RAPPORTI DI RICERCA
19
Fatima Farina
LA COMPLESSA TESSITURA
DI PENELOPE
Donne vita e lavoro: teoria e pratica sul territorio.
Indagine sulle donne dell’entroterra Pesarese
ISSN 1972-0769
Liguori Editore
Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Economia, Società, Politica - DESP,
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del
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© 2012 by Liguori Editore, S.r.l.
Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Luglio 2012
Farina, Fatima :
La complessa tessitura di Penelope. Donne vita e lavoro: teoria e pratica sul territorio. Indagine sulle
donne dell’entroterra Pesarese/Fatima Farina
Napoli : Liguori, 2012
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5679 - 6
ISSN 1972-0769
1. Genere
2. Mercato del lavoro I. Titolo
II. Collana III. Serie
Aggiornamenti:
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20 19 18 17 16 15 14 13 12
10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
INDICE
1
Prefazione di Paolo Zurla
9
Introduzione
15
Capitolo primo
La conciliazione. Dalla doppia presenza alla doppia complessità: gli
intrecci vita e lavoro nei percorsi delle donne
I.1. Di donne e di diseguaglianze 15; I.2. Come sono cambiate le donne 20;
I.3. Perché le donne tra vita e lavoro 30; I.4. Intorno alla conciliazione 36;
I.5. Riflessioni 40.
43
Capitolo secondo
Politiche e pratiche di conciliazione: i limiti della femminilizzazione
II.1. Donne e uomini concilianti 43; II.2. Prove pratiche di conciliazione 64;
II.3. Della conciliazione e del lavoro 66; II.4. Osservazioni conclusive 73.
77
Capitolo terzo
Diario e contesto della ricerca
III.1. La ricerca, le sue ragioni, obiettivi e ricadute 77; III.2. Le tecniche di
rilevazione e le intervistate 79; III.2.1. Le intervistate con figli 79; III.2.2. Le
intervistate senza figli 81; III.3. Il contesto della ricerca 84; III.4. Il mercato
del lavoro locale 100; III.5. La Provincia tra crisi e felicità 107.
113
Capitolo quarto
Senza figli...
IV.1. Introduzione 113; IV.2. Biografie e lavoro 114; IV.3. Il tempo libero nel
territorio 136.
viii
145
INDICE
Capitolo quinto
Con i figli...
V.1. La ricerca 145; V.2. Voci di donne: le intervistate 147; V.2.1. Il lavoro di
cura e l’organizzazione familiare 168; V.2.2. Il tempo libero e il tempo per sé
179; V.3. Il territorio, i commenti, i suggerimenti 182; V.4 Conclusioni 191.
195
Conclusioni
201
Bibliografia
A Luca,
coltiva la sensibilità nel bambino che sei per l’uomo che sarai.
A Giulia,
piccola donna, grande speranza nel domani.
Ringraziamenti
Sono molti i ringraziamenti che sento di dover fare a chiusura di questo lavoro. È
stato un percorso intenso, lungo e non privo di difficoltà. Ringrazio prima di tutto
le donne che hanno fortemente voluto intraprendere questa avventura, la volontà e
la tenacia di Susanna Marcantognini e di Barbara Marini, la capacità di ascolto di
Angela Genova e la sua generosità. Tre donne la cui presenza sul territorio rappresenta un valore aggiunto. Quanto agli uomini, un riconoscimento a Paride Prussiani
per il suo impegno, la capacità di risolvere tempestivamente i problemi e per aver
inventato il nome del progetto. A Mario Rosati un grazie per tutto il supporto logistico e organizzativo, per la fiducia riposta in noi che in tempi stretti e concitati
abbiamo cominciato e concluso positivamente un intero progetto di ricerca. Senza la
sensibilità dell’Assessore della Provincia di Pesaro Urbino, Massimo Galuzzi questo
lavoro sarebbe rimasto solo nelle nostre intenzioni. Con lui abbiamo tracciato un
percorso significativo sul territorio e proficuo per il lavoro di tutte e tutti. In lui e
in Simonetta Romagna le questioni del lavoro e delle donne hanno sempre trovato
particolare ascolto e attenzione.
Un ringraziamento particolare va ad Alessandra Vincenti collega, amica e
compagna di tante avventure accademiche messe a rischio da risorse troppo scarse.
Con lei e con Domenico Carbone abbiamo formato un gruppo affiatato, a dividerci
sono le prospettive future, vaghe e decisamente incerte. Il talento di Alessandra e
di Domenico sono risorse preziose, la loro amicizia mi accompagna e mi conforta
sin dal mio primo arrivo ad Urbino. Ma sono anni in cui molto e molti si vedono
andare e poco e pochi tornare.
A Veronica Marescotti e Joselle Dagnes va il mio riconoscimento per il paziente lavoro di inserimento e trattamento dei dati. Giovani studiose e ricercatrici cui
auguro di continuare con entusiasmo e sapienza su questa strada.
Ma credo di parlare a nome di coloro che hanno condiviso con soddisfazione
la realizzazione di questo progetto nell’esprimere la più profonda gratitudine verso
tutte le donne dei Comuni su cui abbiamo indagato. Grazie a tutte voi, per la fiducia,
per la disponibilità, per la generosità che danno senso e valore al nostro lavoro.
La responsabilità dei contenuti è tutta di chi scrive.
PREFAZIONE
di Paolo Zurla
Sono ormai passati quindici anni da quando il principio del gender mainstreaming, sancito nel corso della Conferenza mondiale delle donne di Pechino
del 1995, è diventato l’asse portante della programmazione delle politiche
europee. A partire dal Quarto programma d’azione per la parità delle opportunità (1996-2000), passando attraverso la Road Map del 2006, la fondazione
dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE, divenuto operativo
nel 2009), l’assegnazione dei Fondi Strutturali per il periodo 2007-2013,
fino all’adozione della nuova strategia quinquennale per l’uguaglianza tra
uomini e donne (2010-2015)1, il cammino europeo verso la promozione
e il sostegno delle pari opportunità sembra non aver avuto tentennamenti
(Rossilli, 2009).
Negli stessi anni, direttive e raccomandazioni hanno ripetutamente invitato i paesi membri a garantire ai loro cittadini standard comuni in merito
all’utilizzo e alla compensazione dei congedi, all’accesso e alla disponibilità di
servizi per l’infanzia, alla lotta contro la violenza e contro le discriminazioni
di genere. Il riconoscimento della differenza di genere e della non neutralità
delle azioni progettate rispetto alla specifica situazione di uomini e donne
ha, infatti, identificato nelle pari opportunità un obiettivo trasversale, da
perseguire, realizzare in ogni campo della vita economica, politica e sociale:
per costruire politiche in grado di promuovere realmente le pari opportunità
tra uomini e donne è necessario osservare l’intera società in un’ottica di
genere, prestando attenzione tanto alle differenti condizioni, situazioni ed
esigenze maschili e femminili, quanto alle differenti ricadute che gli interventi
progettati possono avere su entrambi.
La difficoltà di mettere in pratica l’idea di fondo della strategia del gender
1
Strategia in cui vengono tradotti in azione i principi definiti dalla Carta delle donne
approvata all’inizio del 2010.
2
PREFAZIONE
mainstreaming, realizzandone gli obiettivi, si riflette nella disomogeneità delle
situazioni dei diversi paesi europei. L’Italia, nonostante alcune normative
quasi in anticipo sui tempi2, tende spesso a posizionarsi agli ultimi posti
nelle graduatorie relative agli indicatori attestanti il divario di genere e gli
interventi attivati per ridurlo. Occupazione femminile, presenza delle donne
ai livelli decisionali, flessibilità degli orari lavorativi, disponibilità di servizi
pubblici, trasferimenti monetari alle famiglie, tassi di natalità, rappresentano
altrettanti punti dolenti di un paese che il Global Gender Gap Index relativo
al 2010 colloca alla 74esima posizione su 134 paesi3.
In tale quadro, il volume di Fatima Farina solleva il sipario e offre un
ritratto particolarmente interessante ed attuale di una realtà tipica della Terza
Italia, la provincia di Pesaro e Urbino, mettendo in luce potenzialità e limiti
di un’area territoriale caratterizzata da imprenditorialità diffusa, coesione
sociale e, un po’ inaspettatamente, modelli di genere semi-tradizionali. La
declinazione locale dei principi promossi dalle istituzioni comunitarie e nazionali costituisce senza dubbio un ambito di studio stimolante che, chiamando in causa simultaneamente più piani e più attori, invita a decifrarne le
dinamiche all’interno, tanto dell’azione politico-economica quanto della vita
quotidiana. Così, alla preziosa e puntuale ricostruzione della configurazione
di opportunità e vincoli del territorio provinciale, insieme alla vigile attenzione pronta a cogliere i primi segnali, ancora sottotraccia, della riduzione delle
risorse degli enti locali e del rallentamento del mercato del lavoro portati
dalla crisi, si affiancano le voci delle donne che lo abitano, che narrano la
loro esperienza di lavoratrici, di mogli e di madri.
Sono voci di donne, con e senza figli, diverse per caratteristiche personali e per estrazione sociale, portatrici di orientamenti tra loro differenti
nei confronti del lavoro, della vita in famiglia, della maternità, ma che in
comune rivelano l’esperienza di un dissidio tra aspirazioni e realtà che pare
incarnare la contraddizione di fondo di quest’area della Terza Italia. A fronte
delle innegabili conquiste femminili in termini di istruzione e di partecipazione al mercato del lavoro, l’equilibrio del modello sociale e imprenditoriale
pesarese, infatti, sembra poggiare su una divisione di genere che conserva
aspetti tipicamente tradizionali e connota ancora il lavoro delle donne come
“contributo”, attribuendo loro la gestione domestica e familiare come responsabilità prioritaria. L’occupazione femminile risulta così particolarmente
vulnerabile, esposta e subordinata non solo alle fluttuazioni della produzione,
2
Si pensi, ad esempio, alla L. 53 del 2000 che ha legato alla fruizione maschile di una parte
del congedo parentale la possibilità per la coppia di godere di un mese aggiuntivo.
3
World Economic Forum, Report 2011.
PREFAZIONE
3
ma anche al variare delle esigenze del ciclo di vita familiare che diventano
il discrimine per comprendere le diverse posizioni femminili. Soprattutto in
un momento di crisi, in cui l’investimento del territorio nei servizi rallenta e
il mercato del lavoro si irrigidisce, accentuando la preferenza per i lavoratori
maschi, la maternità diventa così alternativa all’occupazione, rendendo insanabile quel conflitto tra famiglia e lavoro che le politiche di conciliazione
avrebbero dovuto curare. L’arretramento dal punto di vista dell’uguaglianza
di opportunità non potrebbe essere più evidente: nel momento in cui le
possibilità reali di decidere autonomamente della propria vita e del proprio
futuro si riducono per le donne, i gradi di libertà maschili sembrano essere
intaccati solo marginalmente. I ruoli si ripolarizzano seguendo uno schema
di genere “antico” e la maternità, così come la conciliazione, diventano una
questione di sole donne.
Il primo aspetto a colpire nelle parole delle intervistate è la loro sorprendente capacità di adattarsi a nuove traiettorie di vita e a ridefinire i
propri obiettivi, pur in un’atmosfera di sottile disillusione – o forse anche di
delusione – per la promessa non mantenuta di una vita diversa. Le donne
si dimostrano pronte ad assumere su di sé la responsabilità, spesso totale,
dei carichi di cura familiari e a rinunciare anche al lavoro per adeguarsi al
ruolo di principale care giver che “sentono” loro, imposto o interiorizzato,
senza provare a rinegoziarlo, ma anzi sottolineando gli aspetti positivi della
tradizionale gestione monopolistica della cura. Nelle parole delle donne i
partner maschili compaiono solo raramente, la questione di chi dei due
debba prendere un congedo o ridurre il proprio orario di lavoro non sembra
neppure porsi e la flessibilità nei progetti di vita diventa una caratteristica
tutta al femminile. Tale “disparità” di opportunità viene assunta come un
dato di fatto, una disuguaglianza da accettare, che si cerca di gestire al meglio, utilizzando gli strumenti e gli aiuti disponibili, senza però né metterla
in discussione né problematizzarla. Il conflitto femminile tra ambiti vitali
diversi viene così personalizzato e interiorizzato dalle donne stesse: non sono
più un’organizzazione del lavoro poco sensibile o una divisione dei compiti
familiari squilibrata a provocare il conflitto, ma sono le “scelte” delle donne
a creare tensione tra famiglia e lavoro, per cui sono sempre le donne che
lo devono risolvere.
Il secondo aspetto da segnalare – e da cui partire per una riflessione
sulle prospettive e i rischi contemporanei per l’uguaglianza di opportunità
tra uomini e donne a livello locale – è legato proprio alla mancanza di tensione dialettica e rivendicativa che sembra prevalere tra le intervistate. Nel
momento in cui sono sollecitate a suggerire misure e strumenti per ridurre il
contrasto tra famiglia e lavoro, le proposte avanzate appaiono tutte declinate
4
PREFAZIONE
esclusivamente al femminile: mirano a risolvere problemi contingenti sul
posto di lavoro, ad alleggerire una pressione temporale fattasi insostenibile,
a rendere più rapidi gli spostamenti urbani, ad aumentare il benessere dei
figli o anche ad accrescere le opportunità per il tempo libero, ma nessuna
si spinge a cercare di individuare soluzioni in grado di favorire le pari opportunità sul lavoro o ad incentivare il coinvolgimento dei partner.
Ciò che le madri lavoratrici chiedono alle istituzioni locali è di essere
aiutate a semplificare la conciliazione, a fare in modo che la conciliazione
“funzioni”, ma la conciliazione, anche se sostenuta da apposite politiche,
resta ancora e solo al femminile.
Proprio da questo intreccio, tra esigenze dei cittadini/delle cittadine e
contesto territoriale, è necessario ripartire per riportare al centro del dibattito
il tema delle pari opportunità nel suo senso più ampio e dare continuità ad
una prospettiva sensibile alle differenze di genere in ogni ambito vitale. La
questione della conciliazione, nella sua “normalità al femminile”, non più
emergenziale né eccezionale, tende a scomparire, ma la sua soluzione non
può essere affidata solo ad una gestione per progetti, per quanto qualificata
e innovativa, perché necessita di un vero e proprio “pensiero strategico”.
Le iniziative progettuali, anche quando raggiungono la visibilità delle best
practice, restano temporanee, legate alle risorse di volta in volta disponibili,
faticano ad entrare nel panorama quotidiano degli strumenti riconosciuti,
riconoscibili e utilizzabili da uomini e donne nella quotidianità: non diventano “sistema”, per questo non riescono a mettere in discussione una
struttura di rapporti sociali, economici e familiari disuguali che si sostengono
vicendevolmente.
L’accurata ricostruzione del sistema socio-economico e familiare della
provincia di Pesaro e Urbino realizzata da Fatima Farina mette in evidenza
con chiarezza l’intreccio tra i diversi piani: la vitalità del tessuto produttivo
e l’elevato livello di coesione sociale del territorio riposano su un preciso
modello di divisione dei ruoli di genere, che, se non riflette più interamente
il rigido dualismo complementare male breadwinner – female caregiver model,
certo non sembra ancora approdato al modello teorizzato come in grado
di garantire la maggiore parità di genere, il dual breadwinner – dual caregiver. Piuttosto, stando alle testimonianze delle intervistate pare posizionarsi
da qualche parte tra il male breadwinner – female part-time career e il dual
breadwinner – extended family care model (Duncan, Pfau-Effinger, 2000; Bettio,
Plantenga, 2009; Pfau-Effinger, Flaquer, Jensen, 2009). Perché la situazione
possa cambiare, la conciliazione non può essere più solo una questione
di donne; i rapporti di genere, per farsi più equilibrati, non è sufficiente
un’iniziativa sporadica, ma, come l’idea del gender mainstreaming già quindici
PREFAZIONE
5
anni fa aveva messo in luce, è un intero sistema che deve riorganizzarsi,
assumendosi la responsabilità di rendere conciliabili i diversi ruoli e ambiti
vitali, anziché scaricarli sulle spalle dei singoli individui, in particolare delle
singole donne.
Al di là delle classificazioni, infatti, l’aspetto che si vuole sottolineare è
l’esistenza di un’associazione tra i diversi modelli e i relativi sistemi socioeconomici e familiari. Per passare da una situazione in cui famiglia e lavoro
rappresentano mondi incompatibili, con universi maschili e femminili collocati su fronti opposti, ad una in cui i due ambiti e i due generi possano
trovare equilibri più paritari, non si può prescindere dalla configurazione
del contesto materiale. La diffusione, la condivisione tra gli individui e nella
società di idee paritarie non sono sufficienti perché le coppie riescano a
riorganizzarsi in accordo con esse (Zajczyk, 2008; Morgan, 2008). Se non
hanno sufficienti risorse per farlo, se le istituzioni e il mercato del lavoro non
sono coerenti, pronte a sostenere tale riorganizzazione, a fornire gli strumenti
necessari per farla stare in piedi, i conflitti prevalgono ed il risultato è spesso
un ritorno agli equilibri dimostratisi validi nel passato, garantiti dai ruoli di
genere più tradizionali (Alesina, Ichino, 2009).
D’altra parte, anche il passaggio dal family economy model al male breadwinner model era avvenuto in concomitanza con l’affermazione del sistema di
produzione fordista, vale a dire nel momento in cui un assetto coerente tra
sistema economico e sistema familiare era riuscito a dare vita all’equilibrio
più funzionale per la propria riproduzione. Per diversi anni, dopo la crisi del
sistema industriale fordista, la complementarità tra ruoli di genere ha continuato ad assicurare un’adeguata riproduzione sociale, guidando l’organizzare
della vita quotidiana di uomini e donne. Dalla fine degli anni sessanta questo
equilibrio si è spezzato (Crompton, 1999; Lewis, 2001).
L’incompiuta transizione verso un nuovo sistema di relazioni tra uomini
e donne e tra ambiti vitali, provoca la tensione da cui emergono le incoerenze, le contraddizioni così visibili nelle parole delle intervistate. Incoerenze e
contraddizioni ancora più evidenti quando si osserva un territorio concreto,
il suo tessuto produttivo, le sue istituzioni e le persone che vi abitano, soprattutto nel momento in cui su di esso si vanno innestando gli effetti della
crisi economica.
Come ha acutamente messo in luce Fatima, tendenze e debolezze già
presenti anche prima dell’inizio della crisi si stanno accentuando, tanto sul
fronte della disponibilità di servizi, con un crescente ricorso all’esternalizzazione e un depauperamento quantitativo e qualitativo dell’offerta, quanto
su quello dell’occupazione, con una flessione nelle assunzioni femminili, un
aumento della precarietà delle occupate e le prime avvisaglie di scoraggia-
6
PREFAZIONE
mento. La piccola dimensione delle imprese di un’economia diffusa rischia
di aumentarne l’esposizione alle conseguenze negative della crisi: minori disponibilità economiche e minori margini di manovra per la proprietà, minori
sostegni pubblici, minore capacità di assorbire le fluttuazioni del mercato. Il
contesto materiale si modifica e i rapporti tra i generi ne risentono. Una conciliazione, che spesso era già difficile, rischia di diventare quasi impossibile,
aumentando l’incompatibilità tra ambiti vitali. La concessione di un part time
o di una flessibilità di orario, in alcuni casi favoriti proprio dal rapporto quasi
personale tra datore di lavoro e dipendente o dalla solidarietà tra colleghi
che si conoscono bene, in altri può rappresentare, o essere vissuta, come
una richiesta inaccettabile, in grado di stravolgere equilibri aziendali precari
e quindi respinta, costringendo le donne ad inventare nuove strategie per
far fronte alle esigenze familiari o anche a rinunciare al lavoro.
Eppure, la stessa crisi che investe i rapporti uomo-donna, che rende
più complessi gli equilibri famiglia-lavoro e toglie risorse, progettualità e
autonomia agli individui e ai soggetti collettivi, potrebbe trasformarsi in
opportunità. L’etimologia greca della parola rinvia alle azioni di scegliere,
valutare, decidere. Così, oltre che un periodo di riduzione delle risorse, di
contrazione della progettualità, di irrigidimento dei rapporti, la crisi potrebbe
rappresentare l’occasione per reinserire l’idea del gender mainstreaming alla
base dell’intera azione locale e dei suoi attori sociali. Una nuova riflessività
dovrebbe porsi al centro di un ripensamento di equilibri che si presentano
non solo sempre più instabili, ma anche sempre più ingiusti, costringendo
alcuni dei cittadini a rinunciare, con più o meno rassegnazione, ad una parte
della propria autonomia e libertà di scelta. L’adozione di un’ottica di genere
come chiave di lettura, tagliando trasversalmente iniziative nazionali e locali,
è in grado di modificare il contesto materiale e ideale poco amichevole,
oltre che scarsamente coerente, in cui ancora oggi si muovono le politiche
di conciliazione (McDonald, 2009; Saraceno, 2009c).
Per “cambiare” la vita delle donne, giacché le situazioni in cui si trovano
ad accettare soluzioni non scelte adeguandosi ad una realtà che non sono
in grado di modificare, la coerenza di un sistema di interazioni tra attori
diversi che, ancora oggi, contribuisce a sostenere schemi di divisione dei
ruoli tradizionali, dovrebbe essere rimessa in discussione a livello collettivo,
non individuale (Gornik, Meyers, 2008). Non sono le singole donne che da
sole devono lottare contro regole, prassi, modelli normativi interiorizzati da
decenni, sentendosi cattive lavoratrici, cattive mogli o cattive madri (Ruspini,
2005). La capacità e la forza di mettere in discussione ruoli di genere consolidati, ma disuguali, dovrebbe diventare un patrimonio collettivo, radicato
in un contesto sociale sufficientemente amichevole da far sentire le donne
PREFAZIONE
7
sostenute, materialmente e culturalmente, quando decidono di adottare un
modello alternativo.
La crisi ha offerto l’opportunità di toccare con mano quanto forte, almeno in questo ambito, sia il peso del contesto materiale su quello ideale:
i principi paritari si arrendono di fronte ad una realtà che non consente di
gestirli e una possibilità reale di scelta può esistere solo quando ci sono le
condizioni adatte a sostenerla. Oltretutto, forse bisognerebbe chiedersi se la
capacità delle donne di assorbire gli eventi, di far fronte e risolvere da sole
le dissonanze tra ambiti di vita, rassegnandosi ad adattare le proprie vite alle
situazioni esterne, non abbia raggiunto il limite. Tassi di fecondità tra i più
bassi al mondo (1,41 nel 2010) (Istat, 2011b), la diminuzione delle seconde
nascite e una quota di donne senza figli tra le più elevate in Europa (circa il
20% per la coorte nata nel 1964)4 dovrebbero far riflettere sulla condizione
delle donne, le loro opportunità e le possibili conseguenze del persistere di
una situazione che sembra aver portato la tensione e il conflitto tra ambito
familiare e lavorativo ad un livello di incompatibilità tale da renderli spesso
alternativi (Ongaro, 2006; Micheli, 2006).
Rimettere al centro del dibattito sulla conciliazione e le pari opportunità
il principio base del mainstreaming, di una preesistente e persistente differenza di opportunità per uomini e donne, nonché di una non neutralità delle
politiche, potrebbe aiutare a rivedere in un’ottica di genere anche misure
per la conciliazione consolidate che, inconsapevolmente, hanno man mano
incorporato un’idea dei ruoli di genere tradizionali così da favorire, anziché
ostacolare, la riproduzione delle disuguaglianze di opportunità. L’effetto di
tali circoli viziosi, che rafforzando il pregiudizio di genere nella pratica quotidiana e nella rappresentazione culturale rischiano di diminuire le concrete
opportunità di lavoro femminile, è ben evidente nelle parole delle donne
intervistate da Fatima Farina: la preferenza, per nulla segreta, dei datori di
lavoro per lavoratori maschi è giustificata dalle lavoratrici stesse, che per
prime si considerano poco affidabili, interessate – o costrette come sono
– a ridurre l’orario di lavoro per poter gestire le proprie responsabilità prevalenti, quelle familiari. Allo stesso modo viene compresa e giustificata la
scarsa propensione maschile per l’utilizzo dei congedi parentali: la paura di
perdere di credibilità sul luogo di lavoro appare una motivazione sufficiente a legittimare la frequente decisione dei lavoratori di rinunciare a questa
opportunità di contribuire al lavoro familiare.
Gli effetti latenti e controintuitivi che talvolta nascono dall’utilizzo di
strumenti pensati per favorire la conciliazione evidenziano, ancora una volta,
4
OECD, Family database.
8
PREFAZIONE
l’importanza di una configurazione economica, sociale e culturale coerente,
indispensabile perché tali strumenti possano funzionare come ipotizzato ovvero promuovendo conciliazione e parità di genere contemporaneamente.
D’altra parte, ormai da troppo tempo la conciliazione stessa è diventata
sinonimo di una pratica declinata quasi esclusivamente al femminile: è un
problema delle donne, su cui si costruiscono politiche per le donne, di cui
si occupano spesso altre donne, e che verranno utilizzate prevalentemente
dalle donne.
Forse, dunque, come le luci e le ombre sul modello della Terza Italia
rivelate in questo volume sembrano suggerire, è tempo di provare ad identificare un nuovo paradigma su cui fondare la necessità di armonizzazione
tra tempi di vita e tempi di lavoro. Un paradigma in grado di offrire una
reale opportunità di scelta, tanto agli uomini quanto alle donne, in cui non
esistano modelli di relazioni di genere “preferenziali”, ma ciascuna coppia
possa declinarli come ritiene più opportuno, avendo gli strumenti e le risorse necessari per farlo. La premessa, ovviamente, è che non si tratti più di
una conciliazione famiglia-lavoro declinata esclusivamente al femminile, ma
che si riesca a costruire un dialogo tra ambiti vitali non più opposti, messi
in condizione di convivere sia per gli uomini sia per le donne, superando
la dicotomia tra tempi maschili – pubblici e di lavoro – e tempi femminili
– privati e di cura.
INTRODUZIONE
«Dai miei fratelli ci si aspettava che diventassero dei professionisti – possibilmente avvocati, medici o ingegneri, le altre occupazioni erano considerate di secondo livello-, ma io dovevo accontentarmi di un lavoro
qualsiasi, fino a quando un marito e dei figli non mi avessero assorbita
a tempo pieno. […] Oggi non è più così, e il livello dell’educazione
femminile è addirittura superiore a quello dell’educazione maschile. A
scuola non andavo male, ma dato che avevo già un fidanzato, a nessuno
me compresa, venne in mente che avrei potuto affermarmi professionalmente. Terminai il liceo a diciassette anni, talmente confusa e immatura
da non sapere cosa scegliere, anche se ho sempre avuto ben chiaro che
dovevo lavorare, perché non esiste femminismo che si rispetti che non
sia basato sull’indipendenza economica. Come diceva il nonno: “Chi paga
comanda”».
Isabel Allende, Il mio paese inventato, Feltrinelli editore, 2003, p. 123
Oggi non è davvero più così? Quale lo stato di salute delle relazioni tra
donne e uomini nel nostro paese? Quale rispondenza tra le aspettative maturate dalle donne più giovani e la libertà di scelta? Quale, infine, lo stato
di realizzazione di opportunità pari e libere dei cittadini e delle cittadine a
prescindere cioè dal genere di appartenenza? Quesiti non certo nuovi ma
che piuttosto risalgono dalle radici profonde della nostra storia e identità,
fondando un presente discrepante, incongruo quanto a libertà di scelta di
donne e uomini. Uno sguardo attento non può non cogliere i molteplici
segnali di un opposto arretramento sulla strada di opportunità aperte ed
eque, spinte nella direzione di un rifugiarsi nell’antico, ben noto e rassicurante modo in cui le donne sdrammatizzano le difficoltà smettendo di
porre istanze di cambiamento, di abbattimento di ostacoli opposti ad una
partecipazione sociale che non ponga i limiti del proprio sesso. Oggi non è
più così? Basta cominciare a riflettere, osservare ed analizzare per trovarsi
più d’accordo con Faludi (2008) quando afferma di essersi sorpresa ad ela-
10
INTRODUZIONE
borare pensieri da «Pollyanna»1 soffermandosi sulle conquiste delle donne
negli ultimi decenni. Il gioco di Pollyanna, sembra aver contagiato le donne
negli ultimi anni procedendo nel mondo ripiegate sulle proprie aspirazioni,
facendo finta che tutto andava bene, che tutto il desiderato potesse essere
realizzato. La situazione presente più che a giocare porta a fare i conti con
la realtà materiale, a prendere atto che si è ancora molto distanti da ciò che
le donne hanno bisogno di vedere finalmente riconosciuto: quanto cioè sono
cambiati i loro orientamenti e quanto invece questi si discostano da modelli che continuano ad essere punti di riferimento per la rappresentazione
pubblica del femminile, quanto ancora questa trova spazio nelle politiche
pubbliche, nell’organizzazione quotidiana, del lavoro, familiare ecc. Quanto
insomma vi è ancora di incompiuto nella realizzazione della messa in pari
delle opportunità.
Italia 2011: cartelloni pubblicitari giganteggiano nelle città. Ammiccano
alle mogli e alle madri per vendere prodotti alimentari capaci di trattenere
in casa mariti che a tavola non parlano, figli fino al compimento dei quarant’anni. Il tutto condito da un look retro-anni ’50-60, mentre nella versione
televisiva una voce imperiosa fuori campo allarma le donne sui rischi di non
essere “portate” a cena fuori dai mariti trattenuti in casa dai loro deliziosi
manicaretti2. I pannolini lavabili sono pubblicizzati dalla grande distribuzione cooperativa con il pregio, tra gli altri, di far risparmiare le mamme3.
Il Fondo nuovi nati istituito dal Governo4 pensa ad un maschio di nome
Leone o Massimo come augurio di coraggio e di poter aspirare appunto al
“massimo”, ad una femmina da chiamarsi Serena quale auspicio di felicità.
Un sostegno alle famiglie che, in quanto tale, non trascura di far leva su
una comunicazione sessuata. Viene da chiedersi quanto tutto questo sia il
ritratto di un paese reale, quanto invece sia solo rappresentazione “surreale
ed ironica”5 di un gioco delle parti maschili e femminili. Nell’ultimo dei messaggi presi qui a pretesto si può quasi ravvisare una inversione comunicativa
rispetto al genere di appartenenza dei nuovi nati, semplicemente facendo
1
Pollyanna è la protagonista dell’omonimo racconto di E. Porter.
Il riferimento è ad una recente campagna pubblicitaria, che promuove la vendita di prodotti alimentari precotti e surgelati di pronto uso.
3
Si tratta della campagna radiofonica di una organizzazione cooperativa che opera nella
grande distribuzione a livello nazionale, mirata alla promozione di una linea di prodotti
ecologici e ambientalmente sostenibili, tra cui i pannolini lavabili.
4
In questo caso ci si riferisce alla campagna attuata dal Dipartimento per le politiche della
famiglia e alla relativa divulgazione via radio e televisione.
5
Questa la definizione della campagna di cibi surgelati, di cui sopra, fornita dall’agenzia
che l’ha ideata (www.spotandweb.it).
2
INTRODUZIONE
11
riferimento alle condizioni materiali che da qui al prossimo futuro peseranno
sui rispettivi percorsi esistenziali. È così che probabilmente sarà la femmina
ad avere più bisogno di coraggio per maturare aspirazioni di raggiungere
approssimativamente il massimo sperato, per affrontare le difficili condizioni
che le donne italiane vivono nel privato e nella sfera pubblica, in una misura
che oramai lascia pochi dubbi nell’essere di gran lunga superiore a quasi
tutti i paesi europei, occidentali e anche non. Mentre ai nuovi nati maschi
ben si adatterebbe un augurio di trovare felicità nella pienezza armonica di
un’esistenza che include le molteplici dimensioni dell’esperienza, che non si
riduca ad un imperativo rivolto, tutto al maschile, di contrazione-negazione
del privato a vantaggio della realizzazione pubblica. Se l’inversione nasce da
una critica a partire dall’esistente, l’analisi della realtà continua a narrare di
Leone, Massimo e Serena come di futuri cittadini dalle diseguali aspettative
di ruolo e di realizzazione personale, in un’Italia sempre più in difficoltà a
sostenere la libera progettazione specie dei più giovani. Il contesto in sé, in
molti campi, si è già adattato ad una riduzione della complessità tale per
cui, più che i nuovi nati, ci si dirige a sostenere l’adattamento alle risorse
scarsamente disponibili, disegnando sin da subito la gerarchia secondo cui
verranno assegnate o distribuite. Lungo il confine tra pubblico e privato, il
suo continuo ridisegnarsi, si possono osservare le caratteristiche e i mutamenti, nonché gli arretramenti, di un assetto sociale che, più che porsi in
una prospettiva di riequilibrio tra generi e generazioni, finisce per riaffermare
le divaricazioni, le iniquità.
Di qui prende le mosse questo libro. Adottando una prospettiva dal basso
e in un continuo rimando tra elaborazione teorico-concettuale e pratiche
sessuate, ci si propone di riflettere sullo stretto intreccio delle sfere dell’esperienza umana, sulla crescente vulnerabilità dei percorsi che le attraversano,
sulla difficoltà di un equilibrio che per gli anglosassoni è declinato nel continuum vita-lavoro, mentre nell’accezione corrente nostrana più spesso è
indicata come conciliazione.
Parlare di conciliazione non è cosa semplice. Sembra che tutto sia stato
già detto e che soprattutto sia conosciuto sull’argomento: la fonte primaria
è l’esperienza quotidiana che spesso restituisce un quadro di difficoltà, di
ostacoli e di squilibri. L’affanno di armonizzare le diverse sfere dell’esperienza deriva dalla spinta a dare ad esse delle priorità. Il lavoro innanzitutto, il
reddito che attraverso di esso si procura, dunque la sussistenza e la qualità
della vita; due cose queste ultime che non sempre possono essere associate,
né concordi.
Su ciò che appare scontato e su quanto si sperimenta come affannoso
e squilibrato si propone qui una riflessione teorico empirica. Questo libro è
12
INTRODUZIONE
infatti il frutto di un ragionamento sull’esistenza e su come questa si declini
diversamente intorno alle differenze di genere, su come l’essere donne e
uomini implichi nella realtà il tracciare percorsi differenti, fare i conti con
possibilità di scelta diverse e diseguali. I recenti dati forniti dall’Istat (2011b)
evidenziano un nuovo declinare del tasso demografico, anche in quella porzione di popolazione straniera che sino ad oggi lo aveva significativamente
sostenuto. L’epoca di crisi scopre le fragilità di un sistema capitalistico che
si riproduce scavando profonde diseguaglianze e mal distribuzioni. Le scelte
personali, anche le più private, fanno sempre più i conti con i minimi di
sussistenza, mentre la realizzazione personale e il libero arbitrio sono i tributi
pagati per rianimare un sistema che ha espunto la persona umana nella sua
totalità, garantendosene la mera disponibilità, a dispetto della teorizzazione
di una felicità che giunge proprio nel momento in cui le condizioni materiali
la mettono particolarmente a rischio.
Questo libro è sulle scelte delle donne e degli uomini, sulla costruzione
dello spazio di condivisione, su come esso si struttura nell’intreccio delle
dimensioni di vita, lavorative ecc. Ma è anche un tentativo di svelare sovracostruzioni teoriche e retoriche le quali, individuando modelli virtuosi, ne
hanno enfatizzato gli aspetti di efficienza, di produzione di reddito, celando
i meccanismi maldistributivi che appaiono evidenti non appena il genere
è introdotto come chiave interpretativa. Il riferimento è al caso di studio
contenuto in questo volume: un’indagine sulla condizione delle donne in un
territorio, quello della provincia di Pesaro e Urbino, a pieno titolo assimilabile nel modello della Terza Italia, di cui buona parte della letteratura ha
illuminato gli aspetti di una specificità territoriale e tutta italiana di attingere
a risorse culturali, sociali e locali, fondando così un modello di sviluppo virtuoso, capace di produrre ricchezza riscattando ampie aree del paese da un
rischio di arretratezza e povertà relativa, fino ad arrivare a divenire trainante
per l’intera economia nazionale.
Il volume è articolato in cinque capitoli i quali nell’insieme delineano
un percorso che procede dalla riflessione teorica alla ricerca empirica sulla
condizione delle donne nella realtà italiana e locale dei territori indagati. Nel
capitolo primo si introducono e si confutano le accezioni del concetto di
conciliazione, così come esso è stato sino ad oggi declinato. Ci si domanda
come le donne e i loro percorsi siano cambiati, ma soprattutto il perché
della relazione, così frequentemente operata, tra donne e conciliazione. La
risposta rimanda ad una complessità di intrecci vita e lavoro che a loro
volta richiamano reciprocamente problemi irrisolti e conflitti ri-sorgenti. Sul
piano delle pratiche le donne rispondono all’imperativo del prendersi cura,
confermato dalle politiche attuate, il cui obiettivo di parità e redistribuzione
INTRODUZIONE
13
appare debole se non del tutto assente. Da più parti si segnalano i rischi del
«trionfale ritorno del Male Breadwinner» mentre il «gender balance» appare persino percepito come una sorta di «bene di lusso» (Lyberaki, Tinios,
2011) in epoca di contrazione economica, quando cioè si ritornerebbe alla
“sostanza” delle cose, alla salvaguardia dei “veri lavoratori”, abbandonando
in loro favore gli ornamenti delle sovrastrutture egualitarie ed equilibrate dal
punto di vista del genere.
Nel secondo capitolo si analizzano politiche e pratiche di conciliazione
alla luce del fenomeno cosiddetto della femminilizzazione del mercato del
lavoro. Qui si evidenzia una sfasatura tra l’impianto legislativo in materia
di parità, per buona parte recepita “sotto dettatura” della comunità internazionale europea, e l’applicazione effettiva in condizioni di vita e di lavoro
che nel complesso ritraggono una società gender resistant. Buona parte della
conciliazione recepita negli interventi di politiche sociali, è declinata dentro
la famiglia e diretta diversamente a uomini e donne. In questa specificità
sono ridotti ai margini i soggetti non-famiglie, gli uomini (anche padri), ma
più di tutto è la stessa conciliazione ad essere ridotta ad un ruolo marginale,
in divergenza netta ed evidente con un orientamento europeo che assegna
a questo tema un ruolo strategico e centrale. Le radici delle resistenze al
cambiamento, che in questo capitolo vengono esaminate, risiedono nelle
divisioni territoriali, nei problemi strutturali del mercato, dell’economia, e,
non ultimo, nel paradigma culturale dominante del familismo, non proprio
moralmente equo.
Con il capitolo terzo si introduce la ricerca sul campo condotta in tredici
comuni della Provincia di Pesaro-Urbino, che ha per oggetto e protagoniste
le donne del territorio. In questo capitolo si dà conto della storia del progetto,
delle tecniche e degli strumenti utilizzati. Ampiamente analizzate sono le
caratteristiche del contesto regionale e provinciale, del mercato del lavoro
locale, le specificità culturali e di stili di vita, di composizione demografica,
nonché di progettazione politica e di welfare locale.
Il capitolo quarto e quinto danno conto dei risultati di ricerca, ripartiti
rispettivamente tra donne senza figli e donne con figli fino a 10 anni. Per
quanto concerne le intervistate senza figli, scopo di questa parte della ricerca
è di esplorare e sottoporre alla verifica dei fatti, una delle principali ipotesi
formulate, secondo cui la maternità e con essa in particolare la condizione
di madre, rappresentano di per sé un discrimine significativo relativamente
alle opportunità reali di partecipazione sociale e lavorativa. Si distinguono
queste due dimensioni a partire dalla constatazione di una duplice debole
rappresentanza delle donne, sia nell’ambito del mercato del lavoro, sia pure
in quello politico-culturale. Del resto, è proprio dalla presa d’atto di tale
14
INTRODUZIONE
situazione che dal territorio è emersa la volontà di promuovere un’indagine
che ne approfondisse ragioni e condizioni. L’analisi dei risultati si sviluppa
principalmente in due diverse aree emerse come significative: la prima relativa ai dati personali delle intervistate e alla loro partecipazione lavorativa,
presente, passata ed attesa; la seconda volta ad indagare il rapporto con il
territorio, il modo in cui è vissuto, le opinioni delle intervistate intorno alla
qualità di vita offerta e percepita nella realtà locale.
Il capitolo quinto è dedicato alle intervistate con figli. Qui la conciliazione è osservata, descritta e analizzata attraverso le strategie delle donne
e le precipue pratiche di mediazione fra le sfere di vita. Non sono tanto
importanti i confini tra le sfere dell’esperienza personale, quanto piuttosto
il modo in cui esse si combinano nel percorso, nel progetto individuale,
nella considerazione della loro rispettiva mutevolezza e interdipendenza.
Una visione dell’intreccio degli ambiti esperienziali che fa riferimento non
alla condizione occupazionale, né a quella familiare-privata prese singolarmente, bensì collocate nel continuum esistenziale di ogni persona che tiene
insieme le diverse forme di lavoro (di mercato e non di mercato), di fatto,
possibili ed eventuali. L’interesse principale della ricerca è dunque rivolto
verso la complessità dei percorsi delle donne, in una relazione biunivoca
tra vita e lavoro, laddove le opzioni vengono di volta in volta ridefinite in
considerazione delle opportunità accessibili e percepite tali, sia sul piano
privato-familiare, sia nell’ambito lavorativo e pubblico sociale.
Capitolo primo
LA CONCILIAZIONE. DALLA DOPPIA PRESENZA
ALLA DOPPIA COMPLESSITÀ: GLI INTRECCI
VITA E LAVORO NEI PERCORSI DELLE DONNE
I.1. Di donne e diseguaglianze
Approcciare al tema della conciliazione appare oggi tanto scontato quanto
scivoloso. È scontato nella misura in cui il dibattito pubblico, come pure la
stessa letteratura scientifica sul tema, non scioglie il nodo di un’ambiguità
di fondo per cui il termine conciliazione diviene sinonimo di donne, bisogni
delle donne e diseguaglianza. Nel tentativo di dipanare le molte ambiguità
intorno a tale tema, qui si intende riflettere sui rapporti tra le sfere di vita,
cercando di districare concettualmente quanto la riduzione dell’approccio
“conciliante” più spesso cela o mette a carico delle donne. Questo è il terreno scivoloso.
Gli intrecci, molteplici e complessi, tra vita e lavoro, letti attraverso
il genere, restituiscono una realtà eterogenea, composita, diseguale. In tal
modo la diseguaglianza è la risultante di un contesto relazionale sbilanciato.
Diversamente, se questa è assunta a chiave interpretativa dei percorsi delle
donne, vale a dire estrapolandola dal contesto relazionale, si corre il rischio
di scambiare gli effetti con le cause originarie, nonché di congelare la fluidità
dei processi sociali, espungendo così l’osservazione e la comprensione, non
solo del mutamento, ma della specificità e dell’autonomia dei soggetti. La
costruzione del genere è un processo che implica una relazione con il suo
opposto. Butler (2006) pone l’accento sul farsi del genere quale processo
attraverso cui si naturalizzano le cognizioni del maschile e del femminile. Rilevante nella sua visione la reversibilità del processo, per cui alla costruzione
del genere e delle cognizioni annesse di maschilità e femminilità, corrisponde altresì la possibilità di decostruzione e denaturalizzazione. È in questa
prospettiva dinamica del genere, in quella esperienza definita del «divenire
16
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
disfatti» (Butler 2006), che risiede la possibilità del cambiamento, oltre alla
libertà soggettiva di incorporare le cognizioni e di prenderne le distanze.
Il presente lavoro prende spunto da una ricerca sul campo su e con le
donne di un territorio provinciale conosciuto più per essere annesso ad un
modello virtuoso di sviluppo italiano, che per le specificità del loro ruolo
ricoperto nel passato e nel presente. Il lavoro di ricerca, di cui qui si presentano i risultati, ha nel suo titolo il richiamo alla figura mitica di Penelope1,
donna che sotto lo sguardo dei Proci e lontana dal suo Ulisse, sperimenta la
sua autonomia attraverso la sapienza nel tessere e poi disfare nascostamente
la tela. Con ridotti margini di libertà neppure Penelope, donna moglie e
prigioniera dei suoi oppressori, faceva eccezione al principio crozeriano per
cui le persone sono una mente, un progetto e una libertà (Crozier, 1978),
nonostante e in virtù delle limitazioni esterne. Penelope, un po’ per caso e
un po’ non, è qui la tramite di una visione della soggettività femminile, del
suo agire autonomamente, piuttosto che congelata nell’impasse della diseguaglianza2.
La lettura dei percorsi femminili e maschili attraverso il farsi e disfarsi,
assume i soggetti nella loro autonomia, come pure in relazione alle limitazioni ed ostacoli che si frappongono al raggiungimento della stessa3. Essa ben
si adatta ad una prospettiva sociologica che pone al centro l’interscambio tra
soggetti e contesti. Le limitazioni sono qui fondamentali in quanto rimandano alle relazioni con il contesto più ampio, a quell’insieme di risorse materiali
e simboliche le cui modalità di accesso designano le opportunità soggettive
(individuali e collettive)4. Da una parte, dunque, i soggetti, dall’altra i contesti
che danno vita al sistema di relazioni, così come di opportunità. Partendo dai
soggetti, emerge con evidenza la sfasatura tra un relativo immobilismo del
contesto e il cambiamento operato dalle donne che non sfugge all’attenzione
di un’attenta osservatrice come la Hochschild: «Le donne sono cambiate, ma
non le loro occupazioni fuori casa, né gli uomini che le aspettano a casa, né
1
Il titolo del progetto è Penelope cosa fa? Indagine sulla condizione femminile. I dettagli metodologici saranno illustrati nel capitolo 3.
2
La stanza del telaio secondo la Arendt è proprio il luogo simbolico in cui l’agire «irrompe
imprevedibile e orienta il futuro in uno dei suoi percorsi possibili» (1988, p. 127). Per una
lettura critica della figura di Penelope si rimanda a M. Durst (2005).
3
«Costruire e decostruire, fare e dis-fare, tessere e sfilare, montare e smontare sono alcuni
dei modi attraverso i quali indichiamo due operazioni che, solo se prese in coppia, imprimono
all’esperienza umana il movimento che ne rivela l’intima vitalità» (Fraire, 1995, p. 11).
4
«Se è vero che il genere è una sorta di agire, un’incessante attività in svolgimento, in
parte, inconsapevolmente e involontariamente, è vero che anche per tale ragione essa non
è automatica o meccanica. Al contrario, è una pratica di improvvisazione all’interno di una
scena di costrizione» (Butler, 2006, p. 25).
LA CONCILIAZIONE
17
la società che le circonda» (2006, p. 9). Così scrive la studiosa statunitense
e parlando di «rivoluzione in stallo», in cui sarebbero rimasti intrappolati
le donne come gli uomini, si dedica ad indagare i complessi meandri del
dilemma tra amore e denaro, facendo affiorare le dinamiche di genere quali
motore delle azioni quotidiane degli individui. L’essere uomini o donne ha
un profondo significato, non solamente nel privato individuale. Intorno alle
differenze sessuali le società hanno costruito e consolidato una mole rilevante
di norme, regole, costumi, valori e modelli di comportamento (Gherardi,
2003a). In merito al genere le società hanno cumulato un bagaglio di grande
rilevanza che è al tempo stesso risorsa e vincolo. Risorsa, in quanto permette
di individuare e decodificare le diversità, vincolo, nella misura in cui a queste
ultime si ricorre quale base legittimante delle disuguaglianze. Le società sono
attrezzate intorno al genere e di ciò ne sono evidenza i modelli di organizzazione sociale che via via si sono andati costruendo, quasi mai prescindendo
da una visione gerarchica dei sessi. Tuttavia, la competenza di genere non
è di per sé una condizione sufficiente perché i e le competenti siano inseriti
in un sistema equo di relazioni e di distribuzione delle risorse.
Dunque le donne sono cambiate, ma a resistere al cambiamento sono
spesso gli stessi schemi interpretativi sulle donne. La tendenza universale
a pensare la diversità sotto il segno della gerarchia e della disuguaglianza (Badinter, 2004) rende questa un aspetto culturalmente necessario alle
relazioni di genere, nonché alla loro lettura e interpretazione. La disuguaglianza è annessa all’ordinamento gerarchico tra i sessi, come un assunto
da cui deriva il discorso sociale di genere. Ci si rivolge così più spesso alla
disuguaglianza che alla diversità, divenendo più difficile sbarazzarsi di tale
categoria mentale piuttosto che del «dominio maschile» (Bourdieu, 19985).
La lettura non critica della disuguaglianza rende questa inevitabile e ineluttabile, al punto da giungere a costituirsi come saldo punto di riferimento:
la rassicurante continuità del noto, del non avvenuto mutamento, della tradizione, insomma delle radici. Riflesso di ciò, tra l’altro, la formulazione di
un’agenda politica che si mantiene saldamente ancorata ad una rimozione
dell’oggettivo e persistente svantaggio sociale delle donne, trascurandolo in
tutta la sua urgenza6. Le risposte ad un problema – e altrettanto le mancate
5
Bourdieu (1998) mette in evidenza la «straordinaria autonomia delle strutture sessuali da
quelle economiche», tale da permettere al dominio maschile un perpetrarsi attraverso i secoli
nonostante le trasformazioni sociali e dei modi di produzione.
6
Emblematico a tal proposito è l’approccio al problema nel documento ministeriale Italia
2020. Programma di azioni per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro a cura dei due
ministri, rispettivamente per le Pari Opportunità e del Welfare (www.pariopportunita.it). Si
introduce il piano sottolineando «i progressi e i persistenti ritardi» che vedono comunque
18
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
risposte – hanno un valore in ragione «del loro radicamento in una visione
dei processi sociali di lungo periodo» (Paci, 2005, p. 13) e pertanto non può
attribuirsi meramente alla casualità che tra le molte riforme sociali urgenti
– come asserisce lo stesso Paci – si annoveri la costante della crescita di
occupazione femminile a tutt’oggi senza soluzione. Peraltro, non solo non
esiste la soluzione, ma sembra persino che non venga neppure perseguita a
livello di indirizzo europeo7; ancor più nel nostro paese dove l’arretramento
delle donne, specie dal mondo del lavoro, procede speditamente verso una
regressione storica8.
La diseguaglianza non solo diviene una categoria interpretativa facilmente disponibile e disinvoltamente utilizzata, ma spesso si pone a fondamento
del vivere sociale, tanto più in questo scorcio d’epoca in cui, pur riducendosi le distanze fisiche, quelle simbolico-culturali e materiali continuano ad
l’occupazione femminile aumentare tra il 2008 e il 2009, nonostante la congiuntura di crisi,
e che fa registrare, per giunta, un arresto di quella maschile». Ora, il primo problema nasce
dall’assumere l’equivalenza delle caratteristiche occupazionali maschili e femminili, soprattutto a partire dagli effetti che la crisi economica corrente produce su entrambi. Ma vi è da
aggiungere che senza alcuna relazione tra quantità e qualità dell’occupazione si continuano
a formulare politiche e interventi che assumono soggetti con eguali possibilità di accesso alle
risorse lavorative, mentre nulla si dice rispetto alla qualità delle condizioni umane e lavorative che, al di là dei punti percentuali, esse designano. Sono proprio i dati relativi al 2010 e
2011 a mostrare una crescita preoccupante di donne in difficoltà che da soli basterebbero a
smorzare i toni entusiastici da cui suddetto piano prende le mosse.
7
Si guardi ad esempio la nuova Strategia europea per l’occupazione dell’Europa 2020 che
così commentano Mark Smith e Paola Villa: «Dal punto di vista dell’uguaglianza di genere,
la strategia Europa 2020 appare contrassegnata da un marcato arretramento rispetto alle
precedenti formulazioni. In primo luogo, la visibilità del tema dell’occupazione femminile
risulta fortemente ridotta e limitata in un’ottica preoccupata esclusivamente di aumentare
l’offerta di lavoro, senza grande attenzione alla qualità dei lavori e alle disuguaglianze di
genere nel mercato del lavoro. In secondo luogo, sono inoltre stati eliminati obiettivi quantitativi specifici: l’obiettivo della Strategia di Lisbona (che identificava un tasso di occupazione
femminile, 15-64 anni, pari al 60%) è stato sostituito con un obiettivo generale: raggiungere
entro il 2020 un tasso di occupazione per uomini e donne, 20-65 anni, pari al 75%. Infine,
è scomparso il richiamo trasversale al mainstreaming di genere [.....] In breve, uguaglianza,
parità e mainstreaming di genere non sono presenti né nella Parte I né nella Parte II delle linee
guida integrate. L’assenza di un esplicito riferimento al mainstreaming di genere nei documenti
di Europa 2020 non deve forse sorprendere, dato il progressivo declino della visibilità della
dimensione di genere fin dalle prime fasi della Seo» («La nuova Europa 2020 sa di vecchio»,
2010, www.ingenere.it).
8
Così commenta Saraceno i dai Istat della Rilevazione continua sulle Forze lavoro relativi
al penultimo trimestre 2010: «In controtendenza con il resto dei paesi sviluppati ed anche
con quanto era avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni, la percentuale di donne italiane che
non ha, né cerca, lavoro ha ripreso ad aumentare e riguarda oggi quasi la metà di tutte le
donne in età da lavoro – una percentuale da anni sessanta» («Le donne a caccia del lavoro»,
Repubblica, 3 ottobre 2010).
LA CONCILIAZIONE
19
ampliarsi. Alla diversità come sinonimo di disuguaglianza la nostra società
riserva uno spazio importante della socializzazione, attraverso un articolato
percorso dalla famiglia alla società, lungo il quale il patrimonio biologicamente determinato dei soggetti viene sollecitato da strumenti che ne disciplinano l’espressione, entro comportamenti precodificati, affinché gli altri e
le altre possano riconoscervisi essendone al contempo rassicurati. In ciò è
già ravvisabile una prima contraddizione che le donne si trovano a vivere
rispetto agli uomini: se da una parte la società si orienta verso modelli più
aperti e percorsi maggiormente opzionabili nel loro farsi, rispetto al passato, vi è comunque una controtendenza di resistenza al cambiamento e di
conservazione di parte della femminilità tradizionale, la quale si esprime
soprattutto nel privato. Questo grava sulle scelte femminili in maniera tanto più significativa quanto più centrale è il valore dell’autodeterminazione
esprimibile nel progetto esistenziale e personale, non meramente circoscritto
al lavoro o al posto di lavoro.
L’annessione della diseguaglianza al genere, come osserva anche Touraine nel suo Monde de femmes (2006), non supporta adeguatamente l’interpretazione di alcuni mutamenti sociali rilevanti, non supporta, appunto, l’essere
delle donne soggetti sociali, il loro agire nel senso di una «ricomposizione
del mondo», finalizzato al superamento dei dualismi e delle derivanti contraddizioni oramai palesi. Il limite di questo agire per la ricomposizione è
comunque rappresentato dallo scoglio di un gruppo dominante maschile – a
cui Touraine dedica il suo libro – che, non riconoscendo le donne in quanto
tali (dunque come soggetti autonomi o meglio in cerca di tale autonomia),
si autodefinisce e si autoleggittima: una egemonia maschile che continua a
fondarsi sulla dualità.
Ma le donne sono, appunto, cambiate; agiscono, hanno proprie aspirazioni attraverso le quali, peraltro, si manifestano i principali cambiamenti
che le riguardano. Il diritto alla libera progettazione del proprio futuro è un
punto fermo delle giovani generazioni, mentre i modi in cui le scelte sono
operate continuano a fornire la misura della distanza di genere. Si tratta di
un aspetto centrale per quanto riguarda il rapporto tra differenza e disuguglianza. Le condizioni di realizzazione del sé sono oggi legate non tanto all’appartenenza sociale, quanto piuttosto all’essere individui in sé, condizione,
questa, che risulta inscindibile dalle differenze di cui si è portatori e portatrici.
L’appartenenza copre uno spazio limitato dell’esistenza soggettiva, sempre
più segmentata, fuggevole e transitoria. Un processo che prende a rendersi
evidente dalla modernità in poi, ma che trova oggi la sua piena espressione, non in un differenzialismo separatista, bensì nella condizione di uguali
e diversi nell’insieme sociale «diversificato e polifonico» (Baumann, 1999)
20
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
in cui gli ingressi e le uscite dai gruppi sociali designano un’appartenenza
sociale fluida e transeunte.
Non si tratta dunque di preferenze individuali alla Hakim (2000) tra
work e family centred, bensì di percorsi che si concretizzano in relazione alle
opzioni individuali e alle opportunità del contesto. Infatti, come ricorda la
Nussbaum (2002) le preferenze non sono precognizioni individuali, ma il
risultato di una combinazione tra scelte e risorse, tra individuo (in questo
caso donna) e società. Il risultato di tale combinazione è ancora oggi tendenzialmente squilibrato tra donne e uomini, questo a parità di meccanismi
e di percorsi. Il rapporto tra scelte-risorse e opportunità si compone in un
sistema sessuato iniquo.
Se la disuguaglianza connessa con la differenza sessuale diviene parte
costitutiva dell’ordine sociale, rischia di essere penalizzata proprio la libertà
individuale, in particolare delle donne, che, quanto meno si riconoscono e
sono riconosciute nei e dai modelli dominanti, tanto più facilmente sono
collocate nella condizione di minoranza, vale a dire “nell’eccezione”, “nella
coda della distribuzione gaussiana”. Ma la differenza non è affatto eccezione,
né è liquidabile come tale, ciò è quanto mai vero nella società contemporanea
pluriaffermativa. Inoltre, l’affermazione di sé prende proprio le mosse dalla
differenza di cui di volta in volta si è portatrici/portatori (Sen, 2000) e per
cui si è uguali e/o diversi. Come ricorda Vincenti «Non tenere conto delle
differenze, così come tenerne conto può portare a riprodurle. Ma tenere
conto delle differenze per reificarle potrebbe portare a celare quei processi
di potere che hanno prodotto le disuguaglianze non solo tra gruppi, ma
anche all’interno dei gruppi stessi» (Vincenti, 2008, p. 437). Ecco che la
questione dell’eguaglianza deve essere proprio riaffrontata in virtù di ciò
che rappresenta e perché si tratta di una questione – rubando le parole a
Joan Tronto – di confini morali entro le relazioni tra i sessi: «[…] assumo
che le questioni centrali della teoria morale attuale riguardino il modo di
trattare moralmente altri da noi distanti che riteniamo simili a noi» (Tronto,
2006, p. 17).
I.2. Come sono cambiate le donne
«Se le ambizioni di ragazze e ragazzi sono alla pari, le opportunità non lo
sono ancora» (Zajczik, 2007). Il mutamento di percorso operato dalle donne
è riconducibile ad un crescente investimento in istruzione e ad un’incorporazione dell’aspettativa lavorativa, come diffusa, specie tra le più giovani
generazioni. Tuttavia, qui tornano le resistenze del contesto, le opportunità
LA CONCILIAZIONE
21
di realizzazione e di affermazione personale nel lavoro di gran lunga più
deboli rispetto a quelle della popolazione maschile. La persistente bassa
partecipazione femminile al mercato del lavoro, che gli ultimi dati pubblicati
descrivono persino in crescita (Istat, 2010a; Istat, 2011a), va a sovrapporsi
ad altre disparità strutturali, prime fra tutte quelle per età e territoriali, connotando nell’insieme le peculiarità del mercato del lavoro nazionale quale
punitivo ed escludente nei confronti di donne e giovani. La multidimensionalità dello svantaggio sociale delle donne trova proprio nel lavoro, a partire
da esso, il senso profondo della discriminazione e di tutte le sue molteplici
componenti (Gottardi, 2003).
Mentre l’accesso equo alle risorse sociali, nella fattispecie lavorative,
è la cornice entro cui le disparità tra donne e uomini sono qui lette ed
interpretate, la spinta sociale individualizzante diventa il propellente per il
moltiplicarsi delle stesse, alla luce proprio di quella ricerca di opportunità di
realizzazioni del sé e di appartenenza sociale, estesa all’arco dell’esperienza
possibile individuale. L’individualismo non è necessariamente sinonimo di
ego-ismo sociale, quanto piuttosto l’affermazione di un diritto ad esprimere
quante più opzioni possibili all’interno del personale percorso di vita (che
include quello lavorativo). Nondimeno, tale diritto, per essere sostanziato,
necessita di riconoscimento e condizioni di espressione, la cui debolezza,
di fatto, diviene terreno fertile per l’interpretazione delle differenze come
diseguaglianze. Il misconoscimento, piuttosto che il sostegno ai percorsi
individuali differenti, è negazione della differenza come valore in sé e, al
contempo, delle legittimazioni al sistema, dell’insita iniqua distribuzione delle
opportunità e delle risorse.
Ignorare come si distribuiscono le risorse lavorative in base alla differenza
per sesso (oltre che per età, etnia, provenienza geografica, ecc.) è altresì sottovalutare che la dotazione sociale individuale si pone come la base principale
per lo sviluppo del percorso vita-lavoro (Carbone, Ceravolo, 20099). Soprat9
«Poiché tutti i dati di ricerca mostrano sistematicamente che le risorse cosiddette «ascritte»
– vale a dire connesse con le caratteristiche della famiglia in cui abbiamo la ventura di nascere
senza merito o colpa – condizionano ancora oggi pesantemente le nostre chances sociali, lo
studio della mobilità sociale di fatto corrisponde all’analisi del modo in cui le disuguaglianze
sociali si riproducono nel tempo» (Carbone, Ceravolo, 2009, p. 12). Anche se tra le risorse
ascritte non viene menzionato il sesso che, oltre alle caratteristiche familiari e di estrazione
sociale, è la variabile interpretativa con un portato elevato, significativo in termini di interpretazione della disuguaglianza, è importante rilevare come si sia fatta strada una idea della
diseguaglianza come fenomeno in sé, quasi indipendente dalle coordinate storico-temporali
entro cui prende forma e soprattutto dalle specificità dei soggetti. Rimane comunque difficilmente inconfutabile il dato relativo ad una immobilità strettamente legata alla «stabilità delle
diseguaglianze» (Carbone, Ceravolo, 2009; Eve, Meraviglia, Favretto, 2003).
22
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
tutto in un paese immobile come l’Italia (Schizzerotto, 2002) le chances di vita
(Dahrendorf, 2005) sono fortemente ancorate al capitale sociale e umano,
che in buona parte viene trasmesso per «ereditarietà intergenerazionale»10. Si
tratta di un ulteriore indicatore di vulnerabilità socio-economica delle donne
italiane, quale risultante della combinazione di una discriminazione ascritta
con un processo di frammentazione e di progressivo isolamento dei singoli:
«In Occidente, il capitalismo si accompagna a un’ideologia di individualismo
laico, che spinge il singolo ad attribuirsi merito per la prosperità economica
e colpa personale per le fasi di stallo: che ci spinge cioè a percepire gli eventi
sociali come personali. Si tratta di un’ideologia punitiva nella sfera personale
che fa il paio con un sistema economico punitivo a livello esterno» (Hochschild, 2006, p. 59) in cui può riconoscersi appieno anche l’andamento del
contesto italiano.
Mentre l’aspettativa di lavoro mantiene intatta la sua rilevanza sociale, tendendo persino ad ampliarsi a fasce di popolazione precedentemente
escluse, il lavoro continua a rappresentare l’ideale realizzativo e il cemento
della coesione sociale. Tuttavia, passando dal livello ideale al piano dell’esperienza del lavoro, si assiste piuttosto ad un ripiegamento sul privato che
diventa cardine e rifugio, nonché compensativo del rischio di insuccesso11. Il
ripiegamento sul privato da una parte, la diffusione del desiderio di lavoro più
inafferrabile dall’altra (nelle sue caratteristiche di stabilizzatore esistenziale
e di realizzazione del sé), fa sì che le donne siano più presenti ma anche
più fragili nei confronti del mondo del lavoro, riproponendo l’attualità del
dilemma tra realizzazione lavorativa e famiglia. Badinter (2010), a tale proposito, osserva come, per una serie di ragioni che si intrecciano, si assista
oggi al riesacerbarsi del conflitto di ruolo donna-madre-lavoratrice, sia per la
rimessa al centro dei percorsi delle donne della maternità come destino, sia
perché la crisi economica ha rigettato le donne nella stessa situazione degli
anni ’90: a casa a guardare i figli, che spesso è un lavoro più soddisfacente
di quello mal sicuro, precario e mal pagato sul mercato12.
10
Si veda a tal proposito il rapporto Ocse (2010) Policy Reform. Going for Growth, in particolare il capitolo 5, significativamente titolato Family Affair. Intergenerational Social Mobility
Across OECD Countries.
11
La valorizzazione del privato, del tempo per sé e libero viene a più riprese confermato
soprattutto tra le giovani generazioni, per le quali, pur non diminuendo l’importanza del lavoro, acquisiscono altrettanta rilevanza le dimensioni esistenziali extra lavorative; dimensioni
particolarmente significative dal punto di vista della ricerca di senso (Farina, 2005; Farina,
Vincenti, 2009).
12
Precedentemente la Badinter aveva già riflettuto sull’erosione del ruolo pubblico delle
donne e sulla ribalta del ruolo di curatrice a seguito di un processo di arresto del progresso
egualitario: «Il connubio tra la crisi economica e il ritorno implicito o esplicito dell’istinto
LA CONCILIAZIONE
23
Già la Hochschild (2006) aveva osservato che nella progressiva estensione e destabilizzazione della pervasività del mercato, la figura della madre
stava diventando sempre più centrale soprattutto nella sua funzione «rifugio»,
fino a condensare in essa, quando non a sostituire, il valore della famiglia:
«L’ipersimbolizzazione della figura materna è, almeno in parte, una risposta
alla destabilizzazione delle basi culturali ed economiche della famiglia – effetti del capitalismo, in quanto sistema altamente dinamico. Più la situazione
esterna appare incerta, più sentiamo il bisogno di credere nella solidità della
famiglia e, venendo meno questa, nella solidità della figura moglie-madre
[…] L’effetto congiunto del capitalismo destabilizzante e dell’ideologia individualista che porta al ripiegamento su se stessi è quello di creare il bisogno
di un luogo sicuro, di un rifugio in un mondo senza cuore» (p. 59). La conseguenza è che oggi si esprime più un bisogno di madri che di lavoratrici,
specie in Italia, dove tutto sommato, l’espulsione delle donne dal mercato
risulta funzionale a politiche pubbliche di risparmio della spesa sociale in
materia di servizi di cura e di assistenza (Saraceno, 2010). Se infatti il mercato è il centro della vita sociale, le funzioni regolative vengono sempre più
svolte da istituzioni non economiche, che comunque operano accanto a
quelle economiche (Farina, 2005) e vanno ricoprendo un ruolo di maggiore
centralità per la crescente instabilità dei percorsi di vita e di lavoro. Questo
diviene tanto più vero quanto più a scarseggiare è proprio la risorsa lavoro.
Il rischio che le funzioni regolative svolte dalla famiglia, in particolare dalle
donne, andranno a consolidarsi come riempimento di un vuoto istituzionale
e in contrasto con il ruolo femminile lavorativo e pubblico, non sembra, di
fatto, essere così remoto.
La vulnerabilità non solo è condizione del presente, ma è altresì destinata a riprodursi lasciando traccia di sé nelle successive generazioni: «In
questo scenario diventa più difficile anche per le donne dei paesi più ricchi
ed economicamente dinamici, recuperare i gap di genere, sia che vogliamo
misurarli come opportunità di accesso alle risorse che come chance per una
competizione alla pari in base al merito. In basso, la maggiore scarsità di
risorse tende ad accumulare i gap di partenza, in alto la valutazione per merito sulla strada stretta della mobilità ascendente, trova l’ostacolo dei processi
difensivi prodotti dalla cooptazione maschile» (Bimbi, 2007, p. 1). Nella lunga
scia internazionale di ampliamento delle distanze sociali, il sistema Italia
risulta particolarmente svantaggiato per effetto delle inique distribuzioni di
risorse all’interno del paese: oltre che tra uomini e donne, si va aggravando
materno ha avuto effetti dirompenti sul cammino verso l’uguaglianza dei sessi. Tutto ha
cospirato perché le madri restassero a casa» (Badinter, 2004, p. 133).
24
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
anche lo squilibrio intergenerazionale, per cui vi è molto da riflettere su ciò
che sta per ricadere sulle giovani donne.
A ben guardare, sembra essersi consolidato un complesso sistema di
sostegno dell’accettazione della disuguaglianza, rispetto a cui si mettono in
atto isolatamente strategie di superamento e sopravvivenza. La promozione
sociale appare un concetto oramai oscurato dalle nuove difficoltà che derivano dall’intermittenza della vita lavorativa e, più in generale, delle relazioni
sociali. Aspetto, quest’ultimo, per cui aumenta la dipendenza dal lavoro e
dal reddito. Cresce, inoltre, il peso della subordinazione per effetto della
debolezza dei contratti di lavoro (Supiot, 2003) e con esso si affievoliscono
le opportunità di autodeterminazione dei soggetti. Sono le donne ad essere
al centro del turbine sociale dei cambiamenti lavorativi o, per meglio dire,
quante tra loro continuano a scommettere su quella, oramai introiettata,
necessità di realizzarsi tra vita e lavoro13. I percorsi delle donne parlano
oggi al tempo stesso di tendenze e di eccezioni, di devianza dalla norma e
di conformismo: tra stabilità e mutamento le donne cercano nuovi equilibri
che impongono agli scienziati sociali uno sguardo plurimo, che assomigli
di più al vissuto femminile, troppo spesso uniformato proprio sotto l’assunto della disuguaglianza. Il rovescio della medaglia della disuguaglianza è
spesso rappresentato dalla retorica della novità. L’inattesa rivoluzione (Aa.
Vv., 1997) della diffusa presenza femminile ha dato vita ad una tendenza a
stigmatizzare le donne come un’eterna novità. In continuità con quanto detto
precedentemente intorno all’ordinamento gerarchico dei sessi e all’assunto
della disuguaglianza, il ruolo di portatrici di novità induce a percepire come
miracolistico qualsiasi progresso delle donne, avulso dal contesto e senza
radicamento.
Come di fronte ad un infante che faticosamente conquista la posizione eretta, muove stentatamente i primi passi o pronuncia le prime parole
storpiandole in un linguaggio della sua età, così le conquiste delle donne
continuano a sorprendere e, al tempo stesso, seppure percepite non perfette in termini di performance sociale, seppure non equiparabili a quelle
13
Anche in questo caso sono le più giovani generazioni ad essere colpite da una rapida
tendenza allo scoraggiamento. Se è vero che le donne sono state tra le prime e le più numerose
scoraggiate, si assiste oggi ad una estensione anche al maschile del fenomeno. Più che ad un
mutamento stiamo oggi assistendo ad un corto circuito, per cui non è possibile considerare
quello della flessibilizzazione un percorso virtuoso di messa in circolo di maggiori e migliori
opportunità, ma piuttosto un brusco arresto dello sviluppo attraverso le generazioni: «Siamo
di fronte a pezzi importanti delle generazioni più giovani che, dopo essersi sentiti dire che
dovevano abbandonare il sogno del posto fisso, ora sperimentano la perdita della possibilità
tout court di avere un lavoro» (Saraceno, 2009b).
LA CONCILIAZIONE
25
degli uomini, inevitabilmente destano il senso della conquista o sono accolte
con compiacimento. Il permanere nell’area dell’eccezionalità indebolisce il
portato di modificazione strutturale e di lungo periodo. Di fatto, il rafforzamento della posizione femminile, a livello nazionale e internazionale, ad
oggi non è stato tale da riportare in pari gli squilibri di genere. Mentre si
considerano sufficienti i progressi compiuti14, proprio in virtù di ciò si va a
giustificare il mantenimento del gap di genere. Vi è di più: la ri-sessuazione
del contesto che pervade molta parte della vita sociale, a partire dai mezzi
di comunicazione dove questo fenomeno è sotto particolare osservazione,
tende a polarizzare nuovamente modelli maschili e femminili in un’antinomia
riduttiva della complessità sociale che è altresì contro-reazione (Faludi, 1992)
alla pluralità introdotta dal mutare delle donne. Il compiacimento dei piccoli
passi che non induce a riflettere adeguatamente sulle profonde ingiustizie
non ancora risarcite, è parte integrante di detto processo. L’accettazione
della disuguaglianza ha una sua forza sociale che pervade trasversalmente
le categorie sociali e impedisce di focalizzare ulteriori obiettivi di giustizia
distributiva, che, al contrario, sembrano allontanati sistematicamente da modelli culturali e provvedimenti che considerano comunque le donne soggetti
sociali dimezzati. La «casalinga»15 da una parte, l’istinto materno16 dall’altra, sono la rappresentazione di uno spiccato interesse per le donne fuori
dell’arena pubblica anziché per la loro inclusione. Si assiste all’emergere di
14
A sottolineare come sia profondo il bisogno di comprendere il cambiamento delle donne
e le sue prospettive future, così scrive Daniela Del Boca (2010): «Nonostante il miglioramento
delle condizioni di vita delle donne negli ultimi trent’anni, non sembrano essere cresciuti i
livelli di soddisfazione e benessere «soggettivo»; anzi, una recente ricerca mostra che il benessere soggettivo dichiarato è diminuito per le donne e aumentato per gli uomini (Stevenson,
Wolfers, 2009). Quando le donne lavorano, gli uomini si trovano con un reddito familiare
superiore, derivante dal maggior contributo delle donne, ma non devono affrontare un corrispondente maggior carico di oneri familiari. Per le donne, invece, l’aumento del lavoro per
il mercato è stato spesso accompagnato da sacrifici del proprio tempo libero per mantenere
un livello adeguato di cura della famiglia. Un altro aspetto suggerito riguarda il fatto che,
con l’ingresso delle donne nel lavoro, le donne si confrontano con un mondo più ampio
prevalentemente maschile e vedono i propri risultati sistematicamente inferiori» (p. XVII).
15
Il d.lgs. 276/2003 all’articolo 71, indica esplicitamente le casalinghe tra i soggetti cui è
possibile fornire lavoro accessorio (vale a dire occasionale), insieme ad altre categorie socialmente deboli quali i disoccupati da oltre un anno, studenti, pensionati ecc., reintroducendo
di fatto, dopo oltre trent’anni ciò che era stato abolito con l’approvazione della legge di
parità del 1977.
16
È sempre la Badinter a far notare che la combinazione tra crisi economica ed enfatizzazione dell’istinto materno sono nell’insieme una sorta di cospirazione per far si che le madri
rimangano a casa; inoltre se la maternità viene di fatto ricondotta ad una matrice istintuale,
si riduce drammaticamente lo spazio della relazione e della condivisione dell’accudimento
genitoriale (Badinter, 2004).
26
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
un «fondamentalismo materno» che tende a rapportare a sé buona parte,
quando non la totalità, della femminilità contemporanea. Esemplificativo lo
straordinario seguito ottenuto dal modello di «madre ecologica» (Badinter,
2010) che recupera cioè delle competenze naturali piuttosto che subire quelle
imposte dalla medicina e dalla medicalizzazione della gravidanza; esso ben
rappresenta la radicalizzazione della maternità per cui le donne scompaiono dietro la loro funzione naturale: «... la bonne mère fait «naturellement»
passer les besoins de son enfant avant tout. [...] les besoins des enfants son
fixés par la «nature» (p. 104).
Assieme alla novità delle donne, senza prescindere dai ruoli del passato,
vi è poi la riscoperta del valore economico della risorsa «femminile». A seguito dell’affermazione delle tesi della cosiddetta Womenomics (Matsui, 2005) si è
cominciato ad affermare che all’origine del mancato sviluppo vi è il mancato
«sfruttamento» delle donne. Da questo punto di vista, la misura della scarsa
partecipazione femminile al mercato del lavoro diviene un problema non
solo delle donne ma dell’intero sistema economico; nonostante un tentativo
sotteso di rivalorizzazione dell’apporto femminile, tali assunti si basano su di
una immutata concezione delle donne che semplicemente riemergono come
bacino di riserva a cui attingere in vista del superamento di una grave fase
di stallo; neppure muta la visione più generale delle persone come mezzi
funzionali ad un sistema e anziché fini. Se le donne rappresentano un insieme
di risorse non ancora utilizzate per nuove prospettive di sviluppo, dunque
il loro valore è proprio nella pregressa estraneità ad un sistema, di cui sono
parte sub condicione e che scarsamente le rappresenta, ma per cui possono
rappresentare la via della salvezza.
Sono numerosi gli studiosi, anche uomini, che hanno condiviso la necessità di un migliore utilizzo delle competenze femminili, ravvisando in ciò
una possibilità di coniugare sviluppo con innovazione. Ci si è focalizzati così
sull’apporto femminile di efficienza e competitività che ha avuto anche dei
riflessi in sperimentazioni di pratiche organizzative. Attraverso progetti, certificazioni più o meno rosa, bilanci di genere ecc., si è dato vita, in numerosi
casi, a strategie di miglior utilizzo delle risorse femminili nelle unità lavorative, nella convinzione che sia una scelta profittevole per l’unità produttiva e
il sistema tutto (Wittenberg-Cox, Maitland, 2010; Del Boca, 2010b). In Italia,
Ferrera, nel suo testo intitolato Fattore D nel 2008 (quando ancora gli effetti
della crisi globale non erano evidenti e chiari ai più e la nebbia intorno ad
essa non era così dipanata) sosteneva l’urgenza di «fare largo alle donne»,
promuovendone una maggiore occupazione, non solo e non tanto per ragioni di giustizia e di riconoscimento del valore delle pari opportunità, ma
LA CONCILIAZIONE
27
anche perché senza le donne l’Italia non avrebbe avuto speranze di crescita17.
A quasi tre anni di distanza queste asserzioni appaiono già contraddette da
una tendenza esattamente opposta a quella della scommessa sulle donne.
Il World economic Forum da tempo richiama l’attenzione sui costi sociali
ed economici all’un tempo dell’esclusione delle donne, soprattutto per quei
paesi come l’Italia che, unica in Europa, continua a posizionarsi nella misura
del Gender Gap Index18 (Hausmann, Tyson, Zahidi, 2010) nella parte bassa
di una classifica che mette insieme 134 paesi. Convergono sull’allarme Italia
anche i dati sull’occupazione pubblicati dall’Ocse (Oecd, 2010) che la collocano al penultimo posto, tra i paesi considerati, per numero di occupate.
Pur nella consapevolezza di quanto i numeri riducano drasticamente la
realtà, ma al contempo assumendo che in ogni caso rappresentano un indicatore dell’andamento socio-economico, vi è da chiedersi se la situazione non
sia persino peggiore di quella che riduttivamente i ragionamenti meramente
quantitativi inducono a fare; secondariamente rimane in sospeso un dubbio
relativo all’assunto economicistico della necessità di guardare alle «risorse
umane» femminili come profittevoli. L’espressione risorse umane ha qui
una valenza critica: come già Gallino (2009) avvertitamente rileva, parlare
di risorse e non di persone significa considerare le stesse mezzi e non fini.
Tale assunzione, infatti, lungi dal mettere in discussione l’esistente, annette
la «risorsa femminile», in quanto funzionale, al sistema, che diviene così
17
Nel 2007 quando gli assunti efficientistici della scommessa sulle donne erano in primo
piano, si è originato un dibattito intorno al possibile «sorpasso» economico della Spagna sull’Italia. A tale proposito fu proprio Ferrera a spiegare che questo era dovuto principalmente
agli investimenti del Governo spagnolo a sostegno dell’occupazione femminile e conciliazione.
Mentre il sorpasso ha avuto ampio spazio nel dibattito politico, la causa principale del balzo
verificatosi nell’economia spagnola non avrebbe avuto la stessa risonanza: «Nel dibattito sul
«sorpasso» spagnolo pochi si sono soffermati su un aspetto apparentemente secondario e invece molto importante: l’occupazione femminile […]. Ma il nesso fra occupazione femminile
e crescita è bi-direzionale. Come dimostrano le ricerche della cosiddetta womenomics, più
donne attive uguale più crescita. [...] A dispetto del «declino», l’economia italiana ha ancora
molti punti di forza, che la rendono più solida di quella spagnola. Sul fronte dell’occupazione
femminile, i dati lasciano tuttavia pochi dubbi su chi è più avanti. E indicano il percorso che
anche il nostro governo dovrebbe al più presto imboccare» (Corriere della Sera, 31 dicembre
2007, p. 28). Sulla solidità del sistema italiano oggi avremmo più dubbi di quanti non ne
potessero sorgere al momento del dibattito, ma fa riflettere comunque come pur essendo
stata colpita duramente dalla crisi, la Spagna non sia arretrata dai suoi investimenti, non solo
economici, sulla parità tra i sessi.
18
Il Global Gender Gap Index messo a punto dal World Economic Forum misura le
distanze tra uomini e donne in quattro dimensioni della vita sociale: la partecipazione economica e le opportunità, il livello di istruzione, la responsabilità politica, la salute e la speranza
di vita.
28
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
utile in quanto produttiva, non «utile» in sé. Vi è in ciò il vizio originario di
guardare al sistema economico come un primum a cui tutto è subordinato.
Eppure è proprio la disinvoltura con cui questo è stato variamente declinato
ad aver originato la crisi attuale, la quale spesso più assomiglia alla fine del
modello di capitalismo finanziario avanzato per la cui riproduzione (Bauman, 2009) si necessita di «sfruttare» sempre nuove risorse non altrettanto
ulteriormente disponibili.
La via femminile allo sviluppo appare debole e poco convincente in
un panorama in cui i sistemi lavorativi ed economici continuano ad avvantaggiarsi della progressiva erosione dei diritti delle persone e in particolare
delle donne. Il lavoro «indecente» (Gallino, 2009), quale è divenuto, è il
risultato di una mancata scommessa sulla sua riqualificazione. Paradossalmente è proprio il tipo di lavoro che per diversi anni nel nostro paese ha
visto crescere il numero di occupate, è il lavoro in cui le donne e i giovani
sono rimasti intrappolati, contraddicendo quel proposito di perseguimento
dello sviluppo che non si riduca a mero aumento del profitto economico.
È opinione condivisa che la scomposizione del lavoro in forme più flessibili abbia rappresentato una delle più rilevanti opportunità di ingresso e
partecipazione femminile al mondo del lavoro. È difficile, però, non porre
interrogativi sulla qualità delle opportunità lavorative, a cui, effettivamente, le
donne hanno principalmente avuto, o non, accesso. Il divaricarsi, al presente,
di opportunità di lavoro decente e a numero chiuso, dall’ampia disponibilità,
viceversa, dai lavori «indecenti» (Gallino, 2009), colpisce in maniera discriminante i segmenti della forza lavoro, senza eccezione di quello femminile19.
Si afferma, attraverso l’ideologia della flessibilità20, la visione di un lavoro
19
«In Italia, come negli altri paesi avanzati, tanto la flessibilità quanto gli oneri che ne
derivano non colpiscono in modo differenziale soltanto i vari sistemi lavorativi di cui sopra.
Entro ciascun sistema, la probabilità che il solo lavoro che si riesce a trovare sia un lavoro
flessibile, regolare o irregolare e che i suoi costi personali e familiari siano più gravosi, più
estesi e più duraturi è notevolmente più alta per le donne, per i giovani in cerca di prima
occupazione al di sotto dei 25 anni, per i disoccupati che superano i 40-45 anni, per chi ha
un titolo di studio basso, per gli immigrati, per chi vive in zone meno sviluppate del resto
del paese» (Gallino, 2009, p. 95).
20
Da più parti si sottolinea oramai che l’ideologia della flessibilità non ha sostenuto adeguati risultati, prima di tutto in termini di crescita economica, oltre che sul piano di crescita
di qualità del lavoro e di sicurezza dello stesso, tradendo così quelle attese di ampliamento
delle opportunità che non possono dirsi realizzate solo quantitativamente sui numeri degli
accessi al lavoro, omettendone le conseguenze sugli interi percorsi di vita e lavoro, laddove,
proprio a partire dalla flessibilizzazione del lavoro, i tempi e i luoghi di vita tendono sempre
più ad una con-fusione e all’abbattimento dei reciproci confini più rigidamente stabiliti prima
con l’affermarsi del capitalismo e poi con il modello socio-economico fordista.
LA CONCILIAZIONE
29
prettamente merce – sottolinea Gallino – non riqualificato e squalificante la
vita degli individui, diverso e separato dalla persona che lo svolge, dalle sue
competenze, dai suoi bisogni e dai suoi progetti di vita. È questo il terreno
su cui il lavoro si estende senza confini e diventa un’opportunità sempre più
diseguale in termini di opzioni di vita.
Ma la disparità lavorativa ha un ampio e profondo radicamento nel nostro
paese di tipo non solo economico, ma sociale più ampio, politico e culturale;
in essa si legge una misura del complessivo grado di difficoltà: «In un momento di competizione particolarmente aspra, e perfino di rischio di declino,
l’Italia discrimina e rifiuta l’apporto fondamentale di competenze, capacità,
conoscenze, di alcuni tra i suoi più preziosi cittadini, le donne. Non per ragioni di calcolo razionale o convenienza economica, ma per motivi culturali,
di carenze istituzionali, di preservazione e conquista del potere da parte di
élites chiuse» (D’Ippoliti, 2008). Se così è, allora la via femminile allo sviluppo
diventa ancor più debole e meno convincente come mezzo di ripianamento
delle disuguaglianze di fatto: almeno fin tanto che non siano state affrontate le
resistenze culturali, non si sovverte l’ordine di genere né la concentrazione di
poteri immobili, reali ostacoli che si frappongono fra le donne e lo sviluppo,
fra la società e una redistribuzione più equa delle risorse.
Ciò che inoltre non persuade, guardando al contesto più ampio, sono le
tendenze, da più parti rilevate e descritte, di una progressiva erosione delle
opportunità di scelta quali connotative della condizione femminile contemporanea (Faludi, 1999; 2008; Aa.vv., 2010). L’economia non è concepibile
in un procedere isolatamente, così come non è possibile definire l’efficienza
economica senza che questa assuma, in una prospettiva di società integrata,
uno spessore di questione politica innanzitutto, attribuendo al termine politica l’accezione di questione pubblica, istituzionale, quale ambito di dibattito
e di intervento. Del resto, è proprio sul piano della rappresentanza politica
che la distanza tra donne e uomini risulta non colmata, tendendo peraltro
ad acuirsi, non certo a ridursi. Permane un primato maschile per cui l’esclusione femminile continua ad essere un problema secondario o derivato. La
vicenda delle quote rosa è esemplare al riguardo21. La differenza sessuale
diviene il motore per un nuovo modello di sviluppo, ma la disuguaglianza
ne rimane il principale ostacolo.
21
Quando nel 2006 si propone la modifica dell’articolo 51 della Costituzione per promuovere le pari opportunità nelle cariche elettive e nei pubblici uffici (cosiddetto provvedimento
quote rosa), questo viene «sacrificato» in nome della ragion di stato e della mancanza dei
tempi tecnici. Dopo aver comunque ottenuto la maggioranza dei voti in Senato il provvedimento non ha trovato posto nell’agenda della legislatura in scadenza.
30
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Mentre appare oramai chiaro che non può essere esclusivamente la crescita economica l’indicatore su cui mettere a punto le misure sociali, pena
tra l’altro la loro stessa inefficacia, sono già in atto dinamiche escludenti e
scoraggianti, che vanno a colpire proprio le fasce più deboli della popolazione, di cui è prevedibile un acuirsi nel breve futuro per effetto di strategie
che, in assenza di una inversione di tendenza, si stanno indirizzando su una
politica degli utili al netto della coesione e della giustizia sociale22.
I.3. Perché le donne tra vita e lavoro
Le riflessioni su come sono cambiate le donne sono strettamente correlate
a come è cambiato oggi il lavoro. Il modo in cui si vive e si lavora rimanda
costantemente a delle tensioni derivanti da una sempre più intensa fusione tra
lavoro e vita23. Il lavoro si è fatto sempre più pervasivo nelle sue molteplici
forme e dilatazione di orari, rendendo la vita privata una sorta di permanente
terreno di avanzamento. Il limite del suo avanzamento è vissuto criticamente
soprattutto dalle donne, per ragioni sia biologico-riproduttive, sia di assetti di
genere sbilanciati sul carico di lavoro di cura sempre in linea femminile24.
Il lavoro è divenuto più flessibile a spese di una crescente rigidità della
vita privata che si definisce per adattamento alla sfera lavorativa. Per tutta una
serie di ragioni, quali per esempio l’alterazione tra quantità di lavoro e capacità di reddito25, evidente nella diffusione di lavoratori poveri e anche sottoposti
a ritmi e carichi di lavoro che non lasciano traccia in incrementi salariali
proporzionali, l’accresciuta instabilità e insicurezza del percorso lavorativo,
per cui il bisogno di lavoro si è fatto più urgente per un maggior numero
22
Maria Grazia Campari mentre prende atto della condivisione di una interpretazione di
una debolezza economica di alcuni sistemi, quale l’italiano, connotato da spiccato machismo,
sottolinea come sia necessario adottare una prospettiva più ampia delle determinanti l’esclusione: «l’esclusione femminile riguarda la sfera pubblica nel suo complesso e determina un
circolo vizioso che alimenta non solo disastri economici ma anche deterioramento di relazioni
interpersonali, scomparsa dei rapporti di fiducia, abbassamento del livello di democrazia»
(Campari, 2010).
23
Non si dimentichi che nel lavoro risiede l’origine delle pari opportunità come questione
politica.
24
Si vedano a tal proposito i due rapporti Istat Conciliazione e denatalità, Essere madri in
Italia e I nuovi padri (www.istat.it). Si legga inoltre l’articolo di G.C. Giannelli, I veri fannulloni
sono in casa, reperibile al sito www.ingenere.it.
25
«Considerando il biennio 2008-2009, la caduta del livello del reddito ha raggiunto in
Italia il 6,3 per cento, il risultato peggiore tra quelli delle grandi economie avanzate» (Cnel,
2010, p. 11).
LA CONCILIAZIONE
31
e varietà di soggetti; con esso, la conciliazione, quale necessità di ridefinire
nuovi equilibri tra le sfere di vita, di armonizzarle. È la vita l’area di disponibilità per un lavoro che tende ad estendersi, massimizzando l’interdipendenza. In tale contesto perde di significato il ricorso alla conciliazione come
strategia di composizione delle sfere dell’esperienza operata dalle donne e
principalmente da esse. Il lavoro di cura e il ruolo di care giver «inespresso»
nel modello di procacciatore di reddito (Saraceno, 2009a) è rimasto a lungo
nelle ombre del disinteresse pubblico e soprattutto politico (Okin, 1999)26,
poggiando su un ordine di separazione delle sfere di vita pubblico/privato,
in continuità con un assetto sociale di genere della “gestione separata”. Persino l’interesse, piuttosto recente e ancora limitato, verso il lavoro di cura
e domestico, risente pesantemente di una visione sessuata, ascrivendo alla
donna le competenze in merito, acquisite per una socializzazione che, ancora
oggi, si basa su una specializzazione di genere. Non a caso, l’ingresso delle
donne nel mercato del lavoro, specie in Italia, è avvenuto per assimilazione ai
modelli maschili, sia di organizzazione del tempo, sia di sviluppo di carriera
e pure del significato associato della produttività. La cosiddetta femminilizzazione del mercato del lavoro si è affermata seguendo il modello della
«doppia presenza» (Hochschild, 1990; Balbo, 1978), un modello additivo di
cui le donne si sono assunte gli oneri (di cura e lavorativi) senza modificare
la relazione tra prestatrici di cura e destinatari (Saraceno, 2009a), passando
così da non occupate a casalinghe occupate.
È oggi che il senso della conciliazione assume un significato del tutto
diverso: la scomposizione del corso di vita, così come la fluidità dei confini
tra le sfere dell’attività umana, chiamano in causa la necessità di un nuovo
patto sociale tra le donne e gli uomini. Le donne, infatti, hanno nel tempo
legato maggiormente i loro percorsi al lavoro, studiando di più, mettendolo
al centro delle attese e delle esperienze, adattando la scansione del corso
di vita ad una ricerca di senso rivolta sì alla sfera privata, ma altrettanto
alla partecipazione sociale e lavorativa. L’evidenza di questo mutamento
è nell’orientamento delle ultime generazioni. Di fatti, diversamente dalle
donne della doppia presenza, le più giovani tendono, più che a un modello
alternativo tra vita e lavoro (aut aut), ad un modello di composizione tra le
due sfere (et et), che nell’insieme attribuiscono senso all’esperienza. Anche il
lavoro entra nel destino lavorativo delle donne la cui «fortuna» (Gherardi,
26
Afferma la Okin (1999) che il disinteresse della politica verso la famiglia è il disinteresse
verso un ambito di vita prevalentemente femminile a partire dall’assunto della divisione
delle sfere di vita come «naturale», pertanto non necessita di essere giustificata né risulta
facilmente modificabile.
32
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Poggio, 2003) di ottenerlo attiene al piano delle reali opportunità, mentre
la sua accessibilità è ancora fortemente condizionata dai retaggi culturali da
cui nasce il ruolo di lavoratrice, soprattutto di madre-lavoratrice, affermatosi
in subordine agli obblighi, socialmente prestabiliti, di cura, gli stessi che
forgiano le relazioni private affettive, di coppia e familiari27.
Da tali retaggi non sono immuni neppure gli stessi studi sul mercato
del lavoro, offrendo letture che assumono, implicitamente o esplicitamente,
la dicotomia dei ruoli pubblici e privati, riconoscendo una relazione diretta
tra vita e lavoro, soprattutto quando questo è declinato al femminile28. Anzi,
sono proprio le donne che lavorano a richiamare «la questione del work and
life balance e della conciliazione tra lavoro e famiglia» (Chiarello et al, 2004,
p. 95), è a partire dalle donne, dunque, che si impone una messa a questione
del rapporto tra qualità del lavoro e qualità della vita. Nel prendere atto del
problema della ricerca di equilibrio, non raramente si tradiscono radicamenti
stereotipati e sessuati, tali per cui per cui la conciliazione, la ricerca di un
migliore equilibrio vita-lavoro o è concepita come la via per un supporto all’occupazione femminile o è comunque derivante e circoscritta alla questione
sociale femminile29. Un tale approccio rischia, ancora una volta, di intrap27
Sono dunque principalmente le donne a modificare i loro percorsi e comportamenti
mentre i loro partner maschili continuano a non avere «quasi nessun obbligo sociale verso il
lavoro di riproduzione. Il contributo maschile, dipende, semmai, da obblighi morali privati,
di giustizia affettiva verso le loro partner» (Bimbi, 1995); d’altra parte: «la gratuità è un indicatore economico di forte ingiustizia sociale verso le donne: o perché esse – e quasi solo
esse – hanno questo obbligo temporale verso la società, non ricevendo mai alcun corrispettivo diretto o indiretto, per prestazioni sociali e in parte ineliminabili; o soprattutto perché
esse –e quasi solo esse– svolgono di fatto un lavoro servile per uomini adulti sani e capaci»
(Bimbi, 1995, pp. 396-397).
28
Già nel 1989 è Gallino ad indicare che una delle distorsioni della sociologia del lavoro
in Italia è data dal suo essersi concentrata sul lavoro maschile.
29
Ad esempio ad ascrivere la conciliazione al genere femminile sono più spesso gli
studiosi che si occupano di interpretare gli andamenti del mercato del lavoro. Scrive a tal
proposito Reyneri «Il problema della conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura
per la famiglia è centrale per aumentare un tasso di occupazione femminile ancora ben
lontano dalla media dell’Unione Europea, senza costringere le donne ad una vita stressante e senza ridurre ulteriormente la già troppo bassa natalità. […] l’arretratezza italiana è
dovuta essenzialmente al minor tasso di occupazione a tempo parziale delle donne meno
istruite, che ovunque sono le più propense a un impegno lavorativo ridotto per consentire
di realizzare un loro forte orientamento alla famiglia» (pp. 159-160) e continua descrivendo
come dal 2003 in poi, vale a dire dopo l’approvazione della legge 30, è aumentato il part
time involontario delle donne come effetto propulsivo di uno sbilanciamento della flessibilità favorita dalla legge troppo a favore delle imprese che, dice sempre l’autore «rischia di
rendere più difficile per le donne conciliare l’impegno lavorativo con l’organizzazione della
vita familiare» (2007, p. 160).
LA CONCILIAZIONE
33
polare le donne, anche concettualmente, nello status quo di uno squilibrio,
senza per nulla interrogare gli uomini rispetto alle loro responsabilità di cura,
né riconoscere i bisogni emergenti di riassetto esistenziale, oltre e rispetto
al lavoro. A tale proposito, di un certo interesse è lo studio dell’economista
inglese Wendy Sigle-Rushton (2010) che, confutando le teorie economiche
soprattutto della cosiddetta New Home Economics, si interroga intorno all’ipotesi accreditata di una relazione positiva tra partecipazione lavorativa delle
donne e instabilità coniugale (tassi di divorzio). La studiosa conclude che tale
ipotesi è stata sviluppata e verificata analiticamente senza mai prendere in
considerazione il lavoro non pagato degli uomini come variabile esplicativa
della instabilità matrimoniale; introducendo questa variabile, infatti, appare
chiaro che una maggiore condivisione da parte dei partner maschili del
lavoro «non pagato» è da considerarsi un fattore di protezione dal rischio
di separazione e divorzio.
Il più delle volte non si registra affatto un ribaltamento di prospettiva e
il lavoro di cura, domestico e familiare, è affrontato quale problema che le
donne devono risolvere, in derivazione di una visione che assume a priori la
loro posizione diseguale rispetto agli uomini. Tanto meno in questi casi vi
è la volontà di illuminare il cono d’ombra del lavoro di cura degli uomini,
o di rappresentare la condivisione tra lavoro retribuito e non, tra responsabilità di cura e domestiche, come un modello alternativo a quello della
specializzazione di genere, il quale, peraltro, avrebbe maggiori probabilità di
efficace risposta alle necessità dei soggetti bisognosi di cura, secondo principi
di razionalità organizzativa.
Si continua a concentrare l’attenzione sulle pratiche delle donne e sulle loro abilità di «acrobate» (Rosci, 2007) tra le difficoltà crescenti che la
complessità oppone, ma che magicamente (Pogliana, 2009) si ricompongono
grazie alle abilità femminili30 di arrivare a pronunciare un «doppio sì» (Aa.
vv., 2008). Si tematizza in tal caso di una donna che agisce isolatamente,
avulsa da un contesto relazionale, che, a prescindere dall’estrazione sociale,
è supposta in grado di scegliere di tenere tutto insieme e necessariamente
su di sé, anche il conflitto. In assenza di dialettica tra i due sessi (Melandri,
2009), il conflitto appare infatti tutto interno alle donne, correlato ai ruoli
che esse scelgono (per possibilità e volontà). Emblematicamente sono le
30
La donna acrobata: «È una donna che aspira a una vita nella quale ci sia posto per tanti
ingredienti diversi: il lavoro, la maternità, l’amicizia, l’amore, gli interessi e i valori personali,
i sogni per il futuro. Non volendo negare nessuna delle sue aspirazioni, le dosa nelle diverse
fasi della vita a seconda dei problemi che si pongono, trovando equilibri sempre nuovi»
(Rosci, 2007, pp. 27).
34
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
donne-madri ad essere poste al centro di tale prospettiva, mentre le altre
divengono conseguentemente residuali rispetto al sistema consolidato.
A cadere in trappole di visioni sessuate sono le stesse politiche sociali di
cosiddetta conciliazione, quando, in una non coerente applicazione, assumono le donne come principali destinatarie, con l’effetto perverso di irrigidirne
il ruolo, al crocevia tra attività di lavoro e di vita, in maniera sperequativa
rispetto agli uomini. Peraltro, l’obiettivo assistenzialista è più spesso perseguito da tali politiche, anziché quello promozionale e di mutamento culturale
nelle relazioni, nonché di più giuste condizioni di lavoro e di vita, vale a
dire una più decente condizione umana, per parafrasare, una volta di più, le
parole di Gallino (2009), finendo per avallare le disparità esistenti, prima fra
tutte quelle dello squilibrio di genere, pubblico e privato. Si sta configurando
uno scenario paradossale per cui mentre le condizioni di lavoro regrediscono
soprattutto sul piano della equità, dei diritti e della qualità, il dibattito sulla
condizione umana che, a partire dal lavoro, o rispetto al lavoro, si disegna,
appare debole, frammentata e incoerente. Marina Piazza (2008) rileva uno
scarto significativo tra le conoscenze teoriche acquisite in materia di conciliazione e la distanza dalle politiche che appaiono non informate dalle
stesse, con il risultato ultimo di non andare mai al punto e di declinare la
conciliazione come una sorta di tutela al ribasso per le donne; un insieme
di strumenti per l’occupazione femminile e una migliore occupabilità, che
da ultimo guarda alla conciliazione come un problema delle donne ma non
della collettività, un insieme di strumenti che finiscono per gravare le stesse
di responsabilità a senso unico.
Dentro il tema della conciliazione vi sono tutti gli aspetti della divisione di genere insieme a quelli relativi alla qualità del lavoro e della vita. La
necessità di maggiore tempo da dedicare ai figli, alla famiglia o a se stessi,
mentre andava sotto l’etichetta politico-ideologica di tempo liberato negli
anni settanta, oggi sfuma in un’organizzazione del tempo che non riconosce
più un limite al tempo di lavoro, rischiando di attuare una grave omissione
di una sfera esistenziale di senso. La progressione dell’estensione del tempo
di lavoro e spazio di vita riguarda tutti donne e uomini e, per essa, la ricerca di nuovi assetti ed eventuali equilibri: «Gli uomini e le donne flessibili
rappresentati da Sennet (1998) e da Gallino (2001) sono soggetti dall’identità multipla, pronti ad adattarsi ad ogni situazione, malleabili di fronte ai
continui stimoli della società, senza più certezze e riferimenti, assoggettati
al vento come le canne di deleddiana memoria. In queste rappresentazioni
la flessibilità non aiuta a comporre tempi di vita e di lavoro, ma li sovrappone, li confonde, elimina le barriere e lascia che il lavoro invada la vita»
(Gherardi, Poggio, 2003, p. 5).
LA CONCILIAZIONE
35
Si tratta dunque di guardare alla conciliazione con una prospettiva di
maggiore aderenza alla realtà, de-costruendo la bi o tripartizione tra tempo di
lavoro e tempo libero o tempo altro da lavoro, su cui si è consolidata l’esperienza delle società occidentali e di quelle che progressivamente hanno aderito
a modelli capitalistici31. La concezione del tempo lineare o del tempo bipartito
tra vita e lavoro, mentre ha ben rappresentato il modello avanzato di capitalismo nella declinazione fordista, ha posto in ombra i percorsi femminili che
difficilmente possono essere compresi dall’adozione di una tale quadratura del
cerchio (Dahrendorf, 1984; 1995). Il tempo delle donne tra scelte produttive e
riproduttive non è rappresentato da una scansione lineare e unidimensionale.
Il tempo libero delle donne, anche se tempo altro da lavoro retribuito, difficilmente, persino storicamente, può essere ridotto a tempo ricreativo per nuovo
lavoro, se non in misura parziale, nelle società rurali (Pescarolo, 1996), così
come in quelle industriali32 e post industriali. La compressione del tempo per
sé è stata, e continua ad essere, uno degli elevati costi che le donne pagano
in cambio della partecipazione sociale e lavorativa, in misura molto più netta
di quanto continui a non accadere agli uomini (Istat, 2008).
Sul tema della conciliazione sembra imporsi una preliminare operazione
di disvelamento dei comportamenti «ignorati» (Badinter, 2004). A tal fine si
prenda atto della necessità di tenere insieme vita e lavoro, superando una
visione dicotomica che non restituisce, se non residualmente, la realtà dei
soggetti, donne o uomini che siano. I ritmi di vita sono oggi scanditi a partire
da processi di «densificazione» e «intensificazione» (Gallino, 2001) del lavoro,
da cui la conciliazione, definita come tensione verso il raggiungimento di un
equilibrio esistenziale soddisfacente, rappresenta una via alla riqualificazione
della condizione umana (Gallino, 2009) che, altrimenti, rischia di essere depredata da necessità economiche e, soprattutto per le donne, da asimmetrie
ataviche. A tal fine occorre tenere in adeguato conto le oggettive condizioni
entro cui prendono vita le relazioni di genere, sia nella sfera pubblica, sia
nella sfera privata.
Flessibilità e competitività sono le due coordinate entro cui si disegnano
le emergenti forme lavorative. Competitività per una risorsa lavoro apparen31
Come sottolinea anche Laura Balbo (2008) nella società del dopo welfare donne e
uomini vivono in una realtà in cui lavoro e «atti quotidiani» sono sempre più saldamente
intrecciati.
32
Thompson (1981) mette ben in rilievo che nell’economia contadina a svolgere il lavoro
più faticoso e più lungo era la «moglie del bracciante», aggiungendo che la donna che abbia
anche dei bambini non è ancora uscita dalle convenzioni proprie della società pre-industriale,
in quanto permane per lei quella che lui chiama una «percezione imperfetta» del tempo che
segue altri ritmi umani.
36
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
temente più disponibile, ma in misura inversamente proporzionale al livello
di qualificazione. Questo porta ad una flessibilità che favorisce sistemi di
relazione maschili, dove il lavoro schiaccia il privato e la flessibilità diventa
una richiesta illimitata di disponibilità senza stabilità, garanzie, diritti non
esigibili, ma negoziabili entro relazioni di forza sperequata tra chi offre e
domanda lavoro (Supiot, 2003). Fin quando la soddisfazione del bisogno di
un migliore equilibrio non sarà riconosciuto come un diritto soggettivo e
non un onere, tra i sempre più numerosi, a carico di chi lavora, la connotazione sessuata della conciliazione continuerà ad essere uno degli elementi di
debolezza delle donne su siffatto mercato del lavoro, supportante “relazioni
pericolose” per il portato di svantaggio su cui si fondano.
Sul piano del lavoro sono infatti le donne a continuare a pagare i principali «costi sociali della flessibilità» (Gallino, 2001; 2009), con una probabilità
più elevata di essere occupate in percorsi «atipici» (che disegnano oramai
una loro tipicità) frammentati e instabili, a più elevata imprevedibilità di vita
e di lavoro, a più alto rischio di espulsione dal mercato, senza menzionare
le persistenti dinamiche segreganti.
La contraddizione tutt’affatto risolta, tra l’altro, è la crescente attrazione
del lavoro nei confronti del genere femminile, nel momento in cui esso diviene più difficilmente afferrabile: il suo farsi flessibile, forse dovremmo dire
soprattutto labile, altera persino la relazione di “proporzionalità” tra lavoro e
reddito associato, tra carico di lavoro, sostenibilità esistenziale e progettuale.
Si rafforza la centralità del lavoro che si estende su fasce più ampie di popolazione, ma si amplia soprattutto l’area del lavoro low cost, tutto ciò mentre la
legislazione e le politiche pubbliche spostano l’attenzione dalla promozione
femminile alla conciliazione. Il fulcro dell’attuale sistema di flessibilità sono i
lavoratori o meglio le lavoratrici che, rinunciando ad ogni forma di sicurezza,
vivono con urgenza la necessità di conciliare gli impegni e gli equilibri fra
le sfere di vita per rimanere “attaccate” ad un lavoro. Non solo si ribadisce una logica dicotomica vita e lavoro che privilegia la prima ed esclude
principalmente le donne, specie nel lungo periodo, ma è il lavoro che per
la sua fluidità finisce per condizionare, molto più che nel passato, la vita dei
singoli senza intaccare quella privato-familiare: la quale rimane su assetti di
ripartizione dei compiti che prescindono dai mutamenti del lavoro.
I.4. Intorno alla conciliazione
La conciliazione evoca piuttosto la stipula di un nuovo patto sociale di
genere, chiamando in causa donne e uomini in una relazione di reciproca
LA CONCILIAZIONE
37
«responsabilità» (Vincenti, 2005) e di condivisione di una condizione umana
più libera: «un processo di passaggio da uno stato di costrizione a uno stato
di libertà di scelta. Per questo il tema della conciliazione, che riguarda apparentemente tanto gli uomini quanto le donne, trova la sua declinazione al
femminile, perché la nostra cultura storica, sociale, economica ha consegnato
il genere femminile ad una condizione di svantaggio» (Zurla, 2006, p. 11).
La prospettiva del bilanciamento delle sfere di vita, ponendo i soggetti
coinvolti in relazione di mutualità, sembra più adatta al perseguimento di
un obiettivo di reale supporto alle donne e al loro valore sociale di cittadine
e lavoratrici, nonché a scardinare quelle pratiche consolidate del «dominio
maschile» (Bourdieu, 1998) nel senso della «de-familizzazione» femminile
e di una simultanea «ri-familizzazione» maschile (Saraceno, 2009a). Oltre
all’iniquità di un così grave sbilanciamento dei ruoli, come si presenta a
tutt’oggi nel nostro paese, vi è anche l’evidenza dei limiti di siffatto sistema.
Il primo tra questi, anche il più menzionato nel pubblico dibattito, è quello
demografico. È oramai acquisito che, a partire dalla fine degli anni ‘90, non
è più sostenibile un’assunzione a priori di conflitto tra scelte produttive
e riproduttive, giacché sono proprio i paesi che offrono maggiori chances
lavorative alle donne a mostrare migliori andamenti nei tassi di natalità. La
denatalità, che connota oramai da decenni il nostro paese, non è interpretabile in un mero computo demografico ed in funzione della sostenibilità dei
sistemi economici nazionali. Essa è, all’opposto, l’evidenza che l’esclusione è
prima di tutto un costo sociale e dunque anche economico; tributo pagato
a saldo di una grave sfasatura tra tempi sociali e tempi biologici (nonché
tra rispettive opportunità) limita nettamente la libertà di scelta: «La spiegazione di questo apparente paradosso sta nel basso livello di eguaglianza
in un contesto sociale e culturale in cui le donne invece se la aspettano in
misura crescente, ed anche nella scarsità degli strumenti di conciliazione tra
responsabilità familiari e impegni professionali e di altro genere in società
che ancora affidano largamente alla famiglia alla sua divisione del lavoro in
base al genere il soddisfacimento di tutti i bisogni di cura degli individui,
dalla prima infanzia alla vecchiaia» (Saraceno, 2005, p. 1). Ciò che rimane
fuori dalla prospettiva demografica è il legame profondo tra produzione/
produttività e riproduzione/riproduttività, quasi in un automatismo di gettito
di risorse umane funzionale al sistema “produttivo”. L’attenzione va dunque
spostata dal tasso di natalità ai gradi di libertà del contesto, alla qualità
della vita, alla reale opzionabilità dei percorsi. È difficile pensare oggi ad
un’organizzazione sociale in cui la libertà di scelta delle donne sia almeno di
misura pari a quella degli uomini, giacché l’incidenza di matrimonio e figli
sui percorsi lavorativi continua ad essere ancora troppo elevata e visibile non
38
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
solo in termini di interruzione degli stessi percorsi (Isfol, 2006), ma anche di
«scoraggiamento» (Cnel, 2010, 2012; Saraceno, 2010) quale rinuncia a monte
a realizzare l’aspirazione ad un lavoro. Ma non solo la maternità accresce
l’asimmetria nella coppia e nella sfera sociale e lavorativa, è sufficiente essere
donne per essere percepite nel ruolo di care giver e potenziali madri, in quella
che Mantegazza stigmatizzava come la «divina missione» estesa a tutto il
genere femminile, finanche alle vergini33.
Attraverso le declinazioni della conciliazione, si può individuare una ulteriore sfasatura che riguarda il mondo femminile. Essa deriva dalla negazione
delle pluralità delle scelte operate dalle donne, più facilmente ricondotte
ad unico modello di aspiranti mogli-madri, nonostante l’eterogeneità del
mondo femminile contemporaneo, in cui le variabili di estrazione sociale,
livello di istruzione, età, etnia ecc., contribuiscono ad ampliare o a limitare
le scelte soggettive. Il mondo delle donne è oggi più variegato, ma anche
più polarizzato, rispetto a quei gradi di libertà che connotano l’accesso alle
opportunità negli specifici contesti. Il riposizionamento al centro della maternità non rispecchia interamente l’esperienza femminile, ma piuttosto una
pressione sociale ad uniformarsi al modello focalizzato come dominante.
Esiste uno scarto significativo tra centralità attuale del modello materno
e la diversità delle aspirazioni femminili, per cui alcune, numerose donne,
non sono disposte a sacrificare la loro autonomia finanziaria, la loro vita
sociale e un certo modo di affermazione di sé (Badinter, 2010), specie con la
consapevolezza di dover pagare un costo individuale elevato. La gravidanza
è procrastinata nella più parte dei casi, in altri, come dice Pascale Donati
(2003) non è rifiutata, ma «inattivata». In altri casi, benché più rari, il/la bambino/a non ha nessun posto nella vita delle donne (Badinter, 2010). Come
sottolinea la Badinter, dal momento in cui le donne hanno cominciato a
studiare, ad invadere il mercato del lavoro e gestire la loro riproduzione, la
maternità non è più un destino, ma una questione. Le motivazioni ad avere
o non figli, per le donne come per gli uomini sono descritte da coordinate
spazio temporali, si definiscono di volta in volta in base a condizioni di vita,
aspirazioni e opportunità. Sono le childfree che pongono la questione della
maternità come le donne non l’hanno mai posta prima, derivando essa stessa
da un’originaria supposta necessità naturale. Il vero tratto distintivo di questo
scorcio d’epoca consisterebbe dunque proprio nella ideale libertà di scelta
33
È Lea Melandri a richiamare Mantegazza mettendo in evidenza una progressiva femminilizzazione dello spazio pubblico che si consolida scomparendo il conflitto tra i sessi. La
solida continuità della femminilità oblativa è il filo rosso che tiene insieme la diffusa presenza
femminile e l’immutata matrice patriarcale (Melandri, 2009).
LA CONCILIAZIONE
39
o non della maternità34, mentre le politiche sociali e familiari difficilmente,
specie nell’Italia familista, recepiscono tale complessità sostenendo i desideri
delle donne, piuttosto si limitano al sostegno della madre e della vita familiare, mentre il resto è affrontato come scarto dalla norma.
La condizione delle donne è oggi segnata da un’esaltazione di un modello materno oblativo imposto «per natura», sempre più in contrasto con
le più dure e pressanti richieste del mondo del lavoro. La donna-madre
«negoziatrice» è la protagonista di una trattativa mai compiuta una volta
per tutte: «evolve a secondo dell’età e dei bisogni dei bambini ma anche
della situazione e occasioni professionali. Lo spettro della cattiva madre si
impone alla negoziatrice tanto più crudelmente quanto più ella ha interiorizzato inconsciamente l’ideale della buona madre. In questo conflitto la
donna e la madre si sentono egualmente perdenti. È questo esattamente il
modello femminile con cui un numero crescente di donne non vuole essere
confrontata» (Badinter, 2010, p. 191)35.
Tale è la situazione contraddittoria in cui si trovano le donne italiane
e questi i fondamenti di un sistema di relazioni di genere per cui il ruolo
femminile pubblico continua a non essere, al pari degli uomini, un «destino»
ma un’aspirazione o una «fortuna» (Gherardi, Poggio, 2003). I bassi tassi di
attività, di occupazione, il crescente scoraggiamento, la vulnerabilità lavorativa connessa con la maternità, lo squilibrio dei carichi di cura, le ridotte
opportunità di carriera, i salari più bassi e i crescenti differenziali (Barbieri,
Cutuli, 2010), non sembrano per nulla recepiti dalle politiche sociali, incluse
quelle di conciliazione, che continuano a prediligere la via del familismo entro un progressivo radicarsi del paradigma di un welfare comunitario. Dunque
una via per cui tutte le distorsioni menzionate risultano di fatto ignorate,
mentre i rischi connessi e la soluzione, continuano a scandire una vita quotidiana di compromessi con le personali aspirazioni e un adattamento ad una
«condizione umana stagnante», nel lavoro così come nelle altre sfere di vita.
Lo stallo egualitario che ne deriva appare quasi una rimozione sistematica
della necessità di rifondare le politiche sociali, in aderenza alle scelte ed
aspirazioni dei soggetti reali, prefigurando scenari che non tradiscano quelle
attese di autonomia e libertà in una dissonanza culturale e sociale per cui a
pagarne i costi sono, senza sorpresa, i soggetti più deboli.
«Le donne italiane lavorano poco perché si stancano, comprimono il
34
Come mostra Kristine Park (2005) se la prima motivazione a non avere figli, da parte
delle donne, risulta essere la libertà personale, la seconda è legata al grado di soddisfazione
per la vita coniugale.
35
Nostra traduzione.
40
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
tempo libero ed il sonno per poter lavorare. Non ce la fanno a fare una vita
lavorativa della durata media europea. La conciliazione, quindi, diventa un
punto assolutamente ancora più dolente che altrove […] proprio perché si
può incidere solo garantendo la conciliazione, per tutti e due i generi; perché
naturalmente noi siamo anche un Paese in cui i padri quando hanno un figlio
lavorano di più e non di meno, perché ovviamente le esigenze di reddito
diventano prevalenti. La conciliazione, allora, per tutti e due i generi è un
modo per migliorare la qualità della vita di tutti e per muoversi in questo
progetto di nuovo che è uno degli aspetti fondativi dell’Europa oggi, che è il
progetto di social quality, cioè la qualità della vita non solo a livello soggettivo,
individuale, rilevata nelle inchieste di opinione, ma quella vera, quella societaria» (Trifiletti, 2007, p. 108). Se l’osservazione si sposta dal livello macro
dell’elaborazione teorica dei significati della conciliazione, alle pratiche sessuate di vita quotidiana, appare più chiaro l’affanno delle donne e la sfasatura
tra i bisogni e le risorse disponibili, tra le aspettative e le opportunità. Detto
altrimenti, ciò che appare chiaro è che il familismo, a conti fatti, appare una
scelta quasi ideologica per il contenimento di minoranze sociali entro modelli
di ruolo funzionali ad un sistema sociale che non punta né sul cambiamento
né sullo sviluppo, inteso, quest’ultimo, nel senso più ampio possibile. Resta
da valutare quanto questa rappresenti la via italiana allo sviluppo in una
combinazione tra welfare informale ed economia informale (Alesina, Ichino,
2009), quanto di fatto coincida con uno sviluppo oltre lo steccato del Pil e
verso il benessere delle persone (Stiglitz, Sen, Fitoussi, 2009), quanto, infine,
risponda alla libera scelta delle donne e quanto la garantisca.
Ciò che il sistema forzatamente privato e privatistico della conciliazione
ha sino ad oggi dimostrato è che questa non funziona e non ha effetti sociali
adeguati sul piano dell’equilibrio tra le sfere di vita e nelle relazioni tra i generi.
Di fatti, ciò che manca è un’azione di conciliazione che coinvolga i sistemi
locali e nazionali, che consideri l’interazione tra attori diversi, sgravando i
singoli soggetti da sforzi conciliativi, i quali, siffatti, sortiscono solo effetti parziali, non vanno a cumulare un patrimonio di risorse collettive, con il risultato
di una debole efficacia rispetto all’obiettivo della parità tra i sessi, lasciando
inalterato il sistema delle disuguaglianze e i singoli oppressi dal compito di
agire individualmente nella ricerca dell’equilibrio tra vita e lavoro.
I.5. Riflessioni
Alcune riflessioni possono essere fatte sul cammino delle donne fin qui
tracciato, ma molto ancora è da maturare sul peso quotidiano di un privato
LA CONCILIAZIONE
41
così oneroso che le “isola” rendendole “invisibili” politicamente e socialmente. È nelle dinamiche del privato che gli stereotipi contro le donne ancora
trovano terreno fertile di riproduzione, frapponendosi ad ostacolo di una
più equilibrata partecipazione pubblica in tutti i settori della vita sociale e
lavorativa. In certo senso, l’affermazione della donna lavoratrice come simbolo dell’emancipazione femminile, ha prodotto principalmente l’effetto di
estendere la logica mercantile al privato, senza necessariamente intaccare le
gerarchie delle disuguaglianze di genere.
Il primato del paradigma lavorativo e l’estendersi dello stesso nella cultura della differenza e delle donne, ha posto in subordinazione una riflessione altrettanto profonda ed estesa sulla divisione sociale del lavoro nel
sempre più chiuso mondo del privato. «La divisione del lavoro salariato
si è costruita gettando nell’ombra tutte le forme di lavoro non di mercato
[…] si è costruita anche per […] incorporazione della divisione pubblico/
privato» (Supiot, 2003, p. 64), ma ora che il contratto non spiega il lavoro
svolto (perché non c’è, perché non corrisponde alla prestazione lavorativa,
perché esula da esso, perché passa attraverso altre forme di regolazione del
rapporto di lavoro, perché i tempi del contratto non sono sovrapponibili
a quelli della prestazione lavorativa), la divisione pubblico/privato perde
senso. La condizione lavorativa è un continuum dall’occupazione alla non
occupazione e, in entrambi i casi, le dimensioni del pubblico e del privato
sono contemporaneamente chiamate in gioco, mentre il paradigma della
separazione continua a sopravvivere come punto di riferimento culturale
dei maschi e come contraddizione per le donne.
Capitolo secondo
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE:
I LIMITI DELLA FEMMINILIZZAZIONE
II.1. Donne e uomini... concilianti
A distanza di oltre un decennio dall’approvazione della legge n. 53/2000,
ancorché non priva di limiti né debolezze, appare sino ad oggi un atto isolato
di un tentativo di introduzione ex lege del principio di redistribuzione dei
carichi di cura genitoriali (e non solo), declinato altresì come un diritto da
esercitare piuttosto che un dovere cui adempiere secondo nascita e sesso.
Nel testo di legge questo è contemplato in una visione del tempo personale
non disgiunto dalle altre sfere di vita, ma anzi necessitante di armonia tra le
molteplici dimensioni dalla cura, alla genitorialità, alla formazione, alla relazionalità e via dicendo. I limiti e la debolezza di impatto di questo dispositivo
di legge sono ancor oggi evidenti: ben lungi dal colmare le disparità, esso fa
i conti con una pratica del tempo individuale sempre più dispari, per genere,
per posizione lavorativa e grado di stabilità della stessa.
Il doppio standard di obbligatorietà per le madri e opzionabilità per i
padri, che regola la fruizione dei congedi parentali, mentre da una parte è
un intervento nella direzione del cambiamento, dall’altra si conferma debole
nella sua efficacia, andando a confermare gli squilibri preesistenti. Su ciò
gravando anche lo scarso investimento di risorse finanziarie che avrebbero
dovuto rendere prassi quanto sancito in via di principio come un diritto.
Nel lungo termine, un solo atto legislativo si è rivelato inefficace in relazione
al suo obiettivo più ampio, essendo di fatti rimasto l’ultimo investimento,
in senso lato, verso la parità anche dell’uso del tempo personale e della
opportunità di giocare il proprio ruolo. Per il resto si è andato verificando
una sorta di restringimento della concezione della conciliazione ed in esso
un nascondimento della parità di genere come valore in sé.
44
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Molti sono i paradossi alla base di tale nascondimento. Il primo è quello
di una sfasatura tra l’impianto legislativo in materia di parità e l’arretratezza delle condizioni ad essa commisurata. Un cleavage che non può essere
colmato legiferando, ma che al contempo abbisogna di misure adeguate di
sostegno e di implementazione dei principi la cui enunciazione, pur non
sufficiente, rimane necessaria. Resta un’ambiguità di fondo sull’enunciazione
stessa dei principi che fanno da sfondo alle contraddizioni sul piano della
realtà. La marginalità della conciliazione nel dibattito giuridico è secondo
Gottardi (2010) un tratto distintivo del nostro ordinamento, discostatosi così
da quello europeo che assegna a questo tema un ruolo strategico e centrale1. La conciliazione non acquisisce dunque rilevanza in sé, ma permane un
elemento accessorio di una condizione tale che vede proprio nelle relazioni
tra i sessi, l’affanno di una società gender resistant.
Le radici delle resistenze al mutamento risiedono nelle divisioni territoriali, nei problemi strutturali del mercato, dell’economia, e, più di tutti,
nel paradigma culturale dominante del familismo, non proprio moralmente
equo2. Un insieme di fattori che hanno alimentato una condizione di fatto
più squilibrata che altrove e meno “sensibile” allo sviluppo di una strategia
di riequilibrio delle posizioni sociali di genere. Se da una parte è il familismo
che definitivamente ascrive la conciliazione tra i suoi fondamenti, dall’altra
le madri sono principalmente soggetti “riproduttivi” più che produttivamente attivi. Un’ambivalenza radicatasi in una società che porta le madri agli
altari di una inversione demografica in favore dell’innalzamento di uno dei
più bassi tassi di natalità, mentre, negando di fatto un pieno diritto al lavoro, ne fa pagare alle stesse i costi sociali (ed economici), dimezzandone
la cittadinanza. In Italia le madri sono fortemente penalizzate in termini di
partecipazione al mercato del lavoro3, nonostante che l’enfasi sulla maternità
1
Così testualmente scrive l’autrice: «..iscritto a pieno titolo solo nelle indagini e nelle analisi
dedicate alla tutela delle lavoratrici e alle politiche di pari opportunità, soprattutto sul versante
delle azioni positive. Questo approccio è caratteristica peculiare del nostro ordinamento. Si
può rilevare, infatti, un andamento diacronico a seconda che lo si guardi dalla prospettiva
europea, dove risulta centrale, o da quella nazionale, dove appare sempre più relegato a ruolo
di comprimario di uno stato sociale in via di smantellamento» (Gottardi, 2010, p. 23).
2
Tratto distintivo del welfare dei paesi mediterranei tra cui l’Italia è il fondarsi su due
elementi costitutivi che sono l’adattamento e la solidarietà familiare (Naldini, 2003).
3
Una delle pratiche illegali che più colpisce le donne sul mercato del lavoro italiano è
quella delle cosiddette dimissioni in bianco. Un fenomeno diffuso che ha trovato in qualche
modo nuova rilegittimazione con l’abolizione dell’unico provvedimento attuato dal Governo
Prodi il 17 ottobre del 2007 (l. 188) e cancellato dal successivo, con la promulgazione della
legge 133 del 6 agosto 2008. La vacanza di provvedimenti è terreno fertile di un fenomeno
siffatto che prolifera nell’informalità e nella discrezionalità di chi detiene la posizione di forza
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
45
sia posta funzionalmente ad un sempre più marginale sistema di welfare oltre
che ad esigenze economiche di ricambio generazionale per il sostenimento
del sistema economico e della spesa pubblica, appesantiti da un invecchiamento della popolazione che pone molti interrogativi sul loro futuro. Nello
stesso tempo, proprio quei figli che “mancano” hanno oggi meno speranze
di realizzare se stessi attraverso lo studio, la formazione, il lavoro, la casa e
la famiglia, di quante non ne abbiano avute i loro padri e madri, ma, oramai
al tornello del ricambio generazionale, dovremmo dire dei loro nonni e
nonne. Sembrano riprodursi due piani contraddittori: primo fra tutti quello
di un familismo propagandato che non poggia su misure atte ad innescare
meccanismi virtuosi tali da produrre ricadute su un contesto sostenibile e
sostenuto da un pieno diritto di cittadinanza degli uomini e delle donne. La
bassa occupazione femminile, la denatalità, la diseguaglianza tra i sessi, sono
effetti che chiamano in causa una responsabilità politica ad attuare misure
adeguate perché divengano obiettivi da perseguire e raggiungibili. Diversamente, sul piano delle pratiche, osserviamo che scelte di alleggerimento dello
stato sociale, quando non di «smantellamento» dello stesso (Gottardi, 2010),
continuano a sostenere più che un diritto di cittadinanza, un’aspirazione di
assistenza che allontana le fasce più deboli da una condizione di pari partecipazione e libertà di scelta. Di fronte al progressivo divaricarsi delle distanze
sociali per età e per sesso, emergono risposte che chiamano in causa le responsabilità individuali4, ma non altrettanto la struttura delle diseguaglianze
nel rapporto di lavoro. Tali pratiche sono alla base di comportamenti discriminanti che hanno
a che fare con una percezione delle donne come tutte potenziali madri e dunque gravanti
sul costo del lavoro, indesiderabili e temibili a fini produttivi. Come osserva la Consigliera
Nazionale di Parità, si tratta di un fenomeno che vive oggi una recrudescenza e che si presenta con tutta la sua urgenza: «Si sottolinea inoltre che per quanto riguarda il Rapporto del
monitoraggio delle Convalide dimissioni delle lavoratrici madri/lavoratori dimissionari ex art.
55 dlgs 151/01 per l’anno 2010 [...] i dati in generale ci dicono che le dimissioni convalidate
sono state pari a 19.017 e che pertanto il dato è in crescita rispetto al 2009 nel corso del
quale lo stesso era pari a 17.676. Dunque in generale, considerando anche le motivazioni
delle dimissioni che dal Rapporto si possono rilevare, i dati sopra riportati che denunciano
una crescita del peggioramento dei reati e dunque della condizione della lavoratrice madre, la
tutela e la promozione di strumenti di politiche attive è una priorità sulla quale intervenire a
supporto e sostegno dell’occupabilità femminile per contrastare le discriminazioni e sostenere
la permanenza delle donne nel mercato del lavoro» (Instant book in progress dalla parte delle
donne e del lavoro: per un 2011 di integrazione e sviluppo delle nostre energie e del bene comune,
21/02/2011, www.lavoro.gov.it).
4
Nei due documenti ministeriali programmatici per l’occupazione giovanile e femminile il
concetto di responsabilità individuale è a più riprese ribadito. Per quanto riguarda i giovani
si ricorda che i «processi di cambiamento non possono mai prescindere dalle responsabilità
e dall’impegno personali» rispetto a cui le eventuali riforme rappresentano uno stimolo.
46
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
sociali che ne descrive le condizioni di partenza. Le modificazioni di ordine
strutturale necessariamente hanno come focus la dimensione collettiva nelle
sue diverse e diseguali articolazioni, piuttosto che quella individuale, pena il
limitarsi a sancire le condizioni fattuali.
Nel nostro paese l’essere madri è costituzionalmente un impedimento
ad una piena partecipazione lavorativa e sociale, proporzionalmente e in
funzione della quantità e qualità delle risorse di cui si dispone. La penalizzazione delle donne-madri, ma non dei padri, come evidenziato da più parti5,
scaturisce da una combinazione di nascita dei figli e disponibilità/indisponibilità di reti di aiuto, nella quasi totalità primarie, composte da familiari e
soprattutto dai nonni. A cominciare dalle reti di cura, poco è avvenuto nel
nostro paese da quando la famiglia allargata rappresentava un’organizzazione
flessibile, basata sulla condivisione, tutta in linea femminile, della cura della
prole e della famiglia. La famiglia, o meglio, le famiglie contemporanee si
appoggiano più spesso su un’organizzazione informale basata su un mix di
reti familiari e servizi dedicati all’infanzia, oppure solamente sui secondi,
laddove disponibili. In entrambi i casi cresce sia la complessità sia la rigidità dell’organizzazione: la necessità di pianificare, armonizzare e combinare
chiama in causa nel suo complesso maggiori competenze, sforzi e mobilità
per liberare tempo per ulteriore lavoro di cura o tempo-lavoro. Tutto a carico, prevalentemente, delle donne, mentre gli uomini mantengono un ruolo di
supporto, siano essi padri siano essi i nonni, indispensabile al mantenimento
della posizione lavorativa (Istat, 2008; 2010c).
La sopravvivenza lavorativa delle madri è proporzionale al loro grado di
istruzione ma inversamente proporzionale alla loro età (Casadio, Lo Conte,
La responsabilità individuale è chiamata in causa sia nella individuazione del «patto intergenerazionale» quale risposta, principalmente offerta dalle donne, ai bisogni delle famiglie,
sia nel modo in cui si auspica un «rilancio delle misure di conciliazione». Si afferma infatti
che l’ammissibilità dei progetti di conciliazione finanziabili debbano sì passare attraverso un
accordo, ma questo non necessariamente debba essere «di natura sindacale e collettiva ma
possa anche riguardare, almeno nelle imprese di minori dimensioni, direttamente lavoratrice
e datore di lavoro – continua aggiungendo – È forse anzi questo l’aspetto che maggiormente
ha inciso sulla non soddisfacente esperienza dei primi dieci anni di applicazione dell’articolo
9 della legge 8 marzo 2000, n. 53». La condizione sociale delle donne diventa dunque responsabilità delle donne in una visione più che politica autopoietica difficilmente sostenibile
in considerazione delle sperequazioni di forza e di rappresentanza che si vanno prefigurando
nella realtà globale e sui mercati del lavoro.
5
«Mentre negli altri paesi europei l’occupazione femminile aumenta al crescere dell’età
dei figli, con un tipico andamento a «U» (cioè con una rapida discesa nei tre anni immediatamente successivi alla nascita del figlio e un successivo graduale ritorno al lavoro), in Italia
continua a diminuire» (Cnel, 2010, p. 13).
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
47
Neri, 2008). Quest’ultimo aspetto richiede una particolare riflessione su come
il modello di “donna in carriera” si configuri in una manifesta limitazione
nelle opportunità di scelta. Quella condizione di conflitto di ruolo additata
dalla Badinter (2010) come oramai connotante l’epoca presente, ha radici
profonde nella struttura socio-economico-produttiva del nostro paese.
Si descrive un quadro per cui la presenza delle donne è la risultante di
una selezione operata da una serie di fattori favorevoli o sfavorevoli. Non
ultima la collaborazione dei partner, debolmente incentivata per legge e per
gli strumenti messi a disposizione dalle norme sui congedi da lavoro, rimane
residuale fenomeno, appannaggio di fasce ristrette di popolazione che, ancora
una volta, presentano gradi di istruzione maggiormente elevati. «Le donne
con un titolo di studio più elevato tendono [...] a conciliare meglio lavoro e
famiglia: sono in grado di mobilitare più risorse, beni e servizi di mercato e
tempo dei familiari (inclusi i partner che collaborano di più nelle coppie più
istruite), e di utilizzarle in maniera più efficiente e razionale» (Cnel, 2010, p.
13). Se si guarda alle fasce più istruite come quelle in cui i mutamenti verso
la condivisione si fanno precocemente più evidenti, è possibile egualmente
osservare che sono comunque le dotazioni singole a colmare le maglie larghe
della rete sociale, della mancanza di armonia e continuità tra la vita e il lavoro.
Livelli di istruzione, disponibilità di reddito e di reti di supporto familiare:
questi i principali fattori su cui si basa un’artigianale conciliazione, che scommette su un «patto intergenerazionale»6, il quale nulla di diverso continua ad
essere da una insufficienza di risorse pubbliche e universalistiche, piuttosto la
presa d’atto del ricorso, laddove possibile, alle risorse private e individuali che
permettono la singola e personale sopravvivenza. Soprattutto il su menzionato «patto intergenerazionale» chiama in causa le donne ed esclusivamente ad
esse si rivolge, sancisce un loro bisogno di conciliazione ma non altrettanto
quello di realizzare un’aspirazione lavorativa in percorsi paritari.
Tutto ciò procede di concerto con una dominante visione allocativa delle
risorse che pone in secondo piano, ma più spesso trascura, la congruenza
con la qualità delle stesse, nel senso, tra l’altro di una rispondenza alle istanze
dei soggetti sul territorio. È qui, in questa assenza, che continua a sostenersi
manifestamente o implicitamente un ruolo femminile sempre più oberato
ed un ruolo maschile che, al più, esprime un’opzione persino rispetto alla
genitorialità, la propria. Il ruolo di cura dei padri non ha acquisito sino ad
oggi una propria autonomia, mentre quello femminile risulta segnato come
6
Tale patto viene testualmente menzionato nel già citato documento ministeriale programmatico per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Consultabile nella versione
integrale sui siti del ministero del Lavoro e Politiche sociali e Pari Opportunità.
48
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
un destino già scritto. La crescita dello spazio della cura, come spazio della
condivisione, non può prescindere da un ordine sociale di genere in cui i
soggetti di sesso diverso siano intercambiabili, complementari e, in quanto
tali, ambedue necessari in egual misura. Non si tratta di assimilare il ruolo
paterno a quello materno e, più in generale, il ruolo femminile a quello maschile, bensì di liberare risorse perché lo svantaggio sociale non sia in certo
modo acquisito per nascita, così come il vantaggio, in un migliore equilibrio
esistenziale in cui le sfere di vita acquistano la stessa rilevanza e opportunità
di presenza e partecipazione da parte degli individui.
Il sancire nuovi diritti ispirati alla parità produce spesso un ampliamento
delle disuguaglianze sociali. Questo a tutti i livelli, ma soprattutto laddove ci
sono in gioco ruoli sessuali e sfera privata. Si consideri ad esempio proprio
il congedo di paternità, sancito sulla carta dalla legge 53 del 2000 che pure
afferma un pari diritto dei padri (anche se non tutti e prevalentemente i
dipendenti, nonostante un ampliamento recente del tipo di destinatari), a
godere di un periodo di congedo per prendersi cura dei neonati figli/e. In
assenza di misure di accompagnamento che agiscano sul retroterra culturale
e siano in grado di mettere in discussione l’assunto per cui il benessere del
neonato è legato ad una presenza quasi esclusiva della madre, a tutt’oggi, la legge risulta essere poco efficace nella logica di una redistribuzione
del carico del lavoro di cura che la nascita di un figlio comporta in più.
Ad avvantaggiarsene saranno quanti, più aperti ad un pensiero «materno»
(Ruddick, 1989) in termini di socializzazione, non vivranno il congedo di
paternità come un rischio di stigmatizzazione sociale, bensì come un’opportunità in più per affermare appieno il proprio ruolo. Le ricerche sin qui
condotte, pur non essendo numerose, mettono in luce che sono gli uomini
con un impiego stabile e un profilo mediamente qualificato a mostrare una
relativa maggiore propensione ad esercitare attivamente la cura paterna. Il
bilanciamento da parte di questi padri avviene attraverso un minore investimento nella carriera. Sono coloro che non riducono il loro percorso ad
una dimensione, quella lavorativa, a porsi il problema della conciliazione e
di liberare tempo per la cura. Tuttavia, ciò che appare evidente è che i fruitori di congedi sono soggetti pre-socializzati ai valori della parità di genere
e della presenza accudente del padre (Zanatta, 2007; Crosta, 2008)7. Detto
7
Si tratta di soggetti che sperimentano nuove dimensioni dell’agire maschile anche e
soprattutto se confrontati con l’«eredità pesante e ingombrante» (Deriu, 2005) ricevuta dai
loro padri: la lentezza dei mutamenti è da mettersi in relazione, tra l’altro, con la necessità
di risolvere la continuità/discontinuità con il ruolo paterno interiorizzato, da cui dipende la
trasmissione alle future generazioni.
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
49
altrimenti i congedi si rivelano una opportunità per coloro che mostrano nel
proprio background una sensibilità pregressa, mentre non altrettanto risultano strumenti efficaci nell’intaccare le fondamenta del modello asimmetrico
delle relazioni tra donne e uomini. Nonostante ciò, anche in presenza di
dinamiche di condivisione, le relazioni di coppia mostrano una persistente
asimmetria nello svolgimento delle attività domestiche (Istat, 2007), a cui
collaborano di più i padri e, tra questi, quelli che vivono in coppia con una
donna occupata (Istat, 2010c).
Sin quando il ruolo paterno non acquisirà lo stesso stato di necessità
del ruolo materno (la mamma è sempre la mamma!), si potrà continuare a
teorizzare un patto intergenerazionale che si basi sullo spirito devoto delle
donne, ma che poco o nulla chiede agli uomini. Si tratta tuttavia di una
visione miope, giacché non tiene conto di quanto questo ricada sulla qualità
di vita di donne e uomini, sulla stabilità dei percorsi di vita e delle stesse
famiglie, tanto tenute in considerazione nel pubblico dibattito tutto italiano,
ma non altrettanto nei provvedimenti attuati. Rimane molto da fare proprio
sul piano del riconoscimento sociale del ruolo del padre e partner accudente,
che appare ancora oggi un terreno incolto e, al tempo stesso, risulterebbe il
reale sostegno ai pur lievi mutamenti di riduzione delle asimmetrie all’interno
delle coppie (Istat, 2010c)8. Mentre le donne in coppia vanno riducendo le
attività di lavoro domestico per liberare tempo di cura per i figli, gli uomini
non aumentano significativamente il contributo al lavoro familiare9.
8
Il contributo dei padri italiani allo svolgimento del lavoro domestico e familiare, molto
al di sotto di quello dei padri europei, è soprattutto discontinuo e occasionale. Anche per
quanto riguarda i congedi, quelli dei padri sono più brevi e frammentati di quelli delle madri
che, oltre che essere la quasi totalità, si distinguono per il protrarsi di tempi più lunghi.
9
«Negli ultimi sei anni, prosegue la strategia di contenimento del lavoro familiare da parte
delle donne. Ad esempio, confrontando i collettivi di donne alle due date di indagine, la
durata del lavoro familiare cala di 15 minuti, ma tale tendenza non riguarda tutte le donne:
essa si concentra sulle madri ed in particolare sulle madri lavoratrici, per le quali il tempo di
lavoro familiare scende da 5h23’ a 5h09’. Anche negli ultimi sei anni, la riduzione del tempo
dedicato al lavoro familiare si associa ad una redistribuzione delle attività che ricadono al
suo interno: cala di 14’ il tempo delle madri per il lavoro domestico (17’ per le occupate) e
cresce, anche se lievemente, il tempo per la cura dei bambini fino a 13 anni [...]. Nello stesso
periodo è stabile il tempo dedicato dagli uomini al lavoro familiare (1h43’), mentre diminuisce
il numero di quanti, in un giorno medio, svolgono almeno un’attività di lavoro familiare (dal
77,2% al 75,9%). Solo in presenza di figli e di una partner occupata si evidenzia un incremento
di 9’ (da 1h55’ a 2h04’) del tempo di lavoro familiare, che riguarda soprattutto il lavoro di
cura dei bambini fino a 13 anni (+6’), e a cui corrisponde un aumento di circa due punti
percentuali anche nella frequenza di partecipazione. È interessante inoltre sottolineare che
cresce il coinvolgimento nel lavoro domestico dei padri con partner occupata, anche se ciò
non si traduce in un aumento del tempo dedicato» (Istat, 2010c).
50
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Attraverso le diverse analisi sino ad oggi condotte, appare emergere
una ipotesi trasversale, di relazione inversamente proporzionale tra investimento lavorativo e investimento nella cura da parte degli uomini. Tale
ipotesi conduce direttamente verso quello che è il riconoscimento del ruolo
pubblico maschile e di padre. Se il contesto sociale diviene supportante
verso un ruolo paterno-accudente (come per esempio avviene nei paesi del
Nord Europa), maggiori sono le opportunità di riduzione delle asimmetrie
di genere all’interno della coppia. Se è vero che tra i compiti familiari gli
uomini tendono a preferire le attività «che conservano una dimensione
“pubblica”» (Ruspini, 2008 in Zajczyk, Ruspini, p. 106)10, un contesto sociale che riconosca il ruolo paterno parimenti utile e necessario, ha maggiori chance di agire più profondamente, alle radici di quegli stereotipi che,
di fatto, ostacolano il cambiamento e congelano le relazioni di genere in
un’asimmetria invalicabile. Proprio la scuola in questo può avere un ruolo
molto importante, non solo per la sua funzione formativa delle più giovani
generazioni, ma anche ricostituendo le basi di una diversa rete sociale e
rinunciando ad intessere un dialogo con le famiglie che passi quasi esclusivamente attraverso le madri. Il mondo della scuola italiana non solo parla al
femminile per il prevalere di una componente di addette donne, ma privilegia
una relazione con le madri, in una prassi quotidiana di comunicazioni che
indirizzano ad esse, in misura preponderante, la responsabilità di seguire
la vita scolastica dei figli e delle figlie. A partire dall’osservazione di tali
prassi, si possono comprendere la quantità e qualità delle difficoltà che si
frappongono al raggiungimento di una meta di mutamento. Al di là della
retorica, l’intercambiabilità dei genitori è un’idea che non trova riscontro
nelle pratiche quotidiane, al contrario, perlopiù incentrate su una divisione
sessuata del lavoro genitoriale.
Non lo si trova nella scuola, nei contenuti degli insegnamenti, come
nelle pratiche di relazione. Le stesse operatrici scolastiche (il femminile è
in questo caso d’obbligo) nelle diverse mansioni necessitano di strumenti
di sensibilizzazione su questi aspetti, che, senza entrare nel contenuto delle trasmissioni educativo-cognitive ai bambini e alle bambine, tendono a
legittimare la presenza delle madri ma non altrettanto quella dei padri, i
10
I padri che collaborano al lavoro domestico ricoprono il ruolo di helpers delle madri afferma
Ruspini: «La collaborazione maschile parte dai compiti tradizionalmente svolti dagli uomini
come le piccole riparazioni [....] e le attività fisicamente più impegnative […] Osserviamo
come il cucinare e l’occupazione della cucina in generale costituiscano un passo successivo
verso la collaborazione tra i partner. Gli ultimi passaggi verso un impegno paritario sembrano quelli della polvere, della pulizia del bagno e soprattutto dello stirare» (Ruspini, 2008 in
Ruspini, Zajczyk, p. 106).
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
51
quali spesso appaiono più intrusi che responsabili, una presenza comunque
tutt’altro che scontata. L’idea di base su cui si stabilisce una siffatta relazione marcatamente sessuata tra le due principali agenzie di socializzazione
(famiglia e scuola) è riconducibile ad un maggior impegno lavorativo da
parte dei padri e maggior tempo “libero” delle madri da dedicare alla cura
dei figli e alla loro vita scolastica.
Un caso paradigmatico è rappresentato dalla diffusa pratica degli inserimenti scolastici. Il cosiddetto inserimento dei bambini e delle bambine che
fanno il loro ingresso nei nidi d’infanzia (pubblici) e nelle scuole di infanzia,
per cui si richiede siano accompagnati per il primo periodo (peraltro di incerta durata in termini di giorni e di ore) da un genitore che, nella quasi totalità
dei casi, è la madre. Raramente sono i padri a farsi carico dell’inserimento,
che diventa nella pratica della consuetudine una questione delle madri con i
loro figli e figlie, una precipua gestione del distacco dalla figura materna. Ciò
accade non solo con continuità di esercizio del ruolo di principale accudente,
ma anche perché l’inserimento non dà diritto ad alcun permesso da lavoro;
dunque la madre occupata, si trova spesso nella condizione di negoziare
la propria assenza ricorrendo a permessi da lavoro, giorni di ferie, quando
non ad una trattativa personale col proprio datore di lavoro. In ragione dei
numeri e della ripartizione per tipologie di occupate e non, sono le donne
che più spesso hanno maggiore flessibilità, sia perché più frequentemente
non lavorano, sia perché un uomo difficilmente negozierebbe credibilmente
ore di permesso a causa dell’inserimento scolastico dei figli.
Peraltro, mentre questa pratica che si è andata consolidando nel sistema
scolastico italiano negli ultimi anni, necessiterebbe ad oggi di un bilancio e
di una riflessione sui suoi benefici e costi, rimane invece un limbo sia nella
sua realizzazione, sia pure dal punto di vista degli studi sul tema. Pur essendo
marginale rispetto al carico di cura e contestualmente circoscritto, si tratta di
una modalità di ingresso che ha una grande rilevanza concreta in termini di
tempo e simbolica. Per il fatto di essere messa in atto proprio nel momento
maggiormente critico della relazione con i figli, in termini di separazione,
ma anche di rientro spesso alla propria occupazione11, essa appare un forte
richiamo alla responsabilità materna in una modalità che passa sopra le
norme vigenti (possibilità di chiedere permessi ad hoc), si afferma come una
priorità e una condizione di accesso ai servizi per l’infanzia, in una modalità
non opzionale ma uguale per tutti ed inoltre privilegiando la direzione di
dialogo madre-istituzione. A fondamento della pratica di ingresso attraverso
11
Per esempio questo è un ambito di intervento da ricomprendere tra le misure di accompagnamento al rientro dal congedo per maternità.
52
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
un periodo di inserimento, vi è la convinzione diffusa che questo procuri un
beneficio per i bambini con un passaggio “meno traumatico” dalla famiglia al
sistema dei servizi o da un sistema scolastico all’altro (per esempio dall’asilo
nido alla scuola d’infanzia12). Un beneficio, tuttavia, che rimane da valutare
alla luce anche delle contraddizioni che questa pratica introduce, a cominciare dall’idea che l’ingresso a scuola debba o possa essere traumatico, che
debba avvenire non riconoscendo autonomia al soggetto da inserire, ma al
contrario, cogliendolo proprio nella sua dipendenza. Dunque l’inserimento
diventa una sorta di “rito di consegna” del minore da un ruolo accudente
all’altro, con la rassicurazione che il distacco dalla madre sia solo parziale. In un paese come l’Italia, in cui il retroterra culturale di resistenza alla
cura extrafamiliare è ancora oggi diffuso e radicato, per tutte le ragioni sin
qui considerate, vi è da domandarsi se il costo pagato dalle madri non sia
superiore al beneficio derivante dall’accesso al sistema scolastico e di cura
della prima infanzia, subordinato rigidamente ad una pratica informale, con
elevato grado di incertezza e di indeterminatezza, che espone le donne ad
una vulnerabilità lavorativa per la richiesta di tempo sottratto a quello di
lavoro e/o eventualmente concesso o comunque da concedersi a discrezione
dei datori di lavoro. Non è da escludersi che anche questo diventi piuttosto
un fattore di scoraggiamento che va ad aggiungersi alle difficoltà di accesso
ai servizi per l’infanzia, specie quelli per la prima infanzia (offerta scarsa, liste
di attesa, ecc.). Certamente, sul piano delle pratiche di conciliazione questa
è, a tutt’oggi, una zona d’ombra, un campo inesplorato che meriterebbe
di essere approfondito per contribuire al miglioramento della relazione tra
istituzioni di cura e famiglia, anche nel senso di un maggiore coinvolgimento
dei genitori copresenti e intercambiabili.
Bisogna riconoscere alla legge 53 un atto coraggioso, soprattutto nel
panorama del mammismo italiano, nell’attaccare indirettamente non tanto
la logica di ripartizione sessuata dei ruoli, quanto l’idea che gli uomini possano essere legittimati nel loro ruolo anche al di fuori del mondo del lavoro,
facendo prevalere alternativamente, come le donne, il ruolo di lavoratori
a quello di genitori. L’introduzione di tale dispositivo non è di per sé una
risorsa; la possibilità che lo diventi passa attraverso l’individuazione di azioni
positive dirette ad affrontare ed indebolire gli stereotipi culturali su cui si
basano le pratiche di maternità e paternità, anche relativamente all’utilizzo
dei congedi. Il congedo, infatti, rende socialmente visibile il ruolo e la responsabilità genitoriale, pertanto anche gli uomini più propensi ad utilizzarlo si
12
Per chi fruisce prima del nido e poi della scuola di infanzia, il rito dell’inserimento si
ripete; ovviamente è richiesto per ogni figlio/a che entra nel sistema scolastico.
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
53
trovano ad affrontare l’interruzione di una pratica di genere che fino a tempi
recentissimi li ha esentati del tutto dal lasciare, anche temporaneamente, il
lavoro per ragioni legate alla cura della prole. Tuttavia, proprio nell’attuazione delle azioni positive e soprattutto nelle lungaggini tra la presentazione
dei progetti, la loro approvazione e dunque realizzazione, risiede una delle
principali difficoltà di attuazione di quanto previsto dall’impianto normativo,
in termini di modificazione delle pratiche maschili e femminili, così come di
quelle lavorative. Scrive Semenza: «I congedi parentali, in particolare quelli
dei padri, sembrano funzionare solo quando sono delle misure standardizzate
e fruibili da tutti in modo uguale, cioè impostate dallo Stato e socialmente
accettate. In questo caso i rischi di marginalizzazione nel lavoro sono visti
come molto ridotti» (2004, p. 104). Al di là del dettato normativo, di fronte
al rischio di stigmatizzazione e di introdurre nuove vulnerabilità individuali,
falliscono gli intenti riequilibrativi degli stessi interventi conciliativi. È ancora
in divenire la costruzione di una pratica di genere che diventi un punto di
riferimento al maschile, così che quanti desiderino ricorrere al congedo parentale non rappresentino una eccezione ma piuttosto una tendenza, benché
nuova. Probabilmente più che della «standardizzazione» di cui parla Semenza
(2004) vi è bisogno di consolidare una pratica al maschile13 affinché il congedo parentale divenga socialmente, culturalmente conciliabile con l’immagine
ed il ruolo della mascolinità, ma soprattutto lo divenga la condivisione del
lavoro di cura. Di fatti, mentre la standardizzazione finisce per normalizzare
le differenze rivolgendosi a soggetti neutri, puntare sulla fruibilità significa
contemplare l’accessibilità di queste ultime, fino ad attribuire loro valore in
quanto necessarie anche nel lavoro di cura14. Le stesse politiche di conci-
13
A tale proposito non manca chi come la CGIL, oramai da diversi anni, sostiene la
battaglia a favore dell’obbligatorietà per il congedo di paternità al fine di accelerare il «cambiamento culturale che coinvolge si gli uomini ma anche le donne troppo spesso incapaci
di delegare il lavoro di cura» (Querzé R., Papà a casa solo 4 su 100, «Corriere della Sera», 29
gennaio 2008). Rispetto alla capacità/incapacità delle donne essa è da mettersi in relazione
non certo alle abilità personali ma all’estrazione sociale, alla posizione lavorativa e al suo
grado di stabilità e sicurezza, reddito, livello di istruzione, insomma tutti quei fattori che contribuiscono a consolidare lo status individuale e dunque ad acquisire potere negoziale anche
dentro la relazione di coppia e familiare. Da questo punto di vista l’obbligatorietà rischia di
divenire un boomerang che si rivolge contro le stesse donne che non ne riconoscono il valore
strumentale verso il cambiamento.
14
«La conciliazione si può aiutare con varie misure: sostegni economici, congedi, servizi
all’infanzia, ma se non si scardinano stereotipi e tradizioni radicati circa la distribuzione dei
ruoli, l’obiettivo non si raggiunge. Le politiche di conciliazione sono rilevanti per il tema più
ampio delle pari opportunità, perché una mancata conciliazione preclude le pari opportunità»
(Treu, 2007, p. 96).
54
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
liazione si reggono su una normativa che spesso sembra prescindere dalle
reali relazioni di genere, al punto da risultare difficilmente applicabile nella
stessa misura per tutti (Trifiletti 2003; Semenza, 2004). Stando così le cose,
l’effetto è quello di legittimare disuguaglianze anche nell’effettivo esercizio
di un diritto universalmente formulato ma parzialmente esercitabile nei suoi
fini di flessibilità. Le disuguaglianze che si disegnavano intorno alle rigidità
della contrapposizione tra insider e outsider, si vanno oggi moltiplicando per
tutta quella serie di posizioni che va a coprire il continuum tra occupazione
e disoccupazione.
La conciliazione si regge in larga parte sugli sforzi personali delle donne
ed anche su un “patto” solidale tra le stesse, per cui in alternativa all’utilizzo
di servizi di conciliazione non disponibili sul territorio si ricorre molto più
frequentemente alla rete parentale. Nella fattispecie, alle nonne appartenenti
a quella generazione che ha scelto o la via della cura domestica oppure della
doppia presenza, ma che in ambedue i casi ha sempre liberato risorse di cura
come competenza esclusiva e non condivisa. Il rovescio della medaglia del
tessere costantemente reti sociali, tenute insieme dal vincolo parentale e dunque non istituzionale, è quello di presentare, come titola una pubblicazione
dell’Istat «una sfida quotidiana» (2006). Ciò richiede, infatti, costantemente
ai soggetti implicati una riorganizzazione su base quotidiana e di mediazione
dei bisogni di quanti coinvolti come prestatori/prestatrici di cura insieme a
destinatari/e della stessa. Il tutto in una sorta di inversione dei ruoli per cui
i genitori organizzano e supervisionano, mentre i nonni sussidiariamente si
prestano ad educare i nipoti. Peraltro, è stato evidenziato che il supporto
dei nonni anziani risulta essere decrescente rispetto al numero dei figli da
accudire, per cui passando da uno a più figli comunque aumenta la necessità
di affidarsi ad istituti per l’infanzia (Istat, 2006). Questo si spiega con il carico
incrementale che mal si accompagna all’età elevata dei nonni, ma anche con
il peso organizzativo che comporta l’avere più di un figlio/a.
Il prevalere delle risorse personali e familiari sostiene meglio, tra l’altro,
una preferenza culturale a conciliare privatamente, associata ad una diffusa
sfiducia nei confronti soprattutto dei servizi alla prima infanzia: «Esistono
ancora forti resistenze all’utilizzo dell’asilo nido. Questa resistenza in parte
dipende dalla radicata convinzione che i figli piccoli stanno meglio con le
loro madri in un contesto dove finora le alternative sono state poche e non
sempre di alta qualità» anche se la fiducia varia a secondo del contesto e «i
dati mostrano che nelle regioni dove la qualità e la diversità dell’offerta è alta
[...] c’è una maggiore fiducia dei genitori negli asili e una domanda crescente
di servizi» (Del Boca, 2007, p. 101). Si deve anche aggiungere che l’offerta dei
servizi per l’infanzia, laddove essa esiste, è comunque prevalentemente tarata
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
55
su standard uniformi. La prima criticità riguarda la ridotta flessibilità dell’orario di erogazione del servizio, che è poi l’aspetto maggiormente discrepante
dalla reale esperienza lavorativa e di vita delle persone, in special modo delle
donne, i cui numeri dell’occupazione e disoccupazione confermano, più degli
uomini, essere presenti proprio in quegli impieghi sinteticamente definibili
come non standard15. La preferenza a conciliare privatamente rende l’asilo
nido una seconda scelta, specie di qualità, della cura del bambino. Esiste
senza dubbio una relazione tra risorse economiche investite e qualità del
servizio. A sua volta, il costo per la fruizione dell’asilo-nido tende ad essere
giudicato in misura inversamente proporzionale alla qualità percepita del
servizio offerto, incidendo così significativamente sulla scelta di quelle che
in letteratura sono indicate come le diverse forme di affido (in Italia principalmente riconducibili agli asili nido). Non va taciuto, tuttavia, che in ogni
caso il costo dell’asilo nido, oltre che essere difforme nelle diverse regioni
e aree del paese, risulta più elevato che altrove (Cittadinanza Attiva, 2010),
probabilmente anche per il proliferare piuttosto recente di servizi privati e
che vanno colmare un’annosa lacuna.
I pregiudizi che sostengono la cura intrafamiliare insieme alla diseguale
disponibilità di risorse per l’infanzia sul territorio nazionale16, descrivono
opportunità e percorsi altrettanto diseguali delle donne, delle famiglie e dei
cittadini più piccoli. Lo status lavorativo della donna, il livello reddituale,
insieme a più elevati livelli di istruzione sono fattori che incidono favorevolmente sulla scelta dell’asilo nido (Bripi, Carmignani, Giordano, 2011;
Zollino, 2008). Viceversa, minore è la propensione tra le meno istruite e
soprattutto fra le non lavoratrici. La fuoriuscita della cura dallo spazio famigliare allargato, rappresenta nel nostro paese un’opportunità per pochi,
al punto da costituire una sorta di privilegio. I posti disponibili coprono
una parte ridotta della domanda di cura potenziale ed espressa. Inoltre,
il prevalere della visione della cura come affare di famiglia, meglio delle
madri, si rende evidente nella scelta di non ricorrere al nido nella prima
15
«Indisponibilità di posti e scarsa flessibilità degli orari per l’affido risultano in genere i
principali ostacoli nei paesi europei, mentre i costi assumono rilevanza solo nelle regioni in
cui meno stringente è il razionamento della domanda» (Zollino, 2008, p. 5).
16
La discontinuità sul territorio nazionale è ampiamente confermata anche per quanto
riguarda la fruibilità di servizi per la prima infanzia. Non solo. Anche in merito a ciò non si
è raggiunto l’obiettivo fissato dal Trattato di Lisbona nella misura del 33% del fabbisogno
potenziale per i bambini fino ai 3 anni, ma si rileva una grave e «netta spaccatura tra il
Mezzogiorno e il resto del Paese, con l’Emilia Romagna che raggiunge il 27,7% e la Campania che registra soltanto l’1,8%. Lo stato dei servizi all’infanzia nelle regioni meridionali
rappresenta, inoltre, una delle cause che concorre ad aggravare il basso tasso di natalità e
dell’occupazione femminile» (Cnel, 2010a, p. 7).
56
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
infanzia in una misura che va ben oltre la metà della domanda potenziale.
Dunque, sommando i diversi fattori, continua a prevalere nel nostro paese
un ricorso al nido come residuale, una forzatura per quante “costrette17”
dalla mancanza di aiuti che sono, per definizione, quelli famigliari. L’apertura della rete di cura allo spazio extra familiare sconta nel nostro paese
un grave ritardo rispetto ad altri paesi europei. La persistente preferenza di
un modello di cura familiare-tradizionale gioca in ciò un ruolo significativo
(Istat, 2005; Bripi, Carmignani, Giordano, 2006; Del Boca, Pasqua, 2010).
Come osservano Del Boca e Pasqua (2010) «é ovviamente difficile dire a
priori se l’utilizzo del tempo dei nonni, conveniente perché a costo zero,
abbia anche valenze positive sullo sviluppo dei bambini […]. Quali sono
gli inputs dati dai nonni ai nipoti? Certo cura e amore, ma forse anche un
perpetuarsi di standards tradizionali di ruoli tra i sessi e scarsa socializzazione con altri bambini problematico in un paese in cui i figli unici stanno
diventando la maggioranza» (p. 12). Le ricadute della cura familiare sono
molto poco osservate e problematizzate alla luce di quanto sottolineato. In
altri contesti comincia invece ad essere corposa una letteratura, pur spesso
contraddittoria, che fornisce elementi di riflessione, anche critica, sui modelli
dominanti e le scelte possibili. A tal proposito, studi recenti sottolineano
l’esistenza di «una correlazione diretta tra la presenza dei servizi 0-3 anni in
un determinato territorio e i bassi livelli di abbandoni scolastici e di ricorso
ai servizi sociali»18. L’inserimento in un sistema di relazioni istituzionali e di
istruzione pre-scolare offre occasioni di arricchimento, di riscatto dal peso
della dotazione familiare, dunque dell’ereditarietà intergenerazionale. Una
risorsa riequilibrativa, ma anche di prevenzione del rischio sociale, inteso
nel senso più ampio di svantaggio, come di esclusione.
Tale osservazione meriterebbe una maggiore attenzione sia da parte
della ricerca sia da parte del decisore politico. Poco si conosce dell’impatto
di lungo periodo dei servizi socio-educativi e forse ancora troppo poco è
tenuto in adeguato conto in una prospettiva che coniughi sviluppo e benessere.
17
A tale proposito appare di un certo interesse l’osservazione per cui l’assenza di un genitore
convivente e la presenza di più di un figlio, risultano essere fattori che vanno a sostenere
una maggiore propensione al ricorso a cure esterne alla famiglia. Più aumentano i carichi di
cura e meno sono condivisi per effetto di mancanza di uno dei due genitori, questo apre ad
un bisogno in senso stretto di supporti esterni. Su tale aspetto vale la pena di spendere più
di una riflessione soprattutto in relazione alla crescente instabilità familiare che porta spesso
le donne ad essere le principali se non le uniche erogatrici di cure familiari.
18
Rapporto del Consiglio scientifico statunitense citato nel Rapporto Unicef Come cambia
la cura. dell’infanzia, 2008.
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
57
Tra i pregiudizi che sostengono nel nostro paese l’onere di cura della
prole nella primissima infanzia, vi è il nesso stabilito tra due “necessità”
della donna: quella di lavorare e quella, in virtù della prima, di ridurre il più
possibile il tempo di rientro al lavoro. È in base a ciò che il part time viene
individuato come il mezzo ottimale per combinare la duplicità del ruolo
femminile. È al part time che più di frequente si rivolge l’attenzione come
strumento di composizione di responsabilità familiari e aspirazioni lavorative delle donne. Quanto meno occorre usare molta cautela nello stabilire
una relazione diretta e positiva tra la tipologia di lavoro a tempo ridotto
e il vantaggio occupazionale per la forza lavoro femminile. Così posta la
questione del part time diventa tutt’altro che una scelta delle donne, quanto
piuttosto un accomodamento in condizioni di vincolo. Pertanto, anche nel
crescente ricorso al part time che si è verificato negli ultimi anni19, resta
da stabilire quanto sia attribuibile alla volontà delle donne e quanto sia
piuttosto una scelta “obbligata” tra vincoli di cura, mancanza di opportunità lavorative a tempo pieno, comunque alternative. L’individuazione del
part time quale soluzione ai problemi della conciliazione ha come obiettivo
principale quello di garantire la continuità del lavoro di cura svolto dalle
donne, ma non altrettanto una prospettiva di carriera lavorativa20. Il part
time si fonda così sulla comprimibilità del lavoro delle donne, dunque di
marginalità dello stesso; un lavoro che, a tali condizioni, assume un valore
più strumentale che espressivo e autorealizzativo21. Se il part time risponde
19
La quantità di lavoro part time tra le donne italiane è cresciuta quasi del doppio negli
ultimi dieci anni circa, con un tasso di occupazione femminile a tempo parziale molto vicino
alla media europea. L’incremento femminile tra il 1998 e il 2008 è del 75%, quello maschile
dell’1,7% (Signorelli, De Vita, Santomieri in Zanfrini, Riva, 2010). Un aumento occupazionale
in cambio di mezza partecipazione.
20
Anche dal punto di vista datoriale difficilmente si investe su una lavoratrice che «dedica» un tempo ridotto al lavoro. Tutt’altro. Ad esempio il «patto perverso» (Piazza, 2006),
conosciuto come mommy track, in cui si scambia un lavoro conciliante con la rinuncia alla
carriera e alla crescita lavorativa, traccia un percorso lavorativo bloccato che proprio nel part
time trova una delle maggiori diffusioni.
21
La quarta indagine di Eurofound sulle condizioni di lavoro mette in evidenza come in
tutti i paesi europei le donne lavorano un numero complessivo maggiore di ore, ma meno
nel lavoro retribuito. I loro redditi sono infatti mediamente più bassi. Interessante è inoltre il
raffronto tra donne e uomini entrambi in forme di lavoro parziale. Per i part timer il tempo
dedicato al lavoro di cura rimane sostanzialmente invariato rispetto a quelli che lavorano a
tempo pieno. Il tema della redistribuzione dei carichi di cura è dunque una precondizione per
una pari redistribuzione dei carichi lavorativi. Nella stessa ricerca peraltro emerge come siano
maggiormente soddisfatti per la loro condizione di vita-lavoro quanti hanno orari regolari,
mentre i più insoddisfatti sono quelli che lavorano per tempi più lunghi e imprevedibili, Quarta
indagine europea sulle condizioni di lavoro (2011) www.eurofound.europa.eu.
58
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
ad una logica disgiuntiva, il risultato è quello di raggiungere l’obiettivo di
compressione del tempo lavoro senza perseguire obiettivi paritari. Di qui le
difficoltà di aprire fattivamente alla reversibilità la riduzione a parziale del
tempo di lavoro. Una reversibilità che peraltro è ostacolata anche da strategie
familiari che solitamente si attuano all’interno della relazione di coppia. Al
bisogno di cura dei figli nei primi anni di vita si tende a rispondere con una
riduzione del tempo di lavoro, se non di interruzione dello stesso, da parte
della madre ed un concomitante aumento di quello del padre (Istat, 2008;
Trifiletti, 2007). La nascita dei figli consolida gli assetti di disparità, con lo
scopo di massimizzare il vantaggio delle risorse più disponibili sul mercato,
a fini di utilità personale e familiare. In tal modo il part time diviene una
forma difficilmente reversibile e tutt’altro che flessibile. Una conciliazione
senza riequilibrio vita-lavoro manca sistematicamente l’obiettivo principale
relativo alle condizioni di contesto, entro cui la performance lavorativa (quale
che sia la tipologia contrattuale) viene domandata e offerta22.
La retorica sul part time come via principe alla conciliazione rispecchia
l’ambiguità che permea un contraddittorio orientamento verso la stessa.
Persino mentre si afferma la necessità di politiche pubbliche supportanti la
conciliazione della famiglia tra vita e lavoro, emergono orientamenti che
ne contraddicono la possibilità che questa si realizzi se non ampliando le
distanze tra uomini e donne, contraddicendo l’enunciazione di perseguimento di obiettivi riequilibrativi, tra ambiti esperienziali, tra ruoli maschili
e femminili. Emblematicamente un documento dell’Istituto di Ricerca degli
Innocenti pone la questione dell’occupazione delle donne associando ad essa
un duplice e opposto significato. Mentre si guarda all’occupazione femminile
come un indicatore di pari opportunità ed in tal senso da accogliersi come
un segnale positivo, se ne descrive la generica «preoccupazione»23 nella
misura in cui la scelta delle donne di lavorare è conseguenza di pressioni
economiche (Unicef-Irc, 2008)24. Preso atto che le pressioni economiche,
22
La massima incidenza del part time per i maschi si ha nell’età tra i 15 e i 24 anni a cui
segue una caduta nelle classi di età centrale «per le donne la condizione di «lavoratrice a
metà» sembra essere una caratteristica permanente delle modalità di partecipazione alla vita
produttiva» (Signorelli, De Vita, Santomieri 2010, p. 47 in Riva, Zanfrini, 2010).
23
Anche se non si specifica da parte di chi emerge tale preoccupazione.
24
Peraltro il documento continua affermando che «Più è povera la famiglia, più pressante è
la necessità di tornare al lavoro, un lavoro spesso generico e malpagato» (Unicef-Irc, 2008, pp.
5-6). È abbastanza discutibile la messa in relazione tra status lavorativo più basso e necessità
di rientro, poiché sappiamo che anche le lavoratrici più qualificate vivono la necessità di
“stringere i tempi” della maternità al minimo necessario per non andare incontro a deposizionamenti di vario tipo. Senza contare che per le lavoratrici autonome, le imprenditrici e
le lavoratrici atipiche, spesso la pratica di conciliazione è o il risultato di una negoziazione
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
59
di pari peso, non vengono in egual misura considerate sugli uomini, viene da domandarsi come può essere la donna in un sistema paritario dal
punto di vista delle opportunità se sul suo ruolo di lavoratrice incombe il
grave dello stato di necessità, di fatto o presunta, principale legittimazione/assoluzione del suo ruolo pubblico? L’ambiguità con cui si sancisce la
lavoratrice dimezzata, si proietta sulla definizione di conciliazione quale
strategia problem-solver (senza peraltro risolvere i problemi reali) piuttosto
che perseguire obiettivi di riequilibrio nelle relazioni, nelle opportunità e tra
le sfere di vita, nonché una migliore qualità delle opportunità di socialità
e anche formative.
Di converso, per quanto le risorse private-familiari siano maggiormente
disponibili e in alternativa a quelle sociali e istituzionali più ampie, si giunge
fino al configurarsi di una privazione relativa di quanti non accedono alle
risorse istituzionali, per ragioni di preferenza o di difficoltà di accesso. Il
vantaggio relativo di socialità, formazione, che i servizi dell’infanzia rappresentano con la loro fruizione, è oggi, più che in precedenza, una risorsa
di valore. Mentre in un recente passato, anche se diversamente, la socialità
tra coetanei passava attraverso una rete di relazioni familiari più ampie e di
vicinato, che principalmente avevano per contesto il “cortile” o altro luogo
simile, oggi assistiamo, oltre che ad una perdita di autonomia dei minori
dentro una famiglia maggiormente protettiva verso un numero inferiore di
figli, anche ad un depotenziamento delle relazioni che, con maggiore frequenza, sono relazioni con adulti, in misura proporzionalmente più elevata
di quelle con i coetanei. L’inserimento nella rete dei servizi per l’infanzia
rappresenta così un’occasione di socialità tra pari in una società che non
riserva ad essi altri spazi altri e opportunità simili. Da tale prospettiva, i servizi
per l’infanzia sono considerabili un tramite per l’innalzamento di standard
qualitativi di vita di tutti i soggetti adulti e minori, donne e uomini. Questo
in via di principio, mentre sul piano della realtà, dell’offerta e della fruizione, si registrano notevoli sfasature. Gli scarti più ampi si concentrano nella
fascia di età fino ai 3 anni: nella maggior parte dei paesi OCSE si assiste ad
un profondo mutamento nella cura della prima infanzia che, con una svolta
recente tende a spostarsi in proporzione rilevante in strutture esterne alla
famiglia; tendenza da cui l’Italia si distacca significativamente con una delle
incidenze più basse delle istituzioni preposte e con l’evidente prevalere della
famiglia (Unicef-Istituto Ricerca degli Innocenti, 2008).
con il datore di lavoro o della compressione dei tempi, al di là della necessità di lavorare,
piuttosto per mancanza di strumenti accessibili da questa tipologia di lavoratrici.
60
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
I servizi per l’infanzia e le politiche di conciliazione più che dei mezzi
di contenimento delle difficoltà «delle donne» al presente, vanno considerati
in una prospettiva di sviluppo, un investimento di lungo periodo25; tutt’altra
direzione da quella intrapresa dei tagli ingenti e progressivi sulle casse degli
enti locali, che comportano pesanti ridimensionamenti di detti servizi, là
dove già presenti, mentre si preclude un’aspettativa di potenziamento per
contesti meno virtuosi. Un ridimensionamento, quello in atto, che ha ricadute
di mancata crescita quantitativa e di abbassamento degli standard qualitativi
del servizio erogato. Si pensi solo alle riduzioni operate e ancora in atto del
personale addetto, sia di quello ausiliario sia delle educatrici26. L’autonomia dei Comuni riguardo alla progettazione e gestione dei servizi, rischia
di rimanere una delega che l’attuale quadro normativo pone senza risorse
materiali. Dunque, anche laddove vi sia la volontà politica di investire in
questo settore, essa rischia di rimanere inattuata per il progressivo drenaggio
di risorse. Una situazione che allontana sempre più dall’idea di una politica
nazionale per i servizi di prima infanzia, piuttosto acuisce la frammentazione
territoriale e le distanze tra le già diseguali realtà locali.
Proprio nel momento in cui studi e ricerche rivolgono la loro attenzione
agli effetti positivi della fruizione dei servizi per bambini in età pre-scolare, si
assiste nel nostro paese ad un’accelerazione del processo di depauperamento
del sistema di cura e di istruzione esistente, scarsamente diffuso ed in maniera eterogenea sul territorio nazionale. Alla luce dei rapidi cambiamenti in
atto, indotti da politiche che forzatamente ridisegnano il sistema, soprattutto
pubblico, lasciando insoddisfatta una domanda sociale di maggiore diffusione
e qualità, sarà importante rivalutare le conoscenze sin qui prodotte e monitorare l’impatto alla luce delle trasformazioni e delle decurtazioni.
In tale scenario, la solidarietà intergenerazionale continua ad essere la
via preferenziale alla conciliazione, su cui gravano sollecitazioni derivanti
dalle trasformazioni del lavoro, tali da rendere le traiettorie delle donne ben
più incerte e debolmente tutelate27, sia pure da una prospettiva di ricambio intergenerazionale, dove la risorsa delle “giovani nonne” non sarà più
25
«Interventi di ottima qualità nella prima infanzia hanno effetti duraturi.[…] Investimento
sono i soldi impegnati nella prima infanzia, perché poi, determinando una crescita individuale
delle persone, ciò potrà avere ricadute economiche. Oggi abbiamo anche gli strumenti per
dimostrarlo», James Heckman, premio Nobel per le scienze economiche dell’anno 2000
– intervista riportata in «Bambini», gennaio 2009.
26
Peraltro colpendo uno dei settori in cui si concentra una elevata presenza femminile.
27
L’indagine annuale di Almalaurea (2011) sulle condizioni occupazionali dei laureati individua una tendenza all’accrescimento dei differenziali occupazionali e di reddito tra laureati
e laureate, tutt’altro che indirizzata verso una inversione.
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
61
altrettanto disponibile nella popolazione, sia perché saranno meno giovani
della generazione precedente, per effetto del dilatarsi dell’età riproduttiva, sia
perché non vi sarà una disponibilità a tempo pieno, garantita oggi ancora
da quel residuo di occupazione fordista basato sulla separazione dei tempi
di vita e di lavoro, così come dei sessi; in terzo luogo per gli interventi sul
sistema previdenziale che hanno spostato in avanti l’età del pensionamento anche per le donne28. Il patto tra generazioni presuppone poi un certo
immobilismo difficilmente sostenibile alla luce dei rapidi cambiamenti che
attraversano le sfere di vita tutte. Proprio le modificazioni dei percorsi dei
più giovani, l’accrescimento della mobilità territoriale, renderanno sempre
più residuale quel patto intergenerazionale su cui si basa buona parte dell’erogazione di cura familiare all’italiana, favorita dalla prossimità geografica
delle famiglie (Keck, Saraceno, 2008) e anche da una relativa omogeneità
demografica. La pressione migratoria, per quanto relativamente più bassa
che altrove, contribuisce oggi a descrivere una composizione demografica
più diversificata, così come i mutamenti di stili e aggregazioni familiari rendono le reti tradizionali parzialmente adattabili a rispondere ai bisogni di
bilanciamento tra vita e lavoro.
Allo stesso tempo vi è da considerare il problema dell’invecchiamento
delle reti di supporto, dovuto all’allungamento della speranza di vita, per
cui i suoi componenti divengono essi stessi sempre più latori di bisogni di
cura29 che travasano in ulteriori carichi per le donne, schiacciando i percorsi
delle stesse tra rigidità organizzative del mondo del lavoro e pluralità di
istanze del privato familiare30. Insomma, scommettere quasi esclusivamente
su un patto tra generazioni sia tra giovani e adulti, sia per quanto riguarda
la riduzione delle sfasature sempre più ampie tra vita e lavoro, è del tutto
28
Molte sono le riserve espresse intorno a questo provvedimento, ma più di tutto si può
notare come sia attuato in base al principio di parità presunta tra i sessi, in un contesto in
cui è la realtà stessa a contraddirlo.
29
Proprio in un quadro di invecchiamento significativo della popolazione, i servizi all’infanzia diventano nel nostro paese un’occasione di socialità con coetanei che difficilmente
oggi si può sperimentare all’interno del nucleo familiare.
30
La debolezza delle risorse pubbliche, l’asimmetria su cui si basa la divisione del lavoro di
mercato e familiare divengono un ostacolo insormontabile per avviare un circolo virtuoso di
migliori e più numerose opportunità: «La scarsità dei flussi di popolazione più giovane potrebbe consentire una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro, mentre l’aumento
dei bisogni di assistenza per la popolazione più anziana, accompagnato da un inadeguato
sistema di servizi per le diverse fasce di popolazione e da una carente divisione dei ruoli
sociali maschili e femminili, finiscono per incidere negativamente sulla tenuta occupazionale
e sui percorsi di carriera delle donne, in presenza di rigidità organizzative e gestionali del
mondo dell’impresa» (Battistoni, 2005, p. 10).
62
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
insufficiente rispetto alle carenze, ai bisogni e ai cambiamenti in atto. Più di
tutto è inefficace in relazione a quello che è il problema centrale del grave
squilibrio privato e lavorativo tra donne e uomini.
Quasi tutte le misure di conciliazione attuate e programmate sono riconducibili ad una interpretazione della stessa quale supporto alla doppia
presenza femminile. Un modello che peraltro, come abbiamo già modo di
sottolineare, non si confa agli stili di vita e di lavoro affermatisi nella società
post fordista. Questo è il prodotto di una visione della conciliazione ascritta
alle donne come bagaglio di responsabilità familiari, che prescinde dalla
pluralità dei soggetti, dal parametro con cui la conciliazione e gli strumenti
ad essa dedicati devono misurarsi: il lavoro.
È importante infatti distinguere, sia concettualmente sia in termini di
messa a punto degli strumenti e delle azioni, che la conciliazione è l’ambito di intervento dedicato a lavoratrici e lavoratori, e, tra essi soprattutto le
prime le cui esistenze sono di fatto gravate da vincoli maggiori che limitano
pesantemente la libertà di scelta e di partecipazione sociale. Nel mondo del
lavoro gli esempi virtuosi sono ancora oggi pochi e spesso isolati, concentrati
sui bisogni di cura familiare e, in ragione di ciò, sbilanciati sul versante delle
fruitrici. Nel tenere separata l’organizzazione del lavoro da quella territoriale,
si finisce per divergere da quell’obiettivo di ascolto e sostegno ai bisogni che
permetterebbe di tener conto delle differenze di cui i soggetti sono portatori,
riproducendo, al contrario, le medesime contraddizioni. Esiste un ampio
scarto tra quanto oramai da più decenni avvenuto nella scomposizione della
forza lavoro “uniforme” fordista e la rigidità organizzativa che ancora oggi
non permette un’adeguata diffusione di forme realmente flessibili, nonché
adeguate alle esigenze di lavoratori e lavoratrici.
La prestazione lavorativa di presenza, a tempo pieno, con orario di lavoro pur flessibile ma prestabilito, con margini ridotti di autogestione, continua
a rimanere un punto saldo di riferimento, considerata garanzia di produttività, nonché probabilmente rispondente anche ad esigenze di controllo della
stessa. Ciò, nonostante l’alterazione tra tempo di lavoro e tempo altro, in una
tendente dilatazione del primo sul resto della sfera esperienziale, ovviamente
più per le donne che per gli uomini. Tali rigidità hanno condotto solo di
recente il mondo del lavoro italiano a cominciare ad introdurre misure di
conciliazione dentro le organizzazioni lavorative31.
31
Determinante a tal proposito è stato il ruolo dell’Unione europea nell’individuare la
conciliazione come obiettivo strategico e nel finanziare buona parte delle azioni fino ad oggi
realizzate. Tuttavia la spinta propulsiva esterna da essa derivante non è stata né originata da
un bisogno interno al contesto italiano, né tantomeno da un obiettivo politico che ancora
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
63
Le pratiche organizzative miranti a favorire la conciliazione sinora sperimentate non sono giunte al punto di costituire un sistema; per converso,
rimanendo prassi isolate costitutive di banche dati che si limitano a censirle,
contribuiscono ad acuire la frammentazione più che a ridurre le discrasie
tra le sfere di esperienza, tra le donne e gli uomini. Tutto ciò a fronte di
un’esperienza, sino ad oggi maturata, che fornisce evidenze di ricadute positive sui soggetti lavoratori e lavoratrici, sulla loro prestazione lavorativa e
sulla qualità della vita organizzativa, non ultimo sul piano della riduzione
delle disparità tra donne e uomini (Poggio, 2010). Tali interventi, d’altro
canto, riflettono una mancanza di visione complessiva del ruolo e significato
della conciliazione: sono rivolti quasi esclusivamente alle donne, sono misure indifferenziate rispetto al contesto in cui vengono attuate, scarsamente
orientate al cambiamento.
Gli indirizzi nazionali pongono più acutamente gli accenti sulle politiche sociali, a prescindere da quelle del lavoro, mentre i contesti territoriali
da una parte e le singole realtà lavorative dall’altra, disegnano una mappa
discontinua per condizioni di vita e di lavoro. Servizi, strumenti che liberano
tempo, misure per la flessibilità organizzativa e la riarticolazione del tempo
di lavoro, progetti di sostegno al rientro dalla maternità, restituiscono una
realtà che assembla esperienze e progetti singoli, in quanto tali non in grado di produrre mutamenti strutturali. Va inoltre aggiunto che l’inefficacia è
spesso accompagnata da una debole e non sempre presente relazione con le
concrete opportunità di lavoro che i contesti locali offrono, declinando così
le misure e le azioni positive più sul versante dell’assistenza che su quello
della promozione. Vi è tra le due una sostanziale differenza giacché solo
la promozione agisce dentro l’esercizio della cittadinanza politica e sociale,
riconoscendo il valore della parità. Viceversa l’assistenza sancisce lo status
quo in una logica da “riduzione del danno”. Detto questo, qualsiasi provvedimento che guardi a soggetti singoli32 o a frammenti di esperienza, rischia
di divenire parametro intorno a cui misurare la dis-unità del paese.
oggi difficilmente viene messo a fuoco sul piano delle politiche riequilibratrici tra generi,
vita e lavoro.
32
«Ad esempio, se una grande azienda come la Telecom decide di sostenere le «mamme»
con un libretto di assegni-tempo fino ad un massimo di 50 ore, non vi è dubbio che favorirà
le donne che esprimono contingentemente quello specifico bisogno di tempo». Tuttavia, il
sostegno alle singole mamme (e non ai padri) manca totalmente l’obiettivo di parità sancendo
una volta di più una diseguale condizione rispetto alle responsabilità di cura ad esse ascritte,
nonché una diminutio della loro posizione lavorativa. Il fatto che questa azione sia censita
come buona prassi dallo stesso ministero per le Pari Opportunità, rimarca la debolezza dell’obiettivo politico di riequilibrio nelle relazioni tra sessi.
64
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
II.2. Prove pratiche di conciliazione
Al fondo di tutto vi è il radicamento di una risorsa lavorativa femminile
che, quando non è chiamata in causa a far ripartire il motore dell’economia, è pensata per regolare informalmente i conflitti tra famiglia e lavoro.
La staticità culturale e politica, tuttavia, si accompagna a rapide e profonde
trasformazioni del mondo del lavoro, tali per cui le donne, né diventano
strategiche per l’economia, né fuoriescono da un incastro dove la necessità
e la volontà di lavorare diventa una sfida personale contro gli ostacoli sociali, culturali, di modelli di genere che sanciscono una subordinazione del
lavoro femminile alla cura familiare e domestica, insieme al primato della
femminilità nel percorso di vita familiare. Si nota oggi che la casualità, o forse
meglio dire la occasionalità, risultano essere uno dei principali descrittori
del lavoro femminile, della sua fragilità in termini di permanenza e stabilità
sul mercato. Aspetto quest’ultimo, che tende ad acuirsi in traiettorie che,
avendo un orizzonte temporale più ristretto con un margine di incertezza più
elevato, aumentano le difficoltà progettuali e di porre in atto un agire strategico, fondamentale al fine della valorizzazione dell’esperienza, nonché delle
competenze delle donne (Leccardi, 2002). Agire strategico significa uscire
definitivamente dal meccanismo della casualità per rendere maggiormente
solido, visibile e socialmente utilizzabile il contributo delle donne; oltre che
permettere alle stesse di avere una vita privata e lavorativa meno dipendente
dalle possibilità e capacità (Sen, 2000) personali di compiere acrobazie. La
liberazione delle capacità individuali, in ragione di un ampliamento delle
opportunità di vita, offre un’interessante prospettiva di ridefinizione anche
della conciliazione, liberandola dall’obiettivo di contenimento hic et nunc,
riposiziona gli individui come fini delle misure attuate e attuabili, unendo a
ciò uno sguardo di più lungo periodo verso il futuro, ben oltre l’emergenza
del momento e individuale.
Affrontare il tema della conciliazione significa sempre più andare dentro i percorsi degli individui, metterne a fuoco le pratiche per estrapolare i
bisogni emergenti di un nuovo equilibrio esistenziale. Anche le istanze degli
uomini necessitano di essere focalizzate ed esternate più liberamente rispetto
alla preponderanza del ruolo lavorativo, il quale imperativamente riconduce
a sé buona parte delle opportunità di espressioni altre. Nella misura in cui
la minoranza degli uomini, che sconfina dal modello tradizionale, continua
ad essere considerata come un gruppo di occasionali invasori del territorio
di competenza femminile, si allontana la possibilità di ridefinizione del loro
ruolo e della loro identità di genere. La conciliazione sembra essere il luogo
simbolico privilegiato per l’ideazione e la realizzazione di misure atte a tenere
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
65
insieme vita personale, familiare e lavorativa, mirando ad una riqualificazione
delle relazioni tra soggetti e ambiti di azione. Se la vita quotidiana riconduce
ad una realtà in cui le varie sfere dell’esperienza sono tra loro comunicanti,
diversamente le politiche, le organizzazioni del lavoro, tendono a guardare
ad esse separatamente, in ragione degli scopi perseguiti dal sistema economico-produttivo e commisuratamente all’ordine sociale di genere dominante.
Ne risulta che è la separazione a prevalere sulla ricomposizione. Una separazione, che comporta oggi elevati costi sociali di qualità di vita personale
e lavorativa, e che, di fatto, è tutt’altro che razionale dal punto di vista del
vantaggio che ne deriva, sia esso considerato meramente dal punto di vista
economico, da quello sociale o da entrambi.
Sul piano della ricomposizione dei mutamenti, che fa da sfondo alla
conciliazione e alla ricerca di equilibrio esperienziale, mancano politiche di
governance che rendano i tempi, gli spazi di lavoro e di vita tra loro maggiormente concilianti, dentro una prospettiva di condivisione relazionale, di cura
delle responsabilità familiari, egualitaria per quanto concerne le opportunità
di partecipazione: insomma politiche che supportino la libertà a partire dal
proprio genere; libertà di scegliere le modalità di partecipazione alla vita pubblica come a quella privata, relazionale e affettiva. Nell’era di propagazione
intellettuale della riscoperta della felicità da parte dell’economia (Kahneman,
2007), l’armonia non può continuare a sottrarsi all’attenzione sia dei decisori
istituzionali, sia pure di quanti, osservatori e scienziati sociali, continuano a
ridurre la realtà entro una tripartizione prototipica della società industriale:
Stato, Economia e Famiglia (Balbo, 1976). Sembra inoltre verificarsi un allontanamento da quei principi di gender mainstreaming che pongono al centro
di ciascun intervento una prospettiva di genere, di valutazione delle ricadute
sui soggetti considerati nelle loro specificità di appartenenza di genere, di
cambiamento operato non tanto “per” le donne quanto “con” le stesse. Se le
condizioni di partenza sono diseguali, lo sarà anche l’impatto delle politiche
messe in atto, degli interventi organizzativi ecc. Un altro aspetto rilevante
nella prospettiva di gender mainstreaming è l’intento di attivare il contesto, le
sue risorse, al fine di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di condizioni di parità. Insomma, una direzione esattamente opposta
a quella attualmente intrapresa in Italia in cui, da una parte si mettono in
atto provvedimenti che contribuiscono a rendere meno disponibili le risorse pubbliche (servizi per l’infanzia, scuola, sanità ecc.) e a frammentare il
contesto, in una logica di cesura fra i diversi livelli di intervento (nazionale
vs. locale). Laddove si privilegia la singola tessera di un puzzle che non si
compone più, il raggiungimento della parità, quantomeno risulta un obiettivo
debolmente messo a fuoco. Le risorse esistenti, quelle a disposizione dei
66
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
singoli, il loro capitale sociale, vengono chiamate in causa come strategiche
per un modello che solidamente costituisce il perno del nostro paese e che
ha la caratteristica di essere discriminante e svantaggiante per le donne: una
resa, insomma, al raggiungimento dell’obiettivo di parità. La conciliazione
non può non avere fra i suoi obiettivi quella del ristabilire un nuovo equilibrio
tra vita e lavoro, a partire dall’esistente modello sessuato. Ma, al contempo,
conciliazione è anche tutto ciò che, pur nelle rispettive priorità di vita e di
lavoro, rende agli individui una maggiore libertà di scelta nel corso di vita,
a prescindere dall’identità sessuale, anzi affrancando dai vincoli di partenza
derivanti dalle ascrizioni al ruolo sessuale in ciascun contesto.
II.3. Della conciliazione e del lavoro
La crescente presenza delle donne sul mercato del lavoro, viene sinteticamente indicata con il termine di femminilizzazione: si tratta di un concetto
che non trova un omologo al maschile, non vi sono ambiti di vita e di lavoro
che si sono maschilizzati, questo semplicemente perché la maschilizzazione è
consolidata, è il dato per scontato, è la base solida su cui si costruisce anche
la diversità parametrata sulla misura maschile, che è la norma. Inoltre, la
femminilizzazione sta di frequente ad indicare la funzione svolta dalle donne
di manodopera di riserva in settori e mansioni di progressivo abbandono da
parte degli uomini; settori e mansioni di minore prestigio, a più bassi livelli
di retribuzione, con minori livelli di responsabilità e di potere. La femminilizzazione non indica una progressione, né una presenza incrementale lineare,
bensì un fenomeno complesso, di cui le contraddizioni e i problemi irrisolti
sono parte integrante. Il concetto di femminilizzazione, che sembrerebbe un
contagio delle donne di settori precedentemente immuni, oltre che del mercato del lavoro nel suo complesso, non spiega come dall’esclusione, dunque
da una «una discriminazione dal mercato del lavoro» si sia passati ad una
discriminazione «sul mercato del lavoro» (Cnel, 2010) e come le due forme
di esclusione quantitativa e qualitativa, si sovrappongano senza preludere al
superamento delle stesse, dando vita a gravi sperequazioni per sesso, per
area, per settore lavorativo, ecc.
Vi sono spaccature e dualismi interni al paese e al mercato del lavoro
che fanno da specchio ad un modello dominante di maschilità e femminilità
priva di uno spazio per un’equa condivisione degli ambiti pubblici e privati,
ma che al contrario si va riproducendo e consolidando per opposizione ed
antagonismo. La scommessa contenuta nel Trattato di Lisbona del raggiungimento del 60% di occupate entro l’ormai passato 2010, è stata recepita
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
67
come un mero obiettivo quantitativo senza cogliere l’opportunità (e la necessità) di ridefinire assetti organizzativi, di genere e stili di vita. In Italia ciò
è avvenuto in maniera netta, al punto da rendere il paese particolarmente
esposto agli effetti negativi della crisi, che hanno finito per erodere persino
i livelli occupazionali pregressi33, accrescendo significativamente la distanza
dalla percentuale media degli altri paesi europei.
Lo scarso impatto degli strumenti predisposti sulla base della legislazione
relativa alla conciliazione, deriva anche dall’essere stata considerata, nella sua
costruzione anche concettuale, separata dal lavoro, dalle condizioni materiali
delle donne, comunque incentrata più sulla famiglia che sul lavoro e sulla
vita privata34. Di fatti, non si può trascurare che il diritto al lavoro precede
quello alla conciliazione. Non vi è conciliazione senza lavoro e alcune fasce
di popolazione, specie nel Sud del paese, vedono negato in primis il diritto
al lavoro. Senza considerare il lavoro, la speculazione intorno alla conciliazione rimane confinata nell’ambito di cura dispensata, per cui rimane aperto
il problema del riconoscimento del suo valore e di chi lo eroga. Nulla a
che fare con la conciliazione che, per definirsi tale, si colloca in una zona
liminare tra sfere di azione e di esperienza multiple, relate ad altrettante
richieste sociali, le cui risposte sono spiccatamente connotate in base all’appartenenza di genere. Un tiepido tentativo di ricondurre le politiche di
conciliazione al lavoro è stato introdotto con la modifica all’articolo 9 della
legge 53 (legge 2009 art.38), dove sono previsti incentivi per le imprese che
promuovano una nuova cultura organizzativa e del lavoro; tuttavia queste
trovano difficilmente attuazione per il permanere di incertezze applicative
e lungaggini burocratiche.
Ne risulta, pertanto, che l’interpretazione della conciliazione non è a
partire dal lavoro, ma a partire da sé, vale a dire dalle capacità ed esigenze
individuali. Aver distolto l’attenzione dalle condizioni lavorative delle donne e per differenza degli uomini, ha portato a costruire un sistema, anche
concettuale, di strumenti di conciliazione che hanno finito per riprodurre le
tradizionali divisioni sessuate, in qualche misura persino contribuito a ridargli
forza, entro un quadro di vita e lavorativo di grande complessità, oltre che
33
I dati Istat continuano a registrare un andamento della occupazione femminile altalenante e tendente al ribasso, con un tasso di disoccupazione che tende a crescere insieme a
quello di inattività (che accomuna anche la componente maschile della forza lavoro) (Istat,
gennaio 2011) www.istat.it.
34
Una separazione sancita ulteriormente da un approccio istituzionale che ha collocato la
conciliazione nell’ambito delle politiche sociali disgiunte da quelle del lavoro: «le politiche
di conciliazione sono state lasciate gestire interamente dal ministero degli Affari Sociali nel
quasi completo disinteresse del ministero del Lavoro» (Calafà, 2003, p. 1).
68
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
ad elevato contenuto di incertezza e imprevedibilità. Al lavoro di cura non
è riconosciuto valore in sé, perché ancora legato alla tradizionale divisione
tra pubblico e privato e ad un sistema di genere gerarchico al cui vertice
vi è il lavoro produttivo maschile35, principale mezzo di sostentamento e di
realizzazione delle aspirazioni di mobilità sociale. È nel lavoro produttivo
che la società del lavoro ha individuato la base per la costruzione dell’identità e il riconoscimento sociale, stabilendo così un primato del lavoro che è
andato a sovrapporsi al primato della produzione sulla riproduzione36, del
consumo e del mercato sulla “gratuità” della cura. In tal modo, la società
industriale, nella declinazione del modello fordista incentrato sul male breadwinner, ha risolto le preoccupazioni (Sarti, 1999) derivanti dall’ingresso delle
donne nella forza lavoro (e dunque nel mercato) con l’avvento della società
industriale37, garantendo la continuità del lavoro di riproduzione, per di più
nell’ombra dell’ambito familiare, attraverso cui, di fatto, ha tenuto sotto
controllo anche la temuta concorrenza intergenere. Di riflesso, le politiche
del lavoro hanno continuato a mantenere una distanza dalle trasformazioni degli stili di vita delle donne e degli uomini, dalla scomposizione delle
biografie “fordiste”, ma soprattutto dai cambiamenti che descrivono oggi la
pluralità delle convivenze familiari. All’accelerazione del sistema produttivo
non ha seguito un’adeguata risposta sul piano del potenziamento di servizi
di cura, in Italia più che altrove, dove relativamente più forte è la resisten35
Raffaella Sarti sottolinea come il passaggio alla società industriale sia accompagnato da
un dibattito incentrato su riflessioni e preoccupazioni per il lavoro extradomestico svolto dalle
donne, percepito talvolta come minaccia di «sovvertimento delle tradizionali gerarchie di
genere», talaltra più sul ruolo concorrenziale della manodopera femminile su quella maschile:
«Ecco allora, ad esempio, denunce del fatto che il lavoro extradomestico femminile porterebbe alla disoccupazione maschile e ad un mondo alla rovescia in cui uomini disoccupati
sarebbero costretti a stare a casa a badare alle faccende domestiche: una prospettiva tanto
più inquietante quanto più va diffondendosi anche nella classe operaia quella breadwinner
ideology secondo la quale è il maschio capofamiglia che deve mantenere dignitosamente la
moglie casalinga e i figli con il suo salario» (Sarti, 2006, p. 2).
36
«Come osserva Marx, la prima divisione del lavoro fu storicamente quella fra maschio
e femmina. Storicamente: ma fatta passare per naturale, e ciò non solo in ambiti culturali in
cui la nozione di storia non c’era o era carente, ma anche nei momenti alti dello sviluppo
storico-culturale e della consapevolezza storica» (Petrilli, 2009, p. 7).
37
«L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale
nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche
vengono organizzate militarmente. [...] Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l’industria moderna, tanto più il lavoro degli
uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han
più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro
che costano più o meno a seconda dell’età e del sesso» (Marx e Engels 1848, Il manifesto del
partito comunista, consultabile anche nel sito www.marxists.org).
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
69
za alla esternalizzazione del lavoro di cura e familiare. Non trascurabile al
proposito è il peso di una cultura cattolica che sostenendo il primato della cura donata su quella comprata e venduta, rende questa connotante la
femminilità. Tutto ciò ha portato all’affermarsi di un familismo inglobante
che grava pesantemente sulla vita delle persone e delle famiglie in ordine
crescente alla fragilizzazione delle reti di cura38.
L’apertura al tema della conciliazione ha riflessi significativi proprio nel
portare alla luce «il lato oscuro» (Mingione, 2001) delle relazioni intrafamiliari
e interpersonali tra i sessi che si sono andate disegnando e consolidando, nella
coppia, nella famiglia, così come tra generazioni, sulla relazione di dipendenza dal procacciatore di risorse39. Dal canto loro, le politiche di conciliazione
hanno in parte reso visibile e portato una maggiore attenzione rispetto al
carico e al grado di coinvolgimento attorno ad esso, ma non hanno portato la
cura al centro delle relazioni sociali, neppure hanno contribuito a spostare il
baricentro delle relazioni di genere. La conciliazione e le politiche di sostegno
ad essa, piuttosto individuano come obiettivi primari, da una parte la necessità di aumentare l’occupazione femminile, ampliando quantitativamente
l’offerta totale. Dall’altra si dirigono verso l’obiettivo di “sollevare”, almeno
parzialmente, le donne dall’onere della cura, di risolvere un conflitto di ruolo,
tutto al femminile e intrafamiliare, riducendo il carico di lavoro retribuito per
liberare tempo ed energia da dedicare ad altro lavoro di cura. Il risultato è
un indebolimento del sistema di pari opportunità dalle sue fondamenta: le
donne sul mercato del lavoro continuano a presentarsi con una disponibilità
inferiore a quella maschile. Solo considerando quanto profondo sia il radica38
L’inefficacia e l’insufficienza del mancato sviluppo di servizi di cura, insieme ad un indebolimento del welfare, sovraccarica le reti di cura di compiti che ricadono oggi sulla famiglia
nucleare nelle sue diverse declinazioni; comunque, non su una famiglia allargata che mette
in comune risorse e ripartisce carichi. Una situazione che diventa tanto più gravosa quanto
più le richieste di cura aumentano, così come cresce l’instabilità delle stesse reti primarie, sia
sul piano della continuità relazionale quanto della continguità.
39
Quello che si è affermato come un modello «normativo» stabile attraverso le generazioni
viene trascurato a lungo dalle scienze sociali, soprattutto dalle ricerche in ambito lavorativo,
in quanto cardine di un modello economico-produttivo: questo è da interpretarsi più che
come uno stato di necessità (Mingione, 2001; Ruspini, Zajczick, 2008) una delle vie possibili
intraprese, che ha permesso al nostro paese di affrancarsi da uno stato di povertà e sviluppare
ricchezza, ma non altrettanto di redistribuire la stessa equamente né, tanto meno, di provvedere uno sviluppo duraturo. Il sacrificio delle donne alla cura domestica più che una necessità
è stata una scelta prima di tutto in continuità con l’assetto tradizionale; in secondo luogo la
meno costosa in termini di conflittualità sociale e rischi di frattura, essendo le donne soggetti
meno partecipi alla vita sociale, politica ed economica. Si è affermata tuttavia in tal modo
una concezione schizofrenica della ricchezza e dello sviluppo che ha sacrificato le donne, le
loro opportunità nella vita pubblica, nonché di indipendenza e autonomia.
70
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
mento della femminilità e della mascolinità intorno alla cura, alla divisione
dei ruoli produttivi e riproduttivi, possiamo mettere in relazione le condizioni
di pari opportunità con gli obiettivi di parità. Portare la cura al centro del
sistema delle relazioni significa riconoscere in essa il punto di mediazione
tra pubblico e privato, ma anche fra le diversità di genere, di etnia, di età,
ecc. Il lavoro di cura è in controtendenza con la spinta all’individualizzazione
che la sempre più pregnante cultura del mercato è andata imponendo al
soggetto razionale e produttivo. Parlare di cura significa considerare l’individuo nell’insieme dei suoi aspetti extramercantili ed extrarazionali. Il lavoro
di cura diviene in questa prospettiva principale fonte di coesione sociale, le
cui protagoniste sono le donne in un percorso di ricongiungimento con il
sociale, dove è indispensabile affrontare e misurarsi con il mercato. Sono le
donne che portandosi verso il centro del vivere sociale hanno contribuito ad
indebolire i presupposti della logica duale maschio/femmina, lavoro/privato
ecc., su cui si è basata l’organizzazione sociale e del lavoro. «La dirompenza»
di questo movimento – afferma Cigarini – fa pensare che tenendo ferma la
differenza sessuale la ricomposizione soggettiva passa attraverso il portare
«tutto dentro al mercato»: soggettività e relazioni, passioni e affettività, figli e
amore, ecc. Non separare cioè la sfera relazionale dal mondo come si è fatto
finora» (Cigarini, 2006, p. 36)40. Dunque, considerare la cura come una fonte
di coesione sociale ma anche di risposta ai bisogni relazionali dei soggetti
individuali e collettivi. Questo implica che non solo le madri esprimono tali
bisogni, ma le donne tout court e i soggetti tutti. In particolare, tali bisogni si
fanno più urgenti in una rete di relazioni, dal pubblico al privato e viceversa,
complessa, discontinua e frammentata.
Mentre le donne operano scelte plurali di avere o non avere figli, di
essere o non essere in coppia, la conciliazione parla, per la quasi totalità,
dei bisogni delle madri e delle famiglie (pur rispondendo parzialmente anche in questo caso ai bisogni reali). In realtà, la popolazione femminile, in
Italia come nel resto dell’occidente, esprime un desiderio di riproduzione
40
«Alcuni teorici del lavoro oggi scrivono della differenza sessuale come creativa di nuove
strade per chi cerca il cambiamento, altri parlano della necessità di «interiorizzare gli interessi
e le competenze femminili e di trattenerle», altri ancora parlano delle donne come possibili
autrici della ricomposizione dell’esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata, ed altro
ancora. Ciò significa che proprio alcuni uomini attenti a ciò che succede nel lavoro e con la
volontà di trovare una strada per modificare le cose esistenti, mettono al centro la differenza
sessuale e le sue pratiche politiche. Oggi assistiamo così a un movimento non meno dirompente di quello degli anni Settanta ma in senso inverso, per cui la dirompenza non è più dovuta
come allora al fatto di donne che si separano dalla società maschile, ma al movimento di un
loro portarsi al centro. In questo movimento ci incontriamo con quegli uomini che sono critici
delle risposte che oggi si danno ai problemi del lavoro» (Cigarini, 2006, p. 36).
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
71
così come non lo esprime (Megg, Ongaro, 2007). Tale pluralità è ben lungi
dall’essere recepita dalle politiche pubbliche.
Addirittura, il concetto di conciliazione risulta ancora fortemente correlato a quel modello di doppia presenza, consolidatosi intorno alla madre
lavoratrice, come emblema della trasformazione profonda che la crescente
presenza di donne sul mercato del lavoro ha contribuito ad innescare. Pertanto, il padre lavoratore, oltre a risultare ridondante dal punto di vista del
suo significato, tal ché difficilmente gli uomini coniugati con figli vengono sì definiti, rimane effettivamente ai margini del sistema disegnato dalla
conciliazione. Il riconoscimento, nonché autoriconoscimento, dell’identità
di genere, si colloca in tal modo entro una visione per cui per favorire una
maggiore occupazione è necessario sostenere le donne, per farle lavorare
meno e continuare a svolgere il pur essenziale ruolo di cura, che in epoca
di scarsità di risorse aumenta il suo valore. Questo è un esempio di come
la centralità della crescita di occupazione, assunta come obiettivo di parità
in sé e per sé, mette in secondo piano le condizioni di pari opportunità che
dovrebbero presiedere al raggiungimento degli obiettivi.
Porre al centro le condizioni di pari opportunità da una parte implica
una maggiore mobilitazione di risorse per l’innovazione, volte a mediare la
cura tra uomini e donne, coinvolgendo l’intero sistema di valori e riferimenti
culturali intorno a cui donne e uomini forgiano la loro identità sociale di genere. D’altra parte, giacché la conciliazione nasce dall’esigenza di combinare
in maniera equilibrata vita e lavoro e la stessa attenzione alla conciliazione a
sua volta dalla necessità di trovare risposte al mutamento dei percorsi delle
donne così come alle trasformazioni del mercato del lavoro, non sembra
esservi via d’uscita. Alla luce delle flessibilità, più o meno imposte dal mercato, arroccare la conciliazione nella sfera femminile appare oggi in partenza
a rischio di efficacia.
La qualità della vita è oggi fortemente dipendente dalla conciliazione
o meglio dalla possibilità di tenere in equilibrio gli spazi e i tempi di vita.
Se nel passato l’equilibrio era assicurato da una corrispondenza tra tempo
parcellizzato e gerarchicamente ordinato, gestione separata dei sessi della
produzione e della cura, oggi la società plurale, segmentata e sostanzialmente
instabile, non può più fare leva su una linearità che non c’è. La realtà privatofamiliare è difficilmente riconducibile all’uniformità che connotava suddetto
sistema e, da parte sua, il mondo del lavoro in regime di flessibilità rende
maggiormente complesso ordinare, preordinare tempi e spazi. Famiglia e lavoro, sfera privata e lavoro, convivono senza soluzione di continuità, facendo
ciascuno i conti con le conseguenze dei profondi cambiamenti organizzativi,
funzionali e simbolico-culturali.
72
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Mentre anche nel nostro paese la famiglia basata sul matrimonio e sulla
coppia eterosessuale con figli si avvia ad essere non più il modello centrale di
convivenza solidale e riproduttiva in senso lato, il lavoro ha lasciato il posto
ai lavori (Dahrendorf, 1986; Farina, 2005) con la loro discontinuità e dunque
necessità di regolazione complessa41. Il lavoro dell’uomo non è più un fattore
di protezione dal rischio di povertà, cui oggi le famiglie risultano particolarmente esposte. Neppure il lavoro dell’uomo è più quello di procacciatore di
risorse, per cui anche quello delle donne diviene necessario per rispondere
ai bisogni materiali, soddisfare attese di autonomia e realizzazione personale.
Nel mentre, le donne sono più occupate, ma sono anche tra i soggetti a più
alto rischio e condizione di povertà. Il lavoro perde forza.
In Italia la rottura della corrispondenza garantita dalla doppia presenza
delle donne ha aperto un’ampia problematica intorno alla conciliazione.
Conciliare è divenuto più problematico e più costoso che in altri paesi e
questo è vero «per tutto l’arco del ciclo vitale» (Del Boca, 2007, p. 97). Infatti, il mercato del lavoro italiano presenta da questo punto di vista molte
peculiarità che possono tradursi in nuovi fattori di rischio, in quanto combina una pressoché totale assenza di nuove forme di protezione sociale
coerenti con la flessibilizzazione tanto tardiva quanto vorticosa (Trifiletti,
2003; Biagioli, Reyneri, Serravalli, 2004), a fronte di una maggiore lentezza del cambiamento sul piano dei modelli culturali e familiari. L’instabilità
familiare, che rende la coppia una esperienza transitoria, modifica altresì i
comportamenti lavorativi degli uomini e delle donne, per cui il bisogno di
indipendenza economica tende (anche culturalmente) a farsi più urgente
e diffuso. Che l’Italia abbia tenuto un profilo più basso nei confronti della
flessibilità è uno dei luoghi comuni da sfatare nell’analisi del mercato del
lavoro nazionale. Secondo Biagioli, Reyneri e Serravalli (2004) «al contrario
[...] l’Italia ha marciato speditamente in tale direzione già a partire dalla metà
degli anni novanta e [...], anzi, nell’ultimo anno – a seguito dell’approvazione
della legge 30/2003 e del d.lgs. 276/2003 – le politiche del lavoro sono state
indirizzate verso una vera e propria «deregolazione» con effetti rilevanti sulla
composizione e sui comportamenti del mercato del lavoro» (p. 277). Tale
riflessione va accompagnata a quella del forte indebolimento delle reti di
protezione contro la mancanza di lavoro: «Se si confronta il Libro Bianco
con la legge delega e il decreto legislativo, ci si accorge che uno dei suoi
41
«Quello che è saltato è una corrispondenza puntuale che c’era tra la famiglia che prevaleva nel mondo, nei comportamenti, quella che prevaleva sul mercato del lavoro e quindi
chiedeva delle regolazioni di un certo tipo, e la famiglia tipo delle politiche sociali» (Trifiletti,
2007, p. 108).
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
73
assi portanti è scomparso. Nel Libro Bianco c’era l’idea di flexsecurity, cioè
alta flessibilità e grande sicurezza per chi rimane privo di lavoro, e si dava
gran rilievo alla necessità di sviluppare gli ammortizzatori sociali (indennità
di disoccupazione e sussidi) oltre che di migliorare la funzionalità dei servizi
per l’impiego. […] questo modello è stato nei fatti abbandonato e ora l’Italia
ha grande flexibility senza alcuna security» (p. 284).
Nel regime della flessibilità cresce il bisogno di ricomposizione tra le sfere
di vita e del percorso personale. La fluidità dell’esperienza si traduce in una
compenetrazione tra pubblico e privato. Prevalentemente è il pubblico, nella
fattispecie del mercato, che tende a travalicare il confine del privato ristretto
e costretto in spazi mobili, paradossalmente più rigidi e vincolanti, in quanto
squilibrati dalla debordante richiesta mercantile di flessibilità. Il tutto in assenza di adeguate politiche rivolte allo sviluppo di un agire strategico, che
tenga sotto controllo la dispersione dell’esperienza individuale, soprattutto
da parte delle donne, che più frequentemente sperimentano la flessibilità, sia
per ragioni legate al corso di vita, sia perché di gran lunga più collocate in
attività lavorative discontinue, in condizioni in cui il confine tra flessibilità
e precarietà si fa sempre più labile. La flessibilità volontaria e involontaria
nei percorsi lavorativi può (deve) essere riequilibrata attraverso adeguate
politiche di conciliazione. È proprio la componente involontaria che oggi
rischia di divenire dominante, indebolendo anziché rafforzando, la presenza
e il radicamento dell’esperienza femminile in ambito lavorativo. La cumulazione dell’esperienza attraverso la ricomposizione avrebbe così il vantaggio
di raggiungere il duplice obiettivo di un nuovo equilibrio esperienziale e di
valorizzazione del patrimonio lavorativo femminile, tale da funzionare da
riferimento per tutte le donne che, non dal caso, ma da strategie adeguate e
consapevoli necessitano di essere orientate nel mondo del lavoro odierno.
II.4. Osservazioni conclusive
Cresce il bisogno di lavoro e con esso quello di politiche concilianti che sono
oggi urgenti per proteggere e prevenire la pauperizzazione di lavoratrici,
lavoratori e nuclei familiari. Piuttosto che continuare a pensare a politiche
ed ammortizzatori si tratta di pensare a strumenti in grado di riportare in
squadra le sfasature della società e di integrare a pieno titolo quell’ingente
volume di risorse femminili di cui il nostro paese fa un macroscopico spreco,
attraverso il sistematico esercizio della negazione.
In generale, con la legge n. 53/2000 «Disposizioni per il sostegno della
maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
74
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
coordinamento dei tempi delle città», il legislatore aveva lo scopo di promuovere un maggior equilibrio tra i tempi di lavoro, di cura, di formazione
e relazione. Nello specifico, uno dei sotto-obiettivi di tale normativa è stato quello di incentivare la redistribuzione dei carichi di cura tra donne e
uomini, al fine di realizzare una maggiore parità tra di essi attraverso una
diversa suddivisione delle responsabilità familiari, con particolare riferimento
alla cura dei figli. Per comprendere se e come stanno mutando i comportamenti delle famiglie italiane nella cura della prole e nella conciliazione tra
i tempi di vita e di lavoro, l’istituto del congedo parentale è un indicatore
particolarmente significativo, proprio in quanto non obbligatorio. È oramai
evidente, dagli studi e analisi sin qui condotte, che l’approccio alla conciliazione come problema delle donne non sostiene la costruzione di relazioni
egualitarie, anzi, esattamente il contrario. Il fatto che nonostante le evidenze,
trovi un suo ampio radicamento negli indirizzi politici nazionali e locali,
indica una refrattarietà dell’agenda politica rispetto alle istanze egualitarie
delle donne.
Altro elemento che ancora imbriglia le politiche è quello di legare non
solo alle donne, nella fattispecie lavoratrici, il tema/problema della conciliazione, bensì in maniera pressoché esclusiva alla famiglia, come se il lavoro
di cura fosse solo quello delle donne in coppia, di cura dei figli e degli
anziani in condizione di relativa o assoluta mancanza di autonomia. Anche
l’accordo sottoscritto dal ministro per le Politiche sociali e tutte le parti
sociali, richiamando l’attivazione di risorse nelle organizzazioni del lavoro e
sulla necessità di finanziare sviluppo di servizi per l’infanzia, tematizza una
conciliazione tra famiglia e lavoro42.
È facile comprendere dunque che la mancanza di lavoro delle donne e
per le donne è persino utilizzata come risorsa liberata per il lavoro di cura
per delega della comunità e delle istituzioni. Ciò che è assente, questo è
evidente anche da quanto sta accadendo nel mondo del lavoro e nel silenzio
assoluto della politica in questo campo, è una visione di più ampio respiro
del bisogno di lavoratori e lavoratrici di riequilibrare le sfere di vita, considerando il lavoro tra le esperienze significative, ma non l’unica. La dimensione
del tempo libero ha oramai assunto un ruolo centrale verso cui si rivolgono
istanze di ricerca di senso che spesso non vengono soddisfatte dal lavoro:
l’attesa di lavoro si accompagna a quella di tempo libero. Stiamo invece
42
Si tratta dell’accordo titolato «Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra
famiglia e lavoro», sottoscritto dal ministro per le Politiche sociali e da tutte le parti sociali,
il 7 marzo 2011, una data simbolicamente rilevante collocandosi alla vigilia della Giornata
internazionale della donna.
POLITICHE E PRATICHE DI CONCILIAZIONE
75
assistendo all’insediarsi di un paradigma di lavoro scarso e vorace, volto alla
massimizzazione della produttività individuale misurata sulla presenza e sulla
illimitata disponibilità di tempo e di energie sul e per il luogo di lavoro. Si è
ristretta la visione del lavoro anche rispetto a quel modello capitalistico che
si è affermato nella divisione tra tempo di lavoro e tempo libero, assumendo
il secondo in funzione del primo come tempo riproduttivo e rigenerativo.
È dunque facile comprendere come in assenza di assunti egualitari guida, le
donne siano costrette, a più riprese nel ciclo di vita, a prendere una delle vie
alternative nel conflitto di ruolo che si presenta periodicamente e anche in
misura differente rispetto al contesto, all’età, all’estrazione sociale, al grado
di istruzione, ecc.
Il punto è che le politiche pubbliche sono difficilmente indirizzate all’obiettivo politico dell’uguaglianza e questo risulta ancora più chiaro quando
le destinatarie sono le donne. Le donne, soggetti e oggetti delle politiche
pubbliche, non indossano che i panni di erogatrici di cure, divengono il
cardine di un welfare che non riesce e non tenta di diventare il luogo simbolico-fisico istituzionale di ricucitura, di una coesione sociale messa a rischio
dalla frammentazione, oltre che dal dilagare del rischio di svantaggio e/o
di esclusione sociale. Mentre da quest’ultimo precedentemente ci si salvaguardava attraverso un accesso a servizi, mondo del lavoro meno instabile
e maggiormente universalistico, nonostante nell’universalità fosse assunta
un’uniformità che non contemplava adeguatamente la differenza, tantomeno
la differenza di genere, come un valore in sé, ma anzi si riproduceva in una
divisione dei ruoli, degli spazi sociali, pubblici e privati, in un ordine sessuato più rigido. Nella società della flessibilità appare sempre più centrale il
bisogno di cura che nel nostro paese rimane ancorato alla figura femminile
in maniera pressoché esclusiva.
La promozione dell’uguaglianza di genere è un obiettivo debole sostituito nel tempo dalla conciliazione. Conciliare è più ricorrente e più importante di promuovere. Il lavoro delle donne non risponde al principio di
indispensabilità ma di sussidiarietà: per tale ragione è prioritario investire
nella conciliazione piuttosto che nella promozione, trovando cioè la via per
cui le scelte, anche lavorative delle donne, non vadano a confliggere oltremodo con la distribuzione delle oramai sempre più esigue risorse sociali
sui territori.
Capitolo terzo
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
III.1. La ricerca, le sue ragioni, obiettivi e ricadute
Scendere sul terreno per condurre una ricerca è sempre un’esperienza importante al di là dei risultati. È l’esperienza del cedere il più possibile il
passo a coloro che interpretano la propria soggettività nelle pratiche del
quotidiano e nel contesto in cui vivono, all’interno del sistema di relazioni
che, attraverso l’agire, contribuiscono a creare, consolidare e certamente
a modificare. Questo il punto di vista sul gruppo di donne e sul contesto
indagato nel corso dell’indagine che è alla base del presente lavoro. La ricerca che viene qui illustrata è stata svolta nel periodo tra il settembre 2008
e il gennaio 2009. Un arco temporale molto ristretto, per la mole di lavoro
che ha richiesto, determinato da una richiesta esplicitata direttamente dal
territorio. L’esperienza di ricerca, i cui risultati saranno presentati e analizzati nei prossimi capitoli, ha di fatti la peculiarità di nascere direttamente
dall’esigenza espressa da alcune donne residenti, ricoprendo al momento
localmente incarichi istituzionali e politici. Una domanda dal basso che ha
significativamente intercettato un bisogno rivelatosi diffuso, tra la popolazione femminile residente, di trovare uno spazio di espressione. Un bisogno
raccolto dalle istituzioni locali con la realizzazione di un’indagine che ha
visto una significativa risposta e partecipazione1.
La necessità di descrivere e analizzare la condizione di vita e di lavoro delle donne sul territorio, è nata dalla constatazione di una scarsa
partecipazione delle residenti alla vita pubblica2. Di qui, la motivazione ad
1
Committente della ricerca è l’Assessorato alla Formazione e Lavoro della Provincia di
Pesaro Urbino.
2
Altro dato significativo è legato all’origine dell’interesse verso la partecipazione femminile
sul territorio in oggetto, problematizzata all’interno di un Corso di Formazione e Aggior-
78
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
approfondire le ragioni di un silenzio e di una invisibilità femminile, che per
il resto si coniuga con una vita attiva e di impegno quotidiano. La ricerca
dunque origina da uno stretto legame con il territorio e le sue peculiarità
socio-economiche di area ascrivibile al modello descritto da Fuà (1988) di
sviluppo senza frattura, di imprenditorialità diffusa, del modello altrimenti
definito della Terza Italia. La volontà delle donne del territorio e la loro
capacità di attivare risorse utili sono il fondamento della realizzazione del
progetto Penelope cosa fa? Attraverso le donne si è raggiunta una proficua
relazione con l’amministrazione provinciale, che ha permesso di indagare
il tema in profondità ed estensivamente. Altri uomini hanno messo a disposizione le loro competenze di conoscenza del territorio e organizzative
per coordinare la messa in atto di tutte le attività connesse con la ricerca,
attivando così una rete in favore dell’iniziativa. La costruzione e la realizzazione del progetto si è avvalsa di una metodologia partecipativa in tutte
le fasi fino alla conclusione con attività e incontri di divulgazione dei risultati sul territorio. Preliminarmente, mentre la progettazione e la definizione
degli strumenti sono stati curati dal gruppo di ricerca, le questioni sono
state individuate in un confronto con gli attori del territorio, ascoltando le
istanze provenienti dal basso. La fase di somministrazione del questionario
è stata preceduta da incontri con i rappresentanti delle scuole dei comuni
dell’area interessata, così come da una campagna di comunicazione locale
di diffusione dell’iniziativa e che ha avuto allo stesso tempo lo scopo di
sensibilizzazione della popolazione intorno ad essa. Sono poi stati organizzati localmente due incontri finali per la presentazione e la discussione
pubblica dei risultati. Il coinvolgimento di amministratori locali, cittadine
e cittadini, associazioni, istituzioni scolastiche ecc., ha saldato l’attività di
ricerca al territorio fino alla conclusione del progetto. I risultati emersi sono
stati utilizzati per pianificare interventi a supporto delle residenti, mentre si
è diffusa una maggiore consapevolezza di quanto sia necessario supportare
le donne che vivono una particolare situazione di fragilità nei percorsi lavoro-vita, a causa della quale difficilmente fuoriescono dalla dimensione del
privato per una più allargata partecipazione sociale decisamente squilibrata
nella rappresentanza.
namento sulle Pari Opportunità presso la Facoltà di Sociologia di Urbino, frequentato dalle
amministratrici che poi hanno promosso il progetto di cui qui si dà conto.
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
79
III.2. Le tecniche di rilevazione e le intervistate
In questa sezione si dà conto dell’intero percorso di ricerca, delle caratteristiche del segmento di popolazione coinvolta, delle tecniche e degli strumenti
utilizzati per la rilevazione dei dati. La ricerca ha riguardato direttamente
le donne con e senza figli di un vasto territorio all’interno della Provincia
di Pesaro Urbino. La scelta di indagare su questa area, come già illustrato
nell’introduzione, nasce da una domanda espressa dal territorio, al fine, tra
l’altro, di colmare una lacuna di conoscenza che contrasta con un orientamento delle azioni di ricerca concentratesi nel tempo sulla zona costiera
piuttosto che sull’entroterra. Il campo di indagine è costituito da un’area
socio-geografica che si estende in 13 comuni dell’area della Val Metauro3,
al cui interno sono state coinvolte le donne residenti. In particolare, sono
stati selezionati due segmenti della popolazione femminile, rispettivamente
le donne con figli minori fino ai 10 anni e le donne, con età compresa tra
i 18 e i 45 anni, senza figli.
Al fine di cogliere la complessità dei processi approfonditi nei capitoli
precedenti, si è ritenuto di ricorrere alla combinazione di strumenti differenti
di rilevazione per mettere a fuoco le condizioni individuali insieme a quelle
di contesto e per cogliere altresì le specificità dei due gruppi di intervistate,
oltre alle comunalità.
III.2.1 Le intervistate con figli
Il principale segmento di popolazione su cui si è indagato riguarda le donne
con figli minori in età fino ai 10 anni, frequentanti le scuole d’infanzia fino
alle scuole primarie. Considerando che in questa fascia di età i figli sono in
relazione di dipendenza dai genitori (con conseguenze sul carico di cura), si
è ipotizzato che questo coincida con una fase della vita, specie delle madri,
in cui le strategie di conciliazione si realizzano sotto la pressione di richieste
molteplici e sovrapposte di cura dei figli, dei familiari, oltre che di attese di
realizzazione personale.
Le residenti con figli fino a 10 anni sono state intervistate attraverso un
questionario autosomministrato distribuito nelle sedi scolastiche dei tredici
comuni, selezionate, rispettando la rappresentatività territoriale. Attraverso i
3
I Comuni sono i seguenti: Barchi, Cartoceto, Orciano, Piagge, Fossombrone, Isola del
Piano, Mondavio, Montefelcino, Montemaggiore, Saltara, San Giorgio di Pesaro, Sant’Ippolito, Serrungarina.
80
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
criteri del campionamento areale, in ciascuno dei comuni compresi nell’area
territoriale da indagare, sono state selezionate le scuole primarie e di infanzia
su cui effettuare la rilevazione. Nel rispetto della rappresentatività territorialecomunale, anche relativamente all’ampiezza dei comuni, dei plessi e della
numerosità della popolazione scolastica, sono state selezionate le unità di
rilevazione, vale a dire prima le sedi scolastiche e, all’interno di esse, le classi
in cui distribuire i questionari.
Il questionario è stato distribuito nella prima settimana di novembre
2008, grazie alla collaborazione dei/delle dirigenti e del personale dei distretti
e dei plessi scolastici. Il contatto preliminare con i responsabili dell’ambito
territoriale e con i dirigenti scolastici del territorio ha permesso un buon
coinvolgimento nel progetto e un successo evidenziato dall’elevato tasso
di ritorno dei questionari4. La restituzione è avvenuta nelle due settimane
seguenti. Sono stati distribuiti 1.941 questionari con un tasso di ritorno di
oltre il 54%, pari ad un totale di 1.060 questionari validi.
Si tratta di un questionario standardizzato, con domande incentrate sugli
equilibri e relazioni tra vita e lavoro, articolato in 5 aree problematiche e
preceduto da una presentazione del progetto complessivo e dei suoi scopi,
nonché da brevi istruzioni per la compilazione. La struttura dello strumento
di rilevazione è abbastanza complessa: si compone di 38 domande, la maggior parte delle quali chiuse e una parte aperte per offrire alle intervistate
la possibilità di inserire commenti, osservazioni ed integrazioni di risposte
ai quesiti. Qui di seguito la descrizione delle aree problematiche in cui è
suddiviso il questionario:
A. Dati personali. La prima area contiene domande volte alla raccolta dei
dati socio-anagrafici delle intervistate (comune di residenza, età, titolo di
studio, numero di figli, condizione occupazionale, ecc.) e dei componenti
il nucleo familiare. Lo scopo di questo gruppo di domande è descrivere le
caratteristiche personali e dei familiari, in particolare i figli e il partner/marito/convivente.
B. Il lavoro. La seconda area è quella relativa al lavoro. Qui sono state
formulate domande relative alla condizione occupazionale personale della
rispondente e a quella degli eventuali partner (mariti, conviventi), agli orari
di lavoro, ai tempi di percorrenza verso la sede di lavoro ed i mezzi di tra4
Un particolare riconoscimento va a Susanna Marcantognini per il lavoro svolto nella distribuzione e raccolta dei questionari. La sua disponibilità, tenacia e conoscenza del territorio
sono stati fondamentali per la realizzazione della ricerca.
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
81
sporto utilizzati, l’importanza attribuita al lavoro. In questa area le domande
sono volte a descrivere sia la situazione lavorativa presente e, ove possibile,
quella passata, nonché quella desiderata e/o attesa per il futuro.
C. La famiglia. In questa area le domande sono volte a comprendere l’organizzazione familiare, gli eventuali aiuti esterni e l’articolazione delle reti di
cura, la divisione dei compiti di cura all’interno della coppia, verso persone
e cose. Questa è l’area più propriamente focalizzata sul tema della conciliazione tra tempo di vita e di lavoro, sulla gestione del tempo e sul bisogno
di tempo da parte delle intervistate.
D. Il territorio. In questo caso le questioni poste sono tutte volte a descrivere
il territorio in cui le intervistate risiedono e a valutarne i servizi. Con una
serie di domande mirate le intervistate sono state invitate ad esprimere un
giudizio numerico, ma anche in forma aperta e discorsiva, su una serie di
principali servizi, valutandone disponibilità, qualità e orari di fruizione.
E. Altro. L’ultima sezione del questionario contiene domande volte ad indagare le priorità delle intervistate. In particolare sono state considerate le questioni dell’avere figli, avere tempo libero per sé, avere un compagno/marito
ecc. Si tratta di quesiti che hanno funzione di controllo e approfondimento
rispetto ai precedenti. Le domande sul tempo per sé hanno lo scopo di
approfondire la percezione della disponibilità, del bisogno più o meno soddisfatto. Inoltre, come domanda conclusiva è stato chiesto alle rispondenti
di indirizzare suggerimenti agli amministratori e alle amministratrici locali
in favore delle donne. Da ultimo, in uno spazio libero è stata prevista la
possibilità di scrivere le proprie osservazioni, commenti e opinioni sui temi
proposti e sulla ricerca stessa.
III.2.2 Le intervistate senza figli
Il secondo segmento di popolazione femminile su cui la ricerca ha indagato,
è quello delle donne senza figli, residenti nel territorio, in una fascia di età
compresa tra i 18 e i 45 anni. In questo caso è l’età delle intervistate, insieme
alla condizione del non avere figli, a rappresentare il criterio di selezione
dei soggetti. Nell’includere le donne senza figli nei piani dell’indagine, ci
si è posti l’obiettivo di guardare alla costruzione delle strategie di vita e di
lavoro, oltre che ai problemi derivanti dalla ricerca del difficile equilibrio fra
le due sfere di vita, operando un raffronto con il gruppo delle madri. Questo
82
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
supplemento di indagine è stato fortemente voluto dal gruppo di ricerca, al
fine di introdurre un approfondimento su tutta la popolazione femminile che
potesse cogliere più adeguatamente la complessità dei percorsi delle donne
e la varietà delle loro scelte, così come i diversi legami con il contesto che
si instaurano a partire dai rispettivi stili di vita. Vi è altresì la chiara volontà
di impostare le strategie di ricerca in una visione allargata della cosiddetta
conciliazione e non riduttiva, vale a dire non entro un’equivalente della
maternità. Indagare sulle donne con figli e, contemporaneamente, su quelle
senza figli ha anche senso nel considerare la maternità e l’assenza di essa
sia un discrimine delle differenti posizioni, sia una continuità del femminile
in senso più ampio.
Le opinioni e le storie delle donne senza figli sono state raccolte attraverso interviste di gruppo, una tecnica che ha permesso di andare in profondità
nei temi proposti, oltre che risultare più adeguata a rispondere ad esigenze di
tipo esplorativo su una fascia di popolazione troppo spesso ignorata rispetto
all’oggetto di ricerca. Un ulteriore vantaggio offerto da questa modalità di
intervista è di riuscire a cogliere, insieme alle testimonianze singole, le interdipendenze nel confronto tra le diverse donne ed esperienze di vita, che
di fatto condividono una condizione sociale comune.
Sono state realizzate tre interviste di gruppo con donne senza figli residenti nei comuni interessati. Le intervistate sono state individuate attraverso
il passaparola messo in atto dai gatekeeper sul territorio. Le interviste di
gruppo sono state realizzate in 3 serate diverse, nell’arco di circa un mese
nel periodo tra novembre e dicembre 2008, in orario serale, trattandosi da
una parte di donne libere da impegni derivanti dalla cura dei figli, dall’altra impossibilitate a partecipare durante il giorno perché (come si vedrà)
occupate con lavori quasi sempre a tempo pieno e con orari piuttosto impegnativi (anche a causa degli spostamenti verso e dal luogo di lavoro e/o
di studio).
Le interviste hanno avuto una durata media di 1 ora e mezzo circa e
sono state tutte registrate, previo consenso delle intervistate, poi letteralmente trascritte al fine di predisporle per l’analisi. La discussione di gruppo
è stata guidata sulla base di una scaletta di intervista semi-strutturata, volta
ad indagare le seguenti aree:
A. Mappa. La mappa è stato lo strumento utilizzato a stimolo iniziale dell’intervista. È stato domandando alle intervistate di disegnare o descrivere,
nei modi che più ritenevano confacenti, una loro giornata tipo a scelta della
settimana lavorativa, prestando particolare attenzione non solo alle attività
svolte sequenzialmente, ma agli spostamenti necessari e i mezzi per essi uti-
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
83
lizzati. Per ogni spostamento si è chiesto di indicare l’attività corrispondente,
il mezzo di trasporto utilizzato, l’orario e il tempo impiegato. Una volta
ricostruita la mappa personale, è stato chiesto a ciascuna delle intervistate
di descriverla al gruppo.
B. Il territorio. Le intervistate sono state invitate a raccontare da quanto
tempo risiedono nel territorio, gli eventuali trasferimenti vissuti e per quali
ragioni. Inoltre, è stato chiesto loro di esprimere dei giudizi sulla qualità del
vivere nel territorio (opportunità del tempo libero, trasporti, partecipazione
sociale, opportunità per le donne, ecc.) evidenziando sia gli aspetti positivi,
sia quelli negativi.
C. Il lavoro. In questa sezione sono state di volta in volta rivolte alle intervistate domande relative sia all’attività lavorativa svolta al momento della
rilevazione, sia alle eventuali esperienze pregresse. Altre domande hanno
riguardato i rapporti e le opportunità lavorative e, più in generale, le differenze tra uomini e donne che hanno potuto osservare ed esperire nei luoghi
di lavoro e nel mercato del lavoro locale. Particolari approfondimenti sono
stati dedicati all’importanza del lavoro, al rapporto tra lavoro e altre sfere
di vita, tra ruolo familiare, materno/genitoriale e lavorativo.
D. La Famiglia. In questa area sono state collocate domande volte ad approfondire l’organizzazione del lavoro di cura all’interno delle famiglie delle
intervistate, siano esse le famiglie di origine sia il rapporto con il partner,
con lo scopo di cogliere i diversi assetti di divisione del lavoro di cura e
domestico e il loro riferirsi a modelli sessuati. Altre domande hanno riguardato l’importanza della famiglia, il modello familiare esperito, l’importanza
di avere o non figli.
E. Tempo libero. Qui sono state raggruppate le domande relative al tempo
libero o al tempo di lavoro. A tale scopo si è chiesto alle intervistate di
indicare le attività abitualmente svolte e la frequenza; allo stesso tempo
si è indagato sugli eventuali desideri in relazione al tempo disponibile per
sé, di quanto effettivamente ne dispongono e di quanto vorrebbero invece
disporne.
F. Valutazione e prospettive. Le interviste si chiudono con due domande. La
prima relativa alle aspettative future, in particolare cosa ciascuna intervistata
si augura per sé nel prossimo futuro. La seconda invece è un invito rivolto
alle intervistate ad immaginare di ricoprire un ruolo di amministratrici del
84
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
territorio e, in quanto tali, decidere un intervento importante in favore delle
donne residenti.
Queste le aree e l’articolazione della scaletta di intervista. Prima dell’inizio della stessa, e a seguito della preliminare presentazione del progetto e
delle intervistatrici, è stato distribuito a ciascun gruppo un breve questionario,
articolato secondo le medesime aree di quello somministrato alle donne
con figli, ma con un numero di quesiti minore. Ciò al fine di rilevare, in
maniera rapida e funzionale allo svolgimento dell’intervista, i dati anagrafici
e personali delle intervistate, mantenendo una comparabilità con le risposte
fornite dalle donne con figli su alcuni temi comuni. Il questionario compilato dalle donne senza figli è infatti articolato in 13 domande tutte chiuse e
diviso in 3 sezioni corrispondenti alle sezioni A. Dati anagrafici, B. Il lavoro,
D. Il territorio. Il questionario, oltre che strumento di rilevazione, ha altresì
rappresentato lo spunto per l’inizio della discussione di gruppo.
III.3. Il contesto della ricerca
La Provincia di Pesaro-Urbino è l’area in cui è stata realizzata la ricerca.
Un’area con sue precipue caratteristiche, sia demografiche sia socio-economico produttive, su cui ci soffermeremo nei prossimi paragrafi. L’unità
provinciale è un riferimento territoriale significativo in termini di analisi. Il
numero di comuni piuttosto elevato, passato da poco da 67 ad un totale di
605, rende il territorio piuttosto frammentato. Al suo interno si individuano
aree intercomunali relativamente omogenee soprattutto per specificità del
tessuto socio-economico e demografiche. A partire dalle caratteristiche demografiche, una prima distinzione interna al territorio è quella tra area costiera ed entroterra. Ricordiamo che la ricerca è stata realizzata nell’entroterra,
nell’area della Comunità Montana Zona E, includendo altresì il Comune di
Cartoceto. Esistono, tra l’area costiera e l’entroterra, significative differenze
in primo luogo socio-demografiche (Regione Marche, 2009).
La distribuzione della popolazione nella regione, come pure nella Provincia di Pesaro-Urbino, mostra una preferenza verso la zona costiera (v.
Tab. III.1). Qui circa un quarto della popolazione risiede nel capoluogo,
in proporzione più elevata di quanto non accada nelle altre province della
regione (Regione Marche, 2010a). La zona dell’entroterra, infatti, presenta
tassi di natalità più bassi e una maggiore concentrazione di popolazione
5
Sette comuni sono di recente passati sotto la Provincia di Rimini.
85
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
anziana. In controtendenza risultano gli insediamenti degli stranieri nella
regione, che invece seguono un andamento esattamente opposto, andando a
privilegiare le zone più interne, vale a dire aree più prossime a siti produttivi
e con mercati immobiliari di maggiore accessibilità. Proprio nella Provincia
di Pesaro-Urbino, l’andamento del mercato immobiliare determina i costi più
elevati della regione anche per quanto riguarda gli affitti (Regione Marche,
2009).
Tabella III.1 - Abitanti per Kmq - Zone altimetriche
Pesaro e Urbino
Ancona
Macerata
Ascoli Piceno
Fermo
Marche
Montagna
interna
Collina
interna
Collina
litoranea
Totale
Superficie
(Kmq)
35
80
19
24
16
38
79
171
86
207
86
104
373
371
323
330
322
351
143
247
117
174
207
167
2564,21
1940,16
2773,75
1228,23
869,51
9365,86
Fonte: Regione Marche, Sistema Informativo Statistico, 2010b
Se infatti la popolazione della regione Marche si distingue oramai da
anni per tassi di invecchiamento della popolazione molto più elevati di
quelli della media nazionale (età media della popolazione 45,4 anni contro
i 42,8 a livello nazionale) (Regione Marche, 2011), a livello regionale, come
provinciale, questo riguarda prevalentemente la zona dell’entroterra più di
quella costiera. Generalmente sono le donne le più longeve. Specularmente,
questo si riflette sull’indice di dipendenza6 per cui si rileva un carico sociale
più elevato, ancora una volta nell’entroterra piuttosto che sulla costa. Ad
abbassare l’età media della popolazione contribuisce la componente di popolazione immigrata: in continua crescita nella Provincia presenta un’età
media che, a livello regionale, risulta più bassa di quella nazionale. Si tratta
di una tendenza rilevante per la composizione della popolazione, un elemento di significativa trasformazione della realtà locale in termini di crescente
eterogeneità. In due anni la presenza degli stranieri nella Provincia passa
dal 7,6% al 9,2%. Questo a fronte di un contestuale calo nella popolazione
residente per effetto della fuoriuscita dall’area di competenza provinciale di
ben 7 comuni.
6
L’indice di dipendenza nella regione Marche è del 56% circa, contro il 52% calcolato su
base nazionale (Regione Marche, 2011).
86
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Tabella III.2 - Popolazione residente - densità abitativa nei comuni
dell’area indagata
Residenti
Fossombrone
Cartoceto
Saltara
Mondavio
Montemaggiore al Metauro
Serrungarina
Orciano di Pesaro
Sant’Ippolito
San Giorgio di Pesaro
Piagge
Barchi
Isola del Piano
Pesaro-Urbino
9.897
7.966
6.758
4.011
2.710
2.526
2.203
1.602
1.441
1.026
1.013
654
365.788
Densità per kmq
92,8
344
677,8
136,1
207,8
109,9
92,6
81,2
69
118,7
58,8
28,4
143
Fonte: nostra elaborazione da demo.istat.it, 2010
La forma prevalente di convivenza è quella fondata sul matrimonio, di
cui una buona tenuta mostra il rito religioso, sebbene in misura decrescente
rispetto a quello civile che segna un incremento nel tempo. I matrimoni civili
sono poco meno del 40% (Sistar Marche, 2010) (v. Fig. III.1) del totale dei
matrimoni con una percentuale lievemente più bassa rispetto a quella del
paese. La tendenza segue quella nazionale per tasso di nuzialità (circa 3,2),
il quale nella Provincia di Pesaro-Urbino si attesta stabilmente ad un livello
lievemente più basso (a partire dal 2007) delle altre province. Per quanto
riguarda l’area in cui è stata condotta la ricerca, l’incidenza del matrimonio
appare di qualche punto più bassa rispetto alla Provincia di riferimento e del
territorio regionale. Bassi risultano anche i tassi di divorzio e separazione.
Il matrimonio, anche nella realtà locale osservata, è soggetto a rilevanti
cambiamenti, prima di tutto in relazione alla scansione del corso di vita.
Da diversi decenni l’età del primo matrimonio7, anche tra la popolazione
marchigiana, tende a spostarsi verso un’età più elevata. Se nel 1970 l’età
media al primo matrimonio era di 27 anni per i maschi e 23 per le femmine, nel 2010 è rispettivamente di 34 e 31. Tra la popolazione femminile,
lo spostamento è superiore di un anno a quello rilevato nella popolazione
7
Il secondo matrimonio ha nella regione una incidenza dell’8% sulla popolazione di riferimento.
87
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
maschile. L’effetto di una diversa socializzazione, ma soprattutto l’incidenza
di un accesso massivo agli studi da parte delle donne, ha di fatto ridefinito
il corso di vita, anche in relazione alla tappa del matrimonio. Il numero
dei matrimoni nella fascia di età più giovane è esiguo, dato in linea con i
cambiamenti della società più ampia.
("""
'"""
&"""
%"""
*+,-./01+2+-3*+,-.4+5+10
$"""
!"""
#"""
"
!""" !""# !""! !""$ !""% !""& !""' !""( !"")
Figura III.1 - Matrimoni per rito civile e religioso – 2000-2008. Fonte: nostra elaborazione
da Sistar Marche, 2009.
Tabella III.3 - Popolazione per stato civile (val.%)
Provincia Pesaro Urbino
Comunità montana/Cartoceto
Regione Marche
Celibi/Nubili
Coniugati/e
Divorziati/e
Vedovi/e
Totale
40,37
37
39
50,38
47
51
2
1
2
7
7
8
100
100
100
Fonte: nostra elaborazione da Sistar Marche-dati aggiornati al 1° gennaio 2010.
Recenti osservazioni (Regione Marche, 2010a) mostrano come proprio
nella regione Marche la permanenza dei giovani in famiglia risulti al momento ulteriormente prolungata. La crisi economica ha innescato una nuova
«riorganizzazione sociale» verso una «riaggregazione familiare»8 (Regione
Marche, 2008; 2010a; 2011): aumenta il numero dei componenti del nucleo
8
Lo stesso fenomeno è stato osservato dal punto di vista abitativo. L’indagine sulle famiglie marchigiane del 2009 rileva rispetto all’anno precedente una diminuzione dello spazio
abitativo pro-capite.
88
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
familiare9 e diminuisce, al suo interno, quello dei percettori di reddito10
(nonché, contestualmente la già bassa percentuale di famiglie unipersonali).
A confronto del periodo precedente la “crisi”, é dunque in aumento il numero di giovani che permangono in famiglia, mentre diminuiscono quelli
che si sposano e hanno figli, con effetti peraltro evidenti sull’andamento dei
comportamenti riproduttivi. Nel 2010, nella fascia di età tra i 20 e i 30 anni
risulta sposato/convivente solo il 6% dei giovani, l’87,5%11 vive con i genitori,
percentuale, quest’ultima, misurata al 72% appena nel 2008 (Regione Marche,
2011; 2010a). Si osservano pertanto strategie adattive agli esiti erosivi della
crisi a livello locale, la quale induce una ridefinizione delle relazioni, in una
direzione che torna verso forme di convivenza tra generazioni diverse all’interno dello stesso gruppo familiare. Sebbene non sia possibile descrivere una
tendenza consolidata, è interessante notare come emergano segnali di una
riorganizzazione sociale che ricompatta le famiglie facendole assomigliare
maggiormente a quelle allargate della tradizione del passato recente, non
solo per il tendenziale incremento del numero dei conviventi, ma anche per
gli effetti di redistribuzione del reddito tra gli stessi all’interno degli aggregati
familiari. Per quanto concerne la provincia di Pesaro-Urbino, il numero di
componenti per famiglia si aggira intorno ad una media di 2,5, mentre per
i Comuni su cui è stata condotta la ricerca la media è compresa tra i 2,4 di
Isola del Piano e i 2,7 di Serrungarina (v. Tab. III.4).
Altro dato relativo ad un tendenziale ripiegamento su assetti familiari
“tradizionali” riguarda la figura prevalente del capofamiglia. Nella quasi totalità siamo in presenza di un capofamiglia maschio (96% dei casi rilevati
dall’indagine Famiglie della Regione Marche del 2010), considerato cioè
responsabile delle entrate economiche. L’organizzazione familiare intorno al
reddito del marito capofamiglia è persino più accentuata nelle coppie coniugate. Le donne capofamiglia sono più frequentemente separate, divorziate o
vedove. In ogni caso, il reddito della donna capofamiglia è mediamente più
basso di quello dei maschi capofamiglia.
9
I nuclei familiari nella regione sono composti mediamente da 2,8 componenti per 1,8
percettori di reddito (Regione Marche, 2011).
10
La situazione di difficoltà delle famiglie nelle Marche ha mostrato nel 2010 segnali
negativi anche per quanto riguarda le ricadute sulla capacità di risparmio delle famiglie: «La
contrazione del reddito disponibile delle famiglie ha continuato a ostacolare l’accumulazione
del risparmio finanziario. La raccolta finanziaria è stata debole e in decelerazione rispetto a
dodici mesi prima» (Banca d’Italia, 2011).
11
I giovani marchigiani tra i 20 e i 30 anni sposati/conviventi erano l’8% nel 2009, mentre
i conviventi con i genitori erano l’85,7% (Regione Marche, 2011). Si tratta dunque di una
tendenza alla immobilità che tende ad acuirsi negli ultimi anni.
89
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
Tabella III.4 - Popolazione residente per sesso, numero di famiglie, convivenze e
numero di componenti – anno 2009
Comuni
Barchi
Cartoceto
Fossombrone
Isola del piano
Mondavio
Montefelcino
Montemaggiore al Metauro
Orciano di Pesaro
Piagge
Saltara
San Giorgio di Pesaro
Sant’ippolito
Serrungarina
Provincia Pesaro Urbino
Popolazione al 31 Dicembre 2009
Maschi
Femmine
Totale
Numero di
famiglie
Numero di
convivenze
495
3991
4844
338
1982
1402
1352
1082
501
3406
720
794
1270
179043
518
3975
5053
316
2029
1417
1358
1121
525
3352
721
808
1256
186745
1013
7966
9897
654
4011
2819
2710
2203
1026
6758
1441
1602
2526
365788
385
3075
3896
268
1575
1092
1031
863
398
2536
559
612
927
149117
1
2
8
1
1
0
0
3
0
2
0
0
0
181
Fonte: nostra elaborazione da sistema statistico Regione Marche.
L’elemento più saldo dell’organizzazione sociale locale rimane la famiglia
nella sua forma tradizionale: pur non priva di spinte al mutamento, questo
risulta, alla luce dei fatti, residuale, se non nell’eccezione del declinare del rito
religioso (comunque maggioritario) in favore di quello civile. Oltre un quarto delle famiglie della regione è composta da coppie con un figlio minore,
cui seguono per incidenza le coppie in coabitazione con figli maggiorenni
(circa il 18%), le famiglie anziane senza figli (15%) che per la metà sono
costituite da anziani soli (Regione Marche, 2008). Si rileva un’articolazione
abbastanza variegata del panorama familiare; d’altra parte, la figura maschile,
fulcro dell’organizzazione familiare e principale procacciatore di reddito,
risulta persino rafforzata.
Il numero dei figli è nella provincia, così come nell’intera regione, al
di sotto del tasso di sostituzione. La fecondità segue nella popolazione un
andamento crescente tra il 2002 e il 2008, anno in cui si registra una lieve
diminuzione. Le famiglie straniere hanno un numero di figli più elevato rispetto alla popolazione autoctona, soprattutto quelle in cui il capofamiglia ha
un livello di istruzione più basso. Esattamente l’inverso di quanto non accada
nella popolazione autoctona in cui il numero di figli tende ad aumentare con
il livello di istruzione del capofamiglia (Regione Marche, 2010a).
90
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Un elemento di differenziazione importante nella composizione demografica locale è costituita dalla popolazione immigrata. Da un’indagine condotta dalla regione Marche risulta che nel 200812 le madri straniere hanno
un livello di istruzione mediamente inferiore, tendenzialmente coerente con
quello dei coniugi. Questi ultimi, sono maggiormente esposti al rischio di
disoccupazione rispetto ai corregionali autoctoni. Per quanto riguarda la relazione tra maternità e condizione lavorativa emerge invece che le madri marchigiane, nell’anno osservato, risultano prevalentemente coniugate (v. Tab.
III.5) e, tra queste, la maggioranza (70%) ha un’occupazione, mentre circa un
quarto (25%), al momento della nascita del figlio, risulta essere casalinga.
Tabella III.5 - Condizione lavorativa delle madri per stato civile - Regione Marche anno 2008
Occupata
Nubile
Coniugata
Separata
Divorziata
Vedova
Totale
Casalinga
Studentessa
N
%
Disoccupata
N
%
N
%
N
%
N
Totale
%
1888
7472
181
81
13
9635
69
70
77
41
76
69
271
504
13
7
1
796
10
5
6
3
6
6
442
2680
37
13
2
3174
16
25
16
6
12
23
110
61
2
0
0
173
4
1
1
0
0
1
2806
10717
233
202
17
13975
100
100
100
100
100
100
Fonte: nostra elaborazione da Regione Marche, 2008.
Una percentuale che appare essere più elevata tra le straniere, tra cui la
condizione di casalinga raggiunge oltre la metà del totale delle madri; sono
più giovani e rappresentano meno di un terzo delle madri. Complessivamente la condizione di casalinga ha una significativa incidenza, proprio nel
periodo seguente la nascita dei figli, che coincide con il momento di massimo
rischio di caduta di partecipazione lavorativa per le donne. Del resto, come
in buona parte del paese, la copertura dei servizi di prima infanzia, lascia
supporre anche in questa regione un’ampia “delega in bianco” alla rete di
cura familiare. La copertura nazionale dei servizi per la prima infanzia supera
di poco il 13% (Istat, 2010d) della domanda potenziale, con un aumento di
12
Si tratta dell’indagine condotta dall’Osservatorio epidemiologico sulle diseguaglianze
della Regione Marche che ha condotto un’analisi dei dati riportati dai certificati di assistenza
al parto in 18 punti nascita della Regione con una copertura del sistema pari al 97,3% del
totale dei parti regionali. Per ulteriori informazioni si veda il rapporto Gravidanze e nuove
nascite nella regione Marche. Primo rapporto sui dati del Certificato di assistenza al parto. Anno
2008, consultabile al sito www.ars.marche.it.
91
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
appena il 2% dal 2000 (Zollino, 2008), a fronte di una media italiana pari al
10,4% nell’anno scolastico 2008-2009 (v. Tab. III.6).
Tabella III.6 - Asili nido indicatori territoriali - anno 2008
Regione e ripartizione
geografica
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord-ovest
Nord-est
Centro
Sud
Isole
ITALIA
Percentuale
di comuni coperti
dal servizio (2)
Indice di copertura
territoriale del servizio (3)
(per 100 bambini 0-2 anni
residenti nella regione)
Indicatore di presa in
carico degli utenti (4)
(per 100 residenti 0-2
anni)
28,0
78,4
56,2
53,4
65,2
77,2
38,3
81,8
64,5
54,3
48,0
23,0
25,9
5,9
15,4
31,8
21,4
13,9
33,6
14,1
44,3
69,4
43,9
18,9
24,0
40,9
74,0
91,2
84,1
77,0
83,3
91,7
88,1
96,8
91,3
88,9
84,5
77,2
68,8
37,5
37,8
59,3
56,9
42,9
68,3
57,0
81,9
89,1
83,3
47,8
65,9
73,4
11,4
22,0
13,3
9,3
9,8
11,7
13,1
24,0
16,9
18,6
13,3
11,8
7,8
4,3
1,7
3,9
6,7
2,3
5,9
6,5
12,9
15,2
14,0
3,1
6,0
10,4
(1) Questa voce comprende sia le strutture comunali che le rette pagate dai comuni per gli utenti di
asilo nido privati.
(2) Percentuale di comuni in cui è attivo il servizio. Per il Nord-est e per il totale Italia l’indicatore è
calcolato al netto della Provincia di Bolzano.
(3) Percentuale di bambini tra 0 e 2 anni che risiede in comuni in cui è presente il servizio. Per il Nordest e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano.
(4) Utenti per 100 bambini tra 0 e 2 anni.
(5) Dati al 31.12.2007. Non è disponibile il dato relativo al numero di comuni coperti dal servizio.
Fonte: Istat, 2010d.
92
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Dal 2004 al 2008 «la percentuale di comuni che offrono il servizio di asilo
nido, sotto forma di strutture comunali o mediante trasferimenti pubblici
a sostegno delle famiglie che usufruiscono delle strutture private, ha fatto
registrare un progressivo incremento, dal 33,7% del 2004 al 40,9% del 2008.
Di conseguenza, i bambini tra zero e due anni che vivono in un comune che
offre il servizio sono passati dal 67,4% al 73,4% (indice di copertura territoriale)» (Istat, 2010d). Si è dunque ampliata l’area di copertura sul territorio,
tuttavia molta parte della domanda rimane a tutt’oggi insoddisfatta.
Osservando l’andamento generale, la regione Marche ha investito considerevolmente sui servizi all’infanzia. Nel periodo compreso tra il 2003 e
il 2009 nella Regione Marche si può calcolare che i posti nido in gestione
diretta o convenzionata13 sono aumentati del 56%, passando da un numero
di 3.863 a 6.046. Tale incremento non ha gravato sui fondi regionali, bensì
su quelli comunali e sulle famiglie attraverso gli aumenti delle rette che
negli ultimi anni sono stati considerevoli. Diversamente la survey condotta
dalla Regione Marche sulle Famiglie marchigiane e mercato del lavoro (Regione
Marche, 2008) mostra che quasi il 30% delle famiglie marchigiane con minori
nella fascia d’età 0-2 usufruisce del servizio di asili nido. I dati descrivono
da una parte servizi insufficienti rispetto al fabbisogno, dall’altra reti di cura
primarie corte e cortissime.
Tabella III.7 - Strategie di cura delle famiglie con minori di età 0-2 nelle Marche
Tipologia Famiglia
%
Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni nelle Marche
Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni che utilizzano:
Asili nido pubblici
Asili nido privati
Baby sitter
Parenti non retribuiti
Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni nelle Marche che utilizzano asili nido
pubblici o privati
Famiglie con minori nella fascia 0-2 anni che utilizzano:
Né asili né parenti (carico di cura sulle famiglie stesse)
Solo asili o solo parenti
Sia il servizio di asilo (pubblico o privato) sia i parenti
Totale
6,7
19,6
12,7
3,8
0,38
29,8
46,7
38,9
14,4
100
Fonte: Regione Marche, 2008.
13
Si tratta di posti per cui la Regione Marche eroga un contributo su fondi ex lr.
09/2003.
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
93
Come emerge dal rapporto dell’appena citata indagine (v. Tab. III.7),
una famiglia su cinque nella regione Marche può contare su servizi di asilo
pubblici (19,6%) prevalentemente, ma anche privati (12,7%). Più raramente
ci si affida ad una persona pagata per la cura dei figli quale classicamente
individuabile nella figura della babysitter, pratica dichiarata dal 3,8% delle
famiglie.
Primariamente è la rete familiare a farsi carico della cura dei figli in
questa fascia di età (38%), tuttavia, mentre per la metà delle famiglie interessate emerge la possibilità di far conto sia sui servizi, sia su almeno una
persona nella rete parentale, risulta significativo il numero di famiglie, poco
meno della metà del totale (46,7%), che dichiara di non ricorrere né al servizio di asilo, né al supporto di parenti. Queste sono le famiglie che si fanno
totalmente carico della cura dei figli, senza supporto alcuno di servizi e di
reti primarie. Si aprono intorno a questi dati riflessioni sulle trasformazioni
delle comunità locali e in merito alle ricadute sui percorsi individuali: in
sovrapposizione alle diseguaglianze strutturali esistenti, il rischio di nuove14.
Al suo interno la regione presenta una situazione considerevolmente eterogenea che porta ad individuare due diverse sub aree regionali: da una parte
Pesaro-Urbino e Ancona, dall’altra Macerata e Ascoli, denotano due diversi
modelli di distribuzione e accesso ai servizi di asilo nido.
Vi sono poi segnali di grande difficoltà che per effetto della congiuntura
economica, crescente precarizzazione e scarsa disponibilità dei servizi, rendono evidente un processo in atto di ulteriore fragilizzazione delle donne del
territorio. Secondo i dati della Direzione regionale del lavoro ed elaborati
da CGIL Marche, le dimissioni delle donne nel primo anno di vita dei loro
figli sono state 578 nel 2010 e 620 nel 2011, pari ad un incremento del 7,3%
nell’arco di un anno, di cui ben 196 i casi nella provincia di Pesaro-Urbino.
Nei due anni precedenti nella stessa provincia le donne dimissionarie sono
state 120 nel 2008 e 135 nel 2009. Si tratta in prevalenza di lavoratrici
cittadine italiane, dipendenti di piccole imprese nel settore dei servizi e del
commercio. Quanto alle motivazioni dichiarate dalle stesse “dimissionarie”,
al primo posto vi è la mancanza di accoglimento del neonato al nido, cui
segue l’assenza di aiuti da parte di parenti. Due i dati rilevanti: il primo è
quello di un andamento crescente, il secondo di una significativa incidenza
sul territorio pesarese del fenomeno. Nel biennio 2009-2011 le neo-madri
14
Nel rapporto citato viene altresì evidenziato come l’accesso ai servizi d’infanzia sia diseguale per classe sociale d’appartenenza, per cui le classi sociali più svantaggiate risultano
tali soprattutto per gli effetti negativi prodotti dall’interazione con la variabile che descrive
la mancanza di aiuti familiari.
94
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
dimissionarie sono state 1.750 in tutta la regione ma nella provincia di Pesaro si è registrato il più significativo incremento. I recenti provvedimenti
di legge a livello nazionale, insieme alla sopravvenuta congiuntura di contrazione economica, sembrano impattare gravemente sulle condizioni delle
donne in questa porzione regionale e in particolare sulla realtà provinciale
pesarese.
Tabella III.8 - Famiglie con compiti di cura e accesso a risorse di aiuto
per provincia
Provincia
Pesaro-Urbino
Ancona
Macerata
Ascoli Piceno
Totale
% famiglie con figli nei nidi
% famiglie con aiuti di cura
(parenti e/o servizi)
34,4
31
25
26,1
29,8
48,8
59,3
51,1
46,6
53,3
Fonte: Regione Marche, 2008.
Vi è qui da rilevare la maggiore incidenza dell’effetto congiunto di crisi
economica e occupazionale, condizioni discriminanti preesistenti di accesso
al mercato locale, insufficienza dei servizi rispetto alla domanda e andamento
demografico. Tutto questo va ad accrescere le difficoltà di partecipazione
delle donne, che non possono essere ridotte alla mera disponibilità/indisponibilità di servizi per l’infanzia. Infatti, paradossalmente, la più elevata
copertura di asili nido si registra proprio nella provincia di Pesaro-Urbino
in cui si arriverebbe ad una percentuale di utenti autodichiarati pari al 34,4%
del totale delle famiglie con età tra 0 e i 2 anni, contro il 25% di Macerata.
Quanto ai servizi innovativi (micronidi, nidi di famiglia e servizi per la prima
infanzia) e alla loro diffusione nel territorio regionale (v. Tab. III.9), anche
in questo caso la situazione marchigiana è in linea con quella nazionale e in
particolare con quella del Centro Italia. Nell’insieme si conferma una relativa
stabilità nel tempo, ma che lascia insoddisfatto larga parte del fabbisogno
potenziale, non coperto da alcuna forma di servizio pubblico.
I servizi per l’infanzia nella regione Marche, presentano nel complesso una situazione relativamente migliore rispetto ad altre regioni. La percentuale di Comuni serviti è del 48%; tuttavia persistono disomogeneità
territoriali che riguardano la stessa Provincia in esame, sia in termini di
presenza e diffusione del servizio, sia di capacità di soddisfare la domanda.
Si tratta, inoltre, di una situazione che va colta alla luce della fluidità della
ricomposizione demografica, in relazione, in particolare, all’impatto della
95
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
Tabella III.9 - Servizi integrativi o innovativi (1) per la prima infanzia – anno 2008
Percentuale di
comuni coperti dal
servizio (2)
Indice di copertura territoriale del servizio (3)
(per 100 bambini 0-2 anni
residenti nella regione)
Indicatore di presa in
carico degli utenti (4)
(per 100 residenti 0-2
anni)
Piemonte
24,2
52,5
3,0
Valle d’Aosta
5,4
30,5
6,4
Lombardia
23,6
33,1
3,1
Trentino Alto Adige
38,1
70,5
5,9
Veneto
15,3
32,4
2,2
Friuli Venezia Giulia
40,6
61,7
3,2
Liguria
51,1
78,8
3,7
Emilia Romagna
42,2
65,0
4,1
Toscana
43,9
68,4
4,6
Umbria
42,4
75,1
4,8
Marche
19,5
48,6
2,6
Lazio
10,6
52,5
0,8
Abruzzo
30,8
37,8
2,0
Molise
2,2
15,5
0,5
Campania
43,2
40,6
1,1
Puglia
20,9
27,3
1,0
Basilicata
0,8
0,5
0,1
Calabria
2,2
13,2
0,4
Sicilia
3,3
7,4
0,1
Sardegna
10,1
36,0
3,5
Nord-ovest
25,5
41,9
3,2
Nord-est
29,8
50,0
3,4
Centro
25,2
58,4
2,5
Sud
22,3
31,1
1,0
Isole
6,6
13,5
0,8
ITALIA
23,7
40,8
2,3
(1) In questa categoria rientrano micronidi, i nidi di famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia.
(2) Percentuale di comuni in cui è attivo il servizio. Per il Nord-est e per il totale Italia l’indicatore è
calcolato al netto della Provincia di Bolzano.
(3) Percentuale di bambini tra 0 e 2 anni che risiede in comuni in cui è presente il servizio. Per il Nordest e per il totale Italia l’indicatore è calcolato al netto della Provincia di Bolzano.
(4) Utenti per 100 bambini tra 0 e 2 anni.
(5) Dati al 31.12.2007. Non è disponibile il dato relativo al numero di comuni coperti dal servizio.
Fonte: Istat, 2010d.
96
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
componente straniera del territorio a cui si deve buona parte dell’incremento di natalità. Come si evince dai dati, la diffusione di tale tipologia
di servizi ha, ad oggi, un’incidenza significativamente bassa nella regione,
come nel resto del paese, con conseguenze sia di lenta diffusione di forme
innovative di servizio e maggiormente rispondenti alle plurime esigenze
familiari di accudimento, sia di persistenza di un’area piuttosto significativa
di domanda insoddisfatta.
La spesa sociale per asili nido e servizi per la prima infanzia, copre
buona parte della spesa sociale totale nella regione; altrettanto avviene nei
comuni della Provincia. Due dati sono da evidenziare: il primo è relativo alla
disomogeneità di spesa sociale per abitante, l’altro riguarda la diminuzione
della stessa in ben otto Comuni della Provincia di Pesaro Urbino tra il
2007 e il 2009, tra cui uno dei Comuni interessato dalla ricerca in oggetto15
(CGIL, 2010). Altri due Comuni vedono invece raddoppiata la spesa sociale, nonostante una riduzione della spesa corrente, tra cui Fossombrone, il
maggiore per estensione e numero di abitanti nell’area in cui è stata svolta
la ricerca. Va aggiunto che nel processo, sempre più accentuato, di esternalizzazione dei servizi, non tutte le voci di spesa transitano per i capitoli
di bilancio, per cui vi è l’eventualità che possano risultare sottostimati. Da
un punto di vista qualitativo, si tratta di un’informazione mancante, che
meriterebbe un’attenta riflessione, in quanto attiene ad un processo che va
a modificare strutturalmente e qualitativamente l’erogazione dei servizi sul
territorio. Tale processo è già del tutto evidente nei servizi di prima infanzia
come nelle scuole d’infanzia, dove negli ultimi anni il personale addetto
dipende sempre più non direttamente dagli enti comunali ma da organizzazioni esterne, quali cooperative, che selezionano, assumono e gestiscono
per conto del Comune e su richiesta dello stesso, personale da dedicarsi
a mansioni di assistenza come di relazione diretta con i bambini presenti
nelle sedi scolastiche. È questo il processo cosiddetto di esternalizzazione
dei servizi, che proprio nell’anno in corso sta vedendo sul territorio una
netta accelerazione.
In termini di conseguenze di tale scelta, vi è da considerare in primo
luogo il mantenimento di standard qualitativi di servizio consolidato sul
territorio, attestatosi sino ad oggi a buoni livelli. Secondariamente vi è da
ragionare sulla deprivazione in termini di prospettive di espansione nell’immediato futuro. A fronte di un bisogno crescente di servizi per l’infanzia la
strada intrapresa è quella di una decurtazione degli stessi. L’esternalizzazione, così come operata, rappresenta un disinvestimento che apporta elementi
15
Si tratta del Comune di Isola del Piano.
97
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
di incertezza a quanto sino ad oggi raggiunto e all’immediato futuro. Se è
vero che le quote di spesa per nidi e servizi per l’infanzia non spiegano del
tutto la qualità del servizio prodotto, è vero anche che la prospettiva di
scendere al di sotto della soglia consolidata, al presente già piuttosto bassa
se commisurata alla richiesta, è con buona probabilità il preludio ad uno
scenario di erosione, piuttosto che di sviluppo. Come già accennato, evidenze di ciò sono ravvisabili sia nelle modalità di selezione e impiego del
personale addetto, sia nell’abbattimento del rapporto numerico tra educatrici
e bambini.
La stessa eterogeneità di spesa per i servizi d’infanzia riscontrata a livello
locale, si ripropone a livello nazionale. Tra le regioni esistono significative
disparità se si considera non solo la spesa totale, ma anche la ripartizione tra
quota pagata dai comuni e quota a carico degli utenti. La spesa complessiva
per la regione Marche nel 2007 risulta essere complessivamente di 34.592.267
Euro e, come si vede dalla Tab. III.10, esistono grandi differenze tra le aree
del paese, soprattutto tra il Centro e il Nord rispetto al Sud e alle Isole.
Tabella III.10 - Asili nido (a) utenti, spesa, compartecipazione degli utenti
per ripartizione geografica e Regione Marche - anno 2008
Ripartizione
Geografica
Marche
Nord-ovest
Nord-est
Centro
Sud
Isole
ITALIA
Spesa media per utente
Totale spesa impegnata
(Spesa pubblica
e degli utenti)
Percentuale di
spesa pagata
dagli utenti
Quota pagata
dai Comuni
Quota pagata
dagli utenti
34592267
408156078
368798830
420541070
81765948
88074721
1367336647
24,3
22,4
21,5
13,5
12,3
8,2
17,9
4658,1
5482,2
5819,3
7987,6
5650,5
7179,8
6344,8
1497,2
1597,7
1595,5
1245,6
793,7
641,4
1387,3
(a) Questa voce comprende sia le strutture comunali che le rette e i contributi pagati dai comuni per
gli utenti di asilo nido privati
Fonte: nostra elaborazione da Istat, 2010d.
Tali differenze riguardano anche la quota parte a carico degli utenti: per
le Marche questa è del 24,2%, superata solo da Lombardia (25%) che impegna un volume di spesa di gran lunga superiore e Basilicata (24,9%), regione
che spicca per una spesa complessiva tra le più basse, dopo il Molise e la
Calabria. La regione con più elevata spesa complessiva per i servizi d’infanzia
e contemporaneamente anche più elevata spesa a carico degli utenti è la
Lombardia seguita dal Lazio e dall’Emilia Romagna che, tuttavia, pongono
98
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
a carico degli utenti una spesa percentualmente più bassa, rispettivamente
pari al 7,8% e 22% 16.
Oltre al deficit di copertura che emerge nelle varie aree del paese, il dato
complessivo conferma difformità e frammentarietà, al punto da disegnare
contesti di vita qualitativamente significativamente differenti. La disponibilità di risorse da investire è sicuramente una condizione necessaria, mentre
l’eterogeneità territoriale è con buona probabilità da mettersi in relazione
con una volontà politica di formulazione di un’agenda in cui i servizi per
l’infanzia divengano una priorità.
Tabella III.11 - Numero di scuole d’infanzia (statali e non statali) e bambini
della Regione Marche per Comune – A.S. 2009/2010
Territorio
Scuole
Bambini
Residenti 3-5 anni
Fano
25
1650
1784
Pesaro
34
2520
2469
Urbino
9
363
375
Cagli
4
202
209
Unione Comuni Pian del Bruscolo
12
1102
1167
Altri Comuni PU
77
4404
4245
161
10241
10249
Provincia Pesaro-Urbino
Provincia di Ancona
174
12915
12887
Provincia di Macerata
120
8467
8590
Regione Marche
605
41797
41625
Fonte: nostra elaborazione da Sistar Marche.
Quanto alle scuole d’infanzia la situazione provinciale pesarese e, al suo
interno, dell’area indagata, presenta una buona diffusione dei siti scolastici,
anche nei Comuni più piccoli. Tuttavia, anche in questo caso, la sempre
minore disponibilità di risorse da parte degli enti locali pone anche la scuola
d’infanzia in una situazione di affanno. La riorganizzazione dei plessi e delle
politiche di servizio locale sul territorio, sono negli ultimi anni condizionati
da riduzione di personale ed una esternalizzazione sempre più spinta di
servizi vari. La stessa dislocazione dei plessi nei diversi Comuni, specie i più
grandi, è messa in discussione da prospettive di riaccorpamenti e riorganiz16
Per maggiori dettagli sulla distribuzione della spesa dei Comuni italiani per i servizi d’infanzia si veda Interventi e servizi sociali dei comuni singoli o associati – anno 2007, consultabile
al sito www.istat.
99
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
zazioni del servizio17. Ancora una volta è dunque nel rapporto tra quantità
di risorse e qualità della loro allocazione che prende forma la relazione tra
territorio e la sua fruibilità da parte della cittadinanza. Il territorio marchigiano, in particolare quello pesarese, si trova in una fase di messa in discussione
degli standard di vita e, come vedremo, di lavoro sin qui raggiunti.
Tabella III.12 - Numero di scuole d’infanzia (statali e non statali) e bambini per
comune – della Comunità Montana e Provincia di Pesaro Urbino – A.S. 2009/10
Comune
Barchi
Cartoceto
Fossombrone
Isola Del Piano
Mondavio
Montefelcino
Montemaggiore Al Metauro
Orciano Di Pesaro
Piagge
Saltara
San Giorgio Di Pesaro
Sant’Ippolito
Serrungarina
Provincia di Pesaro e Urbino
Scuole
Bambini
1
3
4
1
3
1
1
1
1
3
1
2
1
57
22
267
292
24
109
72
83
53
29
247
34
60
68
3880
Fonte: Nostra elaborazione da Sistema Statistico Regione Marche.
Il riassetto dei servizi lungo la direzione della cosiddetta esternalizzazione, mentre impone una ridefinizione degli standard qualitativi, apre nuove
questioni circa i costi economici e sociali di una manovra che va a produrre
profonde modificazioni nei rapporti di lavoro delle operatrici della scuola. Per
essa si alimenta una già evidente tendenza alla precarizzazione del personale
addetto, che a sua volta si inserisce in una cornice di progressivo indebo17
Ad esempio nel Comune di Pesaro è già stata attuata nelle scuole d’infanzia la riduzione
di quarantacinque minuti che anticipano la chiusura del servizio pomeridiano. Questo peraltro
corrisponde già da diversi anni ad una politica di svuotamento del servizio pomeridiano in
netta cesura con quello mattutino. Nel pomeriggio prevalgono educatrici provenienti dal
mondo cooperativo. Nella giornata scolastica viene meno la continuità non solo in termini
di presenza delle insegnanti e di presenza discontinua delle stesse, ma anche per mancanza
di coordinamento delle attività svolte, cosa che finisce per ridurre le ore pomeridiane a mero
contenimento, a scapito della ricchezza dell’attività scolastica.
100
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
limento delle posizioni lavorative delle donne. L’esternalizzazione, mentre
permette alle amministrazioni locali di abbattere i costi di gestione, sostiene
un mercato del lavoro locale in cui il risparmio sulla spesa per il personale
consolidano rapporti lavorativi al ribasso di reddito e di diritti associati. Si
predispone in tal modo una cornice per un contesto in cui le donne risultano
indebolite, sia come utenti, sia come lavoratrici. È evidente che il tema della
conciliazione si inserisce in un quadro crescentemente complesso, per cui
le trasformazioni occupazionali e i tagli ai servizi erogati pongono importanti ipoteche sul futuro, con dosi di incertezza al presente che eccedono
le capacità soggettive di farvi fronte. Su questa via i servizi per l’infanzia,
entro una logica di risparmio a tutti i costi che non sia accompagnata da
una ridefinizione qualitativa, rischiano di divenire una voce progressivamente
decurtabile, nella misura in cui i costi sociali non vengono computati.
Esattamente al contrario, la questione dei servizi d’infanzia appare sempre più cruciale per un territorio in cui le modificazioni demografiche vanno
verso il progressivo invecchiamento della popolazione autoctona da una
parte e dall’altra è interessato da una considerevole immissione di flussi di
popolazione straniera. Ne consegue che anche le reti di supporto comunitarie
parentali-familiari, come si è già visto piuttosto deboli, si troveranno ben
presto ad essere ancor più deficitarie rispetto ai bisogni emergenti. Tutto
ciò ha sullo sfondo una crisi globale con importanti ricadute anche sul
territorio locale.
III.4. Il mercato del lavoro locale
Le riflessioni sul mercato del lavoro locale portano immediatamente a porre
l’attenzione su un andamento che risente fortemente della congiuntura di crisi, cercando di mettere a fuoco soprattutto le criticità strutturali ed emergenti,
tenendo altresì conto della ripartizione per genere delle risorse lavorative.
Sebbene il contesto marchigiano, in particolare quello provinciale pesarese,
si sia distinto per diversi anni per una elevata partecipazione al mercato del
lavoro anche da parte delle donne, con tassi di partecipazione che, a partire
dagli anni ‘70 si sono attenuti al di sopra della media nazionale, dal 2007
segnali di arresto sono evidenti a partire da un innalzamento del tasso di
disoccupazione passato dal 5,3% del 2004 al 7,8% del 2009.
L’andamento virtuoso del mercato locale è oggi messo in discussione da
segnali opposti che modificano profondamente le dinamiche di domanda e di
offerta. All’interno della regione, la provincia di Pesaro-Urbino è quella che
sta subendo più di altre l’impatto della contrazione economica. In particolare,
101
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
sono le donne a pagare maggiormente i costi della crisi, sia dal punto di vista
del calo occupazionale sia del calcolo delle assunzioni. Il dato sulle assunzioni
nella provincia di Pesaro Urbino evidenzia un andamento inverso tra donne
e uomini. Mentre nel 2009 si era verificato un crollo dell’occupazione maschile, nell’anno successivo essa tende a riprendere e contemporaneamente
diminuisce quella femminile. Il dato Istat al terzo trimestre 2010 indica una
flessione nel numero di occupati dell’1,5% nel territorio provinciale pesarese e circa 10.000 posti di lavoro in meno rispetto al terzo trimestre del
2009. Tale calo è attribuibile soprattutto alla componente femminile in una
misura del – 3,7%. Il calcolo a saldo tra assunzioni e cessazioni da lavoro
segnala come sia stata proprio la provincia di Pesaro-Urbino ad aver subìto
maggiormente gli effetti della crisi nel corso del 200918.
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Figura III.2 - Andamento del tasso di disoccupazione Marche-Italia – valori percentuali. Fonte:
Sistema statistico Regione Marche.
In particolare, è l’area di Fano quella in cui la recessione ha eroso maggiormente l’occupazione. Ancora una volta, citando l’indagine regionale sulle
famiglie nelle Marche, risulta nell’unità territoriale di Fano la più elevata
percentuale di cittadini in condizioni di povertà (Regione Marche, 2010a).
Il profilo delle famiglie in condizioni di povertà è quello di un capofamiglia operaio con basso titolo di studio, mentre un livello di istruzione più
18
Dati successivi e più recenti, relativi al primo trimestre 2011, confermano tale tendenza
insieme ad una maggiore vulnerabilità delle donne, la gran parte delle 46 mila persone in
cerca di occupazione nella regione Marche (CGIL Marche, 2011), con un calo di occupate
che colpisce soprattutto le lavoratrici dipendenti.
102
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
elevato si conferma come fattore di maggiore protezione dalla perdita di
lavoro. L’andamento inverso tra maschi e femmine, proprio nel momento
in cui le risorse lavorative locali si fanno più scarse, va di pari passo con un
ragionamento sulla qualità dell’occupazione.
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Figura III.3 - Andamento delle assunzioni per sesso Provincia Pesaro-Urbino – 2009-2010.
Fonte: nostra elaborazione su dati provinciali CIOF19.
L’occupazione femminile nella provincia, sebbene quantitativamente rilevante, ha strutturalmente e qualitativamente caratteristiche di maggiore
vulnerabilità. Inoltre, seppure considerato più virtuoso di altri, il mercato
del lavoro locale ha sempre mantenuto un differenziale occupazionale di
genere che, non solo non è mai stato colmato, ma risulta in questo momento
ampliarsi. Le assunzioni favoriscono gli uomini anche a fronte di un dato di
stock sulle assunzioni che vede le stesse in leggera ripresa nel 2010 rispetto
all’anno precedente.
L’acuirsi delle disparità di condizione lavorativa tra donne e uomini,
a svantaggio delle prime, è evidente anche nella tipologia di lavoro che
è cresciuto e continua a crescere negli ultimi anni. I contratti a termine
sono in costante ascesa, in particolare tra il 2008 e il 2009, mentre quelli a
tempo indeterminato continuano a declinare significativamente. Nel 2010
le assunzioni maschili a tempo indeterminato sono state nella Provincia di
Pesaro-Urbino il 12,5% contro la più bassa percentuale femminile pari all’8%
(Direzione Provinciale del Lavoro Pesaro-Urbino, 2011).
19
Si ringrazia l’Assessorato alla Formazione e al Lavoro della Provincia di Pesaro-Urbino
per i dati gentilmente messi a disposizione.
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
103
Oltre alle donne, sono i giovani ad essere maggiormente penalizzati
dall’arresto del dinamismo del mercato locale, soprattutto tra i lavori a bassi
livelli di qualifica. La discriminazione per sesso e per età (giovane)20 sono
dati tutt’altro che inediti sul mercato locale. Dal punto di vista del livello
di istruzione, si nota invece che vengono espulsi dal mercato soprattutto
quanti sono in possesso di bassi titoli di studio. Questo non perché nel frattempo siano mutate le caratteristiche della struttura occupazionale locale,
tradizionalmente incentrata su medie e basse qualifiche, ma semplicemente
per effetto dell’interazione di due diversi fattori: l’innalzamento del livello
di istruzione e la maggiore selezione di risorse più qualificate da impiegarsi
non necessariamente in mansioni congruenti. Il rischio di sottoccupazione,
già evidente per quanto riguarda la componente più giovane e femminile,
va nella presente congiuntura aumentando all’interno di siffatta struttura
occupazionale. Di conseguenza, l’andamento di domanda e offerta sono, allo
stato attuale, in una sorta di corto circuito, per cui risultano essere aumentati
i rischi per tutte le componenti la forza lavoro. I titoli di studio più elevati
appaiono oggi essere maggiormente protettivi dai rischi di perdita di lavoro,
ma non da quelli di perdita di reddito. Come mostra l’indagine delle famiglie condotta dalla Regione Marche (2010a) i redditi da lavoro che hanno
subìto un arresto sono quelli delle mansioni a basso livello di qualificazione
e quelli a livello più elevato: una sorta di livellamento dei redditi da lavoro
in un mercato che, già precedentemente, risultava scarsamente dinamico e
competitivo in termini di capacità di acquisizione di competenze elevate.
Oltre alla perdita di autonomia descritta dalla riorganizzazione familiare attorno ad un numero declinante di percettori di reddito, i giovani più istruiti
sono quelli che al momento incontrano le maggiori difficoltà a raggiungere
la propria autonomia al di fuori del nucleo familiare.
In controtendenza con l’andamento nazionale, la realtà provinciale pesarese mostra all’ultimo trimestre 2010 una diminuzione anche in termini di
persone in cerca di lavoro (-17,3%) e del tasso di attività (-1,7%). Lo scoraggiamento è divenuto un fenomeno più visibile sul territorio, mentre nell’insieme si prefigura una profonda modificazione nella struttura occupazionale
locale. Le ore di cassa integrazione a cui le imprese della provincia hanno
20
Il numero dei senza lavoro è nella Provincia di Pesaro-Urbino in costante crescita. I dati
più recenti dei Centri per l’impiego Provinciale comunicano che il numero dei senza lavoro
è all’ottobre 2011 di 42.771 di cui 25.468 donne e 17.123 uomini. La maggiore incidenza
nell’area di Fano si conferma come trend consolidato, così come quella sulle donne e sui
giovani, mentre cominciano ad aumentare anche gli ultracinquantenni in cerca di lavoro. Si
veda CNA Pesaro e Urbino, Pesaro e Provincia i disoccupati sono 42.000, martedì 25 ottobre
2011, www.cnapesaro.it.
104
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
fatto ricorso, hanno raggiunto, a partire dal 2008, un massimo storico nel
2010 con un picco significativamente più elevato rispetto a quello delle altre
province della regione21. Se tra il 2009 e il 2010 le espulsioni dal mercato
del lavoro sono diminuite, si rileva da una parte l’ampio ricorso alla mobilità
nel biennio 2008-2010, periodo in cui i lavoratori in mobilità sono passati da
1.300 nel 2008 a oltre 4.000 nel 2010, dall’altra segnali contraddittori.
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Figura III.4 - Ore di cassa integrazione guadagni autorizzate nella Provincia di Pesaro-Urbino
- 2005-2010. Fonte: Provincia di Pesaro-Urbino.
Sono dati rilevanti che pur non travasando direttamente nel computo
della disoccupazione indicano gravi difficoltà di mantenimento della posizione lavorativa e dei livelli di reddito da essa assicurati, oltre ovviamente
a offrire la misura di un rallentamento del dinamismo locale. La perdita di
lavoro in termini di licenziamenti è un fenomeno che ha assunto una certa
rilevanza nel biennio di crisi acuta. Tuttavia, questo ha un andamento non
uniforme e complessivamente in via di ridimensionamento nell’ultimo anno.
Infatti, mentre nel corso del 2010 le espulsioni sono diminuite, rispetto all’anno precedente, del 44,7%, nel 2010 esse appaiono numerose in un settore
strategico del distretto pesarese, quello dell’industria del mobile, interessato
da una crisi tardiva, con 120 licenziamenti nel corso del 2010, pari ad un
incremento del 41,7%.
21
Una tendenza che sembra ben lungi dall’arrestarsi dal momento che i dati del maggio
2011 continuano a confermare una situazione complessiva di difficoltà della Regione tutta.
La richiesta di ore di CIG permane a livelli molto elevati (INPS, CGIL Marche, 2011).
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
105
La realtà che descrivono questi dati è quella di una progressiva riacutizzazione di pregresse criticità non risolte. Le evidenze che emergono, nell’ampliarsi delle disparità per sesso e per età, impongono un bilancio sul mancato
investimento in termini di riqualificazione della domanda di lavoro locale.
Essa è stata dapprima trascinata da processi di deindustrializzazione e di
delocalizzazione che hanno spostato altrove il problema della competitività
intrinseca al sistema, aggirando l’ostacolo di una riqualificazione interna che
garantisse nel tempo la produzione e il controllo della ricchezza (capitale e
lavoro). La crisi sopravvenuta su tali processi già in atto, ha finito per impattare negativamente proprio sulla forza lavoro, dunque sul fondamento di
una produzione di benessere locale, nonché la risorsa su cui maggiormente
ha puntato il sistema produttivo del territorio. Sono stati i settori a più alta
intensità di lavoro ad essere maggiormente colpiti, sia dalla competitività
internazionale, che li ha scoperti più deboli, sia dallo stallo economico. I
legami con il lavoro non sono stati ridefiniti mentre sono stati trascinati
dalla crisi economica in misura proporzionale alle pregresse e ben note
vulnerabilità lavorative e produttive. Quelle caratteristiche del modello marchigiano22 propellente dello sviluppo regionale, sono divenute più tardi causa
di difficoltà di fronte al ridisegnarsi degli assetti economico-produttivi23. Il
rapporto tra quantità e qualità del lavoro impone oggi un’attenzione non più
rimandabile nella ridefinizione di una prospettiva locale futura che, in vista
del benessere recentemente focalizzato come prioritario obiettivo politico
dall’agenda provinciale, ha di fronte a sé il primo ostacolo del superamento
di diseguali opportunità di partecipazione sociale e lavorativa.
Per quanto concerne la partecipazione femminile, negli ultimi anni essa
è stata sostenuta, localmente come nel resto del paese, in larga misura da un
aumento di offerta di lavoro, coerentemente con l’allargamento dell’aspettativa di occupazione a quella porzione di popolazione che più continua ad
investire in istruzione e più difficoltosamente costruisce percorsi lavorativi
coerenti e stabili. Nel momento in cui l’innalzamento del livello di istruzione
22
Nella Provincia di Pesaro sono presenti circa 39.000 imprese, con prevalenza assoluta di
micro imprese. Il 90% delle imprese sul territorio ha 3-4 addetti (Piano Provinciale 2007-2008
disponibile al sito www.provincia.pesarourbino.it).
23
«La ridotta dimensione aziendale, la specializzazione settoriale della produzione e delle
esportazioni centrata sul modello distrettuale, la tipologia imprenditoriale orientata all’impresa individuale e a carattere familiare, hanno avuto una grande rilevanza per lo sviluppo
economico del nostro paese [...] Oggi a causa del declino di competitività della produzione
industriale nazionale sui mercati internazionali, tale dato si è fortemente ridotto e c’è un’ampia
concordanza nell’indicare, nelle stesse specificità dell’apparato produttivo, le attuali cause di
crisi» (David, 2006, p. 81).
106
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
delle donne diventa la chiave di volta di una maggiore partecipazione, si
rafforza una organizzazione del lavoro che, anche a livello locale, segrega
le donne nelle due direzioni orizzontale e verticale. Nella regione Marche
questo fenomeno si rende ancor più evidente laddove l’incremento rapido
di scolarizzazione delle donne si accompagna a livelli di partecipazione al
mercato del lavoro più elevati rispetto all’andamento medio del paese (David,
2010). Al di là dell’enfasi quantitativa sul migliore andamento regionale e, al
suo interno di quello provinciale pesarese, dei principali indicatori del mercato, mentre i segnali di crisi non venivano ancora decodificati, quelli della
debolezza della partecipazione delle donne erano evidenti ma sottostimati.
L’occupazione femminile nella regione Marche ha rappresentato un serbatoio di manodopera ad uso flessibile, funzionale al sistema produttivo locale,
riflessa in un andamento altalenante della disoccupazione complessiva, anche
in questo caso soprattutto femminile (David, 2010). Dato che sin dalla metà
degli anni ‘90 è testimoniato da una permanenza delle donne più duratura
ma attendista, di «resistenza»: le donne rimangono sul mercato del lavoro
in attesa della migliore occasione, ma nel contempo cresce l’insoddisfazione
per lo stesso (Censis, 2006). Una insoddisfazione che è da ricondursi, tra
l’altro, allo scarto tra posizione lavorativa e livello di istruzione conseguito,
evidente in una sottoccupazione tutta locale che nella regione prende la
forma di uno spiazzamento inverso rispetto al contesto nazionale (Reyneri, 2007) dei laureati, soprattutto laureate, nei confronti dei diplomati. La
scarsa disponibilità di mansioni ad elevata qualificazione, lo sviluppo di un
terziario non troppo avanzato, sono il ritratto di un sistema produttivo in
cui prevalgono settore primario e secondario sullo sviluppo di servizi, tali
da non supportare cambiamento e innovazione.
I dati qualitativi dell’occupazione femminile locale, che spiegano l’erosione progressiva di prospettive di sviluppo, sono legate alle consolidate
dinamiche di un andamento altalenante della disoccupazione, di crisi di
settori manifatturieri che riducono le opportunità per le donne, di persistenza
di differenziali salariali, di reddito percepito in termini assoluti sempre inferiore a quello degli uomini (Regione Marche, 2010a) anche, ma non solo,
per un minore numero di ore lavorate. A partire dai differenziali salariali,
alle lavoratrici delle Marche spetta una retribuzione media su base mensile
più bassa rispetto a quella italiana e delle altre regioni (David, 2010). Per
quanto concerne il rapporto tra occupazione e ore lavorate, a lavorare part
time sono il 25% delle occupate nell’anno 2009, contro il 6% appena degli
occupati maschi24. Sebbene il part time non spieghi tutto lo scarto di ore in
24
Elaborazioni del sistema statistico della Regione Marche su dati Istat, anno 2009.
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
107
meno lavorate rispetto agli uomini, vi è in questo dato una netta indicazione
dell’orientamento femminile a comprimere lo spazio lavorativo in favore
dello svolgimento del lavoro di cura. La comprimibilità del lavoro risponde
ad esigenze non solo di squilibri lavorativi, basati su una divisione sessuata
del lavoro per il mercato e di cura, ma su quelli di un modello produttivo
distrettuale e microimprenditoriale, improntato sull’originaria derivazione
dalla famiglia patriarcale e contadina, dove la regolazione dei rapporti socioeconomici passa prevalentemente per relazioni informali. È questo modo di
produzione ad aver trattenuto la forza lavoro femminile in quella componente di riserva, dunque con ridotte possibilità di riequilibrio e di espansione nel
mercato, che continua a trarre reddito e vantaggio dal lavoro di cura gratuitamente assicurato dalle donne. Tale assetto è profondamente radicato, in
continuità storica, al fondo delle identità femminili25 e maschili nel contesto
regionale, ma non senza rischi di mismacht tra condizioni materiali e aspettative maturate dentro corsi di vita profondamente trasformati. Si tratta di
rischi tutt’altro che remoti considerando le dinamiche fortemente segreganti
per genere in una struttura occupazionale, quale quella marchigiana, in cui
le donne, più che in altre regioni simili per struttura produttiva26, nonché
rispetto alla media italiana, risultano più numerose nella qualifica operaia e
scarsamente presenti tra quadri e dirigenti (David, 2010).
III.5. La Provincia tra crisi e felicità
Il contesto locale, la sua articolazione e il suo modello di sviluppo hanno
una grande rilevanza nel determinare le caratteristiche della domanda e
dell’offerta. In particolare, il contesto marchigiano entro cui si colloca l’area
indagata della Provincia di Pesaro e Urbino, con la sua struttura distrettuale,
di diffusione di piccole e piccolissime imprese, ha basato il suo sviluppo
su questo modello socio-economico che ha assegnato un valore strategico
25
«La segregazione lavorativa della popolazione femminile, sia orizzontale (con la rigida
divisione di mansioni «da donna» e mansioni «da uomo») che verticale (con l’attribuzione
agli uomini dei compiti di controllo dell’organizzazione e del flusso produttivo, nonché
della gestione del lavoro altrui), risulta essere un fenomeno fortemente radicato nella realtà
produttiva della regione, con inevitabili effetti nel processo di costruzione dell’identità sociale
femminile» (David, 2006, p. 63).
26
Le regioni con cui la David opera il raffronto sono, oltre le Marche, l’Emilia Romagna, la
Toscana e il Veneto. Peraltro, una notazione interessante, che va ad avvalorare l’ipotesi di un
nesso tra il modello dell’industrializzazione diffusa e la costruzione di marginalità strutturale
della forza lavoro femminile, riguarda la bassa presenza di donne dirigenti quale elemento
comune a tutte e quattro le regioni considerate (David, 2010).
108
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
alla famiglia da una parte, con la sua disponibilità di risorse, prime fra tutto
lavorative a basso costo, e al lavoro dall’altra. Valore condiviso sulla base
di un’etica del lavoro come sacrificio di tutti e tutte, trasversalmente alla
stratificazione per classe, età e sesso. Pur nel quadro di tale etica condivisa,
si sono altresì strutturate nel tempo significati e comportamenti lavorativi
(attesi e richiesti) diversi per uomini e donne. Sono gli uomini che hanno saldamente e imperativamente mantenuto un legame più stabile e continuativo
con il mercato del lavoro, senza eccezione dunque rispetto ad altri contesti
regionali e nazionali, con un significato costitutivo del lavoro in termini di
specificazione dell’identità di genere maschile. Si è affermato per gli uomini
una sorta di dovere di lavorare, interpretando così pienamente il ruolo di
breadwinner di eredità fordista, mentre per le donne possiamo parlare di un
imperativo a contribuire (Paci, 1982). Di qui l’origine di un legame che nel
tempo si è disegnato e protratto più fragile con il mercato del lavoro, anche
se questo nulla dice rispetto alla sua rilevanza e intensità. Il dovere di contribuire non vincola la donna ad un percorso lavorativo, apre lo spazio per
la formazione di un’identità di genere svincolata dallo status occupazionale
e dunque da un continuativo riposizionamento sul mercato. Il lavoro per il
mercato è un elemento accessorio e non costitutivo dell’identità femminile,
mentre lo diviene il contributo.
La vera differenza è l’autonomia economica che ne deriva, laddove alternativamente prevale il contributo retribuito per l’attività produttiva o quello,
gratuito, per l’attività riproduttiva. La non stretta e necessaria relazione tra
attività femminile e autonomia economica, dentro una logica espansiva di
mercato, ha originato un sistema sessuato in cui le donne sono state relegate
ai margini. Posta un’assunta disponibilità delle donne, questa è stata diretta
di volta in volta verso le priorità della produzione e della riproduzione,
nelle fasi altalenanti del ciclo di vita ed economico delle attività lavorative.
Sebbene sia spesso difficile individuare il confine tra le due sfere dell’attività
femminile, specie nella tipologia di impresa familiare che ha costituito uno
dei pilastri del modello produttivo locale, le donne in questo contesto hanno
di molto contribuito allo sviluppo sociale ed economico, ma faticosamente
acquisito una visibilità del loro ruolo, che è stato piuttosto interpretato e
derivato come la disponibilità di uno dei capitali di riserva.
Le donne di territori con simili caratteristiche entrano ed escono dalla
forza lavoro; spesso non vi entrano, ma comunque contribuiscono, attraverso
forme di collaborazione familiare che mascherano prestazioni lavorative a
basso o nullo costo, oppure più frequentemente entrano ed escono in funzione delle necessità del corso di vita. È così che uno sviluppo diffuso procurato
attraverso la laboriosità e il successo economico delle Marche-distretto ha
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
109
posto in secondo piano la questione dell’occupazione femminile, della sua
qualità e continuità: per molto tempo essa è stata assunta positivamente nel
suo andamento quantitativo prescindendo da una relazione con la qualità
della stessa.
Le trasformazioni demografiche dovute al processo di invecchiamento
della popolazione nella regione, è all’origine di una delle principali fonti
di tensione del sistema produttivo locale. È la componente immigrata che
fornisce una possibilità di sostenibilità del sistema: la giovane età degli immigrati compensa l’invecchiamento della popolazione (Della Zuanna, 2004)
abbassando il rapporto tra lavoratori e pensionati; d’altra parte la presenza
di forza lavoro straniera disponibile sostiene un sistema di welfare in cui la
famiglia è il perno, mentre il pubblico mantiene un ruolo marginale con forti
conseguenze di polarizzazione delle diseguaglianze all’interno della popolazione e di quella femminile, nonché di ostacolo ad uno sviluppo qualitativo dell’occupazione delle donne. È chiaro che la congiuntura presente fa
avanzare diversi dubbi anche sulla forza del sistema locale a sostenere una
crescita, anche meramente quantitativa, della partecipazione femminile al
mercato del lavoro.
Nel territorio provinciale di Pesaro-Urbino l’occupazione femminile è
stata negli ultimi anni indirettamente promossa attraverso progetti mirati a
favorire la conciliazione27. Progetti rivolti principalmente alle donne, i quali
hanno ottenuto i loro migliori risultati sul piano dei servizi dell’infanzia
piuttosto che nel rimodulare organizzazioni lavorative e orari di lavoro. Per
una serie di ragioni, tra cui la difficoltà delle procedure burocratiche e la
scarsa incentivazione economica, l’erogazione di voucher per le donne e il
rafforzamento dei servizi per l’infanzia sono stati i risultati più evidenti. Il
27
Uno degli interventi a livello locale al riguardo è stato il progetto Conciliando, realizzato
dalla Provincia di Pesaro-Urbino tra il giugno 2007 e l’aprile 2008 e finanziato dalla Regione
Marche. Il progetto ha interessato l’ambito territoriale n. 1 ed è stato finalizzato a favorire:
a) una migliore conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro di donne e uomini in particolare
per le lavoratrici madri e i lavoratori padri dipendenti delle imprese locali; b) migliorare
quantitativamente e qualitativamente l’offerta dei servizi pubblici e privati di supporto alla
cura dei bambini e delle bambine; c) accompagnare il gruppo di imprese aderenti al progetto, operanti sul territorio e diversificate per settore e dimensioni, alla formalizzazione e
sperimentazione di misure di articolazione della prestazione lavorativa dei propri dipendenti
che abbiano finalità conciliative; d) coordinare e sperimentare nuove soluzioni di mobilità
casa-lavoro-servizi. Il progetto non ha avuto seguito nella sua formulazione iniziale di azioni
integrate mirate alla conciliazione, mentre è proseguito il sostegno alla conciliazione sotto
forma di voucher alla conciliazione. Inizialmente l’intervento è stato mirato su un’area territoriale circoscritta, in seguito altre aree hanno fatto richiesta di coinvolgimento, inclusa l’area
su cui è stata realizzata l’indagine Penelope cosa fa?.
110
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
punto è che una strategia siffatta non arriva al cuore del sistema. Non mette
in discussione le radici della struttura che affondano profondamente in un
modello non redistributivo rispetto ai sessi, ma che anzi è ancorato alla tradizionale separazione dei compiti. Anche se va rilevato che i contratti con
le aziende del territorio in contrattazione decentrata che prevedono misure
concilianti per lavoratori e lavoratrici sono nel frattempo aumentati, segno
di uno spazio di azione su cui è possibile investire nel prossimo futuro affrontando proprio i nodi qualitativi del sistema produttivo locale. In generale,
tuttavia, gli interventi a favore della conciliazione risultano piuttosto deboli
dal punto di vista dei risultati e soprattutto lenti ad emergere positivamente.
Il procedere per progetti non prefigura un agire strategico di lungo termine
volto a mettere a sistema la conciliazione, la qual cosa appare di gran lunga
distante dagli obiettivi istituzionali che continuano a collocare pari opportunità e lavoro in regimi separati. La conciliazione rientra più facilmente negli
interventi a favore delle famiglie con scarsa considerazione del fatto che dal
lavoro e in relazione ad esso scaturiscono le fonti primarie di difficoltà. Il
rischio principale che emerge nel presente è quello di uno spiazzamento della
conciliazione sull’occupazione. La crisi ha infatti rafforzato i meccanismi di
attivazione delle risorse di un welfare forgiatosi sulla riproduzione della società industriale, con una posizione centrale maschile e periferica femminile. Dal
punto di vista del territorio, l’intervenire per progetti è un agire frammentato
entro cui proliferano differenziazione e frammentazione28.
Nello scenario della riformulazione del benessere, le fratture fra cittadini e
sistema sociale, mercato del lavoro locale e diseguaglianze per sesso, si misurano sulla divaricazione fra benessere e sviluppo che invece ha caratterizzato
il contesto regionale, più di altre aree omogenee per specificità del modello
produttivo, anche a scapito di una minore accumulazione di ricchezza ma
con una qualità della vita percepita più elevata29 (Bordignon, 2004).
28
Non a caso il secondo bando per il progetto Conciliando ha visto una partecipazione
maggiormente eterogenea sia dei richiedenti (Comuni) sia dei progetti. Se il primo progetto
ha dunque attirato l’attenzione di altri soggetti istituzionali locali, questo ha significato una
difficile composizione tra tessere non coincidenti di un puzzle territoriale non sempre componibile, caratterizzato, per di più, da fratture socio-territoriali di cui la conciliazione rischia
di divenire una lente di ingrandimento.
29
Una recente classifica delle provincie italiane sulla base del Pil e comparativamente
dell’indice di benessere, vede la provincia di Pesaro Urbino alla sesta posizione su 110 province, che scende a metà classifica per Pil (Provincia per provincia l’Italia del benessere, «Il
Sole 24 ore», 21 settembre 2009). Questo, sebbene vada considerato un primo tentativo di
mettere a fuoco un indicatore di benessere che superi il riduzionismo economico, è tuttavia
una indiretta conferma di come il quadro locale si sia assestato diversamente dalla aree più
simili del Centro Nord Est in cui negli ultimi anni si sono evidenziate tensioni derivanti da
DIARIO E CONTESTO DELLA RICERCA
111
Molto significativa è la corrente riformulazione dell’agenda politica provinciale che rimette a fuoco un «benessere interno lordo» quale misura del
raggiungimento della felicità nel territorio, in cui il lavoro mantiene la sua
centralità accanto alla constatazione di essere giunti ad una fase critica.
Tuttavia, nel Piano strategico per la Comunità felice30, recentemente messo
a punto, non vengono mai menzionate le donne come soggetti su cui investire. L’omissione delle sperequazioni di genere fa sorgere il dubbio che una
volta di più le questioni poste a tutto tondo non si discostino dall’assetto
tradizionale, il quale permane come principale unità di misura31. Ignorare il
genere significa continuare a far passare sotto silenzio quanto l’attuale sperequazione sia un costo pagato dalle donne, un tributo al raggiungimento
di un livello di sviluppo locale che ha reso questa regione una delle più
dinamiche del paese. È stato proprio il lavoro il fattore di riscatto, a cui
donne e uomini hanno, in un sistema di divisione del lavoro, contribuito,
pur con differente riconoscimento di status. Mentre il metal mezzadro è
divenuto la figura simbolo del sistema produttivo radicatosi sino ad oggi,
le figure femminili prevalenti sono state «la lavorante a domicilio/artigiana
e la contadina/coadiuvante», figure emblematiche, hanno sostenuto uno
sviluppo locale fondato su «un’industrializzazione cresciuta tra i campi [e]
tra le mura domestiche» (Pristinger, 1985, p. 96).
Oggi le donne rischiano di perdere terreno, di rimanere tra le mura
domestiche in una sostanziale infelicità derivante da un percorso di grande
cambiamento che non trova riscontro né collocazione nelle strategie locali di
un benessere redistribuito. La mancanza di visibilità del ruolo di lavoratrici,
al pari di quello di lavoratori, si presenta rinnovato in un’argomentazione
lavorativa a prescindere dal genere: un implicito assunto di neutralità rispetto
una crescita rapida di sviluppo economico a scapito di un deterioramento del territorio e di
una insoddisfazione crescente per la qualità della vita.
30
Il documento è stato curato dalla Presidenza della Provincia di Pesaro-Urbino ed è consultabile al sito istituzionale www.provincia.pesarourbino.it. Al piano strategico si accompagna
un accordo stipulato con l’Istat per la messa a punto di nuovi indicatori di benessere, di cui
la felicità rappresenterebbe una delle dimensioni. Secondo tale accordo la Provincia di Pesaro
si presta per un progetto pilota al raggiungimento di tale scopo.
31
Dal 27 maggio al 4 giugno del 2011 la Provincia di Pesaro-Urbino ha promosso la
prima edizione del Festival della Felicità (www.festivaldellafelicita.it) che ha coinvolto in
varie iniziative culturali l’intero territorio. Nonostante il sottotitolo recitasse la felicità in tutti
i sensi, le donne sono state contemplate come presenza tra i relatori e le relatrici, ma non
nell’agenda di programma con temi e incontri dedicati. Il Festival si inserisce all’interno di
una più ampia progettazione le cui linee guida sono messe a punto nel Piano Strategico per
una comunità più felice di cui si è fatto promotore in particolare l’attuale Presidente della
Provincia di Pesaro-Urbino.
112
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
e intorno alle caratteristiche fondanti una delle principali fonti di squilibrio
del sistema. Sembra dunque che vi sia una continuità di approccio e indirizzo
politico tra il livello nazionale e locale nel non individuare l’egualitarismo, la
parità di opportunità come obiettivo politico, su cui riformulare le strategie,
le azioni, ecc. Ad essere focalizzata invece, da quanto emerge, è la felicità
della “comunità” ideale provinciale, ma non un medesimo grado di benessere declinato in senso egualitario. Il lavoro, ancora una volta, è tacitamente
assunto quale sinonimo di lavoro maschile: è a partire da esso che se ne
radica la visione anche in prospettiva futura.
Capitolo quarto
SENZA FIGLI...
IV.1. Introduzione
In questo capitolo si analizzano i risultati delle interviste alle donne senza
figli (v. capitolo terzo). In particolare, le analisi qui a seguire, si basano sulle
interviste di gruppo condotte in altrettanti comuni1 del territorio indagato.
Lo scopo di questo supplemento di ricerca, inizialmente non previsto dalla
committenza, è di esplorare e sottoporre alla verifica dei fatti, una delle
principali ipotesi guida formulate, secondo cui la maternità e con essa in
particolare la condizione di madre, rappresentano di per sé un discrimine
significativo relativamente alle opportunità reali di partecipazione sociale e
lavorativa. Si distinguono queste due dimensioni a partire dalla constatazione
di una duplice debole rappresentanza delle donne, sia nell’ambito del mercato del lavoro, sia pure in quello sociale politico-culturale. Del resto, è proprio
dalla presa d’atto di tale situazione che dal territorio è emersa la volontà di
promuovere un’indagine che ne approfondisse ragioni e condizioni.
L’analisi dei risultati si sviluppa principalmente in due diverse aree emerse come significative: la prima relativa ai dati personali delle intervistate e
alla loro partecipazione lavorativa, presente, passata ed attesa. La seconda
area è volta ad indagare il rapporto con il territorio, il modo in cui è vissuto
1
Nel corso delle tre interviste di gruppo sono stati sottoposti alle intervistate altri due
strumenti di indagine. Il primo è una scheda di rilevazione contenente, oltre alle richieste
di informazione circa i dati personali (residenza, età, titolo di studio, occupazione), alcune
delle domande del questionario più ampio sottoposto alle intervistate con figli, in modo da
tenere la comparabilità su alcuni aspetti tra cui la pagella del territorio. Inoltre, l’intervista
prendeva le mosse dalla richiesta rivolta alle intervistate di disegnare su un foglio bianco la
mappa della loro giornata tipo indicando gli orari, gli spostamenti e i mezzi utilizzati. Questo
ha permesso di raccogliere molte informazioni anche delle rappresentazioni diverse circa il
quotidiano, l’organizzazione del tempo e il modo in cui il territorio viene vissuto.
114
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
e le opinioni delle intervistate intorno alla qualità di vita offerta e percepita
nella realtà locale.
IV.2. Biografie e lavoro
Le donne intervistate hanno una età media di 31 anni, in un range tra i 22 e
i 40 anni. Per la maggior parte sono nubili e vivono con la famiglia di origine, mentre in 7 su 26 convivono con il partner, solo 2 sono coniugate. Vi è
quindi tra le intervistate una varietà di condizioni che rispecchia pienamente
i mutamenti sociali più ampi a cui il territorio è tutt’altro che estraneo. Si
tratta di donne che hanno, nella più parte, conseguito un titolo di studio
medio-alto; solo in due casi il titolo posseduto corrisponde a quello di licenza media inferiore, mentre per il resto 12 sono diplomate e 11 laureate.
I loro partner, per quelle che sono in coppia, perlopiù sono diplomati, uno
laureato e due hanno un titolo di studio post-laurea. All’interno delle coppie,
le rispondenti hanno un titolo di studio in tre casi superiore a quello del
rispettivo partner e, nei restanti, di pari grado.
Passando alla condizione occupazionale rilevata, quasi tutte le intervistate sono risultate occupate, ad eccezione di tre. Di queste, due sono disoccupate e una pensionata per ragioni legate ad una invalidità fisica. Prevale
la condizione occupazionale di dipendente, ad eccezione di una lavoratrice
autonoma, mentre in sette casi le intervistate si sono collocate alla voce «altra
condizione lavorativa», specificando di essere al contempo studentesse e lavoratrici. Si tratta delle più giovani che frequentano corsi di studi universitari
mentre svolgono attività lavorative varie. Quanto alla congruenza tra titolo
di studio e occupazione lavorativa non si rilevano particolari differenze tra
diplomate e laureate. Prevalgono occupazioni che risultano solo in parte in
continuità con gli studi compiuti, in modo particolare per le laureate. Tra
le diplomate si distinguono tre intervistate la cui attività lavorativa risulta
congruente con il titolo di studio conseguito. Aspetto questo che verrà
approfondito più avanti.
Dalle testimonianze delle intervistate emerge uno scarto tra il lavoro
svolto e il lavoro idealmente atteso. Mentre sono accomunate dal riconoscere
al lavoro un ruolo centrale nel personale percorso esistenziale, l’esperienza
lavorativa è più spesso la risultante di un compromesso raggiunto mediando
tra quanto sperato ed atteso e le reali opportunità offerte dal contesto. Il
mercato del lavoro locale è percepito in particolare per una limitatezza delle
opportunità lavorative, specie per la forza lavoro femminile. Constatazione
che non si accompagna ad un desiderio di progettare la propria vita altrove.
SENZA FIGLI...
115
Il lavoro seppure ridimensionato nei fatti, rimane un’aspirazione e un’esperienza imprescindibile ed è collocato nel territorio anche idealmente.
La socializzazione al lavoro per la maggior parte corrisponde ad un percorso relativamente (all’età) lungo. In numerosi casi l’occupazione presente
è solo una parte, la tappa più recente, mentre la storia lavorativa delle intervistate riferisce di esperienze precedenti, svolte e conclusesi. Considerando
l’insieme delle intervistate, si nota una varietà di esperienze lavorative che
tendono a diversificarsi anche dal punto di vista del contratto e del grado
di stabilità che ad esso si accompagna. Prevale indubitabilmente (15 casi) il
lavoro regolato attraverso un contratto a tempo indeterminato; daltronde
appare significativa la rappresentatività di altre tipologie all’interno di questo
gruppo indagato. La frammentarietà delle forme di lavoro, come si è visto
dalla precedente analisi del contesto, è un fenomeno che, più recentemente
rispetto ad altre realtà geografiche, tende ad espandersi con rapidità nella
regione e localmente. Un mutamento che non sfugge all’attenzione delle
intervistate, le quali ne incorporano le caratteristiche nella percezione delle
concrete opportunità occupazionali. Sia dal punto di vista delle caratteristiche personali, sia da quello della condizione lavorativa, emerge uno spaccato
altamente eterogeneo, di un microcosmo sociale che ha in sé tutti i segni del
mutamento, così come della specificità del contesto di appartenenza.
Per lo più sono nell’attuale posizione lavorativa da poco tempo; questo
in parte dovuto all’età delle più giovani ma anche per il fatto, come diverse
intervistate dichiarano, di aver cambiato lavoro ed essere giunte all’attuale
solo di recente. La permanenza delle donne sul mercato del lavoro, anche
a fronte delle denunciate crescenti difficoltà, si fonda sull’importanza riconosciuta all’avere un lavoro. L’autonomia e l’autorealizzazione attraverso
il lavoro sono aspetti che trovano particolare enfasi nelle loro parole, più
della sua strumentalità, il lavoro è sì un mezzo di sussistenza ma è soprattutto il mezzo di acquisizione d’indipendenza. Le più istruite associano al
lavoro aspirazioni di maggiore elevazione che, come già detto, incontrano il
principale limite nelle opportunità sul territorio. Come si può rilevare dalla
tabella seguente che riporta la distribuzione delle risposte delle intervistate,
l’importanza dell’avere un lavoro risiede principalmente nel valore, ampiamente condiviso, dell’essere autonome e indipendenti. L’indipendenza è un
valore a cui tendere, come sottolineano le parole di alcune intervistate: «...
sono sempre stata una persona indipendente.... se non hai il lavoro non puoi avere
la tua indipendenza» (F2)2. L’indipendenza economica mantiene tutta la sua
2
Di qui in poi i brani delle interviste verranno riportati con i seguenti riferimenti: M1 per
il gruppo di Mondavio, F2 per quello di Fossombrone, S3 per Saltara.
116
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
rilevanza anche dentro una relazione affettiva e di coppia per poter decidere
autonomamente e non dipendere dal reddito altrui:
«il lavoro è fondamentale, ti senti non realizzata tanto perché chissà cosa puoi fare,
ma un po’ di indipendenza ce l’hai, anche perché non tutti trovano il marito così
dolce, accondiscendente, perché poi conosco anche quello che fa pesare... di passare di
mantenerle se la donna non ha un lavoro» (F2).
A conferma di quanto detto si possono leggere i dati contenuti nelle
tabelle seguenti. In questo caso è stato chiesto alle intervistate di indicare
il grado di importanza di alcuni ambiti vitali (Tabb. IV.1 e IV.2). I risultati
mostrano che al primo posto, per grado di importanza, c’è il lavoro, segue il
tempo libero da dedicare a se stesse e subito dopo rispettivamente avere dei
figli e avere un compagno o un marito. Rilevato che tutte le istanze intorno
a cui le intervistate sono state chiamate ad esprimere il loro giudizio, sono
riconosciute come importanti, è evidente che le stesse hanno chiaramente
stabilito delle priorità intorno a cui costruire il loro percorso vita-lavoro.
Di fronte all’esplicita richiesta di indicare delle priorità tra lavoro, figli,
marito, il tempo per sé, è emersa una difficoltà a stabilire una “graduatoria”
stabile nel tempo, valida nelle diverse fasi della vita; il lavoro non viene
escluso, rappresentando così una costante della personale progettazione
esistenziale:
– «Tutto.
– Non si può scegliere.
– Per me il lavoro, sono sempre stata una persona indipendente.... se non hai il lavoro
non puoi avere la tua indipendenza.
– Penso il lavoro, se non ho il lavoro non posso vivere, se non ho il marito posso vivere
lo stesso.
– Penso il lavoro.
– Il lavoro serve però anche avere una persona a fianco, aiuta, per trascorrere il tempo
insieme sennò sempre lavoro, lavoro, lavoro» (F2).
Tabella IV.1 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado
di importanza per lei*:
Valore medio
Avere
Avere
Avere
Avere
un lavoro
tempo libero (per sé)
dei figli
un compagno/marito
1,07
1,2
1,4
1,5
* Valore medio calcolato su un punteggio da 1 = molto importante a 4 = per niente importante.
117
SENZA FIGLI...
Tabella IV.2 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado
di importanza per lei*
Avere un lavoro
Molto
importante
Abbastanza
importante
Poco
importante
Per niente
importante
24
2
0
0
Avere un compagno/marito
16
7
2
1
Avere dei figli
15
11
0
0
Avere tempo libero (per sé)
20
6
0
0
* Valori assoluti
La priorità del lavoro risiede proprio nell’accesso a gradi di autonomia
che non mettano in discussione il diritto all’autodeterminazione, anche nella
vita di coppia. Accanto all’autonomia e all’indipendenza, di cui il lavoro
rappresenta il principale mezzo di accesso, vi è un’altrettanto importante
motivazione espressiva, che riguarda piuttosto la ricerca di senso, manifestata
attraverso la definizione del bisogno di sentirsi utili, identificandosi nell’attività che si svolge e riconoscendo il significato di ciò che si fa:
«per me il lavoro è anche importante per sentirmi utile, nel senso che quello che faccio
aiuta me, sia quelli con cui lavoro, sia la persona con cui mi relaziono» (F2).
L’importanza che la propria attività abbia un senso è sottolineata in varia
misura e a più riprese dalle intervistate; idealmente tenderebbero a coniugare
le motivazioni espressive con una soddisfacente condizione economica, ma
la realtà non porta quasi mai ad un bilancio positivo in tal senso:
«[...] anche perché tu vai a letto e dici oggi ho fatto questo e quello. Lei ce l’ha questo
lavoro però l’aspetto retributivo […] c’è insomma sempre qualcosa che non torna»
(F2).
La ricerca di un lavoro soddisfacente, dal punto di vista esistenziale,
rimane una priorità per le intervistate la cui insoddisfazione deriva piuttosto
dal non riuscire a tenere insieme un’esperienza lavorativa significativa con
una fonte di reddito adeguata:
«si, io ho anche pensato di cambiare lavoro, anzi ce l’avevo, era già lì, poi mi sono
fermata, perché mi sono detta adesso mi alzo per andare ad aiutare loro, dopo mi alzo
per andare a dare la cremina, perché era commessa in profumeria, alla signora. Per due
o tre giorni ho pianto disperatamente perché non sapevo cosa fare, però sono rimasta
qua, nonostante lo stipendio di partenza là era molto più alto» (F2).
118
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
È proprio nel raffronto tra aspettative ed esperienza che emergono le
principali criticità del rapporto con il lavoro. Il legame concreto che si
stabilisce con esso porta le intervistate ad operare continui bilanci tra la
situazione presente e quella ideale. Un ulteriore fattore di criticità è dato
dal grado di stabilità/instabilità della posizione lavorativa e, con essa, della
certezza vs. incertezza di una fonte di reddito. Una condizione tutt’altro che
estranea alle intervistate. Diverse sono le storie lavorative caratterizzate da
lunghi anni di precariato e redditi bassi, per cui all’incertezza si unisce una
difficoltà a raggiungere l’indipendenza, nonché a progettare un futuro, oltre
che a godere senza preoccupazione dei frutti del lavoro:
«io sono otto anni che sono a tempo determinato, da quest’anno con la stabilizzazione
che sono un po’.. però quando cominci a stare tutti gli anni co’ sta spada di Damocle,
la voglia del parrucchiere, del cinema, te passa. Cominci a dì io c’ho 32 anni, vorrei
fa ’na famiglia e vorrei anche mette i soldi da parte per fa ’na cosa, per costruirmi il
futuro» (F2).
Commenta al riguardo un’altra intervistata: «Fai dei ragionamenti diversi
quando t’arriva tutti i mesi lo stipendio» (F2). Le testimonianze delle intervistate
rimandano ad un intreccio di fattori che le porta costantemente a mediare
per la costruzione di un’identità che appare persino contraddittoria. Se il lavoro infatti è una dimensione imprescindibile di consolidamento dell’identità
personale e sociale, in ciò non si ravvisano istanze emancipatorie, per cui
neppure si trovano d’accordo con una visione del lavoro che strumentalmente supporta le donne nell’«avere più voce in capitolo». Allo stesso tempo
esprimono un concorde disaccordo verso un orientamento per cui «potendo
scegliere è meglio rimanere a casa».
Tabella IV.3 - Grado di accordo con alcune affermazioni associate al lavoro
Il lavoro dà l’autonomia
Il lavoro è importante per sentirsi utile
Il lavoro è importante per la realizzazione
personale
Una donna che lavora ha più voce in capitolo
Lavorare è più importante per gli uomini che
per le donne
Quando ci sono i figli è meglio che la madre
non lavori
Potendo scegliere è meglio stare a casa
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
23
11
2
14
1
1
0
0
15
11
0
0
2
9
3
11
1
1
10
14
1
4
15
6
1
4
11
10
SENZA FIGLI...
119
Stare a casa per la maggior parte di loro non è neppure messo in conto,
piuttosto adattano le loro aspirazioni lavorative alle opportunità sul territorio.
È l’effetto già precedentemente descritto, di una socializzazione al femminile
che per le giovani generazioni ricomprende il lavoro e l’aspettativa dello
stesso come meta del percorso di vita. La parità con gli uomini non è in
gioco, né problematizzata, ma semplicemente assunta. Il lavoro e la famiglia
sono tenute insieme in qualità di mete a cui tendere. Una definizione di ruoli
apparentemente non fondata sul valore dell’eguaglianza, si coniuga con una
domanda di flessibilità che incontra le giovani generazioni di donne (l’offerta) con aspettative differenti, di continuità lavorativa e di carriera. È a tali
aspettative che rispondono con strategie di azione dai caratteri ambivalenti.
Lavorare equivale per le donne ad avere un progetto di vita “non a scadenza”.
Le loro strategie prevedono istanze considerate di segno contrario (lavoro e
famiglia) costituenti però un’opposizione non dialettica che, in quanto tale,
non consente una scelta “definitiva”.
Scegliendo in maggioranza il modello dell’ambivalenza, anche queste
intervistate non pongono in opposizione la scelta della famiglia e del lavoro già nel momento in cui gettano le basi del loro futuro, consapevoli
delle difficoltà a cui vanno incontro. È interessante come questa mancanza
di problematicità, associata alla partecipazione delle donne al mondo del
lavoro, emerga anch’essa nei colloqui con le intervistate. Le problematicità
sono declinate al singolare, non elaborate quale condizione generalizzata
delle donne, esse emergono solo approfondendo la discussione e risalendo
all’esperienza personale di ciascuna. Le diseguaglianze emergono nel momento in cui si scende nel dettaglio della personale situazione lavorativa,
rispetto a cui fioriscono racconti di disparità di trattamento, di opportunità
di lavoro e di retribuzione come di carriera.
Quando le intervistate si addentrano nella descrizione del tipo di opportunità di lavoro che le donne e gli uomini del territorio hanno, il ritratto del
contesto, della distribuzione delle risorse, diventa meno uniforme ed emergono le differenze quanto le diseguaglianze. La prima differenza rilevante
è individuata in senso diacronico, come mutazione intergenerazionale delle
donne. Il richiamo alle generazioni precedenti evoca l’immagine del lavoro
faticoso, svolto prevalentemente in fabbrica, a differenza delle più giovani,
orientate verso lavori migliori e meglio retribuiti:
«ora si mira ad avere un lavoro ben pagato e che si fatichi poco, una volta le donne
andavano nelle fabbriche, ma oggi... non ci sono neanche più le fabbriche nella nostra
zona, ...si ci sono... ma non è che danno tutte queste opportunità» (M1).
120
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Le intervistate si sentono diverse dalle loro madri, affermano personalmente un diritto acquisito a stare sul mercato del lavoro ed egualmente a
godere della propria autonomia. Le loro madri, pur lavorando, hanno avuto
minori chances di determinare il proprio percorso, di ampliare gli ambiti
di relazione sociale al di fuori della sfera lavorativa e soprattutto familiare.
Queste le opinioni delle intervistate. Il confronto con le madri non è basato
su una discontinuità del modello femminile, specie per quanto concerne il
ruolo all’interno della famiglia, ma ancora una volta sul grado di autonomia
che sentono di avere personalmente acquisito in misura più elevata. Gli elementi che minacciano tale condizione sono ravvisabili nel contesto esterno,
sia esso il mondo del lavoro, considerato così come è, sia il contesto storico,
che di fatto pone le donne in una particolare difficoltà nella ricerca di un
lavoro adeguato.
Dunque se in passato le opportunità erano quantitativamente maggiori
anche per le donne, oggi il cambiamento sta nella ricerca di un lavoro dalle
caratteristiche qualitativamente migliori o percepite tali. Un’attesa che le
stesse intervistate sentono difficilmente realizzabile specialmente a causa
della congiuntura negativa che colpisce il mondo economico e del lavoro
anche a livello locale «13-14 anni fa era diverso!!» (F2). La contrazione delle
opportunità è nettamente percepita ed esternata nel corso delle interviste;
ad essa si riconduce un cambiamento profondo nel sistema locale, le cui
conseguenze sono giudicate pesantemente penalizzanti, in particolare per le
donne. L’andamento negativo del mercato è per le intervistate il principale
fattore condizionante i loro percorsi, rispetto a cui meno diretta è la relazione con altri tipi di ostacoli, specie con quelli che hanno a che fare con
radicamenti pregiudiziali contro le donne, debolmente messi a fuoco. Solo
marginalmente vengono chiamati in causa in diretta relazione con un accesso
paritario e in forma stabile al sistema occupazionale. Questo non significa
che le intervistate non ne riconoscano l’esistenza, ma semplicemente non vi
attribuiscono rilevanza, né stabiliscono un nesso di necessità con le forme
segreganti nel mercato del lavoro e tanto meno con il tipo di opportunità
che di fatto si aprono o chiudono alle donne.
L’orientamento largamente prevalente tra le intervistate è quello di
un’adesione ad un ruolo femminile cui si ascrive, in maniera pressoché esclusiva, la responsabilità di radicare la propria vita al confine tra lavoro e famiglia, subordinando per di più, anche preventivamente, le scelte lavorative. In
primo luogo sentono di essere non madri al momento, ma potenzialmente
tali, in una visione della maternità che per essere assunta appieno avrebbe
bisogno di alleggerire il peso del lavoro. La sfera privata è preponderante e
tutto ad essa è ricondotto in una lettura individualista della realtà che non
SENZA FIGLI...
121
contempla una relazione più ampia con un sistema di genere escludente.
La stessa maternità è attesa come un costo da pagare personalmente, proprio in virtù della scelta compiuta. Insomma, è un affare da donne! Perciò
accettano, più che contrastare o criticare, l’atteggiamento discriminante, che
ritengono diffuso tra i datori di lavoro, di preferire assunzioni maschili a
quelle femminili. Sanno per esperienza personale, per domande dirette sulla
loro vita privata rivolte durante colloqui di lavoro, per racconti riferiti da
altre donne, che essere percepite come madri significa divenire un costo da
pagare per un’ascritta limitata disponibilità che verrà: «comunque ho un’amica
che sta cercando lavoro e dicono ah le donne non le vogliamo, c’è ancora questo
luogo comune perché dicono che poi si sposano, ci sono figli....» (M1).
Se le intervistate sottolineano come questo sia solo parzialmente coerente con la realtà, tuttavia non ne prendono totalmente le distanze, appoggiandosi piuttosto ad un sistema sociale che sostiene una divisione sessuata dei
ruoli, tradizionalmente tracciabile attraverso il confine tra pubblico e privato,
di cui esse stesse sono parte integrante e a cui si conformano. Il rapporto di
lavoro contrappone donne la cui aspettativa è quella di rimodulare la loro vita
intorno alla maternità, eventuale e futura, a datori di lavoro che accettano
o meno di investire su di loro. La difesa dei rispettivi interessi è lecita dal
punto di vista delle intervistate, ragion per cui non si giunge a collocare in
una cornice dialettica o di rivendicazione il ruolo delle donne e a declinare
la maternità come svantaggio competitivo relativo.
Semplicemente la realtà lavorativa con cui si confrontano, locale in particolare, è percepita come intrinsecamente poco accogliente verso le donne.
Infatti, l’assetto produttivo del territorio è a più riprese descritto strutturalmente in contrasto con le stesse e dalla debole capacità di includerle. I settori
produttivi definiti «specifici» delle donne, sono quelli legati a mansioni che
riproducono le attività domestiche, anche se svolte in fabbrica, mentre sul
territorio prevalgono attività «maschili»:
«io lavoro qua nei dintorni e ne vedo tantissime, allora per il lavoro le donne proprio
non le vogliono, le operaie stanno diminuendo tantissime, a parte quelle cucitrici, quelle
cose proprio specifiche.. oppure ah ecco stireria, a parte queste cose qua il part time
non lo vogliono dare; il part time proprio raramente, tendono a non assumere le donne
almeno che non ci sia una legge che se ne possono avvantaggiare» (M1).
Secondo le intervistate più facilmente disponibili per le donne sono i
lavori impiegatizi, di badante e come «cameriera, quello a volontà» (S3). Si tratta
per la più parte della constatazione di una situazione di fatto. La visione
pregiudiziale nei confronti delle donne, reale e/o percepita, non è messa in
discussione dalle intervistate, che comunque condividono una visione dei
122
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
ruoli maschili e femminili di tipo tradizionale. Il fatto che vi siano, a detta
delle stesse, più opportunità del lavoro per gli uomini che per le donne, è
dato in qualche modo per scontato. Le intervistate hanno acquisito implicitamente tale cognizione, nell’esperienza, nel vivere il territorio, che per la
quasi totalità è il luogo di residenza da sempre.
È nel farsi delle interviste che emerge l’esistenza di una richiesta diversificata di lavori e lavoratori/lavoratrici. Gli annunci di ricerca di personale
che appaiono sui giornali locali, in particolare nei centri Informagiovani, sono
giudicati indirizzati solo agli uomini, in quanto principalmente riguardanti
settori quali la meccanica. A parere delle intervistate, sono le donne a recarsi più frequentemente presso i centri di informazione, sono loro i soggetti
ritenuti più difficilmente orientabili. Ciò sia per una debole domanda locale
di lavoro femminile, sia per una difficoltà dichiarata nell’orientare la ricerca
delle donne, la cui offerta di lavoro comunque si presenta sul mercato con
un grave comparativamente più elevato di vincoli:
«a livello lavorativo non è che qua si può chiedere all’amministrazione..., molte fabbriche
come lei diceva prima... prima le donne erano impegnate molto qua nelle fabbriche ora
stanno chiudendo. Io per esempio a Lucrezia vedo che stanno costruendo tante fabbriche;
da noi quelle che ci sono impiegano più gli uomini, molte metalmeccaniche, tutto il settore
del legno, a parte le lavanderie industriali, un paio di stirerie, confezioni» (F2).
«Lavorando in questo campo3 vedo che di offerte per le donne ce ne sono davvero poche,
ogni volta che c’è un’offerta è sempre per uomini.. a livello di operaio, di impiegato
però è sempre per uomini, sempre e comunque rivolti a uomini. Infatti, tutte le schede
di quelli che vengono qui, le ragazze sono la stragrande maggioranza mentre i maschi
sono pochi.. le ragazze poi cercano lavori di badante... lavori che insomma sono poi
anche difficili da trovare, semmai per passaparola... devi cercare di consigliare con la
casa, la famiglia;
– eh esatto anche part time, che non prenda tutto il tempo;
– ah il part time non te lo da nessuno;
– ..infatti... neanche per gli uomini;
– gli uomini non hanno il problema della famiglia, dei figli» (S3).
I vincoli sono dunque sia quelli che pone il territorio, in una rigida
divisione sessuata della domanda di lavoro, sia quelli derivanti da un assetto relazionale che colloca le donne come responsabili monopolistiche del
lavoro di cura, soprattutto verso i figli. Un assetto in cui, peraltro, le donne
si riconoscono, da cui non prendono né le distanze, né mostrano insofferenza, semplicemente lo assumono come diseguale nei comportamenti quanto
3
A parlare è un’operatrice del Centro Informagiovani.
SENZA FIGLI...
123
nelle aspettative. La diseguaglianza è un dato di conoscenza e aspettativa
insieme. Purtuttavia nello svolgersi dell’intervista e nello scambio reciproco
di opinioni, emergono descrizioni di condizioni lavorative diseguali nel lavoro, cui si associano interpretazioni diverse, come lo sono i punti di vista
espressi.
Il mercato del lavoro locale, complessivamente, è descritto come iniquo e
non propriamente dinamico. Quanto all’iniquità essa è messa in relazione con
la condizione originaria delle donne, del loro essere care giver, in un contesto
lavorativo in cui le opportunità di lavoro, soprattutto stabile e qualificato, si
vanno rarefacendo. Si tratta di un aspetto molto rilevante, poiché il lavoro
è una risorsa cercata ed offerta sul territorio. I legami fiduciari, l’essere sul
territorio sono preminenti. La mediazione tra chi cerca e offre lavoro, secondo i racconti delle intervistate, è regolata primariamente attraverso canali
informali: conoscere ed essere conosciute è ciò che favorisce l’occasione più
spesso menzionata nel trovare il lavoro attuale:
«io l’ho trovato perché un’amica mi ha detto da me cercano ho fatto un colloquio»
(M1);
«a me mi ha contattato direttamente la titolare del negozio che conoscevo» (F2);
«a me cercavano delle persone mi hanno contattato perché conoscevo un’altra ragazza»
(S3).
La dimensione territoriale ha una ricaduta rilevante sul percorso esistenziale e lavorativo, specie in termini di scarto tra percorso di studi, aspirazioni lavorative e concrete opportunità. Le parole delle intervistate rivelano
disillusione rispetto alla possibilità di un lavoro che sia congruente con le
aspettative maturate anche attraverso il percorso di istruzione compiuto o
che per alcune si deve ancora concludere:
«si, perché appena uscita dalla scuola ho trovato, vicino casa, solo che non è quello
per cui ho studiato, io faccio la commessa e invece sono diplomata in ragioneria, faccio
tutto tranne che la ragioniera» (M1).
Il titolo di studio maggiormente spendibile sul territorio è ritenuto essere
il diploma in ragioneria, l’unico in grado di garantire un’occupazione nel
breve tempo dall’uscita dal percorso di studi, proprio per la specificità del
tessuto produttivo locale: «qui è pieno di ditte un lavoro lo troviamo tutti...»;
«..io ho trovato subito, mia sorella ha trovato subito, da noi non c’è nessuno che
non ha trovato, è una rarità nel settore mio» (S3), asserisce una delle intervistate
alludendo al suo diploma in ragioneria. Diversamente, passando a gradi di
istruzione superiore aumentano le difficoltà: «la laurea non serve a niente»
dichiara seccamente una delle intervistate, mentre un’altra riferisce:
124
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
«Io mi mantenevo agli studi lavorando nelle scuole con una cooperativa, poi va beh mi
so laureata e adesso non faccio quello che vorrei fare, come tanti di noi, poi continuo
a formarmi però serve a poco... se ci si dà da fare qualcosina a progetto.... Adesso ci
sono anche questi progetti di ricerca a cui ho partecipato, ho cominciato. Poi sono
stata assunta da questa agenzia, poi sono entrata in maternità4 e quindi... ho fatto
poco, comunque ho trovato in internet, ho visto un annuncio cercavano stagista scopo
assunzione, ho fatto il colloquio e sono stata assunta, però certo ho cambiato settore,
tutta un’altra cosa, l’ho fatto solo per fare non un part time ma un tempo pieno, per
avere più soldi, perché con la cooperativa sono 600 euro al mese quindi non potevo
continuare così» (S3).
Le intervistate che lavorano raccontano di una discriminazione come
prassi nei luoghi di lavoro, parte del quotidiano; riferiscono di trattamenti
differenziati per donne e uomini rispetto agli sviluppi di carriera e all’attribuzione di incarichi, ma anche di differenziali salariali evidenti, per cui
a parità di mansione (e non necessariamente di competenza, a detta delle
intervistate) si associano redditi diversi, secondo che si tratti di lavoratrici
o di lavoratori.
Non emerge una rielaborazione dei problemi enunciati in termini di
conflittualità e di necessità di superamento, ma anzi è soprattutto l’impotenza a venire in primo piano ed anche una certa difficoltà a mettere a fuoco
tali aspetti come critici od ostacolanti, piuttosto che come prassi. Come
già accennato, il momento attuale è percepito acuto e critico. Le piccole e
medie imprese presenti nel territorio rappresentano un’opportunità sempre
più ristretta, misurata sulla crescente difficoltà di cambiare lavoro. Nella
tendenza di crisi le aziende sono descritte sempre più nettamente orientate
agli uomini. In generale la situazione per le donne è divenuta più difficile
anche per il diffondersi del lavoro precario e perché il lavoro part time è
sempre meno disponibile, così come meno opzionabile è la scelta di fronte al
lavoro e al tipo di lavoro. Una delle intervistate racconta, per esempio, della
sua situazione attuale in cui si trova a svolgere un lavoro part time che era
inizialmente full time, non per sua scelta, ma per effetto di «un peggioramento»
delle condizioni di lavoro, cosa che porta la stessa a definire questo come:
«un part time finto, perché poi quando c’è più da fare si va prima, si comincia prima,
non stai a guardare gli orari; è una cosa che ho trovato peggiorata nel tempo, quindi
prima ero full time e poi ci hanno proposto il part time e ci hanno detto se volete accettare
è così… a me e tutte le mie colleghe.. tutte donne siamo in cinque più un’apprendista.
Nel momento in cui abbiamo finito l’apprendistato ci hanno detto se volete accettare il
part time sennò andate via» (M3).
4
L’intervistata è in stato di gravidanza al momento dell’intervista.
SENZA FIGLI...
125
Mentre un’altra delle intervistate osserva che «se magari c’era un omo era
a tempo pieno», la prima ribadisce «mah no, penso di no, uomo o donna chiunque
sia stata penso che è così» (M3). Prevale la convinzione che sia il sistema a
designare le condizioni del lavoro, a prescindere dalle specificità dei soggetti
e soprattutto a prescindere dalle specificità di genere. Le disparità in termini di accesso e partecipazione al mercato del lavoro sono un dato di fatto
piuttosto che di ostacolo, parte dell’ordine delle cose. A prevalere è invece
l’insieme delle difficoltà derivanti da una situazione che al presente va, per
effetto di una modificazione della struttura occupazionale locale, divenendo
via via più restrittiva per le donne. Le cause individuate sono quelle della
crisi economica globale, i cui effetti locali sono sintetizzati dal fatto che ora
«ci sono più opportunità per gli uomini». Prevale una sorta di determinismo
economico per cui sono le congiunture a stabilire le priorità di volta in volta,
così come sono le esigenze di mercato che rendono stringenti le condizioni
di partecipazione, è a partire da esse che si opera una lettura della realtà in
cui le specificità soggettive esprimono l’unica opzione possibile di adeguarsi
o non.
A fronte di ciò, il lavoro è un valore solido e profondamente radicato.
L’importanza attribuita al lavoro è un saldo punto di riferimento, a prescindere dall’analisi delle condizioni in cui si esplica. Le intervistate ben
rappresentano una generazione di donne che ha interiorizzato il lavoro al
punto da farne oggetto di aspettativa diffusa e non elitaria. A tal proposito
così eloquenti sono le seguenti affermazioni:
«io ho sempre pensato che fosse importante avere il lavoro che ti piace e tutti mi dicevano: «No basta che hai il lavoro, capirai, basta che ti pagano bene». Io non credo,
nel senso che, io non so, io sceglierei un lavoro che mi piace, di responsabilità, per come
sono fatta io, e ovviamente di responsabilità presuppone un certo stipendio, ovviamente,
no? Dopo ci sono dei momenti, lavorando dico no, forse è meglio di no, perché non se
ne può più, però io personalmente sceglierei quello e cercherei di gestire tutto il resto in
funzione di quello perché credo sia importante. Sono un po’ in conflitto, comunque sia
credo che anche la famiglia, i figli e tutto sia importante, però credo che cioè se hai un
compagno che riesce a, insomma a fare le cose insieme, si può fare tutto. Io ho visto mia
madre, ha sempre lavorato, mio padre non ha mai fatto niente dentro casa» (M1).
L’aspettativa di lavoro coincide con l’attesa di una parità concepita come
acquisita. Anche questo appare come tratto di appartenenza generazionale.
La parità non è una criticità ma una questione di giustizia misurata sugli
stili di vita consolidati delle donne loro contemporanee, indubitabilmente
affermati nel vivere quotidiano collettivo: «é giusto che la donna lavori, abbiamo
la parità, che la donna lavori che la donna non sia discriminata» (F2). Il lavoro
126
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
è importante ma non in assoluto. I percorsi occupazionali sono pensati
dalle intervistate come progressivamente (e quasi necessariamente) modificabili nel corso di vita. Anzi, è questo l’aspetto centrale da cui dipende la
possibilità di continuare a mantenere o meno il proprio lavoro. L’argine del
lavoro, simbolico e materiale, è sempre la maternità futura, per cui il peso
dell’occupazione si vorrebbe meno grave, specie se osservata in prospettiva.
Nella realtà la maggior parte delle intervistate svolge un lavoro a tempo
pieno, come i loro partner (di cui nessuno è impiegato a tempo parziale),
ma esprime il desiderio di un orario più breve, per ragioni in parte di qualità
di vita, in parte preventive: in quanto donne, affermano loro stesse, sanno di
dover ripartire il loro tempo tra lavoro e famiglia, di più dei loro attuali e/o
futuri partner. La soluzione più agevole individuata è nel part time. L’avere
o non avere figli per le intervistate è una sorta di spartiacque tra stili di
vita e lavorativi. Criterio che le intervistate mostrano di aver fatto proprio
nella misura in cui si attendono, per il futuro, di dover contenere lo spazio
dell’attività lavorativa in favore di tempo per la cura. Ed ecco quindi che è
proprio nel part time la via conciliante:
«sì, io magari, per una donna...;
– io sì per me è il massimo anche perché io parto la mattina alle 8 e torno a casa alle
7, 7 e mezza. Io non ho figli ma se uno volesse avere figli diventa complicato;
– io per esempio ho un marito che lavora per conto suo e devo riuscire ad incastrare
tutte le cose. Faccio stare meglio lui e magari sbaglio e magari sto bene anche io e poi
per una donna che ha dei figli» (M1).
Intorno al tempo libero da lavoro si forgiano le aspettative e gli orientamenti occupazionali. Allo stesso tempo, non minore rilevanza assume la
retribuzione economica. Di fatti, ciò che rende meno desiderabile il part
time, è la ridotta retribuzione economica ad esso associata, tal ché alcune
delle intervistate indicano il lavoro ideale in un «Part time pagatissimo» oppure
un «Part time con un buon stipendio, col pomeriggio libero» (M1). La capacità
di reddito trova molta attenzione da parte delle intervistate, pertanto una
sua decurtazione è piuttosto una rinuncia in favore di un orario di lavoro
contratto che non occupi interamente la giornata:
«io ho sempre lavorato tanto, forse con gli anni.. io ho mio marito... adesso non è che..
però posso permettermi di stare a casa, sto dando molta più importanza alla qualità
della vita, nel senso di mangiare bene, magari preferisco rinunciare a qualcosa per me
nel senso se mi chiedono vai a lavorare magari un lavoro sfigato, magari preferisco
rinunciare a determinate cose. Questo negli anni, prima no. Però certo farsi delle belle
passeggiate, cucinare, farti delle cose tue a casa, ho maturato questa cosa negli anni.
Dopo se c’è un bel lavoro è chiaro che a un bel lavoro non si rinuncia mai, però con
SENZA FIGLI...
127
dei lavori non eccelsi, certo l’indipendenza è un peso che va calcolato, preferisco la
qualità della vita. Magari rinunci a qualcosa, magari non mi compro una borsa che
costi una certa cifra» (F2).
La relazione tra le diverse sfere esperienziali è stretta e complessa. Il
confine è labile, mentre la ricerca di senso è rivolta alla vita come al lavoro.
Al tempo di non lavoro si presta molta attenzione, esso è qualificante di una
costruzione identitaria che non riconosce ad esso la posizione dominante e
tanto meno monopolistica sull’esistenza. Mentre il lavoro si afferma come
una priorità, intorno ad esso si forgiano le aspettative della vita privata.
Quando il lavoro è declinato come necessità, ad essere maggiormente chiamate in causa sono le motivazioni strumentali, che hanno a loro volta una
relazione con modelli femminili operosi primariamente rispondenti ad un
dovere di contribuire al sostentamento economico.
La necessità di lavorare ha un forte legame con quella del sostentamento economico. Ciò implica, a parere delle intervistate, che donne e uomini
contribuiscano entrambi alla produzione di reddito. A fronte di ciò, permane
il dilemma intorno alla gestione della duplice necessità, appunto di reddito
da una parte e di cura dall’altra. Si struttura un legame con il lavoro sub
condicione per cui le donne riferiscono di scendere a patti con i lavori di fatto
disponibili, consapevoli di andare incontro a percorsi accidentati, laddove i
carichi di cura saranno tali da risultare inconciliabili. È in ciò la radice di una
fragilità del percorso lavorativo femminile che risente delle scelte della vita
privata in misura nettamente maggiore di quanto non accada agli uomini.
È la cura dei figli a porre più di tutto il dilemma:
«oggigiorno lavorare è vitale, nel senso che in una famiglia difficilmente si riesce
ad andare avanti con uno stipendio, dunque oggigiorno lavorare diventa obbligatorio, anche se mi rendo conto che nei primi anni di vita sarebbe più importante
che una figura stesse in casa per seguire i figli. Io poi lavorando a scuola vedo i
risultati di tante situazioni in cui i bambini crescono.. io sono alle superiori però
ho lavorato anche alle medie e comunque anche quest’anno che ho dei ragazzi di
prima superiore si vede quando alle spalle c’è una famiglia che li segue, presente,
ma presenti non tanto perché non vogliono essere presenti, presenti perché tante volte
non possono» (S3).
Vita e lavoro sono due dimensioni in conflitto, o potenzialmente tali,
nella pratica quotidiana: in tal modo sono percepite dalle intervistate, che di
fatto mettono in atto comportamenti volti a gestire o persino a prevenire le
fonti di produzione del conflitto, orientando le proprie scelte verso modelli
femminili ritenuti concilianti:
128
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
«[vorrei] un lavoro flessibile, nel senso un lavoro che mi piace, con un orario flessibile,
tutti i pomeriggi, così se uno ha una famiglia con dei figli, così riesce ad aggiustarsi
tutto» (M1).
Sono le stesse donne a farsi carico di responsabilità di cura e familiari:
non chiamano in causa la coppia, piuttosto una personale responsabilità. Le
dinamiche tra i partner e familiari di cui danno conto, sono in continuità
con tale accezione personalistica della cura. Pur non essendo in gioco il
ruolo di madre, che non appartiene, almeno per il momento, alla sfera
della loro esperienza, riferiscono di un menage familiare quale attribuzione
femminile: loro stesse, rispetto ai loro partner o in qualità di figlie, insieme
alle madri, nella famiglia di origine, presidiano il territorio della cura domestica in una netta ripartizione di attribuzioni differenziate rispetto alle
figure maschili dei padri e dei partner, ben lungi dall’essere basata sulla
cooperazione:
«ah io faccio tutto, nel senso che io lavo, stiro, pulisco faccio tutto e magari il mio moroso
è più portato per le cose, tipo monta gli armadi, mette a posto gli attrezzi, invece per
pulire la casa faccio tutto io;
– io per esempio che lavoro fino alle 7,30-8 d’estate in piena stagione arrivo a casa anche
alle 8,30 – 8,45, arrivo a casa, la tavola è apparecchiata.. per carità, noi mangiamo
a casa solo la sera, però arrivo a casa a quell’ora, devo cucinare, io fino alle 10-10,15
non ho mai finito di pulire la cucina lavare i piatti… sembra che non c’è un attimo,
poi una volta stiri, una volta pulisci...» (S3).
Nell’espressione usata da una delle donne intervistate «faccio tutto io», vi
è l’affermazione di un’adesione concreta al ruolo di protagonista della vita
privata e responsabile delle attività di cura. Ai partner non è richiesto di
cooperare e questo prescinde da ciò che sanno o non sanno fare, semplicemente non è previsto un loro apporto paritario:
«io uguale, un po’ come lei... cioè faccio un po’ tutto io, a maggior ragione adesso che
sto a casa [in maternità] però anche prima che tornavo la sera anche abbastanza
tardi mi ritrovavo un po’ io, poi ovvio sta anche a me dire «cioè guarda dividiamoci i
compiti» mi rendo conto che un po’ è anche causa mia anche perché facendo i turni da
infermiere potrebbe fare, in più sa anche cucinare quindi non è che è proprio negato,
ha vissuto da solo quindi, però è una comodità. Adesso non glielo chiedo nemmeno, però
insomma quando lavoravo così tanto probabilmente sì, era meglio che mi desse una
mano. Poi anche lui è bravo a fare altre cose, lavare e stirare non ci pensa proprio,
non sa nemmeno programmare la lavatrice, per altre cose è bravissimo a programmare,
però la lavatrice, che è la cosa più semplice, non lo sa fare chissà perché;
-...ma il mio sa anche fare ma non lo fa!» (S3).
SENZA FIGLI...
129
Si ha la consapevolezza di un’alternativa paritaria nella relazione di coppia, ma questa appare distante dallo stile di vita adottato e dalle quotidiane
pratiche messe in atto. La coppia è dispari. Al di fuori di essa si sperimentano ruoli diversi, che sconfinano in quelle che al suo interno sono le altrui
attribuzioni. Dentro la coppia i ruoli si ripolarizzano, tornando ai rispettivi
ambiti di competenza:
«io quest’anno sono rientrata a stare con i miei, ma fino all’anno scorso ho vissuto da
sola o con delle colleghe. Quando sei da sola in casa si fa di tutto anche i lavori che in
genere fanno gli uomini, che so smonto i lavandini, smonto l’impianto elettrico, smonto
l’interruttore, sistemo l’antenna della televisione… mi piace fare le attività pratiche
normali» (S3).
Il domestico tratteggia un destino precipuamente femminile. Lo squilibrato impegno di tempo e di lavoro tra donne e uomini appare consensuale,
ad esso si risponde con un’organizzazione di vita a forte connotazione sessuata. I margini che le interessate testimoniano di avere sfociano in comportamenti adattivi rivelatori di condizioni restrittive entro cui opzionare il
presente e il futuro:
«io dico che purtroppo o devi fare troppo o devi stare a casa... la donna non è contemplata nel senso che una donna in casa ha da fare sempre più del marito, nel senso
della cucina le pulizie le fa la donna e dopo lei è già fortunata che ha un marito che
collabora, e quindi voglio dire il tempo libero di un uomo e quello di una donna non
possono essere paragonati perché a casa dopo ti aspetta tutto quanto;
– una donna torna a casa e ha diecimila cose da fare;
– l’uomo non corre secondo me;
– e poi se fate caso nei separati le donne stan benissimo sono autonome in tutto gli
uomini son disperati» (F2).
Dalla posizione di responsabili della cura degli affetti, delle relazioni,
delle cose che affollano la vita privata, gli uomini sono giudicati inadeguati
e inefficienti, al punto che anche in caso di collaborazione questa non muta
l’ordine delle cose:
«allora anche io per esempio, anche mio marito, dice «ah perché devi andare più
spesso in palestra», io dico, no, tu torni, io vabbé sono partita al mattino faccio orario
continuato, lui torna io faccio la spesa, cucino faccio tutto, va beh accendo la stufa,
lui torna che da mangiare è già pronto sul tavolo, sto facendo, tutto a posto, ma io ho
corso da stamattina fino adesso che tu ti siedi a mangiare, per quanto poi, lui a lavare
i piatti me li lava lui, mi prepara la colazione al mattino, passa l’aspirapolvere non
mi posso lamentare perché è una persona eccezionale, però noi corriamo di più perché
tanto certe cose le possiamo fare solo noi... perché l’uomo non è capace;
130
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
– questo forse prima ero più d’accordo, io vedo la differenza tra mio padre e mio fratello.
Mio padre, vecchia generazione, tornava a casa e non faceva più niente, mentre mio
fratello, mia cognata lo fa fare, lo fa stare con i bambini, aiuta a cambiarli;
– si, ma metti sulla bilancia il tempo che lavora tuo fratello e sua moglie, il tempo che
lavora tua cognata e tuo fratello è uguale?
– lavora di più mia cognata sia fuori casa sia in casa, tre figli, insegna. Però sta mettendo sotto mio fratello, cioè mio fratello è molto partecipe. Secondo me è un’educazione
che deve nascere dalle madri con i figli maschi è un discorso che parte proprio dalle
origini» (F2).
A parere delle intervistate solo sotto un’accurata direzione è possibile
indurre i partner alla collaborazione, così come ritengono che persino la
loro mancata collaborazione sia riconducibile ad una richiesta che non viene
espressamente formulata. Mentre l’asimmetria è implicita nella relazione di
coppia, un suo eventuale spostamento verso una redistribuzione dei compiti
in senso cooperativo ed egualitario dipende dalla volontà stessa delle donne, cosa tutt’altro che scontata. Mascolinità e femminilità dentro la coppia
si riferiscono entrambi a modelli tradizionali che trovano ampio spazio di
riproduzione proprio nel quotidiano familiare.
IV.3. Il territorio
La dimensione territoriale rappresenta il legame materiale e simbolico con
l’identità soggettiva e collettiva, ma soprattutto è qui che l’interazione con
le risorse del contesto disegnano specifiche strutture di opportunità e disuguaglianze. Durante le interviste è stata prestata molta attenzione al legame
con il territorio, intendendo con esso qualcosa di più del luogo fisico di
residenza e pertanto approfondendo il modo in cui esso è vissuto, percepito,
giudicato e anche idealmente progettato.
Il ricorso alle mappe, che le intervistate sono state invitate a disegnare
prima dell’inizio dell’intervista, ha fornito un efficace strumento di rappresentazione libera della scansione delle attività quotidiane, nonché degli spostamenti, con relative modalità ad esse legati. La mappa delle intervistate è una
illustrazione libera di una giornata lavorativa infrasettimanale scelta come
esemplificativa. Lo scopo di tale strumento è di descrivere, anche attraverso
una rappresentazione grafica, le attività, gli spostamenti e la scansione della
vita quotidiana. Il modo libero in cui ciascuna è stata realizzata, ha consentito
alle intervistate di esprimere il personale punto di vista, condiviso e discusso
poi con le altre donne del gruppo.
Un primo elemento che emerge dalle mappe riguarda la mobilità sul
SENZA FIGLI...
131
territorio: le rappresentazioni fornite indicano spostamenti che si effettuano
in un’area piuttosto circoscritta, anche se intercomunale, per la più parte
riguardanti tragitti abituali da e verso il luogo di lavoro: «tutto si svolge normalmente fuori dal comune» (M1). Lavoro e studio, per le più giovani, sono
le attività principali, quelle intorno a cui si organizza il quotidiano, cosa che
si evince dalle mappe stesse. Si disegnano percorsi abituali e organizzazioni
del tempo routinarie, soprattutto per quante percorrono abitualmente tragitti
più lunghi per raggiungere la sede di lavoro. La scansione del tempo è per
la più parte regolata da schemi ripetitivi, rispetto a cui, le attività altre dal
lavoro diventano residuali. Sia che si tratti di lavoro, sia di tempo libero,
ci si rivolge molto frequentemente ad aree limitrofe fuori del Comune di
residenza, che diventa quasi un luogo di transito. Tale modo di vivere il
territorio è poi rappresentato da specifiche immagini dello stesso, per cui
a fronte di una scarsità di opportunità percepite nel luogo di residenza, si
tende a guardare più frequentemente “fuori confine”. Gli stessi giudizi sul
territorio risentono del modo di vivere lo stesso. Nel raffronto tra il dentro
(il territorio di residenza) e il fuori, il proprio Comune risulta essere deficitario, con specificità che vengono variamente rimarcate per le diverse età e
fasi del corso di vita.
Esempio di mappa 1
132
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Esempio di mappa 2
Esempio di mappa 3
SENZA FIGLI...
133
Lavoro e tempo libero descrivono un raggio di azione più ampio del
luogo di residenza, ma che tuttavia insiste per frequenza in luoghi ricorrenti,
entro un’area tutto sommato limitata. In comune tra le intervistate vi è poi
l’uso preponderante dell’automobile come unico mezzo di spostamento:
D. «...e vi spostate sempre con la macchina?
– Sì sempre con la macchina, anche perché dopo l’esperienza della scuola...;
– il problema è degli orari» (S3).
«Anche perché i mezzi pubblici qui...;
– sì, da un mese ci sono ogni ora i mezzi pubblici per Fano e Urbino;
– manca la mentalità da noi nei piccoli paesi di dare i servizi pubblici;
– secondo me non è neanche organizzato bene, cioè io sono stata a scuola a Urbino è
stato un dramma, per cui adesso che ho la macchina non ci rinuncio» (M1).
Vi è un certo grado di accordo attorno all’idea che l’automobile rappresenti una sorta di affrancamento da servizi di trasporto pubblici inadeguati, soprattutto dal punto di vista degli orari dilatati che gli stili di vita
impongono; andando a ritroso nei racconti delle intervistate l’automobile
diventa un simbolo del passaggio all’età adulta. A tale proposito, in tutti e
tre i gruppi il momento della frequenza scolastica è ricordata come un peso.
Il provenire da piccoli comuni portava le giovani studentesse a spostamenti
faticosi verso i Comuni più grandi. Il dipendere dai mezzi di trasporto locali
significava avere persino stili di vita differenti dagli altri coetanei dei Comuni
più grandi. Il tempo impiegato nel trasporto aveva infatti un effetto sulla
riduzione del tempo libero a disposizione, contraendo così lo spazio per lo
studio e ricreativo.
La frequenza scolastica nei ricordi delle intervistate, risultava di gran
lunga appesantita, giacché il tempo impiegato per gli spostamenti rendeva
la giornata da studentesse molto lunga e impegnativa:
«svegliarsi all’alba per andare a scuola sinceramente è stato un trauma»;
– la carenza di istituti superiori nella zona, si andava a scuola a Senigallia, Fano,
Pesaro;
– poi non è neanche necessario fare 7 ore di scuola perché fatte bene ne bastano 5,
ma fatte bene;
– però guarda da noi lo dicevano i professori quelli che venivano dai paesini come noi
erano quelli che si impegnavano di più erano quelli che rendevano meglio» (M1).
L’essere dipendenti dai mezzi pubblici e risiedere in questo territorio significa avere minori opportunità, soprattutto nell’età più giovane. A fronte di
un profondo attaccamento al territorio, che la maggior parte delle intervistate
134
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
dichiara, vi è però il riferire di una porzione socio-geografica relativamente
deprivata. Da questo punto di vista lo spostarsi con l’automobile, secondo
motivazioni ed esigenze del tutto personali, rappresenta un ampliamento di
possibilità. Solo infatti attraverso lo spostamento si raggiunge ciò che è desiderabile per quanto concerne le occasioni più che altro di svago, che il territorio
più circoscritto non offre. La valutazione del territorio è dunque operata, in
primo luogo, nell’ambito di quello che è il luogo di residenza, per la quasi
totalità da sempre, ad eccezione, in qualche caso, di periodi di tempo trascorso
fuori per ragioni di studio o di lavoro. Il secondo parametro di valutazione è
il territorio vissuto, quello cioè in cui si lavora o si trascorre il tempo libero
per acquisti, svago e altro. L’ambito più circoscritto è quello meno dinamico,
più ripiegato su se stesso e povero di luoghi di aggregazione:
«beh locali da noi diciamo non c’è molto... va beh basta che vai a Fano; anche a Fano
ce ne sono due...;
– i giovani che hanno la macchina si spostano..;
– se ci fosse il coprifuoco non sarebbe così deserto;
– se vuoi fare qualcosa puoi anche sbatte la testa sul muro;
– io lo trovo avvilente... lo trovo avvilente.. quello che vorrei trovare io non credo che
un territorio così lo possa offrire, non so attività culturali, cose che coinvolgano le persone al di fuori della televisione. È ovvio che questo implica una maggiore comunità
di persone per cui queste cose si possano organizzare, qua c’è solo il bar;
– e la parrocchia» (S3).
Accanto alla scarsa offerta culturale, nel territorio più circoscritto, viene
lamentata una socialità che si va contraendo in favore di un ripiegamento
sull’individualità. Le spiegazioni fornite in merito sono diverse. La prima
riguarda la mancanza di centri e dunque di occasioni in cui incontrarsi. Il
bar è uno dei principali luoghi di socialità, tuttavia esso non è percepito
come un luogo accogliente per tutti e tutte, bensì principalmente deputato
all’incontro tra uomini che, in virtù di ciò, comparativamente sono percepiti
in vantaggio per opportunità di socialità. I bar sono i luoghi più diffusi sul
territorio, ne consegue che gli uomini hanno maggiori chances di conoscenza
reciproca e incontro:
«anche se volessi semplicemente conoscere le ragazze del territorio non è possibile, adesso
noi non ci conoscevamo neanche le une le altre. Adesso se noi fossimo state dei maschietti da
mo’ che ci conoscevamo eh... al bar, questo secondo me è una cosa gravissima» (M1).
Dunque, persino l’intervista viene apprezzata dalle partecipanti come un
momento di confronto tra donne, che si auspica addirittura possa venire replicata; al di fuori di tale situazione, non vi sono luoghi deputati sul territorio,
SENZA FIGLI...
135
mentre le occasioni sono rare e scarsamente partecipate. La seconda ragione
della poca socialità, soprattutto al femminile, è individuata nella mancanza
di partecipazione, disvelatrice di una difficoltà ad uscire dalla dimensione
del privato. Ciò è letto dalle intervistate come un sistema di vita e in parte
invece è messo in relazione con una trasformazione della comunità territoriale, innescata da un’aumentata presenza di residenti stranieri, concentratasi
proprio nell’area corrispondente ai comuni in cui loro stesse risiedono. In
seguito a ciò, si sarebbe abbassato anche il livello di sicurezza e circolare
nelle ore serali è ritenuto più pericoloso. I mutamenti nella composizione
demografica della popolazione locale ricevono una particolare attenzione
da parte delle intervistate, le quali sottolineano quanto la popolazione negli
ultimi anni sia cresciuta per effetto di spinte migratorie extranazionali ed
extraregionali. Una politica di espansione edilizia unitamente ad una disponibilità di alloggi a costo inferiore rispetto ai centri più grandi hanno attirato
nuova popolazione:
«anche perché questi paesi stanno crescendo a dismisura, anche la mattina c’è un traffico
di giorno uscendo dalla superstrada, il paese è cresciuto a dismisura rispetto a dieci
anni fa e giustamente anche le strutture cominciano ad essere inadeguate;
– sì, per via dell’immigrazione che c’è stata;
– sì, ma non solo per l’immigrazione, perché la gente si sposta e prendono casa qua,
perché non si possono permettere di stare in città come Fano» (S3).
Tali mutamenti non sono importanti solo come dato di per sé, ma nella
misura in cui risultano stabiliti nessi con un processo di ridefinizione delle
relazioni dal punto di vista qualitativo. La comunità locale, ad oggi, risulta
più diversificata e meno omogenea, con effetti giudicati negativi in termini
di propensione alla partecipazione sociale, alla socialità tout court:
«anche per esempio qui da noi a Calcinelli facevano sempre le feste di quartiere, non
le fanno più d’estate per ritrovarsi per conoscersi;
– ma il problema è che a un certo punto ci si è accorti che nessuno usciva più. È negli
ultimi anni che il paese è cresciuto così tanto e hanno costruito case che hanno attirato
molte persone dal sud e molti extracomunitari;
– ma infatti anche secondo me al di là di tutto c’è una mancanza di partecipazione,
molte cose che hanno organizzato qui gli incontri con la psicologa ecc. ma non c’è
voglia di partecipare;
– per esempio «Donna salute»5 che poteva essere una cosa interessante ma non c’è voglia
di partecipare, non hanno voglia di uscire di casa la sera» (S3).
5
Si fa riferimento ad un ciclo di incontri organizzato presso il centro Informadonna intitolato appunto Donna salute.
136
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
La bassa partecipazione alla vita sociale nell’ambito di territorio di
residenza viene a più riprese descritta come un tratto oramai costitutivo del vivere sul territorio, proprio dei e delle residenti. A riprova di
ciò vengono riportati esempi di eventi organizzati che comunque hanno
riscontrato un basso interesse da parte della popolazione, attirando che
pochi residenti:
«da noi hanno cominciato a organizzare delle riunioni tra noi [donne] vediamoci...,
abbiamo fatto il cineforum, poi hanno organizzato la mostra fotografica, poi dicevano
di organizzare degli incontri con i medici» (F2).
Sono i e le giovani ad avere maggiore propensione all’uscita serale e allo
svago. Sono loro che principalmente nei comuni di appartenenza frequentano i bar locali. D’altro canto, si prende atto di come la preponderanza
della dimensione privata condizioni gli stessi stili di vita della popolazione di
più giovane età. Osservano infatti le intervistate che laddove la vita privata
va strutturandosi in un legame stabile come il fidanzamento, questo necessariamente si trasforma in una chiusura nei confronti della vita pubblica,
soprattutto delle donne, anche quelle più giovani:
«secondo me anche perché non vogliono, per esempio io ho visto anche le mie amiche,
le fidanzate si sono barricate in casa, però io penso che non c’è motivo, non c’è motivo,
no!;
– ma perché oramai è un sistema che si è formato così;
– ma perché metti che noi stasera decidiamo che vogliamo cambiare vita... dove andiamo? Che facciamo?» (M1).
Laddove la dimensione privata diviene più “intensa”, essa tende a modificare l’agenda di vita assorbendo buona parte del tempo e delle attività
delle intervistate. Una volta di più l’attrazione del privato è descritta come
connotante le pratiche femminili, dentro un contesto che la sostiene direttamente e indirettamente nella misura in cui le alternative di partecipazione
pubblica si rarefanno.
IV.3. Il tempo libero nel territorio
Il tempo libero è una dimensione che è andata via via assumendo una
crescente significatività nei percorsi dei singoli, mutando profondamente
comportamenti e stili di vita, per cui la ricerca di senso esistenziale nella
sfera pubblica è diretta alternativamente alle attività lavorative e di tempo
libero in pari misura, quando non si assiste ad una prevalere del secondo
137
SENZA FIGLI...
sulle prime. Il tempo libero diviene, almeno in certa parte, misura di libertà,
di scelta personale tra diverse alternative contingentemente accessibili che
talvolta il lavoro non offre.
Cosa fanno le intervistate, come spendono il tempo libero, in quali
attività, sono questioni poste loro direttamente attraverso una batteria di
domande elencante una varietà di attività del tempo libero e per ciascuna
la relativa frequenza. Come si può evincere dalle informazioni riportate in
tabella (Tab.IV.4), lo sport, la lettura, sono le attività più spesso praticate, cui
seguono frequentare ristoranti e andare al cinema. Sono dunque poche le
attività svolte nel tempo libero, mentre di gran lunga più numerosi sembrano
i bisogni espressi durante le interviste.
Tabella IV.4 - Attività del tempo libero e loro frequenza
Più di una
volta la
settimana
Sport
Associazioni (culturali,
politiche)
Ristoranti
Corsi di formazione
Lettura
Cinema
Teatro
Parrucchiere
Centri estetici
Viaggi
Una volta
la settimana
Una volta
al mese
Meno di
una volta
al mese
Poche volte
l’anno
Mai
16
1
2
-
5
2
2
5
3
2
7
7
1
12
5
2
1
1
11
3
10
-
10
4
1
5
5
4
7
7
2
2
6
4
10
3
3
3
13
2
1
12
11
8
8
0
6
1
2
7
1
7
7
Una volta di più va ribadito quanto la dimensione territoriale sia da
questo punto di vista ritenuta limitante. Alla situazione presente, tutt’altro
che non apprezzata, non vedono alternative. Nella maggioranza dei casi non
vi è volontà di progettare il proprio futuro fuori del territorio di appartenenza, verso cui mostrano un profondo attaccamento, sentono un legame che
desiderano mantenere stretto e quotidiano:
«io c’ho pensato [ad andare fuori, ndr] ma ho paura di andare via da sola, la famiglia....;
– io partirei, ma siccome sto frequentando una persona di fuori, deve essere una cosa
più stabile, altrimenti sarei partita, non per il lavoro, giusto perché ho casa sennò sarei
partita, dopo quando uno ha casa è più difficile» (F2).
138
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
I motivi di radicamento e attaccamento al contesto locale non impediscono di giudicare la realtà in cui vivono limitante sul piano della ricchezza
delle esperienze extra lavorative:
«certo... però io vorrei tornare a casa dopo una giornata di lavoro e vorrei dire oh
stasera che cosa posso fare? Allora che c’è? Perché sarà che io a casa sinceramente, non
è che a casa, cioè io non ho una mia indipendenza.» (M1).
Il contesto ha il suo peso: la distanza anche fisica tra la residenza e le
opportunità, quantitativamente maggiormente disponibili e qualitativamente
più attraenti, diventa un ostacolo di partecipazione, sia per motivi di tempo
sia di costi. Al pendolarismo per lavoro si aggiunge dunque un pendolarismo
del tempo libero che è tutto legato alle possibilità e necessità individualmente
elaborate:
«...essendo rientrata adesso dopo 4 anni non mi ci ritrovo... conosco anche poco le possibilità che offre [il territorio], al di là del cinema, teatro, e non mi ci ritrovo nella
realtà piccola dopo aver vissuto in città. Adesso che mi sono fatta l’abbonamento a
teatro esco per forza, l’ho fatto anche per quello, però difficilmente esco il pomeriggio
e torno a Fano almeno che non sia una cosa che mi interessa particolarmente, forse
iniziative ci sono ma forse non le conosco» (S3).
Spostando l’attenzione verso i comuni limitrofi di maggiore dimensione,
il confronto diviene subito penalizzante. È nei comuni più grandi che si
concentrano occasioni di svago, culturali e di incontro:
«io sono abituata a vivere un po’ di più, se posso andare una sera al cinema, una sera
a teatro... perché dalle parti nostre, delle compagne di classe, chi s’è fidanzata da una
parte, chi dall’altra, se abitassi a Pesaro almeno i colleghi di lavoro li vedrei, magari
la partita del basket la sera, che è una cavolata, ma almeno un po’ di gente la vedi e
poi gli incontri culturali che si tengono a Pesaro, in Provincia quanti ce ne sono! La
stagione teatrale al Rossini. Anche a Fano è lo stesso;
– quando ti arriva il libricino del Teatro della Fortuna, sì bellissimo, ma non è vero
che ci vai, costa la benzina, costa il teatro» (M1).
Per età e condizione di vita le intervistate ritengono di essere al culmine delle opportunità di partecipazione, almeno in via teorica. Intanto si
affaccia una idea secondo cui la partecipazione sociale delle donne segue
una curva declinante con l’età e soprattutto con la maternità. Questo non
riferisce dell’osservazione di un andamento, piuttosto di un destino che incombe ineluttabile. Concordemente, la presenza dei figli è l’attesa di un
evento limitante la socialità, che si andrà ad aggiungere alle restrizioni poste
dalle risorse giudicate scarse nel luogo in cui vivono: «il problema è se non
SENZA FIGLI...
139
lo fai adesso dopo non lo fai perché magari c’hai i figli» (F2). Il corso di vita è
determinante per le intervistate nel definire il bisogno di socialità e le sue
concrete possibilità di soddisfarlo. Non è solo la maternità a fare da spartiacque tra una partecipazione libera ed una vincolata, bensì un mutamento nel
rapporto con il contesto locale che varia di pari passo al trascorrere degli
anni. Loro stesse riferiscono di realizzare un mutato atteggiamento verso il
loro territorio, giudicato severamente in età più giovane quando il confronto
con i coetanei è stringente:
«mi ritrovavo con le stesse idee quando ero al liceo che noi dei paesini con la corriera
ci si alzava alle 6,30 e poi si aspettava le ore per tornare, si tornava a casa alle 3.
Anche io me ne volevo andare perché qui non c’era niente poi ho vissuto un pochino a
Perugia come cittadina un pochino più grande e già c’erano più cose, però mi mancava molto che eravamo come degli estranei anche nell’appartamentino dove ero. Non è
come nel nostro paese che magari ci conosciamo tutti, allora un saluto, non so magari
ti serve qualcosa?
….Quando ero a Perugia io per tre anni non sapevo chi era nella porta di fianco, non
ho fatto una parola, quindi ho rivalutato la mia zona. Anche andando a lavorare a
Fano, il caos, le macchine, la confusione. E adesso costruisco casa a San Giorgio, quindi
davanti a casa mia, quindi la pace la tranquillità, girare per casa in pigiama, urlare,
sentire la musica, avere gli uccellini che mi svegliano, non so... mi mancava il rumore
degli uccellini, la tranquillità, io qui mi sento libera, la libertà non me la toglie nessuno,
poi gli interessi culturali me li creo, mi leggo un libro... al cinema non è che io ci vado
tutti i giorni a me la natura, le passeggiate in campagna, a me mi ricaricano (M1).
«Anche io mi arrabbiavo con i miei perché volevo andare alla pallavolo e non c’era,
adesso me ne vado a camminare e la ginnastica me la faccio da sola, mi sono comprata
il tappetino, c’ho i miei orari, mi faccio la mia ginnastica, con la musica, tanto con i
miei orari non riesco a fare tutto...»;
-…..si certo una volta volevi andare fuori, andare a Fano adesso apprezzi di più la
tranquillità» (M1).
La tranquillità è una risorsa effettivamente disponibile del vivere locale:
nell’età adulta questa meglio risponde ad esigenze di qualità di vita che
non sono una priorità in età più giovane, quando cioè tende a prevalere un
bisogno di ampliamento delle relazioni e delle esperienze: «al lavoro sto in
uno stato confusionale, torno a casa c’è la pace e la tranquillità» (M1). La tranquillità emerge come valore aggiunto della propria realtà, uno degli aspetti
maggiormente positivi, che sostengono un elevato livello di qualità della vita
secondo le intervistate.
Dal punto di vista dell’organizzazione territoriale e dei servizi presenti,
le intervistate si mostrano meno indulgenti. Il territorio è giudicato severamente per la numerosità, qualità e orari di alcuni servizi sottoposti al loro
140
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
giudizio. Come si vede dalla pagella del territorio qui di seguito riportata, si
conferma la criticità in particolar modo per quanto concerne i servizi per il
lavoro e le strutture ricreative. Solo nel caso dei negozi si supera, anche se
di poco, la sufficienza e il punteggio medio complessivo si attesta appena
al di sopra della stessa.
La pagella conferma la duplice criticità, percepita dalle intervistate, del
lavoro e delle strutture ricreative. Questi sono i due aspetti che limitano
fortemente l’agire locale. A prescindere dal tipo di attività, preminente è
la capacità o possibilità di muoversi autonomamente in un’area territoriale
ampia quanto le opportunità che si intende cogliere. È così che divengono
al proposito significative le attività del tempo libero, che rimandano inevitabilmente a spostamenti verso le strutture ricreative.
Tabella IV.5 - La pagella del territorio
Negozi
Uffici pubblici
Impianti sportivi
Strutture sanitarie
Trasporti pubblici
Servizi per il lavoro
Strutture ricreative
Media Totale
Numerosità
Qualità
Orari
Media Servizi
6,4
5,4
5,4
5,1
4,7
4,4
4,1
5
6,3
5,7
5,4
5,4
4,8
4,9
4,5
5,2
6,8
5,7
5,8
5,3
4,8
4,8
4,6
5,4
6,5
5,6
5,5
5,3
4,7
4,7
4,4
5,2
* Medie di punteggi attribuiti dalle intervistate in un intervallo da 1 (minimo) a 10 (massimo).
Qui gli ostacoli sono posti principalmente dalle distanze per raggiungerle, per cui non sempre e non tutte sono in grado di percorrerle. La scelta si
pone dunque tra il percorrere lunghi tragitti o rinunciarvi. Praticare sport,
per esempio, pone la difficoltà dell’aggravio di pendolarismo, fatto sufficiente
a porsi come fattore di scoraggiamento, specie se messo in relazione con le
differenti condizioni sociali, culturali ed economiche dei soggetti:
«sì, per esempio gli impianti sportivi, impianti sportivi bisex non ci sono impianti per
le donne non ci sono, se vuoi fa’ aeorobica, pallavolo, non ci sono, non c’è niente;
– se vuoi andare in piscina almeno 10 km» (S3).
A quanto riferiscono le intervistate, le strutture esistenti non sono adeguatamente curate e spesso versano in uno stato di abbandono. Vengono
menzionati due percorsi pedonali che in entrambi i casi sembrerebbero
frequentati dalla popolazione locale, nonostante che se ne trascuri la ma-
SENZA FIGLI...
141
nutenzione e manchino dispositivi per la messa in sicurezza, quale l’illuminazione. Questo a dimostrare che a fronte di un bisogno di strutture, la
risposta dell’amministrazione non risulta a tutt’oggi incontrare le esigenze
della cittadinanza:
«per fare le camminate c’è una via che passa per le campagne, vanno a camminare
tutti lì; l’hanno indicato come percorso pedonale per cui hanno messo un limite di
velocità bassissimo;
– lì ci si trova tantissima gente a camminare;
– io sarà che l’ho fatta non di notte ovviamente però sul tardi e non c’era tanta gente
e sinceramente non mi dà molta sicurezza;
– era carino il parco, lì in teoria c’è un vero e proprio percorso però non è curato;
c’era un laghetto, c’è ancora ma ora ci sono dei topi esagerati. Il problema qui delle
amministrazioni che si sono succedute è stato quello di creare delle cose per cui dopo
che sono state create vengono abbandonate;
– anche lì c’era un percorso vita e poi c’era una di quelle teleferiche solo che è tutto
abbandonato» (S3).
L’utilità di tali strutture è individuata non solo nella disponibilità di un
luogo in cui svolgere attività fisica, ma anche nella possibilità di incontro tra
donne. Il tema è molto sentito e per questa ragione il loro potenziamento
rientra tra i suggerimenti che le intervistate rivolgono ad amministratori
e amministratrici locali per migliorare la qualità della vita del territorio:
«L’area sportiva che dicevamo prima così ci si incontra tutte lì» (F2). Il territorio necessita di essere rivitalizzato e questo significa investire sullo stesso e
sui soggetti che vi risiedono. Per contro, le intervistate puntano il dito su
un certo abbandono, sull’aver trascurato proprio quei bisogni di socialità e
partecipazione che allo stato attuale risultano latenti e insoddisfatti:
«investire di più sulle donne in generale;
– aprire un bel centro commerciale. Fossombrone è rimasta indietro, non c’è un centro
commerciale perché non l’hanno mai voluto, sono conservatori;
– da noi basta che fanno le rotatorie;
– Fossombrone si è fermata;
– a Fossombrone da quello che so io perché c’è il corso, cioè ci sono i commercianti
pesano;
– non c’è un teatro, a Cagli vengono degli spettacoli favolosi... da noi una roba piatta
a parte i bar non c’è niente;
– anche per i giovani, la musica, non c’è niente... un cinema, non fanno mai niente,
niente di interessante;
– con le associazioni di volontariato si è provato a fare qualcosa;
– gli ospizi ne abbiamo già due ne stanno facendo un terzo là vicino al cimitero;
– dovrebbero puntare più sui giovani e credere di più sui giovani;
– infatti ci stiamo spopolando...adesso un attimino c’è un po’ di ritorno;
142
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
– poi ci sono i ragazzini e le persone più grandi dai 25 ai 40 non ci sono;
– sì, infatti quando c’è qualcosa per i giovani tipo “In viaggio6” la gente viene;
– è che non ci crede l’amministrazione» (F2).
Non vi sono sufficienti impianti sportivi, né possibilità di frequentare
corsi, anche serali (lingue straniere, ginnastica, yoga, ecc.). Anche se il tempo
a disposizione è ridotto (a causa del pendolarismo lavorativo e della distribuzione del tempo di lavoro nella giornata), si tratta di donne che esprimono
bisogni culturali, molte di loro hanno un livello di istruzione medio-alto7.
Sono bisogni tuttavia disattesi nel territorio, per cui per tutte il punto di
riferimento rimane il comune più grande dell’area in cui risiedono. Molti dei
suggerimenti vertono su possibili interventi di potenziamento delle strutture
aggregative, ricreative e sportive. Ritengono di disporre di abbastanza tempo
libero da dedicare a sé stesse, più di quanto non ne abbiano le loro conoscenti con figli, pertanto vorrebbero poterne disporre con maggiore libertà,
per attività di qualità che non riscontrano nei luoghi in cui vivono:
«è questo secondo me, perché anche io che non sono sposata, sono fidanzata, però mi
accorgo quanto è importante; sì, collaboro, però al momento giusto mi prendo del tempo,
questo è importante, poi l’ora per andare dal parrucchiere si trova, invece vedo mia
sorella è sposata oppure altre colleghe che son sempre di corsa;
– dipende poi dai lavori, perché per esempio io è vero che il pomeriggio sono impegnata a correggere i compiti e le verifiche, ma se io al pomeriggio voglio andare in un
negozio torno e faccio dopo cena quello che avrei dovuto fare al pomeriggio.. questo
non significa che il lavoro nella scuola è solo il mattino ma diciamo mi posso giostrare
abbastanza;
– io per esempio quando avevo un lavoro d’ufficio le 8 ore non ti lasciano il tempo
per fare niente, quindi per esempio anche per andare dalla parrucchiera, per forza di
sabato» (S3).
Il tempo per sé come afferma una intervistata: «non è mai abbastanza»,
il principale limite è nel tempo lavorativo che per queste donne è dilatato
nella giornata, cui si aggiungono distanze e spostamenti. Comparando la
sua situazione attuale con quella precedente di lavoratrice, così commenta
una delle intervistate:
«io non posso rispondere perché ne ho abbastanza, vedo però la differenza quando lavoro
mezza giornata e quando lavoro tutta la giornata, quando lavori tutta la giornata è
difficile ritagliarsi tempo per sé... devi tagliare qualcos’altro» (F2).
6
Si tratta di una manifestazione giunta oramai alla sua decima edizione, che nel mese di
agosto propone una serie di iniziative vertenti sul tema della interculturalità.
7
Naturalmente non si può sottacere che ciò è dovuto all’autoselezione che si verifica
quando si chiede la disponibilità a partecipare a ricerche.
SENZA FIGLI...
143
Al tempo per sé viene attribuita una grande rilevanza anche in funzione
di un allentamento dei ritmi concitati del quotidiano, per esercitare una libertà di fare e non fare. È l’assenza di vincoli che al tempo per sé si associa,
a rendere lo stesso significativo e desiderabile. Il problema non è di quanto
tempo disporre ma piuttosto della libertà con cui disporne, che di per sé
rimanda già ad un apporto di qualità nella pratica quotidiana:
«per me non è importante quantizzare ma l’importante è disporne quando ne hai
bisogno» (S3).
«Io vorrei minimo 3 ore;
– ma già magari anche 2;
– forse perché uno non è abituato ad averlo e 2 ore sembrano già tante;
– o forse anche per correre di meno, cioè io vado sempre di corsa, salgo su per le scale
con le borse della spesa, mia sorella fa 6 ore al giorno, beata lei è lì che parla con
mia madre che abita nella casa vicino, io abito sopra a mia madre, io torno lei è lì
tranquilla che parla; io torno di corsa, sì ciao vado a cucinare... per avere una vita
più tranquilla;
– io un po’ quello che dice lei che se devi far qualcosa lo puoi fare con calma, già
quello, poi per fare una qualsiasi attività che può essere una passeggiata, uno sport
andare a teatro qualsiasi cosa;
– andare all’Auchan, tranquilla che nessuno ti rompe;
– anche io trovare più tempo per fare più o piscina palestra, anche se a volte penso che
guardando bene la giornata questo tempo si potrebbe riuscire a trovarlo. Poi io sono
pigra. Poi adesso se penso a due ore tutti i giorni un po’ mi spaventa» (F2).
L’altro argomento su cui le donne insistono è quello della conciliazione.
Un problema che, ritengono, al momento non riguardarle direttamente, ma
che comunque mettono in conto di dover affrontare in prima persona. A
tal fine indirizzano proprio verso questo ambito i suggerimenti di intervento
per le donne del territorio. La conciliazione insomma è un problema delle
donne, in quanto tali, oltre che loro personale, pur non nell’immediato:
«forse io vedo più il problema degli asili nido, ce ne è solo uno e contiene pochi bambini;
– poi c’è quello privato che va tanto ma certamente ha un costo;
– però asili nido solo a Calcinelli e Saltara se no a Fano asili nido nel territorio nostro
ce ne sono;
– i privati vanno tanto» (S3).
La questione asili nido è centrale. Essa rappresenta una emergenza,
giacché la crescente numerosità della popolazione locale ha reso rapidamente le strutture esistenti, che comunque garantivano una copertura parziale,
144
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
attualmente del tutto insufficienti. Inoltre, va sottolineato ulteriormente che
l’asilo nido non è solo un servizio erogato, bensì ricopre un’importanza
nell’un tempo materiale e simbolica, in quanto percepito come un sostegno
alle donne. È su questa base che si auspica un maggiore impegno dell’amministrazione locale. Lavoro e maternità sono le due istanze intorno a cui
ruota la progettualità delle intervistate, che si compongono in un modello
ambivalente mantenendo un segno opposto.
Capitolo quinto
CON I FIGLI...
V.1. La ricerca
Questa parte è dedicata alle donne con figli residenti nell’area dei 13 comuni
e intervistate nel corso della ricerca. Come precedentemente già precisato,
si tratta di 1.060 interviste per altrettante intervistate1. L’oggetto dell’approfondimento di ricerca è collocato in una visione della conciliazione quale
insieme delle diverse modalità di relazione tra vita, lavoro e partecipazione
sociale. Pertanto la conciliazione è qui osservata, descritta e analizzata attraverso le strategie delle donne e le precipue pratiche di mediazione fra le
sfere di vita. Non sono tanto importanti i confini tra le sfere dell’esperienza
personale, quanto piuttosto il modo in cui esse si combinano nel percorso
e nel progetto individuale, nella considerazione della loro rispettiva mutevolezza e interdipendenza.
Una visione dell’intreccio degli ambiti esperienziali che fa riferimento
non alla condizione occupazionale, né a quella familiare-privata prese singolarmente, bensì al «paradigma della condizione lavorativa delle persone
che non viene definita dall’esercizio di una professione o di un impiego
determinato, ma che ingloba le diverse forme di lavoro (di mercato e non di
mercato) che ogni persona è suscettibile di compiere nel corso della propria
esistenza» (Supiot, 2003, p. 66).
L’interesse principale della ricerca è dunque la complessità dei percorsi
delle donne, in una relazione biunivoca tra vita e lavoro, laddove le opzioni
vengono di volta in volta ridefinite in considerazione delle opportunità accessibili e percepite tali, sia sul piano privato-familiare, sia nell’ambito lavorativo
e pubblico sociale. Dal punto di vista analitico si distinguono principalmente
1
Si veda il capitolo terzo per i dettagli metodologici.
146
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
due ambiti: da un lato, la dimensione strutturale dei percorsi e delle carriere
formative-lavorative, dall’altro, il significato attribuito a tali percorsi, nonché
alle aspettative che nel tempo vengono messe a fuoco ed orientano le scelte.
Si parla qui di donne con figli, la cui presenza ha rappresentato il criterio di
selezione delle intervistate di questa che è poi la parte preponderante della
ricerca. La complessità dell’intreccio vita-lavoro, per quanto concerne le
donne coniugate con figli fino a 10 anni protagoniste della presente ricerca,
si riflette, quantitativamente e qualitativamente, sulla partecipazione sociale
e lavorativa, sulle modalità in cui essa si esprime e non. Sulla partecipazione
e sulla mancanza della stessa si sono concentrate le osservazioni a partire
dal lavoro di indagine svolto.
La ricerca ha di per sé rappresentato un evento significativo per il
territorio, intorno ai temi proposti si è rivelata una grande sensibilità da
parte delle donne coinvolte. L’elevata risposta, esplicitata nella considerevole percentuale di questionari di ritorno e validi, è indicativa di quanto la
ricerca abbia contribuito di per sé ad illuminare una realtà a lungo trascurata, intercettando un bisogno delle donne di essere ascoltate, nonché di
esprimere il proprio punto di vista sulla condizione personale e della vita
sul territorio. La situazione favorevole è stata sostenuta dalla convergenza verificatasi tra l’interesse delle istituzioni locali e la disponibilità delle
cittadine intervistate a mettersi in gioco, a rispondere alle domande, ma
anche a porre domande al territorio, alle istituzioni. Il bisogno di maggiore
conoscenza delle specifiche realtà delle donne nei contesti locali, si pone
in controtendenza con l’orientamento dominante di ricondurre le stesse
entro le letture di andamenti presunti omogenei, per aggregati regionali,
modelli produttivi ecc., che non descrivono adeguatamente la pluralità delle
condizioni femminili, lasciando in ombra le pratiche quotidiane su cui si
fondano i percorsi esistenziali. In questo caso, come mostrano i risultati,
la popolazione femminile coinvolta testimonia di una realtà inedita per la
letteratura consolidata, che arriva a mettere in discussione le dinamiche
virtuose aprioristicamente assunte e presunte dal modello socio-economico
e culturale dominante. La risorsa flessibile e disponibile rappresentata dalle
donne nel modello della piccola impresa e dell’industrializzazione senza
frattura, ha consolidato un sistema ad opportunità per loro stesse ridotte,
funzionale ad una produzione che nella continuità tra risorse familiari e
produttive ha individuato il suo fulcro.
Attraverso l’analisi dei dati si approfondiranno, oltre che preliminarmente le caratteristiche delle rispondenti, la condizione lavorativa personale e
di coppia, insieme all’aspettativa di lavoro e non lavoro; l’organizzazione
familiare e la divisione del lavoro di cura tra i partner, le reti di cura fami-
147
CON I FIGLI...
liari ed extra familiari; il rapporto con il territorio e la qualità in esso della
vita e dei servizi2.
V.2. Voci di donne: le intervistate
L’età delle intervistate è compresa tra i 23 e i 54 anni. La classe più numerosa
risulta quella tra i 35 e i 40 anni e l’età media è di 40 anni. Considerando
che si tratta di madri di bambine e bambini con età fino ai 10 anni, il gruppo
delle rispondenti ben rappresenta il trend demografico dello spostamento in
avanti della maternità. Ciò, a fronte di una tenuta, che abbiamo già precedentemente evidenziato come tratto regionale, di stili familiari tradizionali: la più
parte dichiara infatti di essere sposata, mentre l’incidenza delle convivenze
(4,8%) e delle separazioni (3,6%) è significativamente basso.
Anche il dato sullo stato civile e sulla tipologia delle forme familiari risulta coerente con l’andamento del contesto regionale. Le Marche sono tra
le regioni che, più di altre, preservano la formula matrimoniale nelle scelte
di convivenza di coppia. La famiglia tradizionale trova nel territorio indagato, come nel resto della regione, un profondo radicamento: ciò è già stato
evidenziato dalle intervistate senza figli ed anche sul piano delle aspettative
risulta confermato dalle rispondenti con figli.
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Figura V.1 - Stato civile intervistate.
2
Più esattamente Dati personali: dati socio-anagrafici delle intervistate; lavoro: condizione
occupazionale delle rispondenti e quella dei loro partner; famiglia: l’organizzazione familiare
e la divisione dei compiti di cura verso le persone e le cose; il territorio: valutazione del territorio e dei servizi presenti, partecipazione alla vita sociale locale e modalità di fruizione del
tempo libero; altro: importanza attribuita all’avere un lavoro, avere un figlio e avere tempo
libero; suggerimenti per chi amministra il territorio.
148
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
Oltre il 70% delle rispondenti ha due figli; la percentuale scende significativamente passando a 3 nel 16,8% dei casi; arrivano a 4 figli il 3,3% delle
intervistate e a 5 figli solo lo 0,5%.
Tabella V.1 - Incidenza percentuale del numero di figli per rispondente
N° figli
%
1
2
3
4
5
8,7
70,7
16,8
3,3
0,5
Il ritratto della popolazione femminile, nella circoscritta realtà in esame,
trova nel livello di istruzione una conferma di quello che negli ultimi decenni
è stato uno dei principali canali di promozione sociale femminile: l’investimento in istruzione. Come nel resto della popolazione del paese, anche le
intervistate presentano titoli di studio medio-alti. Come raffigura il grafico
qui a seguire, quasi la metà risulta diplomata e l’8,6% laureata.
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Figura V.2 - Rispondenti e loro partner per livello di istruzione
La percentuale di laureati è più bassa tra i partner, così come meno numerosi sono tra di essi i diplomati. Passando ai più bassi livelli di istruzione,
si conferma una maggiore incidenza dei partner. Anche in questo caso si
riscontra una congruenza con gli andamenti dei livelli di istruzione nella
149
CON I FIGLI...
popolazione più ampia, per cui è la componente femminile a raggiungere
con maggiore frequenza i titoli di studio di più alto grado, incluso il dottorato, di recente interessato da un superamento di donne sugli uomini per
numero di titoli conseguiti.
Ma è intorno alla condizione lavorativa che si configura un vero e proprio gap. Sono infatti senza occupazione quasi un terzo delle rispondenti, di
cui il 22,7% si dichiara casalinga e il 3,9% disoccupata. La disoccupazione
incide in misura molto meno significativa tra i partner (0,9%) e non si riscontra tra questi una condizione equivalente a quella di casalinga. Quanto
alla tipologia delle occupazioni, le rispondenti sono soprattutto impiegate
ed operaie, mentre i partner sono più frequentemente operai e lavoratori
autonomi. Nel complesso prevalgono occupazioni a medio-bassa qualifica
per entrambi.
Tabella V.2 - Occupazione delle rispondenti e dei loro partner
Intervistate
Partner
Dirigente, direttivo, quadro
Insegnante di scuola media inferiore o superiore
Insegnante di scuola materna elementare
Impiegato/a
Capo operaio, operaio subalterno ed assimilati
Apprendista
Lavorante a domicilio per conto di imprese
Altro – dipendente
Imprenditrice/ore
Libera/o professionista
Lavoratrice/ore in proprio
Socia/o di cooperativa
Collaboratrice/ore familiare
Altro – in conto proprio
Occupate/i
0,7
1,1
4,4
18,1
16,8
1,4
1,1
12
2
2,4
9,5
0,6
1,9
1,3
–
–
–
14,2
29,7
0,2
0,8
12,3
6,7
7,2
19,2
0,9
0,2
2,7
Senza occupazione
Casalinga
Disoccupata
Totale
22,7
3,9
100
-0,9
100
Una prima considerazione riguarda le «senza occupazione», tra le quali
risulta una percentuale piuttosto modesta di disoccupate con una più significativa incidenza di casalinghe. La condizione di disoccupazione è del
150
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
tutto marginale all’interno del gruppo di intervistate, mentre più significativa
e diffusa è quella di casalinga, che, come vi sarà modo di rendere evidente,
solo in una minoranza di casi emerge come scelta di vita compiuta una
volta per tutte. La “casalinghità” sebbene risulti nel nostro paese diffusa ed
assegnata alle donne in maniera pressoché esclusiva, richiede tuttavia di
essere letta nel contesto del percorso individuale e certamente in relazione
alle contingenze storico sociali, le quali, a loro volta, trovano espressione
nel legame territoriale, luogo in cui le chances di vita individuali vengono
colte. Per tali ragioni, la “casalinghità” si afferma come status contingente
più che irreversibile.
Considerando l’insieme delle rispondenti senza occupazione, si rileva
come al crescere del numero dei figli aumentino coloro che si dichiarano
casalinghe, mentre diminuiscono le disoccupate. Addirittura, oltre i 3 figli
non vi sono intervistate nella condizione di disoccupate. Pur avendo tale dato
un significato, più che di rappresentatività statistica, di natura esplicativa e
descrittiva del gruppo indagato, appare rilevante come lo status di casalinga
divenga stabile al crescere del numero dei figli. Un risultato certamente non
controintuitivo, ma che pone una ulteriore evidenza alla situazione specifica
(oltre che femminile più generale), nonché impone la necessità di ulteriori
riflessioni e approfondimenti. Si configura un pattern di partecipazione che
concentra nel confine tra ruolo materno e mondo del lavoro un insieme
di rigidità tali da rendere la maternità un modello alternativo, quando non
ostacolante, dell’assunzione di ruoli molteplici e realmente opzionabili.
Tabella V.3 - Rispondenti senza occupazione per numero di figli
Rispondenti
Casalinga
Disoccupata
Numero figli
1
22,3
4
2
24,2
3,4
3
31,5
1,2
4
46,7
0
Coloro che hanno al momento della rilevazione una occupazione, sono
legate prevalentemente a contratti di lavoro a tempo indeterminato (76%),
che dunque offrono prospettive e sicurezze di relativa maggiore stabilità.
Tutt’altro che trascurabile, d’altra parte, è la diffusione tra le rispondenti
occupate, di contratti di lavoro “diversi” (a tempo determinato, di collaborazione, interinale, apprendistato e di inserimento).
Un dato, quest’ultimo, da leggersi anche in relazione alle recenti dinamiche del mercato del lavoro locale, per cui il lavoro a tempo indeterminato
tende a diminuire rapidamente il suo peso nel volume dell’occupazione
151
CON I FIGLI...
locale. Come è stato recentemente messo in evidenza3, le Marche sono tra le
regioni maggiormente interessate dalla rapida espansione di questo fenomeno, più di Toscana ed Emilia Romagna che, simili per modello produttivo
e tradizione civico-politica, sono accomunate da un andamento simile ma
con un più debole impatto sul mercato del lavoro locale. Se tale fenomeno
viene registrato a partire dal 2010, già nel momento in cui la ricerca è stata
realizzata emerge una evidente frammentazione della condizione lavorativa
soprattutto femminile. Del resto, da più parti la componente femminile della
forza lavoro è stata assunta per definizione flessibile e funzionale al modello
produttivo marchigiano, in forme differenti a quelle attuali ma che di fatto
hanno una continuità con gli attuali lavori non standard. La manodopera
di riserva femminile e nelle forme di collaborazione familiare e in quelle di
lavoro a domicilio, stagionale, quando non in nero, ha contribuito a sostenere una economia locale i cui profitti si sono basati, tra l’altro e in misura
tutt’altro che insignificante, sulla disponibilità di lavoro a basso costo quale
appunto quello delle donne.
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Figura V.3 - Intervistate occupate per contratto di assunzione.
Al di là del contratto di lavoro, degno di nota è il dato sull’orario di
lavoro. Come mostra la tabella qui di seguito, oltre la metà delle rispondenti occupate svolge un lavoro a tempo pieno, che si conferma largamente
dominante. Si noti tuttavia che svolgono un lavoro part time il 37,9% delle
rispondenti contro l’appena 2,3% dei loro partner. Tra gli uomini il part
time si conferma una forma residuale, mentre l’ampia differenza di orario
3
Si veda l’inserto «Centronord» del Sole 24ore, pubblicato nell’aprile 2011.
152
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
tra donne e uomini, rimanda ad un’organizzazione sociale e familiare tendente a contenere l’impegno lavorativo extra domestico delle donne, specie
in presenza di figli.
A tal riguardo è stata inserita nel questionario somministrato una ulteriore domanda di controllo relativa al numero di ore giornaliere lavorate
fuori casa, da cui risulta che ad indicare 8 ore giornaliere di lavoro sono il
31% delle intervistate, mentre lo stesso numero di ore impegna appena la
metà dei loro partner, che superano questa soglia in misura rilevante. Sono
le donne, le cui strategie lavorative risultano maggiormente condizionate dai
gravi familiari, a contrarre significativamente l’impegno e il tempo di lavoro.
Per le donne, il lavoro è possibile nella misura inversamente proporzionale
all’impatto sulla vita familiare. L’ambizione a ridurre l’orario di lavoro emerge
tra le occupate e tra quante svolgono un’attività lavorativa: a tal fine nel
22,5% dei casi le rispondenti sarebbero anche disposte a pagare il costo
economico di una riduzione della retribuzione. In risposta al quesito posto
su cosa, potendo, cambierebbero dell’orario di lavoro corrente, emerge una
larga domanda di flessibilità, sia essa giornaliera, sia essa come possibilità
di fruizione di permessi o di forme di lavoro che non vincolino necessariamente alla presenza sul posto di lavoro. Il tempo di lavoro, hic et nunc, non
incontra le esigenze delle intervistate. La sua organizzazione appare come
un modello imbrigliato in una ripartizione rigida del loro tempo fra lavoro
e famiglia.
Tabella V.4 - Orario di lavoro delle rispondenti e dei loro partner
A tempo pieno
Part time
Altro
Totale
Rispondenti
Partner
54,3
37,9
7,9
100
92
2,3
5,7
100
Proprio il tempo, come confermano da più parti i risultati della ricerca, è
una variabile cruciale per l’organizzazione personale e familiare e altrettanto
per la qualità di vita: ripartito tra vita e lavoro, è, si ribadisce, una risorsa
scarsa. Esso implica per le intervistate una razionalizzazione oraria e perfino delle strategie lavorative. Si palesa un contenimento del lavoro come
modo di adattamento alle limitazioni e vincoli della condizione personale,
una cui ulteriore evidenza è data dalle distanze tra il luogo di residenza e
quello di lavoro. Considerando infatti gli spostamenti da e verso il luogo di
lavoro, i partner impiegano un tempo per lo spostamento mediamente più
153
CON I FIGLI...
lungo, mentre per le donne esso è tendenzialmente minore e più vicino a
quello di residenza. Inoltre, più spesso i partner hanno una sede di lavoro
non fissa (cosa che accade per una solo delle intervistate) oppure, come
scrivono le stesse, lavorano «ovunque». Il luogo di lavoro è per la più parte,
donne e uomini, non distante da casa più di un’ora, ma è evidente che la
maggior vicinanza del luogo di lavoro per le intervistate sia da mettersi in
relazione con una pianificazione di vita che prevede l’alleggerimento, per
quanto possibile, del “peso” del lavoro, ivi includendo la pendolarità da e
verso di esso: una gestione attenta all’economia del tempo. Nella misura in
cui è risparmiato per gli spostamenti esso diviene tempo liberato per la cura
ed è intorno a ciò che principalmente si misura la distanza tra le rispondenti
e i loro partner.
Tabella V.5 - Cosa cambierebbe del suo orario di lavoro?
Rispondenti occupate
Riduzione dell’orario anche con riduzione della retribuzione
Aumento dell’orario con adeguato compenso
Maggiore flessibilità oraria nella giornata
Maggiore flessibilità oraria nella settimana/mese
Lavoro concentrato in quatto giorni settimanali
Parte del lavoro da casa
Ore lavorative in più da recuperare con permessi retribuiti
Più permessi non retribuiti per impegni familiari
Maggiore facilità nell’accesso ai permessi non retribuiti
Altro
%
22,5
12,2
17,7
9,2
9
6,2
8
6,2
1,6
7,6
Dove le differenze tendono ad annullarsi è nella scelta del mezzo di
trasporto per raggiungere la sede di lavoro. È intorno all’uso dell’automobile
che i comportamenti tra le rispondenti e i loro partner tendono ad assomigliarsi. L’automobile è il mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, ma, come
hanno riferito anche le intervistate senza figli, anche per tutte le altre attività.
Questo dato è di particolare interesse sia per gli aspetti che riguardano il
territorio, confermando così che di fatto la mobilità è per lo più legata ai
mezzi privati, nella fattispecie le automobili, sia pure per quanto riguarda le
famiglie e la gestione degli spostamenti.
Dalla proprietà di mezzi privati dipende principalmente la libertà di
movimento. Di conseguenza, le scelte di vita e lavorative risulteranno significativamente condizionate dai mezzi di trasporto detenuti, in considerazione
del fatto che gli spostamenti per ragioni di lavoro e del tempo libero avven-
154
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
gono normalmente in un’area intercomunale che, a dire delle intervistate,
non è adeguatamente coperta da un servizio di trasporto pubblico o non è
ritenuta rispondente alle esigenze di tempo e di una sua razionalizzazione.
Certamente si può immaginare che l’automobile incontri meglio le esigenze delle rispondenti, soprattutto le occupate, che disponendo di un mezzo
autonomo gestiscono una mobilità territoriale originata da una pluralità di
occorrenze personali e familiari: «Per le donne senza patente – scrive una
intervistata – ci vorrebbe una navetta che porti da una parte all’altra ogni 30
min., così le donne possono muoversi per andare a fare la spesa, dal dottore, ecc...
senza sottostare agli altri» (949).
Tabella V.6 - Tempo di percorrenza casa-lavoro
Fino a 15 minuti
Fino a 30 minuti
Fino a 60 minuti
Oltre 60 minuti
Totale
Intervistate
Partner
78,4
18
3,4
0,3
100
63,8
24,8
7,2
4,2
100
Una molteplicità di variabili contribuisce a disegnare i percorsi dalla vita
al lavoro e viceversa, come pure descrive la gamma delle opzioni possibili di
ciascuna. Una mobilità privata prevalente implica un onere di spostamento
che ricade per lo più sul singolo soggetto e, presumibilmente, nella misura
in cui essa è legata agli spostamenti dei figli per le varie attività, sulle donne. Di fatto, la mobilità privata equivale, nel caso dei figli, ad una mobilità
dipendente dalla disponibilità di chi li accudisce. Considerando poi che,
come affermano le stesse intervistate, il menage familiare vede un tendenziale aumento e diversificazione degli impegni dei più giovani, questo ricade
inevitabilmente su chi ne diviene principalmente responsabile. Il tempo delle
donne è dunque la risultante delle articolazioni del tempo personale e di
quello altrui. Di questa combinazione il loro bilancio risente fino a divenire
misura e vincolo per le scelte da operare.
Fermo restando che sulle donne gravano i maggiori vincoli, più di quanto
non accada ai loro partner, questi si fanno ancor più evidenti approfondendo le ragioni che definiscono la condizione delle non occupate. Sebbene al
momento della rilevazione queste intervistate si dichiarino, a vario titolo,
senza occupazione, annoverano per la maggior parte esperienze lavorative
nel loro passato. Si tratta per lo più di lavori a bassa qualificazione che tracciano storie lavorative frammentate: cameriera, babysitter, commessa, barista,
155
CON I FIGLI...
apprendista in diversi settori (stiratrice, tessile, commercio ecc.), operaia o,
più genericamente, indicato con l’espressione “lavoro in fabbrica”. Si tratta
di lavori che circa la metà di queste rispondenti dichiara di aver svolto per
un periodo massimo di 6 anni. Sono molto meno numerose quelle che
affermano di aver svolto tali lavori solo per qualche mese. Diversi poi sono
i casi di quante, attualmente senza occupazione, al loro attivo hanno più
di una esperienza lavorativa passata: in tali circostanze, mentre non varia
il tipo di lavoro, ne varia la durata. Si tratta di esperienze relativamente
brevi, svolte, per oltre la metà delle risposte fornite, per un periodo di 2 o 3
anni. Per quante arrivano ad indicare più di due o tre esperienze lavorative
precedenti, la tipologia prevalente rimane invariata, a costruire un percorso
instabile che finisce per arrestarsi al momento in cui si entra in una nuova
fase del corso di vita, segnata, nella più parte dei casi dalla famiglia e più
di tutto dalla maternità.
Tabella V.7 - Mezzo di trasporto utilizzato nello spostamento casa lavoro
A piedi
Bicicletta
Automobile
Moto/Scooter
Mezzi pubblici
Treno
Altro
Totale
Intervistate
Partner
8,4
1,5
87,9
0,4
1,4
0
0,4
100
3,5
0,5
87,8
1,5
0,9
0,9
4,9
100
Sempre tenendo lo sguardo sul gruppo di donne senza occupazione,
di grande interesse sono le ragioni che le stesse intervistate associano alla
loro attuale condizione. Numerose sono le risposte aperte fornite che hanno
permesso di approfondire il dato sul perché del loro status di non occupate
e, a seguire, di indagarne le prospettive future. Cominciando dalle ragioni per cui attualmente non lavorano, emergono due diversi orientamenti
prevalenti, accomunati dall’assunzione di conflittualità intrinseca tra il ruolo di madre e quello di lavoratrice. Tra i due si rilevano, tuttavia, alcune
significative differenze. Al primo orientamento possono essere ricondotte
tutte le intervistate che menzionano il tema dell’accudimento dei figli (in
totale si tratta di 53 casi), ravvisando in ciò un concreto impegno, nonché
impedimento a svolgere attività lavorative fuori di casa. Nelle loro risposte
chiariscono che attualmente non lavorano «perché mi devo occupare della
156
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
famiglia» (973) o perché «[Ho] tre bimbi da crescere» ( 85) «devo accudire i
miei figli» (87), «devo stare a casa per occuparmi dei miei figli» (32). Il dovere
di accudimento, soprattutto dei figli, è assunto dalle intervistate a impegno
prioritario. È significativo come numerose intervistate richiamino tout court
la presenza di figli piccoli, a indicare una condizione di per sé sinonimo di
alternativa a quella lavorativa: «ho una bimba di quattro mesi» (59), «perché
ho i figli piccoli» (507), «ho un bambino di due mesi» (640), «perché attualmente
ho un neonato di soli nove mesi» (819). Sono i figli più piccoli a richiedere il
massimo impegno in termini di accudimento; la loro presenza condiziona
le scelte extra familiari delle madri, in particolare quella di lavorare: «[non
lavoro perché] ho un bambino piccolo è impossibile trovare lavoro» (8), «sono
impegnata con la famiglia» (68), «sono già molto impegnata con quattro figli a
casa» (544). Le motivazioni sono dunque legate alla situazione presente, definita dal vincolo di cura, a partire dal quale le intervistate orientano i loro
percorsi: «perché avendo tre bimbi da accudire e crescere non rimane tempo libero
a sufficienza per svolgere attività lavorative» (24). Ciò nondimeno il vincolo
è al presente, perciò non rimanda ineluttabilmente ad una scelta definitiva:
«perché aspetto che cresca il mio ultimo genito che attualmente ha solo 5 mesi» (903).
Il carattere di temporaneità della scelta e derivante dalla fase di massima di
dipendenza dei figli dalle cure genitoriali, è ribadita da più intervistate, che
motivano la loro scelta di non lavorare come segue: «per essere più vicina a
mia figlia nell’età scolastica» (661); «preferisco ancora per qualche anno seguire i
miei figli giorno dopo giorno» (777); «per il momento intendo seguire i miei figli
personalmente anche se devo fare tanti sacrifici» (36); ad ogni modo, dalle parole
delle intervistate si evince il tratto non risolutivo della condizione presente:
«adesso mi occupo della famiglia» (799).
In vari casi la scelta è maturata all’interno della coppia, giunta, in maniera
condivisa ad una precisa assegnazione dei compiti: «perché per scelta mia e
del mio compagno mi occuperò dei bambini finché entrambi frequenteranno scuola
e asilo» (1008); «abbiamo deciso io e mio marito che io stia con mio figlio, quindi
lavorerò in un secondo momento» (1008). Mentre prevale il dovere presente, la
partecipazione lavorativa risulta al momento oggetto di negoziazione tra i
partner, in ogni caso rimandata ad una fase successiva. Di fatti, tra le donne
senza occupazione, il 27% è attualmente in cerca di un lavoro che nella più
parte dei casi viene descritto un lavoro qualsiasi e part time.
La questione dell’assistenza familiare appare maggiormente stringente
e vincolante nel lungo periodo per quante, invece, menzionano i carichi di
cura quale impedimento ad operare una scelta diversa da quella attuale di
non lavorare. Si tratta di altri familiari che per ragioni spesso di salute e di
età avanzata dipendono dall’assistenza delle stesse intervistate: «per motivi
CON I FIGLI...
157
di gestione anziani di famiglia» (7), «casalinga a tempo pieno più assistenza
familiare disabile» (45), «ho un figlio disabile e necessita di parecchi impegni»
(36), «perché mi prendo cura di mia suocera disabile» (798), «perché mi occupo
della famiglia-casa-suocera-ammalata» (865), «perché devo occuparmi dei figli e
dei miei genitori anziani» (21). Le incombenze derivanti dalla cura dei figli
e dall’assistenza di altri familiari sono tra le motivazioni più ricorrenti a
spiegare il perché della condizione di non occupazione. Riferiscono di un
dovere cui le intervistate sentono di rispondere personalmente, il quale sfocia
in un impegno privato-domestico dominante destinato a divenire persino
più oneroso laddove all’elevarsi della numerosità dei membri dipendenti
o in presenza di aggiuntivi problemi di salute: «perché la famiglia numerosa
richiede la mia presenza a casa» (1040). Tra le intervistate che pongono l’accento sul dovere dell’accudire sembra emergere una risposta normativa ad
un imperativo sociale per cui il femminile appare più adeguato a soddisfare
le necessità espresse dai diversi soggetti che compongono l’ambito familiare. Un dovere che tuttavia riduce le opzioni delle stesse erogatrici di cura,
soprattutto laddove le reti di supporto appaiono essere deboli, caratteristica
questa che emerge nettamente come trasversale a tutte le intervistate e al
sistema locale cui appartengono. La mancanza di aiuti per la ripartizione
delle necessità di cura familiare e più di tutto dei figli, è uno dei principali
argomenti, dopo la menzione del dovere di accudimento, affrontati nelle
risposte fornite nei questionari. Sono infatti numerose le intervistate che
chiamano in causa l’assenza di aiuti quale ostacolo ad una eventuale opzione
lavorativa: «non ho nessun aiuto da parte della mia famiglia e di quella del mio
compagno quindi non so a chi lasciare i miei figli» (57). Alla mancanza di aiuti
non vi è via d’uscita che assumere su di sé il carico di cura alternativamente
al lavoro per il mercato: «Ho anche il problema della piccolina di quattro anni
che se si ammala non so a chi lasciarla perché i miei lavorano tutti» (535). Le
circostanze stesse impongono loro condizioni di vita non necessariamente
scelte: «perché sono mamma a tempo pieno e non ho nessun aiuto» (561); «aspetto
che il bimbo piccolo, crescendo, diventi un poco più gestibile, non avendo nessun
familiare su cui contare come aiuto» (1002).
Le rispondenti intravedono nello stare a casa l’unica soluzione atta a
superare le difficoltà logistiche di cui avrebbero comunque l’onere organizzativo: «trovare un lavoro part time è quasi impossibile e lavorare in orario continuato
per le otto ore non riuscirei, anche perché non saprei dove mettere i miei figli e non
ho la possibilità di lasciarli da mia mamma, tutti i giorni e per molte ore» (847);
«quando non si può contare sull’aiuto di nonni/amici/conoscenti a cui affidare i
propri figli in caso di bisogno, è quasi impossibile cercare lavoro anche part time
se si considera che i bambini si ammalano, vanno in vacanza... La casalinga ha
158
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
una mole di lavoro non indifferente e una responsabilità non da meno. Non siamo
minimamente considerate né riconosciute ed è per questo che il lavoro più nobile
che ci sia rischia di farci sentire delle fallite!» (1024). La mancanza di reti di
supporto induce alcune intervistate a valutare la scelta di lavorare o meno
all’interno di una logica di costi-benefici economici. Sebbene le ricerche
offrano evidenze di come questo accada più frequentemente laddove le occupazioni e i percorsi lavorativi sono meno qualificati e maggiormente esposti
a rischi di sottoccupazione, come di frammentarietà (Badinter, 2010; Zurla,
2006) e lavoro irregolare, nella pratica quotidiana la presenza di difficoltà
rende urgente stabilire come far quadrare il bilancio familiare, se attraverso
la partecipazione lavorativa o puntando sul lavoro di cura gratuita offerto
dalle donne. Commenta aspramente una intervistata straniera: «Sono senza
parole. Non avevate detto battezzate i bambini per permesso di soggiorno, io lavoro
in nero, la busta paga non basta mai per pagare affitto, luce, acqua, immondizia,
medicine, scuolabus. Noi stranieri lavoriamo molto per il bene dei figli, ma i soldi
non bastano mai, i figli vogliono divertirsi e i vestiti. Grazie» (29).
Anche per le nostre intervistate il dilemma tra lavorare o pagare per
servizi di cura si pone in special modo tra quante affermano di non potersi
affidare al supporto delle reti primarie. Ed è soprattutto la mancanza di
aiuti la ragione che le orienta verso la cura dei familiari nella forma della
dedizione esclusiva: «Non ho nessuno aiuto da parte della mia famiglia e di
quella del mio compagno quindi non so a chi lasciare i miei figli» (117); «perché
non ho nessuno che mi aiuta con la famiglia e pagare una seconda persona non
vale la pena» (13). Sono queste intervistate a porre la questione economica
come prioritaria e a vedere nella scelta di non lavorare una necessità di
salvaguardare cura e reddito familiare: «se non c’è l’aiuto dei nonni tra il
nido e una babysitter il guadagno non c’è» (553); «preferisco restare a casa con
i figli, non potrei permettermi una babysitter» (561). Il mercato del lavoro, è
percepito povero di opportunità per le madri. Ragion per cui un possibile
rientro viene rimandato a quando i vincoli di cura si allenteranno. La ricerca
di un lavoro viene altresì scoraggiata dal peso della mancanza di servizi
adeguati e sufficienti per la cura dell’infanzia, oltre che dallo sbilanciamento
del lavoro di cura a carico delle donne. Le reti di cura, quelle primarie,
appaiono corte e nell’insieme favoriscono percorsi che conducono più facilmente queste donne verso un ritiro nella sfera privata: «Se mi capita un
lavoro, ben venga, ma attualmente, non sto cercando attivamente. Ho molto da
fare in casa e non riuscirei a lavorare tutto il giorno, voglio essere presente e a
disposizione dei miei tre bambini, hanno tutti e tre molte attività nel pomeriggio.
Potrei lavorare quattro mattine alla settimana oppure a casa» (857). Il menage
familiare, specie il seguire i figli nelle attività extra scolastiche, è un elemento
CON I FIGLI...
159
di complessità che, a sua volta, va ad aggravare il carico di lavoro delle
rispondenti. Il concetto di cura è molto ampio ed include una molteplicità
di azioni che vede le donne impegnate nell’arco dell’intera giornata e con
numerosi spostamenti sul territorio. Ricordando poi che la mobilità territoriale per la più parte si basa sull’uso del mezzo privato, questo conduce
ad una riflessione sulle conseguenze di mancanza di autonomia da parte
dei minori e di quanti, tra gli adulti, non dispongano personalmente di un
mezzo di trasporto. Questo primo orientamento in cui rientra la più parte
delle intervistate non occupate, descrive una situazione in cui è a partire
dalla condizione di madre che le opzioni di partecipazione sociale e lavorativa si restringono, senza che questo sia causalmente correlato con le
aspirazioni personali.
Al secondo orientamento sono riconducibili quante dichiarano di avere
operato coscientemente una scelta dettata dal riconoscere nell’essere madre
una priorità, differentemente dal precedente in cui le donne, loro malgrado,
ritengono di non potersi sottrarre alle responsabilità familiari. Queste intervistate: esprimono un’adesione consapevole ad un modello prettamente
femminile di madre e curatrice: «Ho lasciato il lavoro per dedicarmi ai miei
figli» (454); «sono impegnata nella crescita dei figli» (32). L’impegno familiare
è individuato come un’aspirazione che coinvolge totalmente, oltre che mantenere la caratteristica di necessità: «Accudire i figli e il lavoro di mamma e
casalinga mi fa sentire indispensabile» (634); «perché mi piace fare la mamma e
la moglie» (20). Per queste donne il dovere di cura rimanda ad un’autodefinizione di status, il che equivale prevalentemente all’essere madre ed esserlo
in maniera devota: «Sono casalinga e dedico il mio tempo a mio figlio, mio marito,
alla casa con tanto piacere» (26); «sono casalinga» (17); «perché mi piace fare la
mamma e la moglie» (20); «perché mi basta il lavoro di casalinga» (51); «perché
ho scelto di seguire la famiglia» (904). Queste risposte, pur non rappresentando
la maggior parte delle rispondenti, testimoniano di una persistenza di un
modello femminile che favorevolmente si definisce a partire dalla famiglia.
In alcuni casi ciò è addirittura enfatizzato come una libertà, uno stato di
affrancamento dall’occorrenza di lavorare: «[non lavoro] perché mio marito
guadagna abbastanza per poter soddisfare i nostri bisogni» (848); «fortunatamente
mio marito è ben retribuito, e anche perché ho tre figli» (954); «essendo vedova
percepisco la pensione di mio marito così posso accudire i miei figli a tempo pieno»
(5). Non lavorare dunque per queste intervistate è un privilegio offerto da
condizioni economiche favorevoli; altre invece rinunciano a lavorare pur
facendo sacrifici: «la cosa migliore sarebbe di far pagare meno tasse in modo che
lo stipendio del convivente sia più alto e che la donna possa occuparsi a tempo
pieno dei figli e della casa» (20); «lo Stato aumenti gli stipendi dei mariti e faccia
160
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
restare a casa le donne» (1). Le condizioni materiali familiari descrivono orientamenti differenti al lavoro e alla maternità, sia quando si ritiene che non ve
ne sia necessità, sia quando lo stare a casa è valutato come un costo minore
rispetto al percepire un reddito che sarebbe in parte speso per pagare servizi
di cura. Allo stesso tempo però, le condizioni materiali pesano sui percorsi
delle donne e molto meno su quelli degli uomini: anche quando la scelta
di lavorare o stare a casa è concordata dalla coppia, lo stato negoziabile
rimane quello della donna. Una visione peraltro condivisa dalle stesse donne
che partecipano della decisione senza porre in discussione una eventuale
alternativa al maschile e neppure una redistribuzione dei compiti quotidiani
tra i partner: «Ogni giorno ci sono troppe donne che lavorano e non sempre per
piacere ma perché noi ne abbiamo bisogno. Per le donne con figli gli asili nido sono
troppo cari. Per me questo sarebbe la seconda cosa da migliorare. Grazie» (513).
Non manca chi persino giunge ad auspicare un ritiro definitivo delle donne
nel ruolo di cura, valutato nelle sue ricadute positive sulla qualità della vita
dei componenti la famiglia, specie dei figli: «Se lo stipendio del coniuge venisse
aumentato, le donne potrebbero e dovrebbero stare in casa e seguire i figli. Cosa
che oggi non si fa ed i ragazzi non hanno una guida giusta» (36).
D’altra parte sono poche le donne per cui il percorso verso il lavoro appare definitivamente chiuso o interrotto; si tratta delle non occupate
che rientrano nel secondo orientamento. Per tutte le altre il lavoro rimane
una questione in sospeso. Al fine di valutare più approfonditamente l’atteggiamento verso il lavoro delle intervistate, è stata inserita nel questionario
un’ulteriore domanda aperta, diretta a conoscere le eventuali aspirazioni
delle intervistate, qualora si trovassero a poter scegliere liberamente quale
lavoro fare4. Come osserva una delle intervistate il primo problema è godere
di una possibilità reale di scelta: «se si potesse scegliere sarebbe tutto più facile»
(19). Mentre di fatto l’appena citata intervistata ha optato per non lavorare
in quanto i costi di cura dei suoi tre figli supererebbero il beneficio di un
reddito aggiuntivo, immediatamente dopo aggiunge che trovandosi nella
possibilità di scegliere aspirerebbe ad un lavoro.
Le risposte fornite alla scelta di un lavoro ideale configurano tre diverse
opzioni. La prima è quella di mantenere «il lavoro che si ha adesso» che si
basa sull’idea di un mercato del lavoro difficile per cui vale la pena di conservare la posizione attuale: «meglio così che andare a cercare peggio (per come si
è messi adesso)» (773). Il mantenimento del lavoro presente è altresì determinato da una relativa soddisfazione per l’occupazione presente: «mi trovo bene
4
Il testo del quesito è esattamente il seguente: Se potesse scegliere che lavoro fare, quale
sceglierebbe? Perché?
CON I FIGLI...
161
nell’azienda attuale» (773); «il mio [lavoro] è soddisfacente, per flessibilità, per
varietà di mansioni» (771); «lo stesso lavoro che faccio adesso però come direttrice.
Mi sento abbastanza sicura del mio lavoro, di conseguenza padrona di me stessa»
(11); «quello che faccio, mi piace il mio lavoro, mi permette di uscire, incontrare
gente, mi dà serenità» (18). Vi è da aggiungere che tenderebbero a riconfermare la posizione attuale coloro che comunque non vi hanno rinunciato
neppure in coincidenza con la maternità, vale a dire quelle che mantengono un legame più saldo con il lavoro. Viceversa, è vero anche che, come
conferma buona parte della letteratura, rimangono “attaccate” al lavoro in
maniera continuativa proprio quante trovano in esso maggiore soddisfazione
e rispondenza ad aspettative e motivazioni. Le rispondenti che esprimono
buoni livelli di soddisfazione per il tipo di lavoro svolto, individuano quali
elementi qualificanti l’ambiente e anche l’orario di lavoro.
L’orario lavorativo è un elemento importante per le intervistate. Questo
porta direttamente alla seconda opzione espressa da quante indicano il lavoro per loro ideale a partire dalle sue caratteristiche organizzative: potendo scegliere vorrebbero infatti un’occupazione «part time» o con un tempo
ridotto. In questo caso si pone l’accento non tanto sui contenuti del lavoro,
bensì sulla possibilità di ridurlo in modo da disporre di tempo per seguire i
figli e prendersi cura della famiglia: «Qualsiasi lavoro purché part time – scrive
una delle rispondenti – per conciliare meglio lavoro e famiglia» (1069), mentre
una seconda non specifica neppure quale potrebbe essere un lavoro per lei
ideale, ma sottolinea piuttosto la compatibilità con le esigenze familiari in
tutte le sue caratteristiche organizzative: «non ho ambizioni carrieristiche piuttosto prediligerei un lavoro su turni e vicino a casa» (973). Ad indicare il part
time come lavoro ideale è il gruppo più numeroso di rispondenti: non fanno
riferimento ad un lavoro specifico, bensì ad un’organizzazione del tempo di
lavoro che ne liberi altrettanto e sufficiente per la cura. Una sorta di terza
via rispetto a quella posta dal dilemma lavorare o stare a casa, che mette
insieme il bisogno di essere occupate con le responsabilità familiari. Si tratta
comunque di un compromesso che, ancora una volta, riguarda esclusivamente le donne o meglio, le madri, mentre non mette in discussione la posizione
lavorativa del partner. L’aspirazione al part time è l’individuazione di una
soluzione al superamento delle difficoltà nel trovare una soluzione adeguata
ai vincoli che si pongono alle intervistate a partire dai carichi familiari, tali
per cui per qualcuna l’ipotesi lavorativa sembra possibile solo nelle forme
di lavoro con sede nel proprio domicilio: «un lavoro part time da svolgere in
casa, perché ritengo sia più importante seguire i figli e il marito e un lavoro part
time mi consentirebbe di fare questo» (477); «un lavoro che potrei svolgere da casa
per avere più flessibilità negli orari e per dedicare tempo ai figli» (464). Qui il
162
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
tempo di lavoro è considerato come tempo “altro” dalla gestione familiare
e questo condiziona la gamma di possibilità di scelta che sentono di avere:
«commessa, barista, penso che siano i soli lavori che riesca a fare avendo a disposizione le sole ore dalle 9.00 alle 14.00» (989). Anche in questo caso non si
mette a fuoco tanto una specifica attività lavorativa, piuttosto un generico
bisogno-desiderio di lavorare che non sottragga risorse di cura alla famiglia:
«un lavoro part time per non togliere troppe ore alla famiglia» (550).
La logica sottrattiva del lavoro è per queste rispondenti preponderante
per cui alcune prospettano l’ipotesi della casalinga retribuita come unica
possibilità di reddito unitamente all’assicurazione di essere presente in casa:
«se potessi scegliere farei la casalinga retribuita, perché così avrei più tempo da
dedicare ai miei bambini ed ai miei familiari» (757); «la casalinga, per poter
trascorrere più tempo con le mie figlie ma purtroppo non è retribuito» (905). La
preoccupazione di non essere sufficientemente presenti e accudenti precede
quella di un lavoro. Sono queste le donne che più di tutto tematizzano il
dilemma, tutto femminile, tra casa e lavoro in relazione conflittuale. Un
dilemma che una delle rispondenti risolve con una eloquente battuta in
merito alla descrizione di ciò che farebbe potendo scegliere liberamente: «la
signora, single e lavorare. Il lavoro ti dà tutto altrimenti non si va avanti» (40).
La flessibilità del lavoro diviene dunque condizione necessaria per poter
svolgere un’attività lavorativa che nella realtà si scontra con la rigidità della
gestione familiare: «collaboratrice familiare a ore; quando si hanno figli – quattro
nel mio caso – serve un lavoro che abbia una certa flessibilità per le esigenze che
essi richiedono e le esigenze della famiglia stessa» (1024).
La terza opzione – che raccoglie un considerevole numero di risposte
– è rappresentata dal «lavoro che piace» e riguarda quelle intervistate che
individuano nel lavoro una possibilità di realizzazione personale. Da tale
prospettiva un elemento qualificante del lavoro ideale è la congruenza tra
occupazione e titolo di studio: «orafa: era quello per il quale ho studiato» (551);
«merceologa, [ho una] laurea in economia e commercio» (632); «ragioniera, contabile: ho studiato per questo e adoro i numeri, i calcoli» (40); «il mio lavoro per
cui ho studiato, grafico pubblicitario per computer. Ho frequentato l’istituto d’arte
ho lavorato per 18 anni nella grafica... perché potrei gestire meglio il mio tempo»
(7). Ma il lavoro che piace rimanda anche alle motivazioni espressive, alla
passione per qualcosa cui si tende e in cui vi si riconosce: «fioraia, perché mi
piacciono i fiori» (18); «lavorare con gli animali, perché gli animali sono riconoscenti
per quello che fai per loro, gli uomini invece!!!» (24); «naturalista, perché ho una
grande passione per i rimedi naturali» (975); «massaggiatrice shiatsu, perché è la
mia passione» (980); «lavori di sartoria artigianale, per passione personale» (84);
«maestra d’asilo, mi piacciono tanto i bambini» (87); «mi sarebbe piaciuto fare
CON I FIGLI...
163
l’estetista, parrucchiera, forse perché da piccola è sempre stato un mio sogno» (92).
Come ben evidenziano le parole delle intervistate, quando il riferimento è
ad una forte motivazione personale, vengono messe a fuoco le peculiarità
dell’occupazione in funzione di una enfatizzazione di ciò che personalmente
appassiona e a cui si aspira. Le descrizioni sono maggiormente ritagliate sulle
specificità delle occupazioni e meno spazio trovano gli aspetti strumentali,
piuttosto le sue caratteristiche intrinseche.
Il lavoro in fabbrica, all’opposto, è l’esempio negativo portato da alcune
ad indicare un’attività in cui non vi è spazio né per il piacere né per la passione: «la commessa o un lavoro a contatto con la gente, perché lavorare a contatto
con la gente per me è il massimo, lavorare in fabbrica è noioso» (508); «negozio o
attività a contatto con altra gente, per avere la possibilità di lavorare e nello stesso
tempo non essere stressata dal lavoro in fabbrica» (299); «commessa, perché mi
sembra meno stressante ma sempre meno impegnativo come lavorare in fabbrica»
(366). In alcuni casi il lavoro ideale è definito semplicemente escludendo dalle
opzioni il lavoro di fabbrica «...non saprei, non tornerei più in fabbrica» (508);
«non lo so ancora, però tutto tranne la fabbrica» (530); «qualunque (tranne lavorare
in fabbrica)» (1020). Il lavoro di fabbrica, così definito, è intanto percepito
come diffuso sul territorio e anche più facilmente disponibile, allo stesso
tempo è il lavoro verso cui ci si orienta in mancanza di altre possibilità: «a
me andrebbe bene anche un lavoro in fabbrica, perché non ho il titolo di studio
per fare altri lavori» (87); «va bene anche un lavoro in fabbrica, non ho il titolo
di studio per altri lavori» (191). Il lavoro in fabbrica è dunque l’antitesi del
lavoro che piace e a cui idealmente si tende. Un aspetto questo di grande
interesse, data anche la struttura produttiva territoriale, che meriterebbe di
ulteriori approfondimenti atti a cogliere i mutamenti delle immagini del
lavoro, del prestigio sociale ad esso associato, delle condizioni qualitative e
materiali. Antitetiche al lavoro in fabbrica, sono figure quali «il politico perché
hanno tutti i vantaggi» (659) oppure un impiego nel settore pubblico per le
sue caratteristiche di stabilità e sicurezza: «i posti pubblici sono i migliori e
chi ci lavora non li apprezza...» (351); «impiegato statale, sicurezza lavorativa
ed economica» (300); «insegnante di ruolo: 1) mi piace 2) mi dà sicurezza posto
fisso» (684); «insegnante, per essere più autonoma nell’organizzazione del lavoro
e per lo stipendio e per la sicurezza del posto pubblico» (958). Il posto pubblico
rappresenta un approdo sicuro, in primo luogo in una classica rappresentazione della contrapposizione con il settore privato, che, ampiamente presente
sul territorio, rimanda piuttosto ad un minore grado di sicurezza, maggiore
fatica e dipendenza da un datore di lavoro di imprese padronali. Questo
ultimo aspetto assume, dal punto di vista delle donne intervistate, particolare
rilevanza, sia per la vulnerabilità del loro essere madri che eventualmente
164
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
aspirano a coniugare con il ruolo di lavoratrici, sia per il tempo di lavoro
che nel pubblico tende ad avere maggiore certezza e prevedibilità, oltre ad
essere percepito prevalentemente ridotto rispetto al settore privato, in quanto
più arbitrariamente determinato in una negoziazione potenzialmente sempre
aperta tra datore di lavoro e lavoratori.
Al di là della personale situazione occupazionale, emerge una centralità
del lavoro come valore che assume nel corso di vita significati diversi. Per
le intervistate con figli l’atteggiamento verso il lavoro risulta fortemente
condizionato, più che da una tensione ideale, dalle necessità pratiche di
provvedere al reddito familiare e con esso ad una relativa sicurezza. Ecco
dunque che per la maggior parte delle intervistate il lavoro è importante
soprattutto a fini strumentali. Circa la metà delle intervistate si dichiara
(molto o abbastanza) d’accordo con l’affermazione per cui «potendo scegliere
è meglio stare a casa» (v. Tab.V.8), mentre quasi la totalità delle rispondenti è
molto (85,1%) o abbastanza d’accordo (14,6%) con l’affermazione «il lavoro
è necessario per mantenere la famiglia». Il lavoro è dunque, oltre che mezzo
primario per la sussistenza, la risultante di un compromesso rispetto alle
evenienze del presente, alle esigenze poste dal corso di vita e primariamente
dal gruppo familiare. Come già rilevato altrove, il prevalere dell’elemento
della necessità su quello della realizzazione o della progettualità, descrive
con più probabilità un attaccamento al lavoro condizionato, più labile, in
quanto, più della sfera privata, è opzionabile.
Tabella V.8 - Opinioni sul lavoro e la sua importanza
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
Totale
Il lavoro è necessario per mantenere
la famiglia
85,1
14,6
0,3
0,3
100
Il lavoro è importante
per sentirsi utile
38,9
43,8
12,5
4,7
100
Il lavoro dà l’autonomia
60,9
32,2
5,8
1,2
100
Il lavoro è importante per la realizzazione personale
12,5
37,5
10,6
3,4
100
Una donna che lavora ha più voce in
capitolo
10,2
22,6
34,3
32,8
100
Lavorare è più importante per gli
uomini che per le donne
12,5
14,1
27,7
45,5
100
9,8
19,2
36
35
100
25,7
22,9
29,8
21,5
100
Quando ci sono i figli è meglio che la
madre non lavori
Potendo scegliere è meglio stare a
casa
165
CON I FIGLI...
Si nota, infatti, anche dalla presente ricerca, quanto il principio di realtà
che emerge dietro il rapporto con il lavoro stabilito dalle intervistate, influisca
sul gruppo delle donne che hanno figli, più delle altre. I due gruppi, d’altro
canto, concordemente attribuiscono al lavoro un significato di autonomia
che viene in entrambi i casi considerata acquisibile attraverso di esso. Con
l’affermazione «Il lavoro dà l’autonomia» risultano molto o abbastanza d’accordo oltre il 90% delle intervistate (v. Tab.V.8). Mentre esprimono disaccordo,
per il 73% circa, con la frase: «Lavorare è più importante per gli uomini che per
le donne». L’importanza del lavoro è un fatto acquisito, indifferentemente per
uomini e donne è una dimensione dell’esperienza importante con cui tutte
fanno i conti a partire dalla propria condizione di vita. È nel corso di vita,
nella pratica quotidiana, che si stabiliscono i diversi e diseguali accessi ad una
risorsa indiscutibilmente riconosciuta rilevante, oltre che strumentalmente
e in termini di acquisizione di status, di ampliamento delle relazioni, della
soddisfazione personale.
È nuovamente nel corso di vita che le priorità si stabiliscono e ri-stabiliscono. Alla richiesta di indicare il grado di importanza tra diverse istanze,
quali l’avere dei figli, l’avere un lavoro, avere un compagno/marito e avere
tempo libero per sé (v. Tab.V.9) è emersa una prima posizione attribuita
all’avere figli. In tutti i casi le intervistate hanno riconosciuto queste dimensioni come importanti. Tuttavia, l’avere dei figli è risultato l’aspetto intorno a
cui si è concentrato il maggior numero di consensi alla modalità di risposta
«molto importante», che, se sommato a quante ritengono che sia «abbastanza
importante», raggiunge la quasi totalità delle rispondenti. Dopo i figli, ciò che
è ritenuto importante dalle intervistate è avere un lavoro. Si noti come questo
preceda, in ordine di importanza attribuita, l’avere un compagno/marito.
Avere tempo libero per sé raccoglie una minore percentuale di risposte alla
modalità molto importante, ma per quasi il 40% è molto importante.
Tabella V.9 - Per ognuna delle voci qui di seguito elencate indichi il grado
di importanza per lei
Avere
Avere
Avere
Avere
un lavoro
un compagno/marito
dei figli
tempo libero (per sé)
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
75,8
79
91,9
51
21,9
17
7,2
39,7
2,3
3,3
1
9,3
0
0,7
0
0
L’importanza attribuita al lavoro è dunque in subordine a quella dei
figli. È questo che lo rende negoziabile in un bilancio personale di costi e
166
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
benefici e commisurato ad una reale possibilità di scelta che si gioca a partire dall’essere principali o uniche responsabili della cura familiare. Per tale
ragione la negoziabilità della scelta lavorativa, o non, delle donne, riguarda
tutte, le occupate e le non occupate, anche tenendo conto del fatto che il
percorso prevalente delle intervistate è quello di un dentro e fuori il mondo
del lavoro, piuttosto che connotato da una preclusione verso di esso.
Un dato, a tale proposito significativo, è quello relativo ai congedi di
cui le intervistate ed eventualmente i loro partner hanno o meno usufruito
in occasione della nascita dei figli. I comportamenti relativi alla fruizione
del congedo parentale e di maternità, costituiscono un ambito di osservazione di grande interesse, così come lo sono al riguardo le risposte delle
intervistate. In primo luogo, si nota un divario tra le rispondenti lavoratrici
dipendenti e le altre, lavoratrici autonome, precarie e simili. Le differenze non
sono rilevabili a livello di congedo cosiddetto obbligatorio, ma soprattutto
facoltativo, di maternità e parentale. Rispetto a questo secondo, che nella
pratica rappresenta una possibilità di estensione del congedo di maternità,
sono nella quasi totalità le donne ad avervi avuto accesso, mentre i padri
fruitori del congedo parentale sono un numero esiguo che tende persino a
diminuire passando dal primo figlio ai successivi.
Diverse le osservazioni rilevanti a tale proposito. La fruizione del congedo mette in luce una varietà di situazioni a parità di stato di madre. Il
diritto al congedo non è né uguale per tutte, né è fruito allo stesso modo.
Non è uguale per tutte perché sull’accesso incidono la posizione lavorativa
di dipendente o autonoma e la stabilità della stessa: «Ho rinunciato alla maternità facoltativa perché avevo paura di perdere il mio lavoro e per una serie di
circostanze “strane” a me sfavorevoli e perché avevo l’aiuto di mia madre» (915).
Si rileva infatti che numerose sono le rispondenti che affermano di non aver
avuto possibilità di congedo per ragioni diverse, ma che tutte hanno a che
fare con un reale esercizio del diritto. Per numerose rispondenti l’ostacolo
di accesso al congedo è nel tipo di contratto lavorativo, a chiamata, o co.co.
co., uno stato di lavoratrice che non permette di fatto di esercitare gli stessi
diritti delle altre più tutelate, vale a dire le dipendenti a tempo indeterminato.
Anche tra le dipendenti, il bisogno di tornare al lavoro e di poter contare
su uno stipendio pieno e non decurtato al 30%, ha rappresentato una buona
ragione per rinunciare al prolungamento del congedo oltre l’obbligatorio.
Quanto poi alle rispondenti lavoratrici autonome (commercianti, artigiane,
imprenditrici ecc.) il congedo mal si concilia con la responsabilità nei confronti della loro attività, per cui l’espressione «lavoratrice autonoma» o «in
proprio», indica di per sé una spiegazione alla mancata fruizione. Diverse
invece sono le giustificazioni portate per i rispettivi partner. Questi risultano
CON I FIGLI...
167
non aver fruito di congedi per la nascita dei figli e per la loro cura soprattutto
perché, scrivono le intervistate, «c’era la madre a casa ad occuparsene». Pertanto la motivazione principale è quella di un accordo raggiunto all’interno
della coppia in merito alla ripartizione dei compiti tra lavoro per il reddito
e lavoro di cura.
A seguire, in ordine di risposte, vi è l’impossibilità per i partner ad ottenere congedi perché difficilmente concessi dal datore di lavoro ai lavoratori-padri: «la sua ditta non avrebbe visto di buon occhio il congedo di paternità»;
«non se lo poteva permettere perché non concessi e non retribuiti». Le difficoltà
di fruizione del congedo da parte dei partner sono altresì derivanti da timori di mettere a rischio la stabilità lavorativa: «non convinto di poterlo fare
veramente, temeva per il suo posto». Il congedo di paternità più che un diritto
appare dunque da una parte una scelta da compiersi solo laddove non vi
siano alternative, la prima delle quali è appunto rappresentata dalla presenza
della madre; dall’altra, esso è definito come uno svantaggio in termini sia
economici sia di rischi per la posizione lavorativa maschile che diviene tanto
più importante quanto più vulnerabile appare quella delle rispettive partnermadri. Anche dal punto di vista delle rispondenti emerge un quadro secondo
cui il congedo, per la più parte, si limita a quello obbligatorio, per il resto,
quello facoltativo, difficilmente è percepito come una opportunità: vi si rinuncia più facilmente per timori legati alla debolezza della propria posizione,
si ritiene impossibile prolungare l’assenza dal posto di lavoro. Per qualcuna
al congedo, quando non alla gravidanza, ha seguito un licenziamento o un
mancato rinnovo del contratto di lavoro nel frattempo scaduto.
I percorsi delle coppie appaiono quasi obbligati, sia perché con i figli
le esigenze di reddito divengono più urgenti, sia perché le condizioni di
lavoro pongono delle concrete limitazioni alle scelte riproduttive e di cura.
Ne consegue che per la necessità di prendere decisioni in merito alla cura
dei nuovi nati, ci si appoggia più facilmente a modelli sessuali di tipo tradizionale; questo perché anche lo stesso mercato del lavoro locale appare
strutturato in modo da consolidare la partecipazione maschile ed accogliere
l’eventuale contributo femminile. Come emerge dalle risposte delle intervistate, i lavoratori uomini, loro partner, di frequente non si sentono liberi di
decidere in merito alla fruizione di congedi parentali, ma piuttosto ritengono
in tal caso di dover affrontare resistenze culturali e rischi che ne conseguono,
principalmente quello di una vulnerabilità derivante dall’interpretazione del
congedo in termini di una minore disponibilità nei confronti dell’azienda per
cui si lavora. Il sistema locale, infatti, appare spiccatamente orientato ad una
divisione sessuata dei ruoli sia nell’ambito pubblico e lavorativo, sia, come
si vedrà ora, nell’ambito privato-familiare.
168
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
V.2.1 Il lavoro di cura e l’organizzazione familiare
Sebbene il lavoro emerga come valore riconosciuto e condiviso, nella pratica
quotidiana esso subisce costanti riposizionamenti nell’agenda di vita delle
intervistate. Esso non solo entra ed esce nello svolgersi del corso di vita,
ma è la stessa pratica sociale delle care giver a ricollocarlo di volta in volta,
a contenerlo e combinarlo con le molteplici responsabilità della vita privata,
in un modello di relazione di coppia e familiare tutt’altro che orientato alla
condivisione. Attraverso un’ampia batteria di domande si è indagato sulla
organizzazione familiare del lavoro di cura, ponendo quesiti su come e tra
chi vengono ripartiti i vari compiti quotidiani all’interno del nucleo familiare,
cercando altresì di comprendere quale il peso e il ruolo di eventuali soggetti
altri nella rete primaria. Le domande poste contemplano una serie di attività,
per cui è stato chiesto di indicare per ciascuna il grado di coinvolgimento
personale, quello del partner e/o di altri componenti che possano essere
incluse nella rete di cura familiare.
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Figura V.4 - Cura della casa.
Un primo gruppo di attività è rappresentato dal lavoro di cura per la
casa, gli acquisti per la famiglia e la preparazione dei pasti. In tutti e tre i
casi sono le intervistate a dichiarare il loro pressoché esclusivo dedicarsi a
tali mansioni, rivelando un’assenza di condivisione all’interno della coppia.
In particolare, è la cura della casa che vede più spesso e personalmente
169
CON I FIGLI...
dedite le intervistate, mentre i partner sembrano maggiormente disponibili
per gli acquisti, attività che con più frequenza la coppia svolge insieme. Il
ruolo di altre persone sembra essere poco significativo, ad eccezione della
preparazione dei pasti in cui i nonni acquisiscono una relativa importanza,
che invece non rivestono per le altre due attività.
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Figura V.5 - Preparare i pasti.
Quasi mai le prestazioni di aiuto nelle attività considerate si acquistano
sul mercato e questo dato si conferma per tutte le attività considerate. Vi è
una forte tenuta alla produzione domestica di beni e servizi per la famiglia.
Raramente ci si rivolge al mercato, piuttosto alla rete di cura primaria. La
comunità familiare, per quanto risulti ridotta, ha una sua tenuta sia in termini
di riferimento valoriale, sia sul piano dei comportamenti. La dimensione privata è ancora un chiaro punto di riferimento sul piano relazionale affettivo e
nel fare fronte alle esigenze del quotidiano. Anche se, d’altro canto, appare
chiaro che il fabbisogno di cura segue un andamento crescente e tale per
cui le reti familiari appaiono persino insufficienti.
Le ricadute sui carichi di lavoro delle intervistate sono evidenti dalle risposte delle stesse e dalle modalità con cui descrivono l’organizzazione di cura e
familiare. Un secondo insieme di attività per cui si è chiesto di indicare chi fa
cosa e quanto spesso, riguarda la cura dei figli a cominciare dall’inserimento
scolastico, la vita scolastica, le attività del tempo libero, le visite mediche.
170
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
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Figura V.6 - Acquisti per la famiglia.
Qui le donne ricevono una delega pressoché totale da parte dei partner, mentre il supporto di altri soggetti incide solo marginalmente. Circa i
partner, essi sembrano essere maggiormente partecipi nell’accompagnare i
figli a scuola, ma non nell’inserimento scolastico, né nel tenere i rapporti
con le istituzioni scolastiche e seguire i figli quotidianamente nello studio:
queste ultime attività vengono descritte come precipuamente a carico delle
rispondenti.
Anche in questo caso si può osservare che la presenza di soggetti altri
nella rete di cura appare secondario rispetto al fabbisogno familiare e, ancor più, per quanto riguarda le attività che interessano direttamente la cura
dei figli. Considerando che le necessità dei figli risultano incrementali con
l’aumentare della loro età e la rete di aiuto insufficiente, la cura della prole
finisce per essere uno degli impegni più ingenti per le donne, limitante del
loro quotidiano e altrettanto facilmente della progettazione di percorsi di
vita extrafamiliari.
Le attività extra scolastiche rappresentano un ambito esperienziale progressivamente denso e che rendono il tempo libero dell’infanzia un tempo
sempre più attivo, in aggiunta al principale impegno scolastico e di studio.
Questa tendenza si è affermata per le ultime generazioni, condotte a riempire il tempo libero in attività organizzate, comprate e svolte nel mercato.
Vi è da aggiungere che si tratta di attività che acquistano altresì un significato intrinseco molto elevato nella ricerca di senso e nelle aspirazioni
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CON I FIGLI...
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Figura V.7 - Inserimento dei figli a scuola.
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Figura V.8 - Accompagnare i figli a scuola.
dei bambini, come dei loro genitori. Si può persino arrivare a descriverle
in competizione con quella scolastica, per rilevanza attribuita, nonché per
livello di impegno. Le attività sportive e del tempo libero, facilmente diventano più di una, al di fuori del tempo scolastico. Considerata la mancanza
di autonomia nella fascia di età fino a 10 anni, nonché le caratteristiche del
172
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
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Figura V.9 - Colloqui con le/gli insegnanti.
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Figura V.10 - Seguire i figli nei compiti.
territorio in esame, connotato da scarsa diffusione e utilizzo dei mezzi di
trasporto pubblici, è facile arrivare a concludere che gli impegni dei figli si
trasferiscono direttamente sui genitori; più precisamente, guardando i dati
173
CON I FIGLI...
e analizzando le risposte, soprattutto sulle madri. Tuttavia, qui si rileva una
lieve differenza rispetto all’impegno della vita scolastica, in quanto l’onere
dell’accompagnare i figli, nelle attività sportive e che occupano il loro tempo
libero, appare gravare relativamente meno sulle rispondenti a favore di una
maggiore ripartizione in primo luogo con i partner e poi con i nonni. Si noti
che, al di là dei nonni, la cui presenza/incidenza appare comunque complessivamente bassa, nella rete di cura quotidiana, non vengono menzionate
altre figure quali parenti, amici o conoscenti. La rete primaria, quando c’è,
esaurisce l’estensione della rete di cura. Quando non c’è, sono le donne a
colmare le sue falle o comunque si sentono in dovere di adempiere a tale
compito.
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Figura V.11 - Accompagnare i figli nelle attività extra-scolastiche.
Per le visite mediche, sono sempre le madri ad essere più spesso presenti,
mentre i padri intervengono con minore continuità. È più frequente il caso
di un accompagnamento congiunto da parte di entrambi i genitori, piuttosto
che dei padri da soli. In tal caso, la presenza dei nonni è da considerarsi
oltre che minoritaria, occasionale, in ogni caso né frequente, né significativa.
La salute, insomma, risulta essere un affare di famiglia in senso stretto e le
madri ne sono le principali responsabili, così come accade per la scuola.
I risultati forniscono evidenze molteplici di una concentrazione dei compiti di cura sul tempo delle donne. Uscendo fuori dalla cura domestica e
della prole, si nota tuttavia una maggiore redistribuzione dei compiti. È
174
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
nell’amministrazione del bilancio famigliare e delle finanze che si palesa la
più elevata compresenza (v. Fig. V.13). Qui i partner appaiono massimamente partecipi, sia da soli sia insieme alle rispondenti. Si noti tuttavia che
non vi è un arretramento delle donne come principali responsabili delle
risorse finanziarie di famiglia: è questo un dato abbastanza significativo di
una gestione famigliare in cui l’aspetto economico non riguarda più e solo
definitivamente gli uomini. Al di là dei luoghi comuni che vogliono le donne meno interessate alla gestione delle risorse economiche, la questione
del reddito, insieme a quella di un’autonomia anche finanziaria, è tutt’altro
che estranea alle intervistate, anche quelle senza figli fanno di questo uno
degli elementi più rilevanti dell’avere un lavoro. Diversa è la questione della
loro debolezza sul piano di latrici di reddito e dell’autonomia finanziaria,
che nulla hanno a che fare con un diretto coinvolgimento delle rispondenti
nell’amministrazione del bilancio familiare.
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Figura V.12 - Accompagnare i figli alle visite mediche.
Infine, tra le ultime attività considerate, il recarsi presso gli uffici pubblici per sbrigare commissioni e pratiche quotidiane (banche, uffici postali,
enti pubblici vari ecc.) (v. Fig. V.14) vede un più elevato coinvolgimento
dei partner da soli, pur rimanendo un’attività anche questa svolta per lo più
dalle intervistate.
Complessivamente, la divisione del lavoro di cura si conferma fortemente sbilanciata sul versante femminile. La partecipazione maschile è
molto limitata mentre sono le donne a impegnarsi in misura considerevole
175
CON I FIGLI...
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Figura V.13 - Amministrare i soldi.
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Figura V.14 - Recarsi presso gli uffici pubblici.
in tutte le attività di cura indicate. Il modello di organizzazione familiare
appare dunque fondato su una divisione sessuata dei ruoli molto tradizionale: le donne rimangono il fulcro delle attività di cura, gli uomini ne
prendono parte saltuariamente e limitatamente. I pochi soggetti coinvolti
nella rete parentale costituiscono un punto di riferimento soprattutto nei
periodi di lunga chiusura delle strutture scolastiche e per gli impegni più
176
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
saltuari; la gestione ordinaria e continua dei bisogni familiari ricade sulle
donne.
Ci si affida all’aiuto di un parente soprattutto in occasioni di vacanze
scolastiche, vale a dire di un periodo che permette una maggiore programmazione della gestione del tempo e scandito dal calendario delle attività. Per
la stessa ragione è proprio in tali occasioni che comparativamente appare
maggiormente incidente il ruolo di una persona pagata per la cura dei figli,
scelta non compiuta per altre occasioni e attività, attribuibile, con buona
probabilità, alla mancanza di alternative e di supporto di reti parentali per
periodi relativamente lunghi. Come ampiamente si evince dalle parole delle
intervistate, infatti, la scelta di pagare una persona per la cura dei figli è ponderata in una valutazione di rapporto costi benefici tra posizione lavorativa,
reddito e presenza di reti primarie che all’estremo porta persino ad optare
per la rinuncia alla propria occupazione.
Tabella V.10 - Come si organizza in caso di…
Malattia dei figli e
assenza da scuola
Vacanze scolastiche
Visite mediche
in orario scolastico
Chiedo un
permesso
Chiede un
permesso
il partner
Prendo
le ferie
Mi affido
all’aiuto
di un
parente
Mi affido
all’aiuto
di un
conoscente
Mi affido
all’aiuto di
una persona
pagata
33,1
4,1
7,1
48,9
2,4
4,5
5,8
2,1
10,7
69,3
2
10
72,9
10,3
3,8
11,5
0,7
0,7
La presenza di aiuti nella rete parentale appare dunque la principale e
la più flessibile delle soluzioni. A dimostrazione di ciò è altresì di un certo
interesse il fatto che quasi la metà delle intervistate dichiari di affidarsi ad
un parente in caso di malattia dei figli e conseguente assenza da scuola;
al contempo circa un 4,5% si affida per la stessa ragione ad una persona
retribuita. Appare così rafforzata l’ipotesi delle reti corte e insufficienti: la
rete parentale, anche laddove esiste, non sempre è in grado di supportare
le famiglie soprattutto nei casi di assenze scolastiche non previste e simili. Ciò, da una parte induce a formulare ulteriori ipotesi di nonni ancora
attivi sul mercato del lavoro oppure non sempre in grado di provvedere
cure per figli e nipoti, per ragioni per esempio, legate all’età o al personale
stato di salute. In ogni caso, le reti di cura si evidenziano come deboli,
scarsamente supportanti. Dato che viene una volta di più confortato dalle risposte relative all’assistenza a parenti che appare un’attività svolta in
177
CON I FIGLI...
misura relativamente minore dalle intervistate e da altri soggetti includibili
nella rete parentale.
L’assistenza a parenti (v. Fig. V.15) è l’attività di cura che meno grava
sulle intervistate e sul carico complessivo familiare. Si comprende dunque
come in buona parte incida al proposito la caratteristica, a più riprese sottolineata, di una diversificata composizione della popolazione locale, per
cui sempre meno la famiglia allargata descrive la geografia demografica
territoriale. Le famiglie con figli misurano un’area di bisogni che tende ad
ampliarsi entro un contesto in cui lo spazio del supporto risulta essere manifestamente più ristretto; ciò riguarda la sfera delle relazioni parentali come
il sistema dei servizi pubblici. Si descrive in tal modo una comunità che
tende a sfaldarsi sul piano del riconoscimento delle necessità di cura. Nella
misura in cui la cura non è condivisa dalla collettività né da essa presa in
carico, determinanti divengono le risorse personali. Un sistema, questo, che
alimenta frammentazione e disparità, mentre le famiglie divengono sempre
più soggetti necessitanti piuttosto che risorsa per la collettività.
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Figura V.15 - Assistere parenti.
Il carico complessivo di cura delle famiglie è la sommatoria di una
varietà di attività che trovano origine in una costante ridefinizione dei bisogni, siano essi quelli determinati da un invecchiamento della popolazione
oppure quelli espressi dall’infanzia fino all’adolescenza. Inoltre, una generalizzata spinta verso la cultura performativa del fare, finisce con il rendere
178
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
di gran lunga più complesso l’insieme delle necessità da soddisfare. La rete
parentale, corrispondente per lo più ai nonni in aggiunta alle figure genitoriali, pur sostenendo in ciò le famiglie, fornisce un apporto atto a coprire
solo parzialmente il fabbisogno complessivo5. Di fatti, prendersi cura per
esempio dei figli implica adempiere ad una pluralità di funzioni complesse
per competenze (seguire i figli nei compiti, prendersi cura della loro salute,
hobbies, ecc.) e per mobilità richiesta. Sono le stesse rispondenti, che come
si vedrà più avanti, fanno proprio del tempo ricreativo uno degli elementi
qualificanti per il territorio, specie per i più piccoli, mostrando così l’adesione
ad un modello che segna la stessa infanzia come una fase di vita ricca di
occupazioni. La spinta sociale ad essere attivi e performativi, mentre riguarda
ampiamente le fasce di età dei più piccoli, si trasforma in oneri economici
e di impegno ulteriore per le famiglie. Giacché in famiglia sono le donne a
salvaguardare la “flessibilità” della loro posizione funzionalmente alle esigenze dei componenti della famiglia, l’assenza di servizi, di condivisione nella
sfera privata ed infine la tendenza ad allargare la sfera di impegno sociale dei
più piccoli nel tempo altro da quello scolastico, disegna percorsi obbligati
in particolar modo per le madri che mettono fortemente in discussione non
solo le pari opportunità di partecipazione sociale e lavorativa, bensì il diritto all’autodeterminazione che invece si afferma per gli altri soggetti a loro
scapito. Sono dunque le donne il perno di un welfare locale che protegge il
benessere altrui minando il proprio.
I dati che qui di seguito analizzeremo su tempo libero, i suggerimenti
per il territorio e la qualità della vita delle donne, forniscono ulteriori evidenze di un affanno individuale, accanto ad una percezione di isolamento
nel bilanciare le diverse sfere esperienziali. A tale proposito, una intervistata
sottolinea proprio l’importanza di «sostenere la genitorialità, perché a volte è
difficile trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia, in particolare per quanto riguarda gli impegni educativi» (24).
5
La bassa incidenza complessiva dell’aiuto dei “nonni” genericamente intesa, ha suscitato
una forte reazione in occasione di una delle presentazioni dei risultati della ricerca effettuate
nel territorio interessato. È stata proprio una nonna a risentirsi apertamente, portando la
sua personale testimonianza e riferendo dei “nonni” di sua conoscenza che quotidianamente
si prendono cura dei nipoti. Sebbene la ricerca offra uno sguardo complessivo sulla comunità indagata, la trasformazione della stessa proprio nelle radici della relazionalità primaria
fa emergere una controspinta della parte più radicata, stabile e tradizionalmente ancorata
all’identità originaria. È a tale proposito interessante che la prospettiva di un ridimensionamento delle reti primarie nella cura familiare sia stato così percepito non come indicatore
di una profonda trasformazione, ma come una messa in discussione di uno dei fondamenti
del vivere comunitario.
179
CON I FIGLI...
V.2.2 Il tempo libero e il tempo per sé
Da quanto descritto sinora, diventa comprensibile come il tempo e la sua
gestione rappresentino una delle principali criticità per le rispondenti. In
particolare, il tempo libero è piuttosto un’aspirazione ad uno stile di vita
lontano da quello descritto dalle protagoniste. Giocando proprio intorno al
bisogno di tempo libero da riservare per sé, si è domandato alle intervistate
di valutarne la quantità che dedicano a se stesse nell’arco di una giornata.
Dalle risposte ne emerge prima di tutto la scarsità: la maggior parte ritiene
di avere poco tempo per sé giornalmente nel 75% dei casi e per niente per
l’11,9%.
Tabella V.11 - Quanto tempo dedica a se stessa durante la giornata?
%
Molto
0,6
Abbastanza
12,3
Poco
75,2
Per niente
11,9
Le attività del tempo libero risultano di fatto molto ridotte. Tra quelle per
cui si è chiesto di indicare la frequenza, prevalgono le attività a “consumo”
individuale piuttosto che a carattere sociale-relazionale (v. Tab. V.12).
Tabella V.12 - Con quale frequenza svolge le seguenti attività nel tempo libero?
Più di una
volta la
settimana
Una volta
la settimana
Una volta
al mese
Meno di
una volta
al mese
Poche
volte
l’anno
Mai
Sport
13,2
11,2
3,3
3,1
17,8
51,3
Associazioni
1,8
3,8
2,7
3,2
13,9
74,4
Ristoranti
1,1
13,3
26,9
16,2
33,9
8,6
Corsi/formazione
0,6
1,4
3,8
5,2
22,6
66,5
Lettura
34,9
13,3
8,9
7,8
19,6
15,5
Cinema
0,7
2
10,1
13,5
44,1
29,6
Teatro
0,2
0,3
0,9
2,8
15,8
79,8
Parrucchiere
0,7
5,8
21,6
22,7
45
4,1
Centri estetici
0,5
1,7
15,2
11,2
27,3
44,1
Viaggi
0,1
0,3
0,3
1,2
62,1
35,9
180
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
La più frequente è la lettura, cui seguono, ma con un significativo distacco, le attività sportive. Più saltuariamente sono indicati i viaggi e l’andare
a teatro. Ne emerge un quadro coerente con quanto le donne affermano
per tutta l’intervista, di affaticamento e di erosione del tempo per sé in funzione di un tempo familiare, per loro stesse, evidentemente pervasivo. La
centralità del lavoro di cura è il principale elemento intorno a cui i percorsi
delle donne si organizzano e si svolgono, in una direzione che è quella di
adattamento all’impegno che si impone come il principale. La più evidente
conseguenza è che proprio il prendersi cura della famiglia diviene, per le care
giver medesime, condizione restrittiva delle possibilità di scelta: sono le stesse
intervistate a testimoniare di come siano loro personalmente a prendere in
carico la cura familiare in senso lato e di come riassestino intorno ad essa il
loro quotidiano e l’intero percorso esistenziale.
Ad una scelta dichiarata consapevole corrisponde un bisogno insoddisfatto di tempo ricreativo che rivela altresì come esso complessivamente sia
percepito non opzionabile.
Alla richiesta di indicare di quante ore vorrebbero disporre per sé giornalmente (v. Tab. V13), emerge un certo realismo nelle risposte: quasi la
metà delle intervistate (46,9%) desidererebbe da una a due ore e circa, un
quarto (23,6%) di tre. Si noti inoltre che il 17% delle rispondenti si accontenterebbe anche di una sola ora. Fino a tre ore si concentra la più parte
delle risposte, mentre superano questo limite quante, più delle altre, potendo
rispondere liberamente optano per un tempo il più ampio possibile, a coprire le 24 ore o addirittura a superarle. Rimane comunque il pragmatismo
delle rispondenti che contiene entro un range limitato anche la misura di
un tempo personale.
Tabella V.13 - Quante ore al giorno vorrebbe avere per se stessa?
n. ore indicate
%
1
2
3
4
5
6
24
30
17,1
46,2
23,4
7,6
2,5
1,9
0,6
0,6
Più dell’indicazione numerica delle ore, risulta di interesse il modo in cui
le intervistate pensano impiegherebbero le stesse. Alla domanda seguente
CON I FIGLI...
181
«Come impiegherebbe questo tempo per sé?», posto che per molte questo
«sarebbe un miraggio» (22), per usare le parole di una delle rispondenti, le
risposte fornite in maggior parte fanno emergere un bisogno di estraneazione
dalle incombenze quotidiane, di rilassarsi, come scrivono in numerose: «Riposandomi e facendo attività per me rilassanti» (30). Per tali ragioni, in molti casi
le attività indicate sono più di una, di natura diversa dalle attività sportive
agli hobbies, alla lettura e lo studio: «camminare, scrivere, leggere, ricamare»
(13); «sport, lettura, cucito, ricamo» (1036); «una passeggiata, uno sport, leggere»
(1010); «andando in piscina, leggendo un bel libro, facendo un massaggio, stando
in silenzio, semplicemente in pace» (912). Gli interessi manifestati dalle intervistate appaiono molteplici, ma tutti attualmente sopiti dal menage quotidiano
familiare, incluso un bisogno di socialità che molte esprimono con l’uscire e
incontrare amiche: «fare lunghe passeggiate con le amiche per rilassarmi un po’»
(911); «uscire con amiche, andare per negozi, mercatini, per guardare e non necessariamente comprare» (949). L’andare per negozi è di frequente menzionato
come possibilità del tempo libero e in compagnia di altre persone adulte,
nella più parte amiche, ma anche figli e familiari. La socialità, unitamente
al coltivare interessi personali e culturali, riassume l’insieme delle esigenze
strettamente personali delle intervistate: «Per fare passeggiate, leggere, dedicarmi
a me stessa, incontrare le amiche» (34); «Leggendo, ascoltando la musica, facendo
più sport e facendo una vita più attiva dal punto di vista sociale e culturale»
(457). Le attività sportive insieme al prendersi cura di sé e del proprio
corpo, rappresentano una delle istanze più menzionate dalle rispondenti.
Se dunque ne avessero la possibilità si dedicherebbero, più di quanto non
facciano al momento, alla cura del proprio corpo e ad attività fisico-sportive.
I centri estetici, le palestre o le piscine sono i luoghi in cui si recherebbero
volentieri, questo per trovare soddisfazione ad una ritrovata cura di sé, ma
anche rilassarsi. È infatti il relax una delle questioni in sospeso; il bisogno
di rilassarsi tout court fa per molte passare in secondo piano lo specifico
del come trovare il modo per raggiungere effettivamente tale obiettivo. Il
bisogno di tempo così come viene espresso, rimanda in sé ad una serie di
necessità che originano dal complesso intreccio del quotidiano. È infatti in
questa dimensione che le donne tessono una tela volta a coprire primariamente i bisogni altrui. Il tempo per gli altri è una decurtazione del tempo
per sé, in un sistema di vasi comunicanti in cui quello della progettazione e
affermazione personale si svuota e si riempe in funzione della complessità
familiare. La partecipazione sociale è adombrata dalle contingenze che accorciano l’orizzonte di una progettazione esistenziale apparentemente contenuta nella dimensione del privato-familiare. Un contenimento che tuttavia
rimanda non ad una mancanza di aspirazioni, ma a bisogni insoddisfatti e
182
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
ricadute sulla qualità della vita personale, oltre che, con ragionevole ipotesi,
anche familiare tutta, nonché sociale. Al riguardo, così si esprime eloquentemente una delle rispondenti: «Spero che questo questionario aiuti a capire, a
chi di dovere, che le donne, sia residenti che non, hanno problemi di tutti i tipi,
a partire dal trovare un lavoro part time, alla crescita dei figli, a non riuscire ad
andare avanti, soprattutto economicamente. Ma secondo me, la cosa principale, è
riuscire a capire che noi donne abbiamo estremo bisogno di un po’ di tempo libero
per dedicare finalmente a noi stesse» (847).
V.3. Il territorio, i commenti, i suggerimenti
Il territorio in tutto ciò ha un ruolo di gran lunga significativo. È qui che le
vite delle persone prendono forma in una rete di relazioni, di opportunità e
non. Nella parte finale del questionario le intervistate sono state invitate a
valutare il territorio e i suoi servizi, da cui anche in questo caso, quella che
è stata denominata la pagella del territorio (v. Tab. V.14). Per le intervistate
con figli le valutazioni sono state espresse anche per le scuole di ogni grado e i servizi di trasporto scolastico, elemento non contemplato, per ovvie
ragioni, nel gruppo di intervistate senza figli. Gli aspetti considerati per
ciascun servizio sono relativi alla numerosità, qualità e orari: per ognuno
è stato espresso un giudizio numerico entro una scala tra 1 (minimo) e 10
(massimo). I risultati mostrano giudizi piuttosto severi. Alle scuole, fino al
grado di medie primarie, vengono attribuiti i punteggi più elevati, più per
la qualità del servizio e degli orari che per la loro numerosità/diffusione
sul territorio: «la scuola elementare è molto valida diciamo che è la migliore mi
dispiacerebbe se peggiorasse non si cambia qualcosa che funziona questa è la mia
idea!» (28). Gli asili nido raccolgono un punteggio decisamente più basso
rispetto al complesso dei servizi scolastici, in tutti gli aspetti considerati. La
presenza di asili nido, come emerso da più parti, anche dai commenti inseriti
nel questionario, è individuato come un punto critico, in quanto il servizio
è giudicato insufficiente per il fabbisogno complessivo del territorio.
A raggiungere la sufficienza è il servizio di trasporto scolastico: ancora
una volta l’opinione è più positiva per quanto concerne la qualità che la numerosità dei mezzi disponibili; in qualche caso viene segnalato un problema
di sicurezza dei bambini sui mezzi nel tragitto casa-scuola: «bisogna tutelare la
sicurezza dei bambini sugli scuolabus aggiungendo più personale oltre l’autista sugli
autobus» (11). Le scuole superiori sono poi giudicate più severamente; intorno
ad esse il giudizio è nettamente più negativo, specie per quanto riguarda la
numerosità degli istituti. Di fatti, la frequenza delle scuole superiori, come
183
CON I FIGLI...
testimoniano ampiamente le intervistate, comporta nella più parte dei casi
spostamenti e pendolarismi non propriamente agevoli.
Tabella V.14 - Pagella del territorio*
Scuole per l’infanzia
Scuole elementari, medie
Scuolabus
Negozi
Nidi
Scuole superiori
Uffici pubblici
Trasporti pubblici
Impianti sportivi
Strutture sanitarie
Servizi per il lavoro
Strutture ricreative
Media totale
Numerosità
Qualità
Orari
Media servizio
5,7
5,6
5,9
5,6
4,9
4,9
5
5
4,5
4,4
3,7
3,6
4,9
7,5
7,3
6,8
5,9
5,6
5,6
6
5,5
5,3
4,5
4,1
4,2
5,7
7,5
7,3
6,8
6,5
5,7
5,9
5,6
5,5
5,6
5,1
4,3
4,5
5,9
6,9
6,8
6,5
6,1
5,4
5,5
5,4
5,3
5,1
4,7
4,1
4,1
5,5
* Medie di punteggi attribuiti dalle intervistate in un intervallo da 1 (minimo) a 10 (massimo).
Come è emerso dalle interviste con le donne senza figli, la presenza sul
territorio di scuole superiori è ritenuta scarsa, cosa che comporta faticosi
spostamenti affidati a mezzi di trasporto pubblici, che non incontrano le
esigenze di mobilità dei residenti, ragione per cui viene attribuito un punteggio sotto la sufficienza. Nella parte più bassa della graduatoria, costruita
sulla base dei punteggi espressi, troviamo nell’ordine gli impianti sportivi, le
strutture sanitarie, i servizi per il lavoro e le strutture ricreative a ricoprire
l’ultima posizione. Se le intervistate con figli si pronunciano più severamente in merito alle strutture sanitarie, si noti come in entrambi i gruppi delle
intervistate (con e senza figli) a chiudere la graduatoria e nello stesso ordine
siano i servizi per il lavoro e le strutture ricreative.
Le strutture ricreative, insieme ai servizi per il lavoro e a quelle sanitarie,
sono giudicate negativamente da entrambi i gruppi di intervistate che vi
attribuiscono i punteggi comparativamente più bassi. Sugli impianti sportivi
è lievemente superiore il giudizio delle intervistate senza figli che probabilmente giudicano gli stessi sulla base di una fruizione personale basata su una
maggiore flessibilità di utilizzo, anche in termini di disponibilità di tempo
personale; diversamente qui la valutazione è formulata sull’accessibilità e
disponibilità delle stesse anche per i figli, quindi sulla base di esigenze mol-
184
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
teplici e diversificate. Le strutture ricreative, in ambedue i gruppi, chiudono
la graduatoria: anche i commenti scritti a chiusura del questionario evidenziano tale questione come centrale per la qualità della vita delle persone,
delle famiglie e dei più giovani, su cui invece il territorio è giudicato del
tutto carente.
Le strutture ricreative sono il vero punto debole, laddove esse rappresentano mancate occasioni di socialità per i residenti di tutte le età, come osserva
una intervistata: «Per il bene del paese, tutti compresi, adulti anziani, dovrebbero
esserci più organizzazioni, attività da svolgere, per i bambini dei giochi all’aperto
sparsi per tutto il paese, tipo altalene, scivoli, la fune, piscine al coperto, ecc.» (19).
Tale aspetto viene ripreso ampiamente dalle rispondenti anche nei suggerimenti che le stesse indirizzano agli amministratori locali e riportati in coda
al questionario. Complessivamente il territorio non è percepito come women
friendly, anzi viene sottolineata la mancanza di risorse e luoghi di incontro
dedicati alle donne e, in generale, come i servizi non tengano conto delle
loro esigenze «Osservate il territorio non c’è consapevolezza dei problemi e delle
esigenze delle donne, forse perché ci sono troppi uomini amministratori?» (947) si
domanda una delle rispondenti. D’altro canto, difficilmente vengono messe
a fuoco questioni che riguardino specificamente le donne come soggetti
autonomi o interventi ad esse indirizzati. Piuttosto le intervistate guardano
alla qualità della vita del territorio e formulano le loro proposte tenendo in
conto la popolazione nel complesso, a partire dalle loro numerose esigenze
di madri di famiglia.
Il questionario somministrato si chiude con l’invito ad esplicitare suggerimenti ad amministratori e amministratrici del territorio per interventi a
favore delle donne residenti6. La domanda è posta volutamente in senso generico per cogliere la declinazione del legame donne-territorio direttamente
dal punto di vista delle rispondenti. Ben 453 intervistate, vale a dire il 43%
del totale delle rispondenti, hanno fornito suggerimenti per migliorare la
qualità della vita delle donne.
In primo luogo vi è il tema del lavoro: «a tutt’oggi, nel 2008, per le
donne lavorare e crescere i figli contemporaneamente è una cosa assai difficile»
(19); «Spesso le donne sono costrette a scegliere la famiglia o il lavoro oppure ad
annullarsi completamente per poter fare tutte e due le cose e questo non è giusto.
Servirebbero degli orari più flessibili e delle leggi che tutelino maggiormente le madri perché il lavoro è una necessità ma anche un modo per realizzarsi» (915). Il
6
La domanda era così formulata: «Se potesse dare un suggerimento agli/alle amministratori/trici
del territorio in cui vive per migliorare la vita delle donne residenti, cosa suggerirebbe di fare?». La
relativa modalità di risposta prevista è aperta.
CON I FIGLI...
185
lavoro difficilmente accessibile o fonte di conflitto sia con il ruolo principale
di madre responsabile della cura familiare, sia con l’aspirazione futura di un
reinserimento lavorativo, in una forma comunque compatibile con quello
che è il ruolo di dispensatrice di cura: «Proporrei di garantire una maggiore
flessibilità dell’orario di lavoro in modo che tutte le donne possano lavorare ma
conciliando l’attività lavorativa con i numerosi impegni familiari» (452); «Dare
maggiori possibilità alle donne madri di lavorare part time in modo che possano
avere più tempo da dedicare ai figli e alla famiglia» (792); «Dare un contributo
economico per chi ha figli, per le casalinghe e dare il part-time a tutte o almeno
lavorare solo la mattina per poter stare con i figli» (31); «Maggiori flessibilità
lavorative, incentivazione del part-time e telelavoro, aiuto alle donne che lavorano
con esenzione dei contributi alle baby-sitter o collaboratrici domestiche, costituzione
di centri adeguati per i figli in orario di lavoro» (139).
C’è il bisogno e l’esigenza di lavorare: «lavoro part-time per le donne perché
è difficile conciliare il lavoro con la famiglia però questo è molto difficile trovarlo
e cercare di venire incontro anche nell’ambito lavorativo alle esigenze delle donne
con figli, costrette coi tempi che corrono ad avere un lavoro» (15); ma vi è altresì
la consapevolezza che essere madri significa essere penalizzate in termini di
accesso al lavoro, perché il territorio è ritenuto privo di opportunità per le
donne con figli, come segnala una delle rispondenti: «difficoltà nella richiesta di permessi per malattia dei figli, reali possibilità di collocamento lavorativo
per una donna giovane con figli» (6). La realtà lavorativa è nel suo insieme
percepita distante dalle donne, dalle madri e dalle funzioni che assolvono:
«sicuramente mi piacerebbe essere più tutelata nel caso di malattia di mia figlia,
dover ricorrere ogni volta alle ferie mi sembra denoti poca attenzione ai problemi
reali, comuni a molte mamme» (17).
Essere madri che lavorano vuol dire inoltre misurarsi con modelli di
cura che persistono in dissonanza con l’affermazione pubblica delle donne,
ponendo così le interessate in una situazione non risolta e contraddittoria, in
quanto tale più sensibile alle scosse del corso di vita, oltre che del mercato
del lavoro, per cui suggerisce una delle rispondenti: «Promuovere il part time
o l’orario ridotto per le mamme che lavorano, perché anche loro vorrebbero vedere
di più i loro figli e vorrebbero poter fare bene sia le mamme che le lavoratrici senza
compromessi e sensi di colpa, senza subire il sopruso di accettare senza possibilità
di scelta» (43). Il contesto è insomma tutt’altro che percepito come supportante, delle madri, delle famiglie, delle donne in particolare: «mi fa piacere
che la Provincia faccia questo monitoraggio riguardo la donna lavoratrice ed in
particolare che tenga conto del numero dei figli e delle condizioni famigliari che
pregiudicano fortemente la vita lavorativa. Si dovrebbe indagare anche sulle risorse
economiche dato che attualmente non c’è una politica di sostegno per le famiglie!»
186
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
(62). Il lavoro di cura è gratuito e dato per scontato, scarsamente apprezzato
in termini di valore per la comunità: «Valorizzare il lavoro della casalinga come
lavoro socialmente utile» (519). Ciò va a gravare su una definizione del ruolo
femminile deprezzato, deprivato di centralità nella sfera pubblica come in
quella privata: «secondo me sarebbe bene rivalutare la figura della donna in quanto
madre, moglie e soprattutto persona che guida una famiglia a proprie spese, senza
riconoscere il merito!» (4).
La condizione delle donne, così come ricostruita attraverso le analisi dei
risultati è stretta tra confini, pur modificabili, ma rigidi, che la sfera privata
determina sulla base di risorse economiche, culturali, ma più di tutto sull’essere donne ed esserlo in un contesto dove strutturalmente la partecipazione
femminile è più favorevolmente accolta nel privato e nel pubblico in maniera
discontinua e “flessibile”: «Dare lo stipendio alle casalinghe. La vita è molto
dura lavorando una sola persona in famiglia devono iniziare ad aiutare le donne
a casa che cercano di seguire i figli e crescerli come si deve – senza farli diventare
delinquenti perché hanno bisogno di una guida familiare» (521).
Ed è per tali ragioni che le richieste rivolte al territorio si indirizzano
numerose verso l’erogazione di servizi adeguati a sostenere un percorso
femminile anche lavorativo: «per una donna è importante la famiglia, i figli, ma
se non si hanno i nonni disponibili come fa una donna a lavorare? E tanto più si
ha bisogno di lavorare, tanto meno si può pagare qualcuno che tiene i figli! L’asilo
nido è caro, anche se comunale (Fossombrone); immaginiamoci quello privato! E poi
io sono fortunata che risiedo a Fossombrone ed ho il privilegio di essere un’utente
residente e chi abita ad esempio a S. Ippolito? Deve smettere di lavorare e poi con
cosa campa?» (22).
Le richieste di potenziamento dei servizi soprattutto per l’infanzia sono
dirette a colmare sia quella mancanza di redistribuzione dei carichi di cura
che non si realizza nel privato familiare e che qui non è problematizzata, sia
la debolezza delle reti di supporto: «più servizi disponibili per accudire i figli di
chi deve lavorare, specialmente orari migliori dei nidi/scuole che rispecchiano l’orario
lavorativo» (1015); «La donna che lavora ha bisogno di strutture appropriate con
personale qualificato dove poter lasciare i figli nel periodo estivo a prezzi ragionevoli o comunque tenendo conto del reddito familiare» (1012); «maggiori strutture
ricreative per i bambini con orari più elastici e che diano supporto anche durante
le vacanze estive» (908).
Gli asili nido sono spesso menzionati nei suggerimenti delle intervistate
e sono un annoso problema del sistema italiano, cui questo territorio non fa
eccezione. La penuria di asili nido consolida la fruizione degli stessi come
molto ristretta: vi si ricorre solo in caso di necessità, in mancanza di quella
che ancora oggi viene ritenuta la prima scelta, vale a dire la gestione fami-
CON I FIGLI...
187
liare della prole. Questo, non solo delegittima il servizio nella sua funzione
sociale e socializzante a vantaggio dei bambini più piccoli, ma finisce anche
per rinsaldare quel sistema di genere tradizionale che continua a rimanere
il fulcro dell’ordine sociale. Si noti che la richiesta di asili nido è declinata
come aiuti alle donne e comunque alle mamme che lavorano, ma non nella
direzione della condivisione: «Più scuole per l’infanzia e più asili nido per le
mamme che lavorano; questo rimane un problema delle donne: offrire più incentivi
retribuiti x chi lavora e fa la mamma a tempo pieno lo chiamerei bonus family”
(1045). I servizi esistenti dunque sono ritenuti insufficienti, così come le reti
di cura per le quali si chiede un maggiore supporto, soprattutto a colmare la
sospensione delle pause scolastiche estive e nelle emergenze quotidiane: «Un
servizio garantito, anche a pagamento, di assistenza per i bambini a domicilio, per
poter permettere alla donna di andare a lavorare senza il problema delle emergenze
per malattia o vacanze scolastiche» (1010). Il supporto delle reti parentali risulta
oneroso per le donne che si incaricano quotidianamente di una complessa
organizzazione, oltre ad essere giudicata non sempre la scelta più adatta per
i più piccoli per i quali occorrerebbero ambienti a loro misura: «organizzare
un dopo asilo, per permettere alle mamme di poter passare dopo il lavoro a ritirare
i propri figli in un luogo adatto e divertente per loro, e non lasciarlo ogni giorno
in luogo diverso (dalla zia, nonna, amici, zio)» (1).
Il bilanciamento delle sfere di vita e di lavoro risulta essere alquanto
difficoltoso nel vissuto delle intervistate, consapevoli di come e quanto i
problemi si intreccino; i suggerimenti vanno spesso a coprire aree differenti
di cui loro stesse sono il filo conduttore: «offrire assistenza a quelle donne in
stato di gravidanza con figli a carico piccoli; assistenza a donne che non hanno
possibilità di lasciare i figli in custodia per poter assolvere le loro commissioni;
integrare le donne (35 anni) nel mondo del lavoro» (67). Tra loro diverse, le
testimonianze delle donne rimandano ad una esigenza diffusa di maggiore
sostegno al ruolo di madri, lavoratrici e cittadine, da cui emerge uno scollamento espresso, tra l’altro, nella segnalazione di orari disarmonici con il
vivere quotidiano, dei servizi, degli uffici ecc. La questione che si pone al
territorio è di rendere più flessibili e adeguati ai ritmi di vita e lavoro gli
accessi, per esempio, ai pubblici servizi, prendendo definitivamente atto di
percorsi scanditi da ritmi discontinui e frastagliati: «Poter usufruire di alcuni
uffici pubblici anche nelle ore pomeridiane come ad esempio gli uffici postali o gli
uffici ASL» (1035); «aumentare l’apertura al pubblico di uffici pubblici e strutture
sanitarie (esempio servizio prenotazioni, vaccini, ecc..) in modo da consentirne
l’utilizzo a tutti senza difficoltà di orari» (6).
Le stesse istanze sono altresì poste al sistema scolastico nella sua organizzazione del tempo: «più flessibilità nel lavoro e più asili o tempo pieno a
188
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
scuola» (155). Gli orari di apertura delle scuole sono troppo rigidi e poco
diffuso è il tempo pieno. In controtendenza con le riorganizzazioni imposte
dal dettato normativo, che di fatto va a ridurre drasticamente l’apertura delle
strutture, la richiesta delle intervistate è quella di una estensione del servizio
scolastico: «Più servizi disponibili per accudire i figli di chi deve lavorare, specialmente orari migliori dei nidi/scuole che rispecchiano l’orario lavorativo» (1015).
Si esprime preoccupazione per le ricadute della riforma scolastica in quanto
percepita decurtante e dunque aggravante del già oneroso bilanciamento
vita-lavoro: «di non cambiare niente sugli orari, attività che offre la scuola, perché
d’ora in poi sarà peggio con le nuovi leggi che sono state fatte» (732). Si vorrebbe
peraltro un servizio non solo più esteso per orario, ma anche più ricco in
termini di offerta, per elevare qualitativamente le opportunità dei più piccoli:
«più asili nido, scuola a tempo pieno, più attività per bambini» (23). I periodi
estivi costituiscono un problema per molti nella gestione dei figli. Negli
ultimi anni vita e lavoro hanno subito una profonda divaricazione, laddove
il tempo produttivo ha sempre più dettato il passo del tempo privato. Per
le famiglie, per le donne più di tutti, questo significa disponibilità di risorse
di cura in proprio o esterne al nucleo familiare. Si è dunque ampliata l’area
del fabbisogno di cura mentre l’erogazione di servizi si è andata riducendo,
facendone tuttavia crescere la domanda: «attività pomeridiane per bimbi, anche
attività per il periodo estivo» (243); «attività che possano andare incontro alle
mamme lavoratrici come dopo scuola oppure dei campi scuola o attività ricreative
durante periodo estivo» (66). Non si manca poi di mettere in evidenza che
la gestione del tempo libero dei figli è spesso in contrasto con gli orari
lavorativi; un ulteriore svantaggio per le madri che lavorano e i loro figli:
«Avere una piscina per fare imparare a nuotare i miei figli in orari fuori orario
di lavoro cioè dopo le 18.30» (1012).
Alla scuola le donne si rivolgono perché si avvicini alle richieste delle
famiglie e alle esigenze dei bambini, andando a supplire definitivamente a ciò
che sul territorio risulta essere più scarsamente disponibile, almeno di non
effettuare frequenti e faticosi spostamenti. Si tratta di strutture per il tempo
libero che si chiede siano più presenti e capillarmente diffuse nel territorio,
possibilmente di residenza: «prolungamento orario scolastico, nel pomeriggio fare
attività sportive, ricreative per i ragazzi» (223); «suggerirei di creare più strutture
per la crescita e l’istruzione dei bambini, per lo sport e il tempo libero» (70). Si
pensa a luoghi anche di socialità, luoghi di incontro per tempo libero da
trascorrere insieme ai figli: «altre attività extra scolastiche per passare il tempo
insieme ai figli» (134).
Le attività ricreative, oltre a rappresentare per molti un onere economico, sono altresì svantaggianti proprio in quanto non disponibili sempre nel
CON I FIGLI...
189
comune di residenza o nell’area in cui si risiede: «Suggerirei che l’istruzione
scolastica sia di 5 giorni da lunedì a venerdì a tempo pieno in modo che i bambini
quando tornano a casa non abbiano i compiti, così noi madri avremmo più tempo
per giocare con loro e seguirli anche nelle attività visto che nelle ore scolastiche non
sono previste attività oltre a un’ora di fisica e forse sarebbe ora che il catechismo
e le attività vengano inserite nell’orario scolastico... Molte osservazioni sono esatte
ma non sono state affrontate questioni molto importanti ad esempio perché si fanno
sempre meno figli e che far fare un’attività ai figli extra come calcio, tennis, pallavolo, nuoto, ecc., per le famiglie è un’ulteriore spesa e soprattutto tempo che non
tutti possono permettersi» (509).
I suggerimenti vanno verso un’idea di territorio arricchito di opportunità
«avere più strutture ricreative, impianti sportivi, servizi, asili nido» (61). La lontananza dalle strutture sportive è un ostacolo che ne rende diseguale l’accesso.
Mentre il trasporto collettivo da e per le strutture scolastiche è giudicato
soddisfacente, gli spostamenti per le attività extra scolastiche implicano una
complessa gestione: «aumentare strutture ricreative ed impianti sportivi in modo
da evitare ai genitori continui lunghi spostamenti con conseguenti perdite di tempo
e facendo così in modo che i bambini e ragazzi abbiano tutti modo di esercitare attività sportive di vario genere» (28). La distanza dalle strutture sportive
comporta non solo un incremento dell’uso del mezzo privato, ma anche
un accrescimento della dipendenza dallo stesso. La struttura del territorio,
rappresentata da un insieme di numerosi piccoli comuni, ha al suo interno
una differenza sostanziale proprio in termini di opportunità del tempo libero,
tra piccoli e più grandi comuni: «strutture ricreative, trasporti pubblici anche
nelle frazioni» (40). Il territorio appare percepito in una contrapposizione
centro-periferia. Quella tranquillità del vivere menzionata dalle intervistate
senza figli, ritenuta a misura di persona, sinonimo di una elevata qualità della
vita locale, viene invece offuscata nella percezione delle intervistate con figli,
le quali tendono a sottolineare le necessità del quotidiano e le difficoltà nel
dare risposta alle numerose esigenze delle famiglie e della crescita dei figli. I
piccoli comuni sono percepiti relativamente più poveri di occasioni e maggiormente vincolanti nella misura in cui dipendono dalla possibilità/capacità
di mobilità in proprio sul territorio.
Come già rilevato questo crea una divisione funzionale territoriale, per
cui alcune aree diventano il punto di riferimento per il divertimento e il
tempo libero, mentre altre rimangono strettamente ancorate ad una identità
prettamente residenziale. Queste aree rischiano un impoverimento di socialità, acuito, a sua volta, da uno sviluppo urbanistico recente che ne ha mutato
la conformazione nel senso di una maggiore dispersione sul territorio ed
un’accresciuta eterogeneità, intaccando, così, i confini materiali e simbolici
190
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
della “comunità” originaria. Per tutte queste ragioni molti suggerimenti sono
indirizzati verso una valorizzazione del territorio che passa attraverso le
strutture per il tempo libero, accessibili a varie fasce della popolazione: «creare qualche luogo per attività sportive per donne, per bambini» (33); «il territorio
dovrebbe arricchirsi di locali addetti ai bambini come spazi ricreativi-ludici, locali
come consultori familiari e strutture sportive» (840). La questione della qualità
della vita è posta dalle intervistate con figli con toni accesi sulla urgenza
con cui sarebbe opportuno affrontarla: «Incentivare servizi offerti; più nidi,
impianti sportivi e strutture ricreative. Migliorare la vivibilità ossia la possibilità
di potersi muovere con passeggini» (502); «impianti sportivi con piscina, scuole di
danza classica e moderna qualificate, asilo nido, sia per le donne che per i propri
figli» (1001). In ciò rientra anche la disponibilità di tempo, un’aspirazione
importante in termini sempre di qualità della vita personale e familiare: «Dare
più tempo libero per migliorare l’andamento familiare» (11).
Infine, ma non per minore rilevanza, vi sono i suggerimenti che riguardano la socialità, declinata come esclusivamente dedicata alle donne oppure
insieme ai loro figli o, ancora, occasioni estese alle diverse fasce di popolazione indistintamente: «creare dei centri di incontro sia per sole donne sia per
mamme con i loro figli dove si possa parlare ma anche giocare» (1033); «suggerirei di
non sprecare locali, esercizi lasciandoli vuoti e farli rovinare dal tempo, dovrebbero
offrire per le donne dei corsi in orari serali di qualsiasi tipo» (51); «organizzare
punti di incontro/informazione dedicati alle donne e alle loro esigenze (lavoro, cura
dei figli, ecc); creazione anche nelle realtà locali delle “banche del tempo”» (33);
«organizzare corsi serali di lingua inglese, informatica, ma anche corsi di aerobica,
fitness in genere. È importante secondo me frequentare persone anche al di fuori
della famiglia aiuta a mantenere la mente aperta» (68). Iniziative diverse fra loro
sono proposte tutte con lo scopo di rendere maggiormente vivace la vita
sociale locale, investendo principalmente sull’aspetto culturale e su quello
relazionale familiare: «proporre iniziative per metterci in relazione noi e le nostre
famiglie, proporre corsi formativi per sostenerci, proporre iniziative culturali» (30).
Il bisogno espresso in tal senso risulta essere urgente e diffuso. Mentre alcune
intervistate esprimono un desiderio di socialità tra donne, si preoccupano al
contempo di come questo vada a ricadere sulla gestione dei figli. Godere del
tempo libero per le intervistate implica aver risolto la gestione e affidamento
dei figli: il tempo per sé è possibile solo attraverso un’organizzazione del
tempo dei figli e, in ogni caso, appare un affare esclusivo tra madre e figli:
«suggerirei di fare delle riunioni di solo donne, fare cose creative con annessa una
baby-sitter per guardare i figli» (140).
L’attesa di investimento culturale e formativo specificamente verso le
donne, viene in primo piano attraverso le parole scritte da numerose intervi-
CON I FIGLI...
191
state, che rivelano una concreta aspirazione di partecipazione e di fuoriuscita
da un menage familiare in tal senso limitante: «Dare maggiore possibilità circa
gli eventi, attività, informazioni che riguardano il mondo femminile e familiare
attraverso l’invio non solo periodico, ma continuo di materiale informativo» (1000);
«dare più aiuto psicologico organizzando riunioni specifiche per donne» (1034);
«si potrebbero fare incontri serali su diversi temi: pedagogici, ambientali, rapporti
familiari. Fare dei corsi (alla mattina) per le ragazze e signore che non hanno
titolo di studio ma che vorrebbero entrare nel mondo del lavoro» (1057).
V.4. Conclusioni
I risultati della ricerca ben evidenziano come rilevante sia il legame con il
contesto e le sue specificità nella comprensione dei percorsi singoli e collettivi. D’altro canto, tenendo in considerazione la prospettiva di genere, essa
conduce ad una lettura complessa di una realtà assunta a modello di uno
sviluppo italiano che si vuole maggiormente redistributivo rispetto al capitalismo industriale da grande impresa. Il sistema produttivo tipico della Terza
Italia, cui il territorio analizzato è ritenuto far parte, si fonda su un ordine
sociale di genere che trova il suo fulcro in una debole inclusione lavorativa
delle donne. Sono le intervistate a descrivere questa realtà: mentre la partecipazione socio-lavorativa è soggetta nel corso di vita a costante ridefinizione,
la sfera privata rimane stabile annessione al ruolo di genere femminile. Si
delinea un legame sessuato con il territorio entro cui si disegnano percorsi
diseguali: accesso alle risorse, autodeterminazione, complessità della gestione
del lavoro domestico e di cura, autonomia finanziaria, sono gli ambiti entro
cui si misura un’ampia diseguaglianza con gli uomini e opportunità tutt’altro
che in pari. Le opportunità per le donne sono sensibili ai carichi di cura
familiare, al numero dei figli, alla disponibilità di reti primarie di supporto.
Si tratta di elementi di discrimine rilevanti nel definire di volta in volta la
condizione delle donne, la cui peculiarità è quella di essere soggetta a continue rideterminazioni correlate in primis agli eventi del ciclo di vita, che
invece non investono altrettanto i loro partner. Ne risulta che sono le donne
a vivere uno stato per definizione instabile e precario tra vita e lavoro.
Le comunità in cui le intervistate vivono appaiono altresì coinvolte da
processi di mutamento, innescati da una parte dalla crisi economico-produttiva che sta ridisegnando le geografie lavorative locali, dall’altra da una inedita
mobilità territoriale che articola in una maggiore complessità la composizione demografico-culturale locale. L’espansione recente della popolazione,
attribuibile in buona parte a flussi migratori di popolazione straniera in primo
192
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
luogo, ma con significative componenti di provenienza extracomunale ed
extraregionale, non solo fraziona una comunità consolidatasi da lunga data
sulla stabilità residenziale e sulla omologia di provenienza, ma introduce
variabili di diseguaglianza economica rilevanti intorno ai tradizionali capitali
di riserva su cui la popolazione autoctona può far conto, contrariamente
a quella di nuovo arrivo. I nuovi residenti si trovano in una condizione di
maggiore dipendenza dalla fonte del reddito lavorativo, mentre sradicati
vivono una privazione relativa per esempio intorno alle reti di cura, che,
come si vede anche dalla ricerca, sono un vantaggio competitivo in termini
di partecipazione lavorativa per le donne con figli, con altrettanto rilevanti
effetti sul reddito familiare. Vi è dunque da ipotizzare che, non mutando le
condizioni, le fratture potranno persino acuirsi non solo intorno all’appartenenza di genere, ma intorno a quelle fonti di sostentamento e supporto cui
non è possibile accedere sia per una mancanza di servizi adeguati, sia per
lo sradicamento e la riconfigurazione della composizione della popolazione
residente locale.
Il contesto in cui è stata svolta la ricerca, accanto a tassi mediamente
elevati di occupazione e di attività, rivela una debolezza strutturale della
partecipazione lavorativa femminile, che si può cogliere e descrivere solo
guardando alla costruzione dei percorsi dalla limitata portata di autodeterminazione. Non trascurabilmente questo entra in contraddizione con le priorità individuate dalle donne intervistate. L’importanza dell’avere un lavoro
è chiaramente affermata nelle loro risposte, pur dentro tracciati lavorativi
frastagliati che accorciano l’orizzonte di progettazione esistenziale, ancorandolo al presente. L’assenza di frattura nello sviluppo economico produttivo
si è fondato sul mantenimento funzionale di una frattura tra i generi. Ciò
ha permesso l’utilizzo delle risorse disponibili, umane e territoriali, senza
mettere in discussione l’ordine sociale esistente, soprattutto dal punto di
vista delle relazioni tra i sessi.
Esiste una continuità tra i meccanismi di riproduzione del sistema economico locale e di quello socio-culturale, per cui ne risulta un’assenza di
problematizzazione della relazione tra i sessi che non appare su questo piano
conflittuale. Viceversa, è in questo sistema locale che si sostiene un ordine
sociale di genere la cui rigida divisione del lavoro appare più immobile
intorno alla cura. Di fronte ad un modello produttivo locale che privilegia
l’inclusione lavorativa e la partecipazione sociale più ampia degli uomini,
prevale da parte delle donne un’aspettativa di gestione monopolistica del
carico di lavoro di cura e domestico, attraverso l’interiorizzazione di quel
modello di riferimento di care giver, declinato, pressoché esclusivamente, al
femminile. Cosa che induce le donne a comprimere il tempo di lavoro (ora-
CON I FIGLI...
193
rio, esperienze lavorative frammentate e discontinue) e al contempo persino
a maturare un’aspettativa di compressione dello stesso. Ne consegue una
riduzione dei gradi di libertà, di progettazione di percorsi di vita e soprattutto
di lavoro. L’imperativo del primum curare rappresenta un tacitum su cui si
basa l’orientamento femminile verso un modello oblativo, il cui radicamento
costituisce uno dei principali fattori di rischio di riproduzione dei due principali squilibri, lavorativo e di cura. La problematicità, in termini di fatica
quotidiana e di difficoltà delle donne a progettare e realizzare le proprie
aspirazioni, non si traduce in messa in discussione del sistema di relazione tra
i sessi. E la problematicità che non si declina in dialettica mostra un’assenza
di tensione verso il cambiamento. Criticando il riferimento a Penelope nel
titolo del progetto di ricerca, scrive risentita una delle intervistate: «Il titolo
fa schifo sappiamo tutte di essere schiave di figli e mariti, ma non c’è bisogno di
ricordarmelo» (575).
CONCLUSIONI
Pesaro 2011: sono già due domeniche di seguito che, andando a prendere
mia figlia alla messa domenicale, ascolto il saluto del sacerdote che conclude la celebrazione augurando buon pranzo e aggiungendo la speranza
che le “mamme” abbiano preparato qualcosa di buono. Missa est! Mentre
fuori dalla chiesa, nelle chiacchiere tra conoscenti, la conversazione ricade
inevitabilmente sull’affanno settimanale che accompagna la vita delle madri
nel comporre una esistenza sfaccettata e ricca di richieste di impegno. Mi
colpisce il commento di una delle presenti che, giustificando il pressocché
totale disimpegno paterno e domestico del coniuge, chiosa: «é che a noi
donne ci frega la maternità!». Un’affermazione lapidaria che in poche parole
fotografa la condizione di madre come vincolo, come deprivazione in termini
di opportunità di scelta, cosa che neppure sfiora, neanche a dirlo, la paternità
complementare. Un affare di donne o meglio di madri. Una maternità che
diventa “una fregatura” perché impone di rimanere il più possibile ancorate
a modelli e ruoli tradizionali con ricadute e costi personali nella misura in
cui da essi ci si discosta. È così che ci si garantisce un (buon) pranzo domenicale, è così che persistono insolute le contraddizioni.
Questo è il paese in cui risulta ancora radicata e diffusa l’idea che i bambini piccoli soffrano quando la madre lavora (Saraceno, 2005): forse anche
per questo è anche il paese in cui i figli piccoli “soffrono” meno che in altri,
giacché le madri italiane sono molto meno presenti delle altre europee e
non solo sul mercato del lavoro!!! Questo è il paese in cui una donna su
due, secondo le più recenti stime, non lavora né cerca lavoro, certamente
non solo per prevenire la sofferenza di presenti o eventuali futuri figli che
divengono sempre più rari. Una riflessione sull’orientamento preventivo del
mercato, delle istituzioni e delle stesse donne su un ruolo femminile-materno
assunto come dominante e per definizione in contraddizione con una presenza attiva sul mercato del lavoro, come in altre sfere della vita pubblica,
va fatta. È infatti nel sedimento culturale della divisione dei ruoli, di questo
cristallizzarsi di una cultura persistentemente discriminatoria che neppure
196
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
le politiche pubbliche giungono mai. Di qui la loro debolezza e scarsa efficacia. D’altro canto pensare politiche pubbliche volte a ripianare l’antico e
attuale divario di genere significa districare il groviglio di una diseguaglianza
che appare fondativa e che non informa le politiche pubbliche, al contrario
assume le donne come soggetti a se stanti, lasciandole in tal modo legate
ai problemi di cui divengono latrici.
Come si innestano politiche di conciliazione su un sostrato culturale
che dal livello nazionale a quello locale insistono su tale modello di donnamadre-martire della cura? È chiaro che introdurre il concetto di parità in
tale contesto appare costantemente una sfida i cui esiti appaiono distanti
e difficilmente prevedibili. Ma la sfida diviene ancora più complessa se la
stessa ricerca intorno alla conciliazione non manca di cadere in trappole
sessuate che finiscono per rinforzare quelle iniquità all’origine del profondo
svantaggio relativo delle donne, specie delle donne italiane, specie delle donne che nelle realtà locali fanno individualmente e quotidianamente i conti
con barriere culturali del sistema sociale, produttivo che hanno tracciato nel
tempo i confini del ruolo femminile entro uno spazio secondario, subalterno
a quello maschile.
Forse non si dovrebbero neanche più formulare domande siffatte, almeno di non porre il ruolo materno e paterno sullo stesso piano di rilevanza
dal punto di vista della presenza e della cura dei figli, almeno di non focalizzare non le donne o gli uomini singolarmente, bensì la “distanza di
genere” che li separa. Spostare l’osservazione su un piano paritario appare
già infatti un salto di qualità che rovescia la prospettiva del problema delle
donne di conciliare, almeno per quel che concerne il contributo dello studio e della ricerca. Un obiettivo tanto più urgente quanto più da essa, da
quella distanza di genere di fatto, la politica tende ad allontanarsi. A fronte
della divulgazione degli ultimi dati Istat 20111 che misurano la drammatica e progressiva esclusione femminile dal mercato del lavoro, la risposta
di intervento sul piano politico si conferma parziale, focalizzata su azioni
particolari2, che non guardano al sistema e tanto meno lo pongono in
1
I dati si riferiscono alla rilevazione effettuata nel mese di settembre 2011. Si veda www.
istat.it.
2
«Per aumentare l’occupazione femminile è già stata siglata con i sindacati una intesa per
la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che consentirà maggiore flessibilizzazione del
part time e abbiamo inserito nel decreto Sviluppo la possibilità di accordi tra il datore di
lavoro e la lavoratrice che permettano a chi ne ha bisogno di poter avere a disposizione asili
nido aziendali in cambio di una trattenuta sulla retribuzione”, ricorda Carfagna. “Considerato
poi che il cuore del problema della scarsa occupazione femminile è nelle Regioni del Mezzogiorno, abbiamo voluto inserire nel Piano per il Sud misure che consentiranno, attraverso
CONCLUSIONI
197
discussione, semplicemente agiscono parzialmente3 sulle singole difficoltà
delle donne e dunque hanno una buona probabilità sia di fallire il raggiungimento dell’obiettivo denunciato, far crescere l’occupazione femminile, sia
l’obiettivo qualitativo più ampio da cui il primo discende, vale a dire di
favorire un miglioramento complessivo della struttura socio-occupazionale.
Le soluzioni individuate sono quelle oramai divenute consuete: favorire il
part time, la flessibilizzazione del lavoro al fine di permettere alle “donne”
(e solo ad esse) di conciliare meglio tempi di vita e di lavoro. Del tutto
fuori mira della politica sono oramai la parità, la redistribuzione, la qualità
della vita e con essa dei servizi, collocato il tutto dentro e non fuori del
sistema di relazione tra i generi.
Certamente il lavoro e un accesso non iniquo è centrale per un riequilibrio delle condizioni esistenziali delle persone, trasversalmente ai generi, alle
generazioni e anche alle discontinue realtà territoriali tenute geograficamente
insieme nel nostro stesso paese, cosa peraltro tutt’altro che scontata sul piano
sociale, culturale e vieppiù politico. Ma il lavoro di per sé non contribuisce
a determinare migliori condizioni e paritarie per le donne. L’enfasi sull’avvenuta crescita di partecipazione femminile al mondo del lavoro ha coperto
i pilastri della diseguaglianza che nel tempo hanno preso il sopravvento: sia
il bisogno di lavorare, sia la più ampia attesa di lavoro maturata dalle donne
negli ultimi decenni, viene oggi disattesa dall’esaurirsi di risorse lavorative
disponibili, accessibili sia sul piano della quantità, sia sul piano della qualità. Quantitativamente è per le donne che il lavoro oggi si dimostra meno
disponibile, qualitativamente il suo accesso non necessariamente conduce a
livelli “decenti” di occupazione ed esistenziali.
L’elevata partecipazione delle donne al mercato del lavoro è stata spesso
una sorta di abbaglio che ha allontanato lo sguardo sulla capacità di radicamento delle donne soggetti, lavoratrici e cittadine. Specie, questo, in alcune
realtà produttive locali dove la virtuosità del modello adottato ha reso le
stesse immuni da messe in discussione, prevalendo la positiva accettazione
della capacità di produrre reddito e ricchezza. La mal distribuzione della
stessa diventa evidente solo oggi, quando la crisi economica, lo stallo demografico e il non remoto pericolo di impoverimento, mettono a rischio
l’intero sistema. Mentre si mettono a punto nuovi indicatori di benessere,
incentivi fiscali, la stabilizzazione di lavoratrici precarie in zone svantaggiate e maggiore diffusione dell’apprendistato”, aggiunge il Ministro. “Questo impegno, che si affianca alle risorse
stanziate dal Dipartimento per le Pari Opportunità già assegnate alle Regioni per potenziare
le misure di conciliazione e aumentare i servizi per le lavoratrici, darà certamente e in tempi
rapidi buoni frutti”, conclude il Ministro» (www.pariopportunita.gov.it, 30 ottobre 2011).
3
Si veda riferimento nel capitolo secondo del presente libro.
198
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
che vedono coinvolto con un ruolo primario proprio il territorio su cui si
è svolta la ricerca di cui si è ampiamente dato conto nel presente lavoro,
questo è di fatto eroso nella pratica quotidiana. Ad avere maggiore affanno
sono le donne. Cedendo loro direttamente la parola ne emerge una condizione di integrazione sociale e lavorativa mai compiuta e mai giunta al
consolidamento di status paritario con gli uomini. La diseguaglianza dei ruoli
e dei percorsi è testimoniata dalle intervistate come fatta propria: «gli uomini
non hanno il problema della famiglia, dei figli» (S3), afferma con decisione una
delle intervistate. Questo, mentre spegne la dialettica tra i ruoli maschili e
femminili sul piano del divario di partecipazione pubblica a tutto campo,
non diminuisce le difficoltà delle donne di farsi avanti in un quotidiano in
cui la dimensione privata pone ostacoli insormontabili. Ma non li pone agli
uomini, né queste donne si aspettano che ciò accada.
Ciò che più di tutto l’analisi condotta su un territorio modello di sviluppo
dell’Italia del capitalismo molecolare ha messo in evidenza è innanzitutto
una divaricazione tra crescita economica e culturale. Da qui l’osservazione
di contraddizioni che ricadono direttamente sulle scelte e sui percorsi delle
donne. Per le giovani intervistate del gruppo di donne senza figli stare a
casa non è neppure messo in conto, piuttosto adattano le loro aspirazioni
lavorative alle opportunità sul territorio. Nell’adattarsi fanno i conti con
limitazioni di opportunità stabili e incrementali, adeguate alle loro aspirazioni, ai loro percorsi di studio. Elaborano tali limiti come esclusivamente
o principalmente delle donne. Per il fatto di attendere una maternità futura
o di percepire il cammino femminile inevitabilmente segnato dalla tappa
della maternità, non mostrano atteggiamenti rivendicativi, bensì accettano
il sistema entro cui si muovono, cercando di ottimizzare per sé le risorse
disponibili. Si traccia così un corso di vita che va inevitabilmente incontro
ad una riduzione del tempo per sé, come del tempo da dedicare al lavoro o
a qualsiasi altra forma di partecipazione pubblica. La parità con gli uomini
non è in gioco, né problematizzata, ma semplicemente assunta. Il lavoro e
la famiglia sono tenute insieme in qualità di mete a cui tendere. Il progetto
di vita non ha una scadenza nei loro orizzonti, tuttavia, entrambi i gruppi
di intervistate, con e senza figli, non si spingono a compiere una scelta
definitiva, né si sentono in grado di compierla. È nell’aspirazione al lavoro
che mantengono tutte (o quasi tutte) viva la tensione verso la realizzazione
di obiettivi magari lontani, che vanno oltre il superamento del limite invalicabile dell’occuparsi di far crescere i figli. I progetti sono di lungo periodo
mentre le difficoltà del presente sono quelle che disegnano percorsi distanti
e talvolta opposti rispetto agli uomini e ai loro stessi partner. La parità
non è una criticità, ma una questione di giustizia misurata sugli stili di vita
CONCLUSIONI
199
consolidati delle donne loro contemporanee, in cui l’autonomia riveste per
tutte un ruolo centrale.
C’era una volta... lo stato sociale dalla culla alla tomba. Oggi lo stato
sociale ha più tombe che culle. Le conseguenze di ciò sono amplificate nel
quotidiano delle donne. La ricerca condotta mostra nettamente come le
donne svolgano un ruolo sussidiario rispetto sia a servizi, che debolmente
coprono le necessità presenti e tantomeno giungono a promuovere migliori
livelli di qualità della vita, sia rispetto ai loro partner, la cui partecipazione al
lavoro di cura e domestico risulta tutt’altro che paritaria. Le trasformazioni
del territorio in termini di composizione demografica della popolazione,
mostrano un accorciamento delle reti di cura per cui si appesantisce il carico delle donne, in un quotidiano che diventa un’organizzazione a difficile
incastro, a tutto detrimento del tempo per sé. Per le donne con figli il
tempo per sé si contrae drammaticamente. Sia il tempo ricreativo, sia il
tempo che dedicano al lavoro, dunque il tempo della propria autonomia. Le
donne senza figli, se il tempo per sé è tutto sommato disponibile, mostrano
comunque una consapevolezza che a fronte di una scelta di maternità sarà
invece decurtato, mentre al presente ciò che pesa di più è la mancanza di
occasioni qualificate e qualificanti in cui spenderlo. Per entrambe l’aspettativa si rimodula su livelli di presenza e partecipazione al mercato del
lavoro locale come “minore” rispetto agli uomini. Persino la crisi presente è
percepita quale fattore di riassestamento delle opportunità che privilegiano
e domandano uomini.
È nel territorio che le rispondenti individuano le cause delle difficoltà:
mancanza di servizi adeguati, scarse opportunità di lavoro e del tempo libero.
Frattanto allo stesso tempo è al territorio che rivolgono istanze di supporto
ad una conciliazione che per tutte è prettamente una questione femminile:
in esso sono radicate e si riconoscono. È qui che si esercita la peculiare
abilità e fatica delle donne del riuscire a far tutto senza sottrarsi per primo
all’erogazione di quella cura che diviene tanto più preziosa quanto più è il
sistema ad indebolirsi. Il quotidiano riferito dalle donne è un dato imprescindibile per comprendere le pratiche che indirizzano le scelte individuali,
per comprendere le ragioni che portano a disegnare interi sistemi sociali,
come quello esaminato, sul contributo femminile costantemente riadeguato
funzionalmente alle istanze contingenti. Quello che emerge è il ritratto di un
territorio complesso, in rapido mutamento e sostanzialmente fermo su una
divisione sessuata del lavoro che ab origine parzialmente include le donne.
Queste ultime appaiono in grave difficoltà, ma contraddittoriamente conformi a quel tacitum del primum curare che fonda le relazioni intergenere nella
realtà locale. Problema questo non risolto che, al di là delle aspirazioni locali
200
LA COMPLESSA TESSITURA DI PENELOPE
alla felicità e al benessere, porta in primo piano un significativo divario tra
sviluppo economico e benessere locale, tanto più si tiene in conto il sistema
di genere. Ovviamente se la ricerca ha il compito di indagare e porre in luce
i problemi, la politica ha quello di prenderli in carico e tendere a risolverli.
L’obiettivo del benessere sul territorio non può prescindere dal prendere atto
di tale divario che solo interventi di riqualificazione del vivere locale possono
colmare. La messa a punto di indicatori statistici, per quanto ad arte costruiti,
non può sostituire il permanere di obiettivi politici: essi perseguono obiettivi
conoscitivi (utili e necessari) e non politici (necessari e urgenti).
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