accada più frequentemente laddove le occupazioni e i percorsi lavorativi sono meno qualificati e maggiormente esposti a rischi di sottoccupazione, come di frammentarietà (Badinter, 2010; Zurla, 2006) e lavoro irregolare, nella pratica quotidiana la presenza di difficoltà rende urgente stabilire come far quadrare il bilancio familiare, se attraverso la partecipazione lavorativa o puntando sul lavoro di cura gratuita offerto dalle donne. Commenta aspramente una intervistata straniera: «Sono senza parole. Non avevate detto battezzate i bambini per permesso di soggiorno, io lavoro in nero, la busta paga non basta mai per pagare affitto, luce, acqua, immondizia, medicine, scuolabus. Noi stranieri lavoriamo molto per il bene dei figli, ma i soldi non bastano mai, i figli vogliono divertirsi e i vestiti. Grazie» (29). Anche per le nostre intervistate il dilemma tra lavorare o pagare per servizi di cura si pone in special modo tra quante affermano di non potersi affidare al supporto delle reti primarie. Ed è soprattutto la mancanza di aiuti la ragione che le orienta verso la cura dei familiari nella forma della dedizione esclusiva: «Non ho nessuno aiuto da parte della mia famiglia e di quella del mio compagno quindi non so a chi lasciare i miei figli» (117); «perché non ho nessuno che mi aiuta con la famiglia e pagare una seconda persona non vale la pena» (13). Sono queste intervistate a porre la questione economica come prioritaria e a vedere nella scelta di non lavorare una necessità di salvaguardare cura e reddito familiare: «se non c’è l’aiuto dei nonni tra il nido e una babysitter il guadagno non c’è» (553); «preferisco restare a casa con i figli, non potrei permettermi una babysitter» (561). Il mercato del lavoro, è percepito povero di opportunità per le madri. Ragion per cui un possibile rientro viene rimandato a quando i vincoli di cura si allenteranno. La ricerca di un lavoro viene altresì scoraggiata dal peso della mancanza di servizi adeguati e sufficienti per la cura dell’infanzia, oltre che dallo sbilanciamento del lavoro di cura a carico delle donne. Le reti di cura, quelle primarie, appaiono corte e nell’insieme favoriscono percorsi che conducono più facilmente queste donne verso un ritiro nella sfera privata: «Se mi capita un lavoro, ben venga, ma attualmente, non sto cercando attivamente. Ho molto da fare in casa e non riuscirei a lavorare tutto il giorno, voglio essere presente e a disposizione dei miei tre bambini, hanno tutti e tre molte attività nel pomeriggio. Potrei lavorare quattro mattine alla settimana oppure a casa» (857). Il menage familiare, specie il seguire i figli nelle attività extra scolastiche, è un elemento CON I FIGLI... 159 di complessità che, a sua volta, va ad aggravare il carico di lavoro delle rispondenti. Il concetto di cura è molto ampio ed include una molteplicità di azioni che vede le donne impegnate nell’arco dell’intera giornata e con numerosi spostamenti sul territorio. Ricordando poi che la mobilità territoriale per la più parte si basa sull’uso del mezzo privato, questo conduce ad una riflessione sulle conseguenze di mancanza di autonomia da parte dei minori e di quanti, tra gli adulti, non dispongano personalmente di un mezzo di trasporto. Questo primo orientamento in cui rientra la più parte delle intervistate non occupate, descrive una situazione in cui è a partire dalla condizione di madre che le opzioni di partecipazione sociale e lavorativa si restringono, senza che questo sia causalmente correlato con le aspirazioni personali. Al secondo orientamento sono riconducibili quante dichiarano di avere operato coscientemente una scelta dettata dal riconoscere nell’essere madre una priorità, differentemente dal precedente in cui le donne, loro malgrado, ritengono di non potersi sottrarre alle responsabilità familiari. Queste intervistate: esprimono un’adesione consapevole ad un modello prettamente femminile di madre e curatrice: «Ho lasciato il lavoro per dedicarmi ai miei figli» (454); «sono impegnata nella crescita dei figli» (32). L’impegno familiare è individuato come un’aspirazione che coinvolge totalmente, oltre che mantenere la caratteristica di necessità: «Accudire i figli e il lavoro di mamma e casalinga mi fa sentire indispensabile» (634); «perché mi piace fare la mamma e la moglie» (20). Per queste donne il dovere di cura rimanda ad un’autodefinizione di status, il che equivale prevalentemente all’essere madre ed esserlo in maniera devota: «Sono casalinga e dedico il mio tempo a mio figlio, mio marito, alla casa con tanto piacere» (26); «sono casalinga» (17); «perché mi piace fare la mamma e la moglie» (20); «perché mi basta il lavoro di casalinga» (51); «perché ho scelto di seguire la famiglia» (904). Queste risposte, pur non rappresentando la maggior parte delle rispondenti, testimoniano di una persistenza di un modello femminile che favorevolmente si definisce a partire dalla famiglia. In alcuni casi ciò è addirittura enfatizzato come una libertà, uno stato di affrancamento dall’occorrenza di lavorare: «[non lavoro] perché mio marito guadagna abbastanza per poter soddisfare i nostri bisogni» (848); «fortunatamente mio marito è ben retribuito, e anche perché ho tre figli» (954); «essendo vedova percepisco la pensione di mio marito così posso accudire i miei figli a tempo pieno» (5). Non lavorare dunque per queste intervistate è un privilegio offerto da condizioni economiche favorevoli; altre invece rinunciano a lavorare pur facendo sacrifici: «la cosa migliore sarebbe di far pagare meno tasse in modo che lo stipendio del convivente sia più alto e che la donna possa occuparsi a tempo pieno dei figli e della casa» (20); «lo Stato aumenti gli stipendi dei mariti e faccia 160 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE restare a casa le donne» (1). Le condizioni materiali familiari descrivono orientamenti differenti al lavoro e alla maternità, sia quando si ritiene che non ve ne sia necessità, sia quando lo stare a casa è valutato come un costo minore rispetto al percepire un reddito che sarebbe in parte speso per pagare servizi di cura. Allo stesso tempo però, le condizioni materiali pesano sui percorsi delle donne e molto meno su quelli degli uomini: anche quando la scelta di lavorare o stare a casa è concordata dalla coppia, lo stato negoziabile rimane quello della donna. Una visione peraltro condivisa dalle stesse donne che partecipano della decisione senza porre in discussione una eventuale alternativa al maschile e neppure una redistribuzione dei compiti quotidiani tra i partner: «Ogni giorno ci sono troppe donne che lavorano e non sempre per piacere ma perché noi ne abbiamo bisogno. Per le donne con figli gli asili nido sono troppo cari. Per me questo sarebbe la seconda cosa da migliorare. Grazie» (513). Non manca chi persino giunge ad auspicare un ritiro definitivo delle donne nel ruolo di cura, valutato nelle sue ricadute positive sulla qualità della vita dei componenti la famiglia, specie dei figli: «Se lo stipendio del coniuge venisse aumentato, le donne potrebbero e dovrebbero stare in casa e seguire i figli. Cosa che oggi non si fa ed i ragazzi non hanno una guida giusta» (36). D’altra parte sono poche le donne per cui il percorso verso il lavoro appare definitivamente chiuso o interrotto; si tratta delle non occupate che rientrano nel secondo orientamento. Per tutte le altre il lavoro rimane una questione in sospeso. Al fine di valutare più approfonditamente l’atteggiamento verso il lavoro delle intervistate, è stata inserita nel questionario un’ulteriore domanda aperta, diretta a conoscere le eventuali aspirazioni delle intervistate, qualora si trovassero a poter scegliere liberamente quale lavoro fare4. Come osserva una delle intervistate il primo problema è godere di una possibilità reale di scelta: «se si potesse scegliere sarebbe tutto più facile» (19). Mentre di fatto l’appena citata intervistata ha optato per non lavorare in quanto i costi di cura dei suoi tre figli supererebbero il beneficio di un reddito aggiuntivo, immediatamente dopo aggiunge che trovandosi nella possibilità di scegliere aspirerebbe ad un lavoro. Le risposte fornite alla scelta di un lavoro ideale configurano tre diverse opzioni. La prima è quella di mantenere «il lavoro che si ha adesso» che si basa sull’idea di un mercato del lavoro difficile per cui vale la pena di conservare la posizione attuale: «meglio così che andare a cercare peggio (per come si è messi adesso)» (773). Il mantenimento del lavoro presente è altresì determinato da una relativa soddisfazione per l’occupazione presente: «mi trovo bene 4 Il testo del quesito è esattamente il seguente: Se potesse scegliere che lavoro fare, quale sceglierebbe? Perché? CON I FIGLI... 161 nell’azienda attuale» (773); «il mio [lavoro] è soddisfacente, per flessibilità, per varietà di mansioni» (771); «lo stesso lavoro che faccio adesso però come direttrice. Mi sento abbastanza sicura del mio lavoro, di conseguenza padrona di me stessa» (11); «quello che faccio, mi piace il mio lavoro, mi permette di uscire, incontrare gente, mi dà serenità» (18). Vi è da aggiungere che tenderebbero a riconfermare la posizione attuale coloro che comunque non vi hanno rinunciato neppure in coincidenza con la maternità, vale a dire quelle che mantengono un legame più saldo con il lavoro. Viceversa, è vero anche che, come conferma buona parte della letteratura, rimangono “attaccate” al lavoro in maniera continuativa proprio quante trovano in esso maggiore soddisfazione e rispondenza ad aspettative e motivazioni. Le rispondenti che esprimono buoni livelli di soddisfazione per il tipo di lavoro svolto, individuano quali elementi qualificanti l’ambiente e anche l’orario di lavoro. L’orario lavorativo è un elemento importante per le intervistate. Questo porta direttamente alla seconda opzione espressa da quante indicano il lavoro per loro ideale a partire dalle sue caratteristiche organizzative: potendo scegliere vorrebbero infatti un’occupazione «part time» o con un tempo ridotto. In questo caso si pone l’accento non tanto sui contenuti del lavoro, bensì sulla possibilità di ridurlo in modo da disporre di tempo per seguire i figli e prendersi cura della famiglia: «Qualsiasi lavoro purché part time – scrive una delle rispondenti – per conciliare meglio lavoro e famiglia» (1069), mentre una seconda non specifica neppure quale potrebbe essere un lavoro per lei ideale, ma sottolinea piuttosto la compatibilità con le esigenze familiari in tutte le sue caratteristiche organizzative: «non ho ambizioni carrieristiche piuttosto prediligerei un lavoro su turni e vicino a casa» (973). Ad indicare il part time come lavoro ideale è il gruppo più numeroso di rispondenti: non fanno riferimento ad un lavoro specifico, bensì ad un’organizzazione del tempo di lavoro che ne liberi altrettanto e sufficiente per la cura. Una sorta di terza via rispetto a quella posta dal dilemma lavorare o stare a casa, che mette insieme il bisogno di essere occupate con le responsabilità familiari. Si tratta comunque di un compromesso che, ancora una volta, riguarda esclusivamente le donne o meglio, le madri, mentre non mette in discussione la posizione lavorativa del partner. L’aspirazione al part time è l’individuazione di una soluzione al superamento delle difficoltà nel trovare una soluzione adeguata ai vincoli che si pongono alle intervistate a partire dai carichi familiari, tali per cui per qualcuna l’ipotesi lavorativa sembra possibile solo nelle forme di lavoro con sede nel proprio domicilio: «un lavoro part time da svolgere in casa, perché ritengo sia più importante seguire i figli e il marito e un lavoro part time mi consentirebbe di fare questo» (477); «un lavoro che potrei svolgere da casa per avere più flessibilità negli orari e per dedicare tempo ai figli» (464). Qui il 162 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE tempo di lavoro è considerato come tempo “altro” dalla gestione familiare e questo condiziona la gamma di possibilità di scelta che sentono di avere: «commessa, barista, penso che siano i soli lavori che riesca a fare avendo a disposizione le sole ore dalle 9.00 alle 14.00» (989). Anche in questo caso non si mette a fuoco tanto una specifica attività lavorativa, piuttosto un generico bisogno-desiderio di lavorare che non sottragga risorse di cura alla famiglia: «un lavoro part time per non togliere troppe ore alla famiglia» (550). La logica sottrattiva del lavoro è per queste rispondenti preponderante per cui alcune prospettano l’ipotesi della casalinga retribuita come unica possibilità di reddito unitamente all’assicurazione di essere presente in casa: «se potessi scegliere farei la casalinga retribuita, perché così avrei più tempo da dedicare ai miei bambini ed ai miei familiari» (757); «la casalinga, per poter trascorrere più tempo con le mie figlie ma purtroppo non è retribuito» (905). La preoccupazione di non essere sufficientemente presenti e accudenti precede quella di un lavoro. Sono queste le donne che più di tutto tematizzano il dilemma, tutto femminile, tra casa e lavoro in relazione conflittuale. Un dilemma che una delle rispondenti risolve con una eloquente battuta in merito alla descrizione di ciò che farebbe potendo scegliere liberamente: «la signora, single e lavorare. Il lavoro ti dà tutto altrimenti non si va avanti» (40). La flessibilità del lavoro diviene dunque condizione necessaria per poter svolgere un’attività lavorativa che nella realtà si scontra con la rigidità della gestione familiare: «collaboratrice familiare a ore; quando si hanno figli – quattro nel mio caso – serve un lavoro che abbia una certa flessibilità per le esigenze che essi richiedono e le esigenze della famiglia stessa» (1024). La terza opzione – che raccoglie un considerevole numero di risposte – è rappresentata dal «lavoro che piace» e riguarda quelle intervistate che individuano nel lavoro una possibilità di realizzazione personale. Da tale prospettiva un elemento qualificante del lavoro ideale è la congruenza tra occupazione e titolo di studio: «orafa: era quello per il quale ho studiato» (551); «merceologa, [ho una] laurea in economia e commercio» (632); «ragioniera, contabile: ho studiato per questo e adoro i numeri, i calcoli» (40); «il mio lavoro per cui ho studiato, grafico pubblicitario per computer. Ho frequentato l’istituto d’arte ho lavorato per 18 anni nella grafica... perché potrei gestire meglio il mio tempo» (7). Ma il lavoro che piace rimanda anche alle motivazioni espressive, alla passione per qualcosa cui si tende e in cui vi si riconosce: «fioraia, perché mi piacciono i fiori» (18); «lavorare con gli animali, perché gli animali sono riconoscenti per quello che fai per loro, gli uomini invece!!!» (24); «naturalista, perché ho una grande passione per i rimedi naturali» (975); «massaggiatrice shiatsu, perché è la mia passione» (980); «lavori di sartoria artigianale, per passione personale» (84); «maestra d’asilo, mi piacciono tanto i bambini» (87); «mi sarebbe piaciuto fare CON I FIGLI... 163 l’estetista, parrucchiera, forse perché da piccola è sempre stato un mio sogno» (92). Come ben evidenziano le parole delle intervistate, quando il riferimento è ad una forte motivazione personale, vengono messe a fuoco le peculiarità dell’occupazione in funzione di una enfatizzazione di ciò che personalmente appassiona e a cui si aspira. Le descrizioni sono maggiormente ritagliate sulle specificità delle occupazioni e meno spazio trovano gli aspetti strumentali, piuttosto le sue caratteristiche intrinseche. Il lavoro in fabbrica, all’opposto, è l’esempio negativo portato da alcune ad indicare un’attività in cui non vi è spazio né per il piacere né per la passione: «la commessa o un lavoro a contatto con la gente, perché lavorare a contatto con la gente per me è il massimo, lavorare in fabbrica è noioso» (508); «negozio o attività a contatto con altra gente, per avere la possibilità di lavorare e nello stesso tempo non essere stressata dal lavoro in fabbrica» (299); «commessa, perché mi sembra meno stressante ma sempre meno impegnativo come lavorare in fabbrica» (366). In alcuni casi il lavoro ideale è definito semplicemente escludendo dalle opzioni il lavoro di fabbrica «...non saprei, non tornerei più in fabbrica» (508); «non lo so ancora, però tutto tranne la fabbrica» (530); «qualunque (tranne lavorare in fabbrica)» (1020). Il lavoro di fabbrica, così definito, è intanto percepito come diffuso sul territorio e anche più facilmente disponibile, allo stesso tempo è il lavoro verso cui ci si orienta in mancanza di altre possibilità: «a me andrebbe bene anche un lavoro in fabbrica, perché non ho il titolo di studio per fare altri lavori» (87); «va bene anche un lavoro in fabbrica, non ho il titolo di studio per altri lavori» (191). Il lavoro in fabbrica è dunque l’antitesi del lavoro che piace e a cui idealmente si tende. Un aspetto questo di grande interesse, data anche la struttura produttiva territoriale, che meriterebbe di ulteriori approfondimenti atti a cogliere i mutamenti delle immagini del lavoro, del prestigio sociale ad esso associato, delle condizioni qualitative e materiali. Antitetiche al lavoro in fabbrica, sono figure quali «il politico perché hanno tutti i vantaggi» (659) oppure un impiego nel settore pubblico per le sue caratteristiche di stabilità e sicurezza: «i posti pubblici sono i migliori e chi ci lavora non li apprezza...» (351); «impiegato statale, sicurezza lavorativa ed economica» (300); «insegnante di ruolo: 1) mi piace 2) mi dà sicurezza posto fisso» (684); «insegnante, per essere più autonoma nell’organizzazione del lavoro e per lo stipendio e per la sicurezza del posto pubblico» (958). Il posto pubblico rappresenta un approdo sicuro, in primo luogo in una classica rappresentazione della contrapposizione con il settore privato, che, ampiamente presente sul territorio, rimanda piuttosto ad un minore grado di sicurezza, maggiore fatica e dipendenza da un datore di lavoro di imprese padronali. Questo ultimo aspetto assume, dal punto di vista delle donne intervistate, particolare rilevanza, sia per la vulnerabilità del loro essere madri che eventualmente 164 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE aspirano a coniugare con il ruolo di lavoratrici, sia per il tempo di lavoro che nel pubblico tende ad avere maggiore certezza e prevedibilità, oltre ad essere percepito prevalentemente ridotto rispetto al settore privato, in quanto più arbitrariamente determinato in una negoziazione potenzialmente sempre aperta tra datore di lavoro e lavoratori. Al di là della personale situazione occupazionale, emerge una centralità del lavoro come valore che assume nel corso di vita significati diversi. Per le intervistate con figli l’atteggiamento verso il lavoro risulta fortemente condizionato, più che da una tensione ideale, dalle necessità pratiche di provvedere al reddito familiare e con esso ad una relativa sicurezza. Ecco dunque che per la maggior parte delle intervistate il lavoro è importante soprattutto a fini strumentali. Circa la metà delle intervistate si dichiara (molto o abbastanza) d’accordo con l’affermazione per cui «potendo scegliere è meglio stare a casa» (v. Tab.V.8), mentre quasi la totalità delle rispondenti è molto (85,1%) o abbastanza d’accordo (14,6%) con l’affermazione «il lavoro è necessario per mantenere la famiglia». Il lavoro è dunque, oltre che mezzo primario per la sussistenza, la risultante di un compromesso rispetto alle evenienze del presente, alle esigenze poste dal corso di vita e primariamente dal gruppo familiare. Come già rilevato altrove, il prevalere dell’elemento della necessità su quello della realizzazione o della progettualità, descrive con più probabilità un attaccamento al lavoro condizionato, più labile, in quanto, più della sfera privata, è opzionabile. Tabella V.8 - Opinioni sul lavoro e la sua importanza Molto Abbastanza Poco Per niente Totale Il lavoro è necessario per mantenere la famiglia 85,1 14,6 0,3 0,3 100 Il lavoro è importante per sentirsi utile 38,9 43,8 12,5 4,7 100 Il lavoro dà l’autonomia 60,9 32,2 5,8 1,2 100 Il lavoro è importante per la realizzazione personale 12,5 37,5 10,6 3,4 100 Una donna che lavora ha più voce in capitolo 10,2 22,6 34,3 32,8 100 Lavorare è più importante per gli uomini che per le donne 12,5 14,1 27,7 45,5 100 9,8 19,2 36 35 100 25,7 22,9 29,8 21,5 100 Quando ci sono i figli è meglio che la madre non lavori Potendo scegliere è meglio stare a casa 165 CON I FIGLI... Si nota, infatti, anche dalla presente ricerca, quanto il principio di realtà che emerge dietro il rapporto con il lavoro stabilito dalle intervistate, influisca sul gruppo delle donne che hanno figli, più delle altre. I due gruppi, d’altro canto, concordemente attribuiscono al lavoro un significato di autonomia che viene in entrambi i casi considerata acquisibile attraverso di esso. Con l’affermazione «Il lavoro dà l’autonomia» risultano molto o abbastanza d’accordo oltre il 90% delle intervistate (v. Tab.V.8). Mentre esprimono disaccordo, per il 73% circa, con la frase: «Lavorare è più importante per gli uomini che per le donne». L’importanza del lavoro è un fatto acquisito, indifferentemente per uomini e donne è una dimensione dell’esperienza importante con cui tutte fanno i conti a partire dalla propria condizione di vita. È nel corso di vita, nella pratica quotidiana, che si stabiliscono i diversi e diseguali accessi ad una risorsa indiscutibilmente riconosciuta rilevante, oltre che strumentalmente e in termini di acquisizione di status, di ampliamento delle relazioni, della soddisfazione personale. È nuovamente nel corso di vita che le priorità si stabiliscono e ri-stabiliscono. Alla richiesta di indicare il grado di importanza tra diverse istanze, quali l’avere dei figli, l’avere un lavoro, avere un compagno/marito e avere tempo libero per sé (v. Tab.V.9) è emersa una prima posizione attribuita all’avere figli. In tutti i casi le intervistate hanno riconosciuto queste dimensioni come importanti. Tuttavia, l’avere dei figli è risultato l’aspetto intorno a cui si è concentrato il maggior numero di consensi alla modalità di risposta «molto importante», che, se sommato a quante ritengono che sia «abbastanza importante», raggiunge la quasi totalità delle rispondenti. Dopo i figli, ciò che è ritenuto importante dalle intervistate è avere un lavoro. Si noti come questo preceda, in ordine di importanza attribuita, l’avere un compagno/marito. Avere tempo libero per sé raccoglie una minore percentuale di risposte alla modalità molto importante, ma per quasi il 40% è molto importante. Tabella V.9 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado di importanza per lei Avere Avere Avere Avere un lavoro un compagno/marito dei figli tempo libero (per sé) Molto Abbastanza Poco Per niente 75,8 79 91,9 51 21,9 17 7,2 39,7 2,3 3,3 1 9,3 0 0,7 0 0 L’importanza attribuita al lavoro è dunque in subordine a quella dei figli. È questo che lo rende negoziabile in un bilancio personale di costi e 166 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE benefici e commisurato ad una reale possibilità di scelta che si gioca a partire dall’essere principali o uniche responsabili della cura familiare. Per tale ragione la negoziabilità della scelta lavorativa, o non, delle donne, riguarda tutte, le occupate e le non occupate, anche tenendo conto del fatto che il percorso prevalente delle intervistate è quello di un dentro e fuori il mondo del lavoro, piuttosto che connotato da una preclusione verso di esso. Un dato, a tale proposito significativo, è quello relativo ai congedi di cui le intervistate ed eventualmente i loro partner hanno o meno usufruito in occasione della nascita dei figli. I comportamenti relativi alla fruizione del congedo parentale e di maternità, costituiscono un ambito di osservazione di grande interesse, così come lo sono al riguardo le risposte delle intervistate. In primo luogo, si nota un divario tra le rispondenti lavoratrici dipendenti e le altre, lavoratrici autonome, precarie e simili. Le differenze non sono rilevabili a livello di congedo cosiddetto obbligatorio, ma soprattutto facoltativo, di maternità e parentale. Rispetto a questo secondo, che nella pratica rappresenta una possibilità di estensione del congedo di maternità, sono nella quasi totalità le donne ad avervi avuto accesso, mentre i padri fruitori del congedo parentale sono un numero esiguo che tende persino a diminuire passando dal primo figlio ai successivi. Diverse le osservazioni rilevanti a tale proposito. La fruizione del congedo mette in luce una varietà di situazioni a parità di stato di madre. Il diritto al congedo non è né uguale per tutte, né è fruito allo stesso modo. Non è uguale per tutte perché sull’accesso incidono la posizione lavorativa di dipendente o autonoma e la stabilità della stessa: «Ho rinunciato alla maternità facoltativa perché avevo paura di perdere il mio lavoro e per una serie di circostanze “strane” a me sfavorevoli e perché avevo l’aiuto di mia madre» (915). Si rileva infatti che numerose sono le rispondenti che affermano di non aver avuto possibilità di congedo per ragioni diverse, ma che tutte hanno a che fare con un reale esercizio del diritto. Per numerose rispondenti l’ostacolo di accesso al congedo è nel tipo di contratto lavorativo, a chiamata, o co.co. co., uno stato di lavoratrice che non permette di fatto di esercitare gli stessi diritti delle altre più tutelate, vale a dire le dipendenti a tempo indeterminato. Anche tra le dipendenti, il bisogno di tornare al lavoro e di poter contare su uno stipendio pieno e non decurtato al 30%, ha rappresentato una buona ragione per rinunciare al prolungamento del congedo oltre l’obbligatorio. Quanto poi alle rispondenti lavoratrici autonome (commercianti, artigiane, imprenditrici ecc.) il congedo mal si concilia con la responsabilità nei confronti della loro attività, per cui l’espressione «lavoratrice autonoma» o «in proprio», indica di per sé una spiegazione alla mancata fruizione. Diverse invece sono le giustificazioni portate per i rispettivi partner. Questi risultano CON I FIGLI... 167 non aver fruito di congedi per la nascita dei figli e per la loro cura soprattutto perché, scrivono le intervistate, «c’era la madre a casa ad occuparsene». Pertanto la motivazione principale è quella di un accordo raggiunto all’interno della coppia in merito alla ripartizione dei compiti tra lavoro per il reddito e lavoro di cura. A seguire, in ordine di risposte, vi è l’impossibilità per i partner ad ottenere congedi perché difficilmente concessi dal datore di lavoro ai lavoratori-padri: «la sua ditta non avrebbe visto di buon occhio il congedo di paternità»; «non se lo poteva permettere perché non concessi e non retribuiti». Le difficoltà di fruizione del congedo da parte dei partner sono altresì derivanti da timori di mettere a rischio la stabilità lavorativa: «non convinto di poterlo fare veramente, temeva per il suo posto». Il congedo di paternità più che un diritto appare dunque da una parte una scelta da compiersi solo laddove non vi siano alternative, la prima delle quali è appunto rappresentata dalla presenza della madre; dall’altra, esso è definito come uno svantaggio in termini sia economici sia di rischi per la posizione lavorativa maschile che diviene tanto più importante quanto più vulnerabile appare quella delle rispettive partnermadri. Anche dal punto di vista delle rispondenti emerge un quadro secondo cui il congedo, per la più parte, si limita a quello obbligatorio, per il resto, quello facoltativo, difficilmente è percepito come una opportunità: vi si rinuncia più facilmente per timori legati alla debolezza della propria posizione, si ritiene impossibile prolungare l’assenza dal posto di lavoro. Per qualcuna al congedo, quando non alla gravidanza, ha seguito un licenziamento o un mancato rinnovo del contratto di lavoro nel frattempo scaduto. I percorsi delle coppie appaiono quasi obbligati, sia perché con i figli le esigenze di reddito divengono più urgenti, sia perché le condizioni di lavoro pongono delle concrete limitazioni alle scelte riproduttive e di cura. Ne consegue che per la necessità di prendere decisioni in merito alla cura dei nuovi nati, ci si appoggia più facilmente a modelli sessuali di tipo tradizionale; questo perché anche lo stesso mercato del lavoro locale appare strutturato in modo da consolidare la partecipazione maschile ed accogliere l’eventuale contributo femminile. Come emerge dalle risposte delle intervistate, i lavoratori uomini, loro partner, di frequente non si sentono liberi di decidere in merito alla fruizione di congedi parentali, ma piuttosto ritengono in tal caso di dover affrontare resistenze culturali e rischi che ne conseguono, principalmente quello di una vulnerabilità derivante dall’interpretazione del congedo in termini di una minore disponibilità nei confronti dell’azienda per cui si lavora. Il sistema locale, infatti, appare spiccatamente orientato ad una divisione sessuata dei ruoli sia nell’ambito pubblico e lavorativo, sia, come si vedrà ora, nell’ambito privato-familiare. 168 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE V.2.1 Il lavoro di cura e l’organizzazione familiare Sebbene il lavoro emerga come valore riconosciuto e condiviso, nella pratica quotidiana esso subisce costanti riposizionamenti nell’agenda di vita delle intervistate. Esso non solo entra ed esce nello svolgersi del corso di vita, ma è la stessa pratica sociale delle care giver a ricollocarlo di volta in volta, a contenerlo e combinarlo con le molteplici responsabilità della vita privata, in un modello di relazione di coppia e familiare tutt’altro che orientato alla condivisione. Attraverso un’ampia batteria di domande si è indagato sulla organizzazione familiare del lavoro di cura, ponendo quesiti su come e tra chi vengono ripartiti i vari compiti quotidiani all’interno del nucleo familiare, cercando altresì di comprendere quale il peso e il ruolo di eventuali soggetti altri nella rete primaria. Le domande poste contemplano una serie di attività, per cui è stato chiesto di indicare per ciascuna il grado di coinvolgimento personale, quello del partner e/o di altri componenti che possano essere incluse nella rete di cura familiare. 2> 1;(? )?() 1> )'(1 )> <;(? ?) <> 5&B67&H ?> 56&GG,H JH4,%0&H 3> C/$H ;> @> @;(? '?(1 '3(; '>(; '> @(' >(' '2(? @>(2 '1(; )(< @(3 ;(< @(3 @(< 3(1 > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C/7$0,8 M-G$&B&H F&7G,-/H6/./0/ !,--$ Figura V.4 - Cura della casa. Un primo gruppo di attività è rappresentato dal lavoro di cura per la casa, gli acquisti per la famiglia e la preparazione dei pasti. In tutti e tre i casi sono le intervistate a dichiarare il loro pressoché esclusivo dedicarsi a tali mansioni, rivelando un’assenza di condivisione all’interno della coppia. In particolare, è la cura della casa che vede più spesso e personalmente 169 CON I FIGLI... dedite le intervistate, mentre i partner sembrano maggiormente disponibili per gli acquisti, attività che con più frequenza la coppia svolge insieme. Il ruolo di altre persone sembra essere poco significativo, ad eccezione della preparazione dei pasti in cui i nonni acquisiscono una relativa importanza, che invece non rivestono per le altre due attività. 21(; '>> 2> 1> )@(@ )> 5&B67& <> 56&GG, 3<() ?> 3> ;> 3'(@ ;3 ;@(2 @>(1 JH4,%0& C/$ ')(? '<(' @> '> 33(' 3?(1 ''() ?(2 '(' ;(@ ; >(< '(' > ;(1 > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C/7$0,8 M-G$&B&H F&7G,-/H6/./0/ !,--$ Figura V.5 - Preparare i pasti. Quasi mai le prestazioni di aiuto nelle attività considerate si acquistano sul mercato e questo dato si conferma per tutte le attività considerate. Vi è una forte tenuta alla produzione domestica di beni e servizi per la famiglia. Raramente ci si rivolge al mercato, piuttosto alla rete di cura primaria. La comunità familiare, per quanto risulti ridotta, ha una sua tenuta sia in termini di riferimento valoriale, sia sul piano dei comportamenti. La dimensione privata è ancora un chiaro punto di riferimento sul piano relazionale affettivo e nel fare fronte alle esigenze del quotidiano. Anche se, d’altro canto, appare chiaro che il fabbisogno di cura segue un andamento crescente e tale per cui le reti familiari appaiono persino insufficienti. Le ricadute sui carichi di lavoro delle intervistate sono evidenti dalle risposte delle stesse e dalle modalità con cui descrivono l’organizzazione di cura e familiare. Un secondo insieme di attività per cui si è chiesto di indicare chi fa cosa e quanto spesso, riguarda la cura dei figli a cominciare dall’inserimento scolastico, la vita scolastica, le attività del tempo libero, le visite mediche. 170 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE 21(1 '>> 2> ))(' 1> )> <>(1 <> 5&B67& ?3(3 56&GG, ?> JH4,%0& 3@() C/$ 3> ;@(@ ;'(2 @1(@ ;> '2(@ ')() @> '>(1 '> <(1 )(< <(< >() >(@ >(< @(1 >(3 >(@ MH-,--$ N-/H6&7G,-/H6/./0/ > M,H6&7G,-/%B&-0& +,-4$4&-0&8C$,HB/7$0, M-G$&B& Figura V.6 - Acquisti per la famiglia. Qui le donne ricevono una delega pressoché totale da parte dei partner, mentre il supporto di altri soggetti incide solo marginalmente. Circa i partner, essi sembrano essere maggiormente partecipi nell’accompagnare i figli a scuola, ma non nell’inserimento scolastico, né nel tenere i rapporti con le istituzioni scolastiche e seguire i figli quotidianamente nello studio: queste ultime attività vengono descritte come precipuamente a carico delle rispondenti. Anche in questo caso si può osservare che la presenza di soggetti altri nella rete di cura appare secondario rispetto al fabbisogno familiare e, ancor più, per quanto riguarda le attività che interessano direttamente la cura dei figli. Considerando che le necessità dei figli risultano incrementali con l’aumentare della loro età e la rete di aiuto insufficiente, la cura della prole finisce per essere uno degli impegni più ingenti per le donne, limitante del loro quotidiano e altrettanto facilmente della progettazione di percorsi di vita extrafamiliari. Le attività extra scolastiche rappresentano un ambito esperienziale progressivamente denso e che rendono il tempo libero dell’infanzia un tempo sempre più attivo, in aggiunta al principale impegno scolastico e di studio. Questa tendenza si è affermata per le ultime generazioni, condotte a riempire il tempo libero in attività organizzate, comprate e svolte nel mercato. Vi è da aggiungere che si tratta di attività che acquistano altresì un significato intrinseco molto elevato nella ricerca di senso e nelle aspirazioni 171 CON I FIGLI... 2)(; '>> 2> 1> ))() )3(3 )> 5&B67& <> 56&GG, 3?(< ?> ;2 ;<() 3> JH4,%0& C/$ ;'(2 ;> '3(; <(? @> '> ')(2 ')(1 '(? '' <(? ''(3 ;(@ 3(? >(3 > @(; > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& !,--$ F&7G,-/H6/./0/ Figura V.7 - Inserimento dei figli a scuola. '>> 2@(? 2> 1> )> <> ?3(< 32(@ ?> JH4,%0&H ;;(' @@(' C/$H @3(1 '?(? ''(2 @> '> 56&GG,H ;1(1 3> ;> 5&B67&H ?@(3 32(' ')(2 ;(2 <(< ?(< 3() 2(1 ;(; >(2 ;(; > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& !,--$ F&7G,-/H6/./0/ Figura V.8 - Accompagnare i figli a scuola. dei bambini, come dei loro genitori. Si può persino arrivare a descriverle in competizione con quella scolastica, per rilevanza attribuita, nonché per livello di impegno. Le attività sportive e del tempo libero, facilmente diventano più di una, al di fuori del tempo scolastico. Considerata la mancanza di autonomia nella fascia di età fino a 10 anni, nonché le caratteristiche del 172 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE 2?(2 '>> 2> 1> )<(; )> 5&B67& ?)(' <> 56&GG, 3>(' ;2(? ?> JH4,%0& C/$ 3> @1(; ;> '<(@ @> ';(' )(; <() '> ?(? 2(' ;(3 >(1 >(@ >(? > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& !,--$ Figura V.9 - Colloqui con le/gli insegnanti. 1> )'(' )> <'(@ <> ?@(? 31(< ?> 5&B67& 56&GG, ;)() 3> JH4,%0& ;> @<(? C/$ '2() @'() @'(' @> '> <() '> @(@ 2 <(; 3() >(2 > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& !,--$ Figura V.10 - Seguire i figli nei compiti. territorio in esame, connotato da scarsa diffusione e utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici, è facile arrivare a concludere che gli impegni dei figli si trasferiscono direttamente sui genitori; più precisamente, guardando i dati 173 CON I FIGLI... e analizzando le risposte, soprattutto sulle madri. Tuttavia, qui si rileva una lieve differenza rispetto all’impegno della vita scolastica, in quanto l’onere dell’accompagnare i figli, nelle attività sportive e che occupano il loro tempo libero, appare gravare relativamente meno sulle rispondenti a favore di una maggiore ripartizione in primo luogo con i partner e poi con i nonni. Si noti che, al di là dei nonni, la cui presenza/incidenza appare comunque complessivamente bassa, nella rete di cura quotidiana, non vengono menzionate altre figure quali parenti, amici o conoscenti. La rete primaria, quando c’è, esaurisce l’estensione della rete di cura. Quando non c’è, sono le donne a colmare le sue falle o comunque si sentono in dovere di adempiere a tale compito. 1> <)(2 )> <> ?3(; ?;(' ?> 3?(; 5&B67& 3> ;> @)(3 @@(@ @> '> 56&GG, ;?(' JH4,%0& @?(; @3() C/$ ';(@ ?(' )(1 3(? )(@ ?(3 '(3 > M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& !,--$ Figura V.11 - Accompagnare i figli nelle attività extra-scolastiche. Per le visite mediche, sono sempre le madri ad essere più spesso presenti, mentre i padri intervengono con minore continuità. È più frequente il caso di un accompagnamento congiunto da parte di entrambi i genitori, piuttosto che dei padri da soli. In tal caso, la presenza dei nonni è da considerarsi oltre che minoritaria, occasionale, in ogni caso né frequente, né significativa. La salute, insomma, risulta essere un affare di famiglia in senso stretto e le madri ne sono le principali responsabili, così come accade per la scuola. I risultati forniscono evidenze molteplici di una concentrazione dei compiti di cura sul tempo delle donne. Uscendo fuori dalla cura domestica e della prole, si nota tuttavia una maggiore redistribuzione dei compiti. È 174 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE nell’amministrazione del bilancio famigliare e delle finanze che si palesa la più elevata compresenza (v. Fig. V.13). Qui i partner appaiono massimamente partecipi, sia da soli sia insieme alle rispondenti. Si noti tuttavia che non vi è un arretramento delle donne come principali responsabili delle risorse finanziarie di famiglia: è questo un dato abbastanza significativo di una gestione famigliare in cui l’aspetto economico non riguarda più e solo definitivamente gli uomini. Al di là dei luoghi comuni che vogliono le donne meno interessate alla gestione delle risorse economiche, la questione del reddito, insieme a quella di un’autonomia anche finanziaria, è tutt’altro che estranea alle intervistate, anche quelle senza figli fanno di questo uno degli elementi più rilevanti dell’avere un lavoro. Diversa è la questione della loro debolezza sul piano di latrici di reddito e dell’autonomia finanziaria, che nulla hanno a che fare con un diretto coinvolgimento delle rispondenti nell’amministrazione del bilancio familiare. 2> 1> )1(< )<(3 )> <> ?>(? 5&B67& 31(; ?> 56&GG, JH4,%0& 3> @)(@ ;> @> '> '1(1 <(< >(? '2(; '?(2 '?() 3(@ C/$ @)(3 1(3 >(3 '(1 > > M,H6&7G,-/%B&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& +,-4$4&-0&8C$,HB/7$0, C$,HB/7$0,8 M-G$&B& MH-,--$ Figura V.12 - Accompagnare i figli alle visite mediche. Infine, tra le ultime attività considerate, il recarsi presso gli uffici pubblici per sbrigare commissioni e pratiche quotidiane (banche, uffici postali, enti pubblici vari ecc.) (v. Fig. V.14) vede un più elevato coinvolgimento dei partner da soli, pur rimanendo un’attività anche questa svolta per lo più dalle intervistate. Complessivamente, la divisione del lavoro di cura si conferma fortemente sbilanciata sul versante femminile. La partecipazione maschile è molto limitata mentre sono le donne a impegnarsi in misura considerevole 175 CON I FIGLI... 3? ;2(2 ;1(1 3> ;?(; ;3(@ ;? ;'(2 ;@() ;> 5&B67& @3(@ @? @@(' 56&GG, JH4,%0& '1(< @> C/$ '? ''(@ '> <(' 3(2 ? > +,-4$4&-0& M,H6&7G,-/%B&-0& C$,HB/7$0,8 M-G$&B& Figura V.13 - Amministrare i soldi. 2> 1;(2 1> )> <> 5&B67& ?> 3> ;2(3 ;1 C/$ @)(@ '1(' @> 3(; ;(@ ';(@ 2(< 2(3 '> JH4,%0& ;;(' ;'(? ;> 56&GG, 3;(; 3@(1 '(' '(2 > M,H6&7G,-/%B&-0& +,-4$4&-0&8C$,HB/7$0, M-G$&B& MH-,--$ Figura V.14 - Recarsi presso gli uffici pubblici. in tutte le attività di cura indicate. Il modello di organizzazione familiare appare dunque fondato su una divisione sessuata dei ruoli molto tradizionale: le donne rimangono il fulcro delle attività di cura, gli uomini ne prendono parte saltuariamente e limitatamente. I pochi soggetti coinvolti nella rete parentale costituiscono un punto di riferimento soprattutto nei periodi di lunga chiusura delle strutture scolastiche e per gli impegni più 176 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE saltuari; la gestione ordinaria e continua dei bisogni familiari ricade sulle donne. Ci si affida all’aiuto di un parente soprattutto in occasioni di vacanze scolastiche, vale a dire di un periodo che permette una maggiore programmazione della gestione del tempo e scandito dal calendario delle attività. Per la stessa ragione è proprio in tali occasioni che comparativamente appare maggiormente incidente il ruolo di una persona pagata per la cura dei figli, scelta non compiuta per altre occasioni e attività, attribuibile, con buona probabilità, alla mancanza di alternative e di supporto di reti parentali per periodi relativamente lunghi. Come ampiamente si evince dalle parole delle intervistate, infatti, la scelta di pagare una persona per la cura dei figli è ponderata in una valutazione di rapporto costi benefici tra posizione lavorativa, reddito e presenza di reti primarie che all’estremo porta persino ad optare per la rinuncia alla propria occupazione. Tabella V.10 - Come si organizza in caso di… Malattia dei figli e assenza da scuola Vacanze scolastiche Visite mediche in orario scolastico Chiedo un permesso Chiede un permesso il partner Prendo le ferie Mi affido all’aiuto di un parente Mi affido all’aiuto di un conoscente Mi affido all’aiuto di una persona pagata 33,1 4,1 7,1 48,9 2,4 4,5 5,8 2,1 10,7 69,3 2 10 72,9 10,3 3,8 11,5 0,7 0,7 La presenza di aiuti nella rete parentale appare dunque la principale e la più flessibile delle soluzioni. A dimostrazione di ciò è altresì di un certo interesse il fatto che quasi la metà delle intervistate dichiari di affidarsi ad un parente in caso di malattia dei figli e conseguente assenza da scuola; al contempo circa un 4,5% si affida per la stessa ragione ad una persona retribuita. Appare così rafforzata l’ipotesi delle reti corte e insufficienti: la rete parentale, anche laddove esiste, non sempre è in grado di supportare le famiglie soprattutto nei casi di assenze scolastiche non previste e simili. Ciò, da una parte induce a formulare ulteriori ipotesi di nonni ancora attivi sul mercato del lavoro oppure non sempre in grado di provvedere cure per figli e nipoti, per ragioni per esempio, legate all’età o al personale stato di salute. In ogni caso, le reti di cura si evidenziano come deboli, scarsamente supportanti. Dato che viene una volta di più confortato dalle risposte relative all’assistenza a parenti che appare un’attività svolta in 177 CON I FIGLI... misura relativamente minore dalle intervistate e da altri soggetti includibili nella rete parentale. L’assistenza a parenti (v. Fig. V.15) è l’attività di cura che meno grava sulle intervistate e sul carico complessivo familiare. Si comprende dunque come in buona parte incida al proposito la caratteristica, a più riprese sottolineata, di una diversificata composizione della popolazione locale, per cui sempre meno la famiglia allargata descrive la geografia demografica territoriale. Le famiglie con figli misurano un’area di bisogni che tende ad ampliarsi entro un contesto in cui lo spazio del supporto risulta essere manifestamente più ristretto; ciò riguarda la sfera delle relazioni parentali come il sistema dei servizi pubblici. Si descrive in tal modo una comunità che tende a sfaldarsi sul piano del riconoscimento delle necessità di cura. Nella misura in cui la cura non è condivisa dalla collettività né da essa presa in carico, determinanti divengono le risorse personali. Un sistema, questo, che alimenta frammentazione e disparità, mentre le famiglie divengono sempre più soggetti necessitanti piuttosto che risorsa per la collettività. 2<(3 '>> 2> 1> )@(2 )> ?2(' <> ?> 5&B67& 31(< 3@(3 3> 56&GG, 3'(< ;;(? JH4,%0& C/$ ;@(2 ;> @> '<(2 ''(< '@(? '> )(? ;(@ 3(1 @(; ?(@ ?(3 >(1 >(< @(@ > M,H6&7G,-/%B&-0& +,-4$4&-0&8C$,HB/7$0, M-G$&B& !,--$ N-/H6&7G,-/H6/./0/ Figura V.15 - Assistere parenti. Il carico complessivo di cura delle famiglie è la sommatoria di una varietà di attività che trovano origine in una costante ridefinizione dei bisogni, siano essi quelli determinati da un invecchiamento della popolazione oppure quelli espressi dall’infanzia fino all’adolescenza. Inoltre, una generalizzata spinta verso la cultura performativa del fare, finisce con il rendere 178 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE di gran lunga più complesso l’insieme delle necessità da soddisfare. La rete parentale, corrispondente per lo più ai nonni in aggiunta alle figure genitoriali, pur sostenendo in ciò le famiglie, fornisce un apporto atto a coprire solo parzialmente il fabbisogno complessivo5. Di fatti, prendersi cura per esempio dei figli implica adempiere ad una pluralità di funzioni complesse per competenze (seguire i figli nei compiti, prendersi cura della loro salute, hobbies, ecc.) e per mobilità richiesta. Sono le stesse rispondenti, che come si vedrà più avanti, fanno proprio del tempo ricreativo uno degli elementi qualificanti per il territorio, specie per i più piccoli, mostrando così l’adesione ad un modello che segna la stessa infanzia come una fase di vita ricca di occupazioni. La spinta sociale ad essere attivi e performativi, mentre riguarda ampiamente le fasce di età dei più piccoli, si trasforma in oneri economici e di impegno ulteriore per le famiglie. Giacché in famiglia sono le donne a salvaguardare la “flessibilità” della loro posizione funzionalmente alle esigenze dei componenti della famiglia, l’assenza di servizi, di condivisione nella sfera privata ed infine la tendenza ad allargare la sfera di impegno sociale dei più piccoli nel tempo altro da quello scolastico, disegna percorsi obbligati in particolar modo per le madri che mettono fortemente in discussione non solo le pari opportunità di partecipazione sociale e lavorativa, bensì il diritto all’autodeterminazione che invece si afferma per gli altri soggetti a loro scapito. Sono dunque le donne il perno di un welfare locale che protegge il benessere altrui minando il proprio. I dati che qui di seguito analizzeremo su tempo libero, i suggerimenti per il territorio e la qualità della vita delle donne, forniscono ulteriori evidenze di un affanno individuale, accanto ad una percezione di isolamento nel bilanciare le diverse sfere esperienziali. A tale proposito, una intervistata sottolinea proprio l’importanza di «sostenere la genitorialità, perché a volte è difficile trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia, in particolare per quanto riguarda gli impegni educativi» (24). 5 La bassa incidenza complessiva dell’aiuto dei “nonni” genericamente intesa, ha suscitato una forte reazione in occasione di una delle presentazioni dei risultati della ricerca effettuate nel territorio interessato. È stata proprio una nonna a risentirsi apertamente, portando la sua personale testimonianza e riferendo dei “nonni” di sua conoscenza che quotidianamente si prendono cura dei nipoti. Sebbene la ricerca offra uno sguardo complessivo sulla comunità indagata, la trasformazione della stessa proprio nelle radici della relazionalità primaria fa emergere una controspinta della parte più radicata, stabile e tradizionalmente ancorata all’identità originaria. È a tale proposito interessante che la prospettiva di un ridimensionamento delle reti primarie nella cura familiare sia stato così percepito non come indicatore di una profonda trasformazione, ma come una messa in discussione di uno dei fondamenti del vivere comunitario. 179 CON I FIGLI... V.2.2 Il tempo libero e il tempo per sé Da quanto descritto sinora, diventa comprensibile come il tempo e la sua gestione rappresentino una delle principali criticità per le rispondenti. In particolare, il tempo libero è piuttosto un’aspirazione ad uno stile di vita lontano da quello descritto dalle protagoniste. Giocando proprio intorno al bisogno di tempo libero da riservare per sé, si è domandato alle intervistate di valutarne la quantità che dedicano a se stesse nell’arco di una giornata. Dalle risposte ne emerge prima di tutto la scarsità: la maggior parte ritiene di avere poco tempo per sé giornalmente nel 75% dei casi e per niente per l’11,9%. Tabella V.11 - Quanto tempo dedica a se stessa durante la giornata? % Molto 0,6 Abbastanza 12,3 Poco 75,2 Per niente 11,9 Le attività del tempo libero risultano di fatto molto ridotte. Tra quelle per cui si è chiesto di indicare la frequenza, prevalgono le attività a “consumo” individuale piuttosto che a carattere sociale-relazionale (v. Tab. V.12). Tabella V.12 - Con quale frequenza svolge le seguenti attività nel tempo libero? Più di una volta la settimana Una volta la settimana Una volta al mese Meno di una volta al mese Poche volte l’anno Mai Sport 13,2 11,2 3,3 3,1 17,8 51,3 Associazioni 1,8 3,8 2,7 3,2 13,9 74,4 Ristoranti 1,1 13,3 26,9 16,2 33,9 8,6 Corsi/formazione 0,6 1,4 3,8 5,2 22,6 66,5 Lettura 34,9 13,3 8,9 7,8 19,6 15,5 Cinema 0,7 2 10,1 13,5 44,1 29,6 Teatro 0,2 0,3 0,9 2,8 15,8 79,8 Parrucchiere 0,7 5,8 21,6 22,7 45 4,1 Centri estetici 0,5 1,7 15,2 11,2 27,3 44,1 Viaggi 0,1 0,3 0,3 1,2 62,1 35,9 180 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE La più frequente è la lettura, cui seguono, ma con un significativo distacco, le attività sportive. Più saltuariamente sono indicati i viaggi e l’andare a teatro. Ne emerge un quadro coerente con quanto le donne affermano per tutta l’intervista, di affaticamento e di erosione del tempo per sé in funzione di un tempo familiare, per loro stesse, evidentemente pervasivo. La centralità del lavoro di cura è il principale elemento intorno a cui i percorsi delle donne si organizzano e si svolgono, in una direzione che è quella di adattamento all’impegno che si impone come il principale. La più evidente conseguenza è che proprio il prendersi cura della famiglia diviene, per le care giver medesime, condizione restrittiva delle possibilità di scelta: sono le stesse intervistate a testimoniare di come siano loro personalmente a prendere in carico la cura familiare in senso lato e di come riassestino intorno ad essa il loro quotidiano e l’intero percorso esistenziale. Ad una scelta dichiarata consapevole corrisponde un bisogno insoddisfatto di tempo ricreativo che rivela altresì come esso complessivamente sia percepito non opzionabile. Alla richiesta di indicare di quante ore vorrebbero disporre per sé giornalmente (v. Tab. V13), emerge un certo realismo nelle risposte: quasi la metà delle intervistate (46,9%) desidererebbe da una a due ore e circa, un quarto (23,6%) di tre. Si noti inoltre che il 17% delle rispondenti si accontenterebbe anche di una sola ora. Fino a tre ore si concentra la più parte delle risposte, mentre superano questo limite quante, più delle altre, potendo rispondere liberamente optano per un tempo il più ampio possibile, a coprire le 24 ore o addirittura a superarle. Rimane comunque il pragmatismo delle rispondenti che contiene entro un range limitato anche la misura di un tempo personale. Tabella V.13 - Quante ore al giorno vorrebbe avere per se stessa? n. ore indicate % 1 2 3 4 5 6 24 30 17,1 46,2 23,4 7,6 2,5 1,9 0,6 0,6 Più dell’indicazione numerica delle ore, risulta di interesse il modo in cui le intervistate pensano impiegherebbero le stesse. Alla domanda seguente CON I FIGLI... 181 «Come impiegherebbe questo tempo per sé?», posto che per molte questo «sarebbe un miraggio» (22), per usare le parole di una delle rispondenti, le risposte fornite in maggior parte fanno emergere un bisogno di estraneazione dalle incombenze quotidiane, di rilassarsi, come scrivono in numerose: «Riposandomi e facendo attività per me rilassanti» (30). Per tali ragioni, in molti casi le attività indicate sono più di una, di natura diversa dalle attività sportive agli hobbies, alla lettura e lo studio: «camminare, scrivere, leggere, ricamare» (13); «sport, lettura, cucito, ricamo» (1036); «una passeggiata, uno sport, leggere» (1010); «andando in piscina, leggendo un bel libro, facendo un massaggio, stando in silenzio, semplicemente in pace» (912). Gli interessi manifestati dalle intervistate appaiono molteplici, ma tutti attualmente sopiti dal menage quotidiano familiare, incluso un bisogno di socialità che molte esprimono con l’uscire e incontrare amiche: «fare lunghe passeggiate con le amiche per rilassarmi un po’» (911); «uscire con amiche, andare per negozi, mercatini, per guardare e non necessariamente comprare» (949). L’andare per negozi è di frequente menzionato come possibilità del tempo libero e in compagnia di altre persone adulte, nella più parte amiche, ma anche figli e familiari. La socialità, unitamente al coltivare interessi personali e culturali, riassume l’insieme delle esigenze strettamente personali delle intervistate: «Per fare passeggiate, leggere, dedicarmi a me stessa, incontrare le amiche» (34); «Leggendo, ascoltando la musica, facendo più sport e facendo una vita più attiva dal punto di vista sociale e culturale» (457). Le attività sportive insieme al prendersi cura di sé e del proprio corpo, rappresentano una delle istanze più menzionate dalle rispondenti. Se dunque ne avessero la possibilità si dedicherebbero, più di quanto non facciano al momento, alla cura del proprio corpo e ad attività fisico-sportive. I centri estetici, le palestre o le piscine sono i luoghi in cui si recherebbero volentieri, questo per trovare soddisfazione ad una ritrovata cura di sé, ma anche rilassarsi. È infatti il relax una delle questioni in sospeso; il bisogno di rilassarsi tout court fa per molte passare in secondo piano lo specifico del come trovare il modo per raggiungere effettivamente tale obiettivo. Il bisogno di tempo così come viene espresso, rimanda in sé ad una serie di necessità che originano dal complesso intreccio del quotidiano. È infatti in questa dimensione che le donne tessono una tela volta a coprire primariamente i bisogni altrui. Il tempo per gli altri è una decurtazione del tempo per sé, in un sistema di vasi comunicanti in cui quello della progettazione e affermazione personale si svuota e si riempe in funzione della complessità familiare. La partecipazione sociale è adombrata dalle contingenze che accorciano l’orizzonte di una progettazione esistenziale apparentemente contenuta nella dimensione del privato-familiare. Un contenimento che tuttavia rimanda non ad una mancanza di aspirazioni, ma a bisogni insoddisfatti e 182 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE ricadute sulla qualità della vita personale, oltre che, con ragionevole ipotesi, anche familiare tutta, nonché sociale. Al riguardo, così si esprime eloquentemente una delle rispondenti: «Spero che questo questionario aiuti a capire, a chi di dovere, che le donne, sia residenti che non, hanno problemi di tutti i tipi, a partire dal trovare un lavoro part time, alla crescita dei figli, a non riuscire ad andare avanti, soprattutto economicamente. Ma secondo me, la cosa principale, è riuscire a capire che noi donne abbiamo estremo bisogno di un po’ di tempo libero per dedicare finalmente a noi stesse» (847). V.3. Il territorio, i commenti, i suggerimenti Il territorio in tutto ciò ha un ruolo di gran lunga significativo. È qui che le vite delle persone prendono forma in una rete di relazioni, di opportunità e non. Nella parte finale del questionario le intervistate sono state invitate a valutare il territorio e i suoi servizi, da cui anche in questo caso, quella che è stata denominata la pagella del territorio (v. Tab. V.14). Per le intervistate con figli le valutazioni sono state espresse anche per le scuole di ogni grado e i servizi di trasporto scolastico, elemento non contemplato, per ovvie ragioni, nel gruppo di intervistate senza figli. Gli aspetti considerati per ciascun servizio sono relativi alla numerosità, qualità e orari: per ognuno è stato espresso un giudizio numerico entro una scala tra 1 (minimo) e 10 (massimo). I risultati mostrano giudizi piuttosto severi. Alle scuole, fino al grado di medie primarie, vengono attribuiti i punteggi più elevati, più per la qualità del servizio e degli orari che per la loro numerosità/diffusione sul territorio: «la scuola elementare è molto valida diciamo che è la migliore mi dispiacerebbe se peggiorasse non si cambia qualcosa che funziona questa è la mia idea!» (28). Gli asili nido raccolgono un punteggio decisamente più basso rispetto al complesso dei servizi scolastici, in tutti gli aspetti considerati. La presenza di asili nido, come emerso da più parti, anche dai commenti inseriti nel questionario, è individuato come un punto critico, in quanto il servizio è giudicato insufficiente per il fabbisogno complessivo del territorio. A raggiungere la sufficienza è il servizio di trasporto scolastico: ancora una volta l’opinione è più positiva per quanto concerne la qualità che la numerosità dei mezzi disponibili; in qualche caso viene segnalato un problema di sicurezza dei bambini sui mezzi nel tragitto casa-scuola: «bisogna tutelare la sicurezza dei bambini sugli scuolabus aggiungendo più personale oltre l’autista sugli autobus» (11). Le scuole superiori sono poi giudicate più severamente; intorno ad esse il giudizio è nettamente più negativo, specie per quanto riguarda la numerosità degli istituti. Di fatti, la frequenza delle scuole superiori, come 183 CON I FIGLI... testimoniano ampiamente le intervistate, comporta nella più parte dei casi spostamenti e pendolarismi non propriamente agevoli. Tabella V.14 - Pagella del territorio* Scuole per l’infanzia Scuole elementari, medie Scuolabus Negozi Nidi Scuole superiori Uffici pubblici Trasporti pubblici Impianti sportivi Strutture sanitarie Servizi per il lavoro Strutture ricreative Media totale Numerosità Qualità Orari Media servizio 5,7 5,6 5,9 5,6 4,9 4,9 5 5 4,5 4,4 3,7 3,6 4,9 7,5 7,3 6,8 5,9 5,6 5,6 6 5,5 5,3 4,5 4,1 4,2 5,7 7,5 7,3 6,8 6,5 5,7 5,9 5,6 5,5 5,6 5,1 4,3 4,5 5,9 6,9 6,8 6,5 6,1 5,4 5,5 5,4 5,3 5,1 4,7 4,1 4,1 5,5 * Medie di punteggi attribuiti dalle intervistate in un intervallo da 1 (minimo) a 10 (massimo). Come è emerso dalle interviste con le donne senza figli, la presenza sul territorio di scuole superiori è ritenuta scarsa, cosa che comporta faticosi spostamenti affidati a mezzi di trasporto pubblici, che non incontrano le esigenze di mobilità dei residenti, ragione per cui viene attribuito un punteggio sotto la sufficienza. Nella parte più bassa della graduatoria, costruita sulla base dei punteggi espressi, troviamo nell’ordine gli impianti sportivi, le strutture sanitarie, i servizi per il lavoro e le strutture ricreative a ricoprire l’ultima posizione. Se le intervistate con figli si pronunciano più severamente in merito alle strutture sanitarie, si noti come in entrambi i gruppi delle intervistate (con e senza figli) a chiudere la graduatoria e nello stesso ordine siano i servizi per il lavoro e le strutture ricreative. Le strutture ricreative, insieme ai servizi per il lavoro e a quelle sanitarie, sono giudicate negativamente da entrambi i gruppi di intervistate che vi attribuiscono i punteggi comparativamente più bassi. Sugli impianti sportivi è lievemente superiore il giudizio delle intervistate senza figli che probabilmente giudicano gli stessi sulla base di una fruizione personale basata su una maggiore flessibilità di utilizzo, anche in termini di disponibilità di tempo personale; diversamente qui la valutazione è formulata sull’accessibilità e disponibilità delle stesse anche per i figli, quindi sulla base di esigenze mol- 184 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE teplici e diversificate. Le strutture ricreative, in ambedue i gruppi, chiudono la graduatoria: anche i commenti scritti a chiusura del questionario evidenziano tale questione come centrale per la qualità della vita delle persone, delle famiglie e dei più giovani, su cui invece il territorio è giudicato del tutto carente. Le strutture ricreative sono il vero punto debole, laddove esse rappresentano mancate occasioni di socialità per i residenti di tutte le età, come osserva una intervistata: «Per il bene del paese, tutti compresi, adulti anziani, dovrebbero esserci più organizzazioni, attività da svolgere, per i bambini dei giochi all’aperto sparsi per tutto il paese, tipo altalene, scivoli, la fune, piscine al coperto, ecc.» (19). Tale aspetto viene ripreso ampiamente dalle rispondenti anche nei suggerimenti che le stesse indirizzano agli amministratori locali e riportati in coda al questionario. Complessivamente il territorio non è percepito come women friendly, anzi viene sottolineata la mancanza di risorse e luoghi di incontro dedicati alle donne e, in generale, come i servizi non tengano conto delle loro esigenze «Osservate il territorio non c’è consapevolezza dei problemi e delle esigenze delle donne, forse perché ci sono troppi uomini amministratori?» (947) si domanda una delle rispondenti. D’altro canto, difficilmente vengono messe a fuoco questioni che riguardino specificamente le donne come soggetti autonomi o interventi ad esse indirizzati. Piuttosto le intervistate guardano alla qualità della vita del territorio e formulano le loro proposte tenendo in conto la popolazione nel complesso, a partire dalle loro numerose esigenze di madri di famiglia. Il questionario somministrato si chiude con l’invito ad esplicitare suggerimenti ad amministratori e amministratrici del territorio per interventi a favore delle donne residenti6. La domanda è posta volutamente in senso generico per cogliere la declinazione del legame donne-territorio direttamente dal punto di vista delle rispondenti. Ben 453 intervistate, vale a dire il 43% del totale delle rispondenti, hanno fornito suggerimenti per migliorare la qualità della vita delle donne. In primo luogo vi è il tema del lavoro: «a tutt’oggi, nel 2008, per le donne lavorare e crescere i figli contemporaneamente è una cosa assai difficile» (19); «Spesso le donne sono costrette a scegliere la famiglia o il lavoro oppure ad annullarsi completamente per poter fare tutte e due le cose e questo non è giusto. Servirebbero degli orari più flessibili e delle leggi che tutelino maggiormente le madri perché il lavoro è una necessità ma anche un modo per realizzarsi» (915). Il 6 La domanda era così formulata: «Se potesse dare un suggerimento agli/alle amministratori/trici del territorio in cui vive per migliorare la vita delle donne residenti, cosa suggerirebbe di fare?». La relativa modalità di risposta prevista è aperta. CON I FIGLI... 185 lavoro difficilmente accessibile o fonte di conflitto sia con il ruolo principale di madre responsabile della cura familiare, sia con l’aspirazione futura di un reinserimento lavorativo, in una forma comunque compatibile con quello che è il ruolo di dispensatrice di cura: «Proporrei di garantire una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro in modo che tutte le donne possano lavorare ma conciliando l’attività lavorativa con i numerosi impegni familiari» (452); «Dare maggiori possibilità alle donne madri di lavorare part time in modo che possano avere più tempo da dedicare ai figli e alla famiglia» (792); «Dare un contributo economico per chi ha figli, per le casalinghe e dare il part-time a tutte o almeno lavorare solo la mattina per poter stare con i figli» (31); «Maggiori flessibilità lavorative, incentivazione del part-time e telelavoro, aiuto alle donne che lavorano con esenzione dei contributi alle baby-sitter o collaboratrici domestiche, costituzione di centri adeguati per i figli in orario di lavoro» (139). C’è il bisogno e l’esigenza di lavorare: «lavoro part-time per le donne perché è difficile conciliare il lavoro con la famiglia però questo è molto difficile trovarlo e cercare di venire incontro anche nell’ambito lavorativo alle esigenze delle donne con figli, costrette coi tempi che corrono ad avere un lavoro» (15); ma vi è altresì la consapevolezza che essere madri significa essere penalizzate in termini di accesso al lavoro, perché il territorio è ritenuto privo di opportunità per le donne con figli, come segnala una delle rispondenti: «difficoltà nella richiesta di permessi per malattia dei figli, reali possibilità di collocamento lavorativo per una donna giovane con figli» (6). La realtà lavorativa è nel suo insieme percepita distante dalle donne, dalle madri e dalle funzioni che assolvono: «sicuramente mi piacerebbe essere più tutelata nel caso di malattia di mia figlia, dover ricorrere ogni volta alle ferie mi sembra denoti poca attenzione ai problemi reali, comuni a molte mamme» (17). Essere madri che lavorano vuol dire inoltre misurarsi con modelli di cura che persistono in dissonanza con l’affermazione pubblica delle donne, ponendo così le interessate in una situazione non risolta e contraddittoria, in quanto tale più sensibile alle scosse del corso di vita, oltre che del mercato del lavoro, per cui suggerisce una delle rispondenti: «Promuovere il part time o l’orario ridotto per le mamme che lavorano, perché anche loro vorrebbero vedere di più i loro figli e vorrebbero poter fare bene sia le mamme che le lavoratrici senza compromessi e sensi di colpa, senza subire il sopruso di accettare senza possibilità di scelta» (43). Il contesto è insomma tutt’altro che percepito come supportante, delle madri, delle famiglie, delle donne in particolare: «mi fa piacere che la Provincia faccia questo monitoraggio riguardo la donna lavoratrice ed in particolare che tenga conto del numero dei figli e delle condizioni famigliari che pregiudicano fortemente la vita lavorativa. Si dovrebbe indagare anche sulle risorse economiche dato che attualmente non c’è una politica di sostegno per le famiglie!» 186 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE (62). Il lavoro di cura è gratuito e dato per scontato, scarsamente apprezzato in termini di valore per la comunità: «Valorizzare il lavoro della casalinga come lavoro socialmente utile» (519). Ciò va a gravare su una definizione del ruolo femminile deprezzato, deprivato di centralità nella sfera pubblica come in quella privata: «secondo me sarebbe bene rivalutare la figura della donna in quanto madre, moglie e soprattutto persona che guida una famiglia a proprie spese, senza riconoscere il merito!» (4). La condizione delle donne, così come ricostruita attraverso le analisi dei risultati è stretta tra confini, pur modificabili, ma rigidi, che la sfera privata determina sulla base di risorse economiche, culturali, ma più di tutto sull’essere donne ed esserlo in un contesto dove strutturalmente la partecipazione femminile è più favorevolmente accolta nel privato e nel pubblico in maniera discontinua e “flessibile”: «Dare lo stipendio alle casalinghe. La vita è molto dura lavorando una sola persona in famiglia devono iniziare ad aiutare le donne a casa che cercano di seguire i figli e crescerli come si deve – senza farli diventare delinquenti perché hanno bisogno di una guida familiare» (521). Ed è per tali ragioni che le richieste rivolte al territorio si indirizzano numerose verso l’erogazione di servizi adeguati a sostenere un percorso femminile anche lavorativo: «per una donna è importante la famiglia, i figli, ma se non si hanno i nonni disponibili come fa una donna a lavorare? E tanto più si ha bisogno di lavorare, tanto meno si può pagare qualcuno che tiene i figli! L’asilo nido è caro, anche se comunale (Fossombrone); immaginiamoci quello privato! E poi io sono fortunata che risiedo a Fossombrone ed ho il privilegio di essere un’utente residente e chi abita ad esempio a S. Ippolito? Deve smettere di lavorare e poi con cosa campa?» (22). Le richieste di potenziamento dei servizi soprattutto per l’infanzia sono dirette a colmare sia quella mancanza di redistribuzione dei carichi di cura che non si realizza nel privato familiare e che qui non è problematizzata, sia la debolezza delle reti di supporto: «più servizi disponibili per accudire i figli di chi deve lavorare, specialmente orari migliori dei nidi/scuole che rispecchiano l’orario lavorativo» (1015); «La donna che lavora ha bisogno di strutture appropriate con personale qualificato dove poter lasciare i figli nel periodo estivo a prezzi ragionevoli o comunque tenendo conto del reddito familiare» (1012); «maggiori strutture ricreative per i bambini con orari più elastici e che diano supporto anche durante le vacanze estive» (908). Gli asili nido sono spesso menzionati nei suggerimenti delle intervistate e sono un annoso problema del sistema italiano, cui questo territorio non fa eccezione. La penuria di asili nido consolida la fruizione degli stessi come molto ristretta: vi si ricorre solo in caso di necessità, in mancanza di quella che ancora oggi viene ritenuta la prima scelta, vale a dire la gestione fami- CON I FIGLI... 187 liare della prole. Questo, non solo delegittima il servizio nella sua funzione sociale e socializzante a vantaggio dei bambini più piccoli, ma finisce anche per rinsaldare quel sistema di genere tradizionale che continua a rimanere il fulcro dell’ordine sociale. Si noti che la richiesta di asili nido è declinata come aiuti alle donne e comunque alle mamme che lavorano, ma non nella direzione della condivisione: «Più scuole per l’infanzia e più asili nido per le mamme che lavorano; questo rimane un problema delle donne: offrire più incentivi retribuiti x chi lavora e fa la mamma a tempo pieno lo chiamerei bonus family” (1045). I servizi esistenti dunque sono ritenuti insufficienti, così come le reti di cura per le quali si chiede un maggiore supporto, soprattutto a colmare la sospensione delle pause scolastiche estive e nelle emergenze quotidiane: «Un servizio garantito, anche a pagamento, di assistenza per i bambini a domicilio, per poter permettere alla donna di andare a lavorare senza il problema delle emergenze per malattia o vacanze scolastiche» (1010). Il supporto delle reti parentali risulta oneroso per le donne che si incaricano quotidianamente di una complessa organizzazione, oltre ad essere giudicata non sempre la scelta più adatta per i più piccoli per i quali occorrerebbero ambienti a loro misura: «organizzare un dopo asilo, per permettere alle mamme di poter passare dopo il lavoro a ritirare i propri figli in un luogo adatto e divertente per loro, e non lasciarlo ogni giorno in luogo diverso (dalla zia, nonna, amici, zio)» (1). Il bilanciamento delle sfere di vita e di lavoro risulta essere alquanto difficoltoso nel vissuto delle intervistate, consapevoli di come e quanto i problemi si intreccino; i suggerimenti vanno spesso a coprire aree differenti di cui loro stesse sono il filo conduttore: «offrire assistenza a quelle donne in stato di gravidanza con figli a carico piccoli; assistenza a donne che non hanno possibilità di lasciare i figli in custodia per poter assolvere le loro commissioni; integrare le donne (35 anni) nel mondo del lavoro» (67). Tra loro diverse, le testimonianze delle donne rimandano ad una esigenza diffusa di maggiore sostegno al ruolo di madri, lavoratrici e cittadine, da cui emerge uno scollamento espresso, tra l’altro, nella segnalazione di orari disarmonici con il vivere quotidiano, dei servizi, degli uffici ecc. La questione che si pone al territorio è di rendere più flessibili e adeguati ai ritmi di vita e lavoro gli accessi, per esempio, ai pubblici servizi, prendendo definitivamente atto di percorsi scanditi da ritmi discontinui e frastagliati: «Poter usufruire di alcuni uffici pubblici anche nelle ore pomeridiane come ad esempio gli uffici postali o gli uffici ASL» (1035); «aumentare l’apertura al pubblico di uffici pubblici e strutture sanitarie (esempio servizio prenotazioni, vaccini, ecc..) in modo da consentirne l’utilizzo a tutti senza difficoltà di orari» (6). Le stesse istanze sono altresì poste al sistema scolastico nella sua organizzazione del tempo: «più flessibilità nel lavoro e più asili o tempo pieno a 188 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE scuola» (155). Gli orari di apertura delle scuole sono troppo rigidi e poco diffuso è il tempo pieno. In controtendenza con le riorganizzazioni imposte dal dettato normativo, che di fatto va a ridurre drasticamente l’apertura delle strutture, la richiesta delle intervistate è quella di una estensione del servizio scolastico: «Più servizi disponibili per accudire i figli di chi deve lavorare, specialmente orari migliori dei nidi/scuole che rispecchiano l’orario lavorativo» (1015). Si esprime preoccupazione per le ricadute della riforma scolastica in quanto percepita decurtante e dunque aggravante del già oneroso bilanciamento vita-lavoro: «di non cambiare niente sugli orari, attività che offre la scuola, perché d’ora in poi sarà peggio con le nuovi leggi che sono state fatte» (732). Si vorrebbe peraltro un servizio non solo più esteso per orario, ma anche più ricco in termini di offerta, per elevare qualitativamente le opportunità dei più piccoli: «più asili nido, scuola a tempo pieno, più attività per bambini» (23). I periodi estivi costituiscono un problema per molti nella gestione dei figli. Negli ultimi anni vita e lavoro hanno subito una profonda divaricazione, laddove il tempo produttivo ha sempre più dettato il passo del tempo privato. Per le famiglie, per le donne più di tutti, questo significa disponibilità di risorse di cura in proprio o esterne al nucleo familiare. Si è dunque ampliata l’area del fabbisogno di cura mentre l’erogazione di servizi si è andata riducendo, facendone tuttavia crescere la domanda: «attività pomeridiane per bimbi, anche attività per il periodo estivo» (243); «attività che possano andare incontro alle mamme lavoratrici come dopo scuola oppure dei campi scuola o attività ricreative durante periodo estivo» (66). Non si manca poi di mettere in evidenza che la gestione del tempo libero dei figli è spesso in contrasto con gli orari lavorativi; un ulteriore svantaggio per le madri che lavorano e i loro figli: «Avere una piscina per fare imparare a nuotare i miei figli in orari fuori orario di lavoro cioè dopo le 18.30» (1012). Alla scuola le donne si rivolgono perché si avvicini alle richieste delle famiglie e alle esigenze dei bambini, andando a supplire definitivamente a ciò che sul territorio risulta essere più scarsamente disponibile, almeno di non effettuare frequenti e faticosi spostamenti. Si tratta di strutture per il tempo libero che si chiede siano più presenti e capillarmente diffuse nel territorio, possibilmente di residenza: «prolungamento orario scolastico, nel pomeriggio fare attività sportive, ricreative per i ragazzi» (223); «suggerirei di creare più strutture per la crescita e l’istruzione dei bambini, per lo sport e il tempo libero» (70). Si pensa a luoghi anche di socialità, luoghi di incontro per tempo libero da trascorrere insieme ai figli: «altre attività extra scolastiche per passare il tempo insieme ai figli» (134). Le attività ricreative, oltre a rappresentare per molti un onere economico, sono altresì svantaggianti proprio in quanto non disponibili sempre nel CON I FIGLI... 189 comune di residenza o nell’area in cui si risiede: «Suggerirei che l’istruzione scolastica sia di 5 giorni da lunedì a venerdì a tempo pieno in modo che i bambini quando tornano a casa non abbiano i compiti, così noi madri avremmo più tempo per giocare con loro e seguirli anche nelle attività visto che nelle ore scolastiche non sono previste attività oltre a un’ora di fisica e forse sarebbe ora che il catechismo e le attività vengano inserite nell’orario scolastico... Molte osservazioni sono esatte ma non sono state affrontate questioni molto importanti ad esempio perché si fanno sempre meno figli e che far fare un’attività ai figli extra come calcio, tennis, pallavolo, nuoto, ecc., per le famiglie è un’ulteriore spesa e soprattutto tempo che non tutti possono permettersi» (509). I suggerimenti vanno verso un’idea di territorio arricchito di opportunità «avere più strutture ricreative, impianti sportivi, servizi, asili nido» (61). La lontananza dalle strutture sportive è un ostacolo che ne rende diseguale l’accesso. Mentre il trasporto collettivo da e per le strutture scolastiche è giudicato soddisfacente, gli spostamenti per le attività extra scolastiche implicano una complessa gestione: «aumentare strutture ricreative ed impianti sportivi in modo da evitare ai genitori continui lunghi spostamenti con conseguenti perdite di tempo e facendo così in modo che i bambini e ragazzi abbiano tutti modo di esercitare attività sportive di vario genere» (28). La distanza dalle strutture sportive comporta non solo un incremento dell’uso del mezzo privato, ma anche un accrescimento della dipendenza dallo stesso. La struttura del territorio, rappresentata da un insieme di numerosi piccoli comuni, ha al suo interno una differenza sostanziale proprio in termini di opportunità del tempo libero, tra piccoli e più grandi comuni: «strutture ricreative, trasporti pubblici anche nelle frazioni» (40). Il territorio appare percepito in una contrapposizione centro-periferia. Quella tranquillità del vivere menzionata dalle intervistate senza figli, ritenuta a misura di persona, sinonimo di una elevata qualità della vita locale, viene invece offuscata nella percezione delle intervistate con figli, le quali tendono a sottolineare le necessità del quotidiano e le difficoltà nel dare risposta alle numerose esigenze delle famiglie e della crescita dei figli. I piccoli comuni sono percepiti relativamente più poveri di occasioni e maggiormente vincolanti nella misura in cui dipendono dalla possibilità/capacità di mobilità in proprio sul territorio. Come già rilevato questo crea una divisione funzionale territoriale, per cui alcune aree diventano il punto di riferimento per il divertimento e il tempo libero, mentre altre rimangono strettamente ancorate ad una identità prettamente residenziale. Queste aree rischiano un impoverimento di socialità, acuito, a sua volta, da uno sviluppo urbanistico recente che ne ha mutato la conformazione nel senso di una maggiore dispersione sul territorio ed un’accresciuta eterogeneità, intaccando, così, i confini materiali e simbolici 190 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE della “comunità” originaria. Per tutte queste ragioni molti suggerimenti sono indirizzati verso una valorizzazione del territorio che passa attraverso le strutture per il tempo libero, accessibili a varie fasce della popolazione: «creare qualche luogo per attività sportive per donne, per bambini» (33); «il territorio dovrebbe arricchirsi di locali addetti ai bambini come spazi ricreativi-ludici, locali come consultori familiari e strutture sportive» (840). La questione della qualità della vita è posta dalle intervistate con figli con toni accesi sulla urgenza con cui sarebbe opportuno affrontarla: «Incentivare servizi offerti; più nidi, impianti sportivi e strutture ricreative. Migliorare la vivibilità ossia la possibilità di potersi muovere con passeggini» (502); «impianti sportivi con piscina, scuole di danza classica e moderna qualificate, asilo nido, sia per le donne che per i propri figli» (1001). In ciò rientra anche la disponibilità di tempo, un’aspirazione importante in termini sempre di qualità della vita personale e familiare: «Dare più tempo libero per migliorare l’andamento familiare» (11). Infine, ma non per minore rilevanza, vi sono i suggerimenti che riguardano la socialità, declinata come esclusivamente dedicata alle donne oppure insieme ai loro figli o, ancora, occasioni estese alle diverse fasce di popolazione indistintamente: «creare dei centri di incontro sia per sole donne sia per mamme con i loro figli dove si possa parlare ma anche giocare» (1033); «suggerirei di non sprecare locali, esercizi lasciandoli vuoti e farli rovinare dal tempo, dovrebbero offrire per le donne dei corsi in orari serali di qualsiasi tipo» (51); «organizzare punti di incontro/informazione dedicati alle donne e alle loro esigenze (lavoro, cura dei figli, ecc); creazione anche nelle realtà locali delle “banche del tempo”» (33); «organizzare corsi serali di lingua inglese, informatica, ma anche corsi di aerobica, fitness in genere. È importante secondo me frequentare persone anche al di fuori della famiglia aiuta a mantenere la mente aperta» (68). Iniziative diverse fra loro sono proposte tutte con lo scopo di rendere maggiormente vivace la vita sociale locale, investendo principalmente sull’aspetto culturale e su quello relazionale familiare: «proporre iniziative per metterci in relazione noi e le nostre famiglie, proporre corsi formativi per sostenerci, proporre iniziative culturali» (30). Il bisogno espresso in tal senso risulta essere urgente e diffuso. Mentre alcune intervistate esprimono un desiderio di socialità tra donne, si preoccupano al contempo di come questo vada a ricadere sulla gestione dei figli. Godere del tempo libero per le intervistate implica aver risolto la gestione e affidamento dei figli: il tempo per sé è possibile solo attraverso un’organizzazione del tempo dei figli e, in ogni caso, appare un affare esclusivo tra madre e figli: «suggerirei di fare delle riunioni di solo donne, fare cose creative con annessa una baby-sitter per guardare i figli» (140). L’attesa di investimento culturale e formativo specificamente verso le donne, viene in primo piano attraverso le parole scritte da numerose intervi- CON I FIGLI... 191 state, che rivelano una concreta aspirazione di partecipazione e di fuoriuscita da un menage familiare in tal senso limitante: «Dare maggiore possibilità circa gli eventi, attività, informazioni che riguardano il mondo femminile e familiare attraverso l’invio non solo periodico, ma continuo di materiale informativo» (1000); «dare più aiuto psicologico organizzando riunioni specifiche per donne» (1034); «si potrebbero fare incontri serali su diversi temi: pedagogici, ambientali, rapporti familiari. Fare dei corsi (alla mattina) per le ragazze e signore che non hanno titolo di studio ma che vorrebbero entrare nel mondo del lavoro» (1057). V.4. Conclusioni I risultati della ricerca ben evidenziano come rilevante sia il legame con il contesto e le sue specificità nella comprensione dei percorsi singoli e collettivi. D’altro canto, tenendo in considerazione la prospettiva di genere, essa conduce ad una lettura complessa di una realtà assunta a modello di uno sviluppo italiano che si vuole maggiormente redistributivo rispetto al capitalismo industriale da grande impresa. Il sistema produttivo tipico della Terza Italia, cui il territorio analizzato è ritenuto far parte, si fonda su un ordine sociale di genere che trova il suo fulcro in una debole inclusione lavorativa delle donne. Sono le intervistate a descrivere questa realtà: mentre la partecipazione socio-lavorativa è soggetta nel corso di vita a costante ridefinizione, la sfera privata rimane stabile annessione al ruolo di genere femminile. Si delinea un legame sessuato con il territorio entro cui si disegnano percorsi diseguali: accesso alle risorse, autodeterminazione, complessità della gestione del lavoro domestico e di cura, autonomia finanziaria, sono gli ambiti entro cui si misura un’ampia diseguaglianza con gli uomini e opportunità tutt’altro che in pari. Le opportunità per le donne sono sensibili ai carichi di cura familiare, al numero dei figli, alla disponibilità di reti primarie di supporto. Si tratta di elementi di discrimine rilevanti nel definire di volta in volta la condizione delle donne, la cui peculiarità è quella di essere soggetta a continue rideterminazioni correlate in primis agli eventi del ciclo di vita, che invece non investono altrettanto i loro partner. Ne risulta che sono le donne a vivere uno stato per definizione instabile e precario tra vita e lavoro. Le comunità in cui le intervistate vivono appaiono altresì coinvolte da processi di mutamento, innescati da una parte dalla crisi economico-produttiva che sta ridisegnando le geografie lavorative locali, dall’altra da una inedita mobilità territoriale che articola in una maggiore complessità la composizione demografico-culturale locale. L’espansione recente della popolazione, attribuibile in buona parte a flussi migratori di popolazione straniera in primo 192 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE luogo, ma con significative componenti di provenienza extracomunale ed extraregionale, non solo fraziona una comunità consolidatasi da lunga data sulla stabilità residenziale e sulla omologia di provenienza, ma introduce variabili di diseguaglianza economica rilevanti intorno ai tradizionali capitali di riserva su cui la popolazione autoctona può far conto, contrariamente a quella di nuovo arrivo. I nuovi residenti si trovano in una condizione di maggiore dipendenza dalla fonte del reddito lavorativo, mentre sradicati vivono una privazione relativa per esempio intorno alle reti di cura, che, come si vede anche dalla ricerca, sono un vantaggio competitivo in termini di partecipazione lavorativa per le donne con figli, con altrettanto rilevanti effetti sul reddito familiare. Vi è dunque da ipotizzare che, non mutando le condizioni, le fratture potranno persino acuirsi non solo intorno all’appartenenza di genere, ma intorno a quelle fonti di sostentamento e supporto cui non è possibile accedere sia per una mancanza di servizi adeguati, sia per lo sradicamento e la riconfigurazione della composizione della popolazione residente locale. Il contesto in cui è stata svolta la ricerca, accanto a tassi mediamente elevati di occupazione e di attività, rivela una debolezza strutturale della partecipazione lavorativa femminile, che si può cogliere e descrivere solo guardando alla costruzione dei percorsi dalla limitata portata di autodeterminazione. Non trascurabilmente questo entra in contraddizione con le priorità individuate dalle donne intervistate. L’importanza dell’avere un lavoro è chiaramente affermata nelle loro risposte, pur dentro tracciati lavorativi frastagliati che accorciano l’orizzonte di progettazione esistenziale, ancorandolo al presente. L’assenza di frattura nello sviluppo economico produttivo si è fondato sul mantenimento funzionale di una frattura tra i generi. Ciò ha permesso l’utilizzo delle risorse disponibili, umane e territoriali, senza mettere in discussione l’ordine sociale esistente, soprattutto dal punto di vista delle relazioni tra i sessi. Esiste una continuità tra i meccanismi di riproduzione del sistema economico locale e di quello socio-culturale, per cui ne risulta un’assenza di problematizzazione della relazione tra i sessi che non appare su questo piano conflittuale. Viceversa, è in questo sistema locale che si sostiene un ordine sociale di genere la cui rigida divisione del lavoro appare più immobile intorno alla cura. Di fronte ad un modello produttivo locale che privilegia l’inclusione lavorativa e la partecipazione sociale più ampia degli uomini, prevale da parte delle donne un’aspettativa di gestione monopolistica del carico di lavoro di cura e domestico, attraverso l’interiorizzazione di quel modello di riferimento di care giver, declinato, pressoché esclusivamente, al femminile. Cosa che induce le donne a comprimere il tempo di lavoro (ora- CON I FIGLI... 193 rio, esperienze lavorative frammentate e discontinue) e al contempo persino a maturare un’aspettativa di compressione dello stesso. Ne consegue una riduzione dei gradi di libertà, di progettazione di percorsi di vita e soprattutto di lavoro. L’imperativo del primum curare rappresenta un tacitum su cui si basa l’orientamento femminile verso un modello oblativo, il cui radicamento costituisce uno dei principali fattori di rischio di riproduzione dei due principali squilibri, lavorativo e di cura. La problematicità, in termini di fatica quotidiana e di difficoltà delle donne a progettare e realizzare le proprie aspirazioni, non si traduce in messa in discussione del sistema di relazione tra i sessi. E la problematicità che non si declina in dialettica mostra un’assenza di tensione verso il cambiamento. Criticando il riferimento a Penelope nel titolo del progetto di ricerca, scrive risentita una delle intervistate: «Il titolo fa schifo sappiamo tutte di essere schiave di figli e mariti, ma non c’è bisogno di ricordarmelo» (575). CONCLUSIONI Pesaro 2011: sono già due domeniche di seguito che, andando a prendere mia figlia alla messa domenicale, ascolto il saluto del sacerdote che conclude la celebrazione augurando buon pranzo e aggiungendo la speranza che le “mamme” abbiano preparato qualcosa di buono. Missa est! Mentre fuori dalla chiesa, nelle chiacchiere tra conoscenti, la conversazione ricade inevitabilmente sull’affanno settimanale che accompagna la vita delle madri nel comporre una esistenza sfaccettata e ricca di richieste di impegno. Mi colpisce il commento di una delle presenti che, giustificando il pressocché totale disimpegno paterno e domestico del coniuge, chiosa: «é che a noi donne ci frega la maternità!». Un’affermazione lapidaria che in poche parole fotografa la condizione di madre come vincolo, come deprivazione in termini di opportunità di scelta, cosa che neppure sfiora, neanche a dirlo, la paternità complementare. Un affare di donne o meglio di madri. Una maternità che diventa “una fregatura” perché impone di rimanere il più possibile ancorate a modelli e ruoli tradizionali con ricadute e costi personali nella misura in cui da essi ci si discosta. È così che ci si garantisce un (buon) pranzo domenicale, è così che persistono insolute le contraddizioni. Questo è il paese in cui risulta ancora radicata e diffusa l’idea che i bambini piccoli soffrano quando la madre lavora (Saraceno, 2005): forse anche per questo è anche il paese in cui i figli piccoli “soffrono” meno che in altri, giacché le madri italiane sono molto meno presenti delle altre europee e non solo sul mercato del lavoro!!! Questo è il paese in cui una donna su due, secondo le più recenti stime, non lavora né cerca lavoro, certamente non solo per prevenire la sofferenza di presenti o eventuali futuri figli che divengono sempre più rari. Una riflessione sull’orientamento preventivo del mercato, delle istituzioni e delle stesse donne su un ruolo femminile-materno assunto come dominante e per definizione in contraddizione con una presenza attiva sul mercato del lavoro, come in altre sfere della vita pubblica, va fatta. È infatti nel sedimento culturale della divisione dei ruoli, di questo cristallizzarsi di una cultura persistentemente discriminatoria che neppure 196 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE le politiche pubbliche giungono mai. Di qui la loro debolezza e scarsa efficacia. D’altro canto pensare politiche pubbliche volte a ripianare l’antico e attuale divario di genere significa districare il groviglio di una diseguaglianza che appare fondativa e che non informa le politiche pubbliche, al contrario assume le donne come soggetti a se stanti, lasciandole in tal modo legate ai problemi di cui divengono latrici. Come si innestano politiche di conciliazione su un sostrato culturale che dal livello nazionale a quello locale insistono su tale modello di donnamadre-martire della cura? È chiaro che introdurre il concetto di parità in tale contesto appare costantemente una sfida i cui esiti appaiono distanti e difficilmente prevedibili. Ma la sfida diviene ancora più complessa se la stessa ricerca intorno alla conciliazione non manca di cadere in trappole sessuate che finiscono per rinforzare quelle iniquità all’origine del profondo svantaggio relativo delle donne, specie delle donne italiane, specie delle donne che nelle realtà locali fanno individualmente e quotidianamente i conti con barriere culturali del sistema sociale, produttivo che hanno tracciato nel tempo i confini del ruolo femminile entro uno spazio secondario, subalterno a quello maschile. Forse non si dovrebbero neanche più formulare domande siffatte, almeno di non porre il ruolo materno e paterno sullo stesso piano di rilevanza dal punto di vista della presenza e della cura dei figli, almeno di non focalizzare non le donne o gli uomini singolarmente, bensì la “distanza di genere” che li separa. Spostare l’osservazione su un piano paritario appare già infatti un salto di qualità che rovescia la prospettiva del problema delle donne di conciliare, almeno per quel che concerne il contributo dello studio e della ricerca. Un obiettivo tanto più urgente quanto più da essa, da quella distanza di genere di fatto, la politica tende ad allontanarsi. A fronte della divulgazione degli ultimi dati Istat 20111 che misurano la drammatica e progressiva esclusione femminile dal mercato del lavoro, la risposta di intervento sul piano politico si conferma parziale, focalizzata su azioni particolari2, che non guardano al sistema e tanto meno lo pongono in 1 I dati si riferiscono alla rilevazione effettuata nel mese di settembre 2011. Si veda www. istat.it. 2 «Per aumentare l’occupazione femminile è già stata siglata con i sindacati una intesa per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che consentirà maggiore flessibilizzazione del part time e abbiamo inserito nel decreto Sviluppo la possibilità di accordi tra il datore di lavoro e la lavoratrice che permettano a chi ne ha bisogno di poter avere a disposizione asili nido aziendali in cambio di una trattenuta sulla retribuzione”, ricorda Carfagna. “Considerato poi che il cuore del problema della scarsa occupazione femminile è nelle Regioni del Mezzogiorno, abbiamo voluto inserire nel Piano per il Sud misure che consentiranno, attraverso CONCLUSIONI 197 discussione, semplicemente agiscono parzialmente3 sulle singole difficoltà delle donne e dunque hanno una buona probabilità sia di fallire il raggiungimento dell’obiettivo denunciato, far crescere l’occupazione femminile, sia l’obiettivo qualitativo più ampio da cui il primo discende, vale a dire di favorire un miglioramento complessivo della struttura socio-occupazionale. Le soluzioni individuate sono quelle oramai divenute consuete: favorire il part time, la flessibilizzazione del lavoro al fine di permettere alle “donne” (e solo ad esse) di conciliare meglio tempi di vita e di lavoro. Del tutto fuori mira della politica sono oramai la parità, la redistribuzione, la qualità della vita e con essa dei servizi, collocato il tutto dentro e non fuori del sistema di relazione tra i generi. Certamente il lavoro e un accesso non iniquo è centrale per un riequilibrio delle condizioni esistenziali delle persone, trasversalmente ai generi, alle generazioni e anche alle discontinue realtà territoriali tenute geograficamente insieme nel nostro stesso paese, cosa peraltro tutt’altro che scontata sul piano sociale, culturale e vieppiù politico. Ma il lavoro di per sé non contribuisce a determinare migliori condizioni e paritarie per le donne. L’enfasi sull’avvenuta crescita di partecipazione femminile al mondo del lavoro ha coperto i pilastri della diseguaglianza che nel tempo hanno preso il sopravvento: sia il bisogno di lavorare, sia la più ampia attesa di lavoro maturata dalle donne negli ultimi decenni, viene oggi disattesa dall’esaurirsi di risorse lavorative disponibili, accessibili sia sul piano della quantità, sia sul piano della qualità. Quantitativamente è per le donne che il lavoro oggi si dimostra meno disponibile, qualitativamente il suo accesso non necessariamente conduce a livelli “decenti” di occupazione ed esistenziali. L’elevata partecipazione delle donne al mercato del lavoro è stata spesso una sorta di abbaglio che ha allontanato lo sguardo sulla capacità di radicamento delle donne soggetti, lavoratrici e cittadine. Specie, questo, in alcune realtà produttive locali dove la virtuosità del modello adottato ha reso le stesse immuni da messe in discussione, prevalendo la positiva accettazione della capacità di produrre reddito e ricchezza. La mal distribuzione della stessa diventa evidente solo oggi, quando la crisi economica, lo stallo demografico e il non remoto pericolo di impoverimento, mettono a rischio l’intero sistema. Mentre si mettono a punto nuovi indicatori di benessere, incentivi fiscali, la stabilizzazione di lavoratrici precarie in zone svantaggiate e maggiore diffusione dell’apprendistato”, aggiunge il Ministro. “Questo impegno, che si affianca alle risorse stanziate dal Dipartimento per le Pari Opportunità già assegnate alle Regioni per potenziare le misure di conciliazione e aumentare i servizi per le lavoratrici, darà certamente e in tempi rapidi buoni frutti”, conclude il Ministro» (www.pariopportunita.gov.it, 30 ottobre 2011). 3 Si veda riferimento nel capitolo secondo del presente libro. 198 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE che vedono coinvolto con un ruolo primario proprio il territorio su cui si è svolta la ricerca di cui si è ampiamente dato conto nel presente lavoro, questo è di fatto eroso nella pratica quotidiana. Ad avere maggiore affanno sono le donne. Cedendo loro direttamente la parola ne emerge una condizione di integrazione sociale e lavorativa mai compiuta e mai giunta al consolidamento di status paritario con gli uomini. La diseguaglianza dei ruoli e dei percorsi è testimoniata dalle intervistate come fatta propria: «gli uomini non hanno il problema della famiglia, dei figli» (S3), afferma con decisione una delle intervistate. Questo, mentre spegne la dialettica tra i ruoli maschili e femminili sul piano del divario di partecipazione pubblica a tutto campo, non diminuisce le difficoltà delle donne di farsi avanti in un quotidiano in cui la dimensione privata pone ostacoli insormontabili. Ma non li pone agli uomini, né queste donne si aspettano che ciò accada. Ciò che più di tutto l’analisi condotta su un territorio modello di sviluppo dell’Italia del capitalismo molecolare ha messo in evidenza è innanzitutto una divaricazione tra crescita economica e culturale. Da qui l’osservazione di contraddizioni che ricadono direttamente sulle scelte e sui percorsi delle donne. Per le giovani intervistate del gruppo di donne senza figli stare a casa non è neppure messo in conto, piuttosto adattano le loro aspirazioni lavorative alle opportunità sul territorio. Nell’adattarsi fanno i conti con limitazioni di opportunità stabili e incrementali, adeguate alle loro aspirazioni, ai loro percorsi di studio. Elaborano tali limiti come esclusivamente o principalmente delle donne. Per il fatto di attendere una maternità futura o di percepire il cammino femminile inevitabilmente segnato dalla tappa della maternità, non mostrano atteggiamenti rivendicativi, bensì accettano il sistema entro cui si muovono, cercando di ottimizzare per sé le risorse disponibili. Si traccia così un corso di vita che va inevitabilmente incontro ad una riduzione del tempo per sé, come del tempo da dedicare al lavoro o a qualsiasi altra forma di partecipazione pubblica. La parità con gli uomini non è in gioco, né problematizzata, ma semplicemente assunta. Il lavoro e la famiglia sono tenute insieme in qualità di mete a cui tendere. Il progetto di vita non ha una scadenza nei loro orizzonti, tuttavia, entrambi i gruppi di intervistate, con e senza figli, non si spingono a compiere una scelta definitiva, né si sentono in grado di compierla. È nell’aspirazione al lavoro che mantengono tutte (o quasi tutte) viva la tensione verso la realizzazione di obiettivi magari lontani, che vanno oltre il superamento del limite invalicabile dell’occuparsi di far crescere i figli. I progetti sono di lungo periodo mentre le difficoltà del presente sono quelle che disegnano percorsi distanti e talvolta opposti rispetto agli uomini e ai loro stessi partner. La parità non è una criticità, ma una questione di giustizia misurata sugli stili di vita CONCLUSIONI 199 consolidati delle donne loro contemporanee, in cui l’autonomia riveste per tutte un ruolo centrale. C’era una volta... lo stato sociale dalla culla alla tomba. Oggi lo stato sociale ha più tombe che culle. Le conseguenze di ciò sono amplificate nel quotidiano delle donne. La ricerca condotta mostra nettamente come le donne svolgano un ruolo sussidiario rispetto sia a servizi, che debolmente coprono le necessità presenti e tantomeno giungono a promuovere migliori livelli di qualità della vita, sia rispetto ai loro partner, la cui partecipazione al lavoro di cura e domestico risulta tutt’altro che paritaria. Le trasformazioni del territorio in termini di composizione demografica della popolazione, mostrano un accorciamento delle reti di cura per cui si appesantisce il carico delle donne, in un quotidiano che diventa un’organizzazione a difficile incastro, a tutto detrimento del tempo per sé. Per le donne con figli il tempo per sé si contrae drammaticamente. Sia il tempo ricreativo, sia il tempo che dedicano al lavoro, dunque il tempo della propria autonomia. Le donne senza figli, se il tempo per sé è tutto sommato disponibile, mostrano comunque una consapevolezza che a fronte di una scelta di maternità sarà invece decurtato, mentre al presente ciò che pesa di più è la mancanza di occasioni qualificate e qualificanti in cui spenderlo. Per entrambe l’aspettativa si rimodula su livelli di presenza e partecipazione al mercato del lavoro locale come “minore” rispetto agli uomini. Persino la crisi presente è percepita quale fattore di riassestamento delle opportunità che privilegiano e domandano uomini. È nel territorio che le rispondenti individuano le cause delle difficoltà: mancanza di servizi adeguati, scarse opportunità di lavoro e del tempo libero. Frattanto allo stesso tempo è al territorio che rivolgono istanze di supporto ad una conciliazione che per tutte è prettamente una questione femminile: in esso sono radicate e si riconoscono. È qui che si esercita la peculiare abilità e fatica delle donne del riuscire a far tutto senza sottrarsi per primo all’erogazione di quella cura che diviene tanto più preziosa quanto più è il sistema ad indebolirsi. Il quotidiano riferito dalle donne è un dato imprescindibile per comprendere le pratiche che indirizzano le scelte individuali, per comprendere le ragioni che portano a disegnare interi sistemi sociali, come quello esaminato, sul contributo femminile costantemente riadeguato funzionalmente alle istanze contingenti. Quello che emerge è il ritratto di un territorio complesso, in rapido mutamento e sostanzialmente fermo su una divisione sessuata del lavoro che ab origine parzialmente include le donne. Queste ultime appaiono in grave difficoltà, ma contraddittoriamente conformi a quel tacitum del primum curare che fonda le relazioni intergenere nella realtà locale. Problema questo non risolto che, al di là delle aspirazioni locali 200 LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE alla felicità e al benessere, porta in primo piano un significativo divario tra sviluppo economico e benessere locale, tanto più si tiene in conto il sistema di genere. Ovviamente se la ricerca ha il compito di indagare e porre in luce i problemi, la politica ha quello di prenderli in carico e tendere a risolverli. L’obiettivo del benessere sul territorio non può prescindere dal prendere atto di tale divario che solo interventi di riqualificazione del vivere locale possono colmare. La messa a punto di indicatori statistici, per quanto ad arte costruiti, non può sostituire il permanere di obiettivi politici: essi perseguono obiettivi conoscitivi (utili e necessari) e non politici (necessari e urgenti). BIBLIOGRAFIA Aa.vv., L’emancipazione malata, Edizioni Libera Università delle Donne, Milano, 2010. 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