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Review: Chris Wickham, Sonnambuli verso un nuovo mondo. L’affermazione dei comuni italiani nel XII secolo, Roma, Viella, 2017

in «Archivio storico italiano», 175 (2017)

CHRIS WICKHAM, Sonnambuli verso un nuovo mondo. L’affermazione dei comuni italiani nel XII secolo, Roma, Viella, 2017, pp. 239, euro 26,00. Il volume (traduzione dell’originale inglese, uscito nel 2015) rappresenta il punto d’arrivo di una ricerca pluridecennale sulla società italiana, tra la crisi delle strutture politiche d’origine carolingia e il sorgere del mondo comunale. Una sintesi che, in poco più di duecento pagine, concentra una gran mole di risultati. Con la sua prosa brillante, il gusto per le metafore ardite e talvolta provocatorie, Wickham riesce a restituire concretezza a tematiche spesso considerate troppo astrattamente dagli autori italiani. Nonostante il sottotitolo, comunque, questo non è un libro sui comuni, almeno non nell’accezione corrente del termine “comuni”. L’autore, infatti, ha scelto di spingere l’analisi solo fino al 1150, proprio quando i comuni assunsero la forma idealtipica che si studia sui manuali: collettività urbane autoconsapevoli, dotate di ampia autonomia politica e dirette da magistrature elettive con incarichi a scadenza. Prima del 1150, appunto, l’idealtipo non si era ancora completamente affermato e ogni città presentava caratteristiche proprie: varie denominazioni della magistratura di vertice (in seguito, quasi sempre, il “consolato della città”), assenza o intermittenza di questa magistratura; varie, inoltre, erano le competenze delle quali potevano esser dotati i primi gruppi dirigenti cittadini. Non possiamo chiamare questi regimi politici “comune”: non solo perché, in effetti, essi non corrispondono alla sua immagine idealtipica, ma anche perché ciò significherebbe averne già in mente lo sviluppo futuro e presentarlo come una necessità storica. Questo atteggiamento teleologico è uno degli idoli polemici di Wickham. Spesso, infatti, si è guardato alla storia delle città italiane del Centro e del Nord come a «uno dei passaggi obbligati verso il mondo moderno» (p. 11). Se è vero che, su vari fronti, quelle città introdussero innovazioni, è altrettanto vero che i protagonisti di quella stagione non sapevano di lavorare a qualcosa di stabilmente nuovo, né, forse, lo desideravano. Il punto, per Wickham, non è ridimensionare l’originalità italiana nel quadro delle città europee (ciò che, invece, è stato fatto da altri autorevoli studiosi, come Philipp Jones); il punto è, semmai, valorizzarne ancor più l’esperienza mostrando tutte le strade percorse in questa età di autentica sperimentazione, anche quelle più distanti dall’idealtipo. Ecco perché il libro si intitola Sonnambuli verso un nuovo mondo: il mondo nuovo è quello della piena e consapevole autonomia urbana, sonnambuli sono i gruppi dirigenti che non avevano alcuna idea di dove li avrebbe portati la strada intrapresa. Resta il problema di dare un nome a questa età, che fino a oggi chiamavamo pre- o proto-comunale e che possiamo convenzionalmente collocare tra il 1050 e il 1150. Anche per valorizzare il coraggio lessicale di Wickham, la chiamerò “età dei sonnambuli”. Il filo del ragionamento muove da un paio di assunti fortemente innovativi, i quali, però, vanno contestualizzati e spiegati più di quanto non faccia l’autore. Il primo è la considerazione che la parola commune nell’età dei sonnambuli non è usata come sostantivo, ma soprattutto come aggettivo e in funzione avverbiale. Ottavio Banti lo aveva detto più di quarant’anni fa, ma Wickham insiste sull’aspetto dinamico di questa nozione di “comune”, potremmo dire sull’accezione avverbiale del termine: fare le cose collettivamente, communiter. La migliore caratteristica del volume è proprio questa: cogliere le peculiarità politiche dell’autogoverno urbano come modalità dell’azione concreta e non come astratte definizioni. Il secondo assunto è un ripensamento della tesi di Maire Vigueur sui milites cittadini. Wickham fondamentalmente accoglie l’idea che i sonnambuli fossero i milites di Maire Vigueur: un gruppo sociale dalle disponibilità economiche varie, comunque non eccelse, impegnato direttamente nella difesa e nel governo della propria città. Egli crede, però, che all’interno del gruppo possano cogliersi delle significative differenze sociali e che l’interazione tra le varie componenti possa spiegare sia i mutamenti politici di quest’epoca, sia le differenze istituzionali che si riscontrano nelle varie città. Wickham ritiene sensato individuare tre strati nella militia: uno costituito da aristocratici dotati di una buona base fondiaria e di castelli, uno dotato di minori disponibilità, anche se assimilabile al primo per la qualità della propria ricchezza, il terzo, decisamente differente, più legato all’economia urbana. Non è detto che gli strati possano essere individuati nettamente in ogni realtà. Prima di verificare sul campo l’ipotesi, occorre avvertire che il lessico impiegato da Wickham potrebbe trarre in inganno il lettore italiano. L’autore infatti usa il termine “élite” per definire il gruppo dirigente cittadino, mentre usa l’espressione “aristocrazia militare”, per individuare i due strati sociali più elevati. Non c’è dunque, come si aspetterebbe il pubblico italiano, una differenza quantitativa tra le due nozioni: l’élite non è il nucleo ristretto e socialmente più elevato dell’aristocrazia. C’è una differenza qualitativa: élite è una categoria politica, aristocrazia è una categoria sociale. Talvolta, anzi, l’élite può mostrare una composizione socialmente più bassa di quella dell’aristocrazia. Quando Wickham intende riferirsi allo strato inferiore della sua trimurti sociale parla invece di “media élite”. Milano è il primo campo di verifica dell’ipotesi. Qui la distinzione tra aristocrazia militare e media élite sembra funzionare bene. Occorre di nuovo precisare la terminologia impiegata: Wickham dimostra infatti che la sua “aristocrazia militare” ha poco in comune con i capitanei già riconosciuti in un importante lavoro di Hagen Keller come i demiurghi dell’autonomia cittadina. Nonostante le esibite relazioni vassallatiche con il vescovo di molti suoi membri, infatti, l’aristocrazia di Wickham – dominatrice della vita pubblica fino agli anni Trenta – non è quella kelleriana. Il ruolo politico dei grandi possessori di castelli, dei signori rurali, dei capitanei è, tutto sommato, marginale: l’aristocrazia militare, divisa al suo interno in due strati, è molto più cittadina di quella di Keller e assai meno interessata al possesso dei castelli. Dopo gli anni Trenta, inoltre, anche il livello superiore di questa aristocrazia si eclissa e la politica locale passa nelle mani della media élite. Quest’ultima, nonostante l’apparente modestia delle proprie risorse economiche, è dotata di competenze tecniche alte, evidenziate dal titolo di iudex, proprio di molti consoli di questa fase. Dal punto di vista istituzionale questo passaggio dei poteri è segnalato dallo spostarsi del cuore decisionale dalla contio (l’assemblea di tutti i cittadini, controllata dall’aristocrazia) ai collegi di consoli, sempre più regolari, successivi al 1130 (nelle mani della media élite). A Pisa, riconosce l’autore, è più difficile individuare una dialettica tra aristocrazia e media élite. Qui è preponderante il ruolo del mare: della guerra navale e dei commerci che ad essa si accompagnano. L’élite è ricca, senza dubbio, ma terre e castelli hanno, rispetto a Milano, un’importanza decisamente minore. La stessa affermazione di un regime francamente consolare sembra più precoce che nella metropoli lombarda e si colloca già nel secondo decennio del secolo XII. I collegi non sono colonizzati dagli iudices, anche se, alla metà del secolo, l’intenso lavoro di aggiornamento della legislazione locale è vigorosamente diretto da un folto gruppo di intellettuali cittadini. Anche Roma, proprio grazie ai recenti volumi di Maire Vigueur, e, ancora una volta, di Wickham, è ormai indagabile secondo il modello della storia comunale. Nulla di strano, allora, se si scoprissero dei sonnambuli anche qui; invece, sorprendentemente, Roma è l’unica città che ne è priva. Vediamo perché. Diciamo prima di tutto che in questo contesto l’idea della tripartizione sociale funziona bene, anche se eccede i limiti cronologici dell’età dei sonnambuli. Infatti lo strato superiore dell’aristocrazia, qui davvero molto coinvolto nel dominio del territorio, esce di scena prima del 1050: giustamente Wickham lo chiama “vecchia aristocrazia”. La vera protagonista in città diventa a questo punto la “nuova aristocrazia”, legata al governo papale dell’Urbe e, a sua volta, distinta in due strati: uno più legato al possesso di castelli e terre, l’altro più concentrato sulla città. Il potere papale, tuttavia, entrò in crisi tra la fine del secolo XI e l’inizio del successivo, al tempo della lotta per le investiture; questo, naturalmente, mise in difficoltà chi era in relazione con esso, ma l’aristocrazia in questa fase riuscì a governare la trasformazione svolgendo un ruolo di leadership del popolo romano. Si affermava intanto un gruppo sociale molto radicato nelle regiones urbane (qualcosa di simile ai quartieri delle altre città), economicamente più modesto dell’aristocrazia, ma dotato di legami più profondi e capillari con la società cittadina. Quando, verso la fine degli anni Trenta, il pontefice Innocenzo II si avviò a esercitare un potere più forte dei suoi predecessori e l’aristocrazia si accinse ad assumere nuovamente il proprio ruolo alla corte del pontefice, la media élite romana - supportata da strati sociali ancor più modesti - si ribellò. Il “senato romano” pomposamente “restaurato” nel 1143 è abbastanza vicino al comune idealtipico, anche se organizzato secondo il modello assembleare della contio, osservabile nella Milano di una quarantina d’anni prima. Nessun sonnambulo qui: il sistema politico fu impiantato ex novo, già pronto, probabilmente per imitazione di quanto era stato sperimentato nelle città del Nord. La differenziazione interna della militia si riconosce bene in alcuni casi (Milano e Roma), mentre è più opaca nelle città più piccole e con episcopati meno prestigiosi (ad esempio Pisa). Vi sono, certo, differenze dovute alle fonti disponibili, o alla qualità delle ricerche locali, sulle quali, giocoforza, l’autore ha dovuto basare la sua indagine, specie nell’ultimo capitolo, dove estende l’indagine a molte altre città. Tuttavia, anche in centri ben documentati e già studiati direttamente da Wickham, come Lucca, è difficile definire con precisione i confini interni al gruppo dei milites. La spiegazione dell’autore inglese, comunque, funziona per l’epoca più antica delle autonomie urbane e per i contesti più importanti dal punto di vista demografico. In particolare contribuisce a far emergere con chiarezza una fase, collocabile prima del sistema consolare classico, nella quale il governo cittadino funzionò in forme assembleari. Mi pare tuttavia che l’elemento di maggiore novità emerga un po’ lateralmente nell’opera che stiamo recensendo. Si tratta di una lateralità ermeneutica, perché le pagine dedicate a questo fenomeno sono in realtà molte e di grande finezza. Sto parlando del ruolo degli iudices, più in generale degli intellettuali laici, i quali, pur appartenendo certamente alla militia, ne rappresentavano – dimostra Wickham – una componente socialmente tutt’altro che di primo piano. Eppure a Milano e a Padova a partire dagli anni Trenta del secolo XII furono loro il nerbo dell’élite di governo: in alcuni casi vi fu, insomma, un’evidente e sorprendente sproporzione tra ruolo sociale e ruolo politico, osservabile, pur senza la componente della preparazione culturale, anche nel caso romano. Questa mi pare un’acquisizione che concorre a definire una temperie storiografica nuova nello studio delle città italiane. Da una ventina d’anni Enrico Artifoni, Paolo Cammarosano e Jean-Claude Maire Vigueur hanno inserito con forza la variabile dell’idoneità personale e della competenza tecnica nella definizione dei gruppi dirigenti cittadini: la fase nella quale il fenomeno emerge con maggiore chiarezza è quella podestarile. A partire dallo studio di Gianmarco De Angelis su Bergamo, e passando per il libro di Florian Hartmann sull’inizio dell’ars dictaminis medievale, però, si direbbe che il ruolo delle competenze comunicative (non solo delle competenze giuridiche) sia importante anche nell’età dei sonnambuli. I sonnambuli, insomma, non soltanto sapevano il latino, ma spesso avevano studiato anche retorica e diritto. Queste competenze, più ancora del patrimonio, potevano decretare il loro successo nella sfera pubblica urbana. Eppure questi homines novi a metà del secolo pensavano ancora secondo i valori della società aristocratica che si stavano lasciando alle spalle. Oberto dall’Orto, intellettuale eminente dell’élite milanese, scriveva sui feudi, un tema che coinvolgeva molto la precedente aristocrazia militare, ma ben poco i politici dell’epoca sua. Gli intellettuali si trovarono a un certo punto nella scomoda condizione di dover chiamare con termini vecchi, qualcosa che era completamente nuovo. Quando, attorno al 1150, si accorsero che il mondo era cambiato, si erano ormai accostumati a cercare nel passato gli strumenti per comprendere la loro civiltà e in quest’arte erano diventati maestri (a Bologna e non solo lì). Wickham chiama sonnambuli gli intellettuali cittadini prima del 1150. Forse potremmo avvicinarli, assieme ai loro immediati successori, agli indovini di dantesca memoria: condannati a scontare il dono della profezia camminando con il volto rivolto all’indietro. Enrico Faini