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Catturare l'immagine nello specchio

Letizia Francesca Gilardino Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione e Culture dei Media Matricola N. 302532 FILOSOFIA DELLA COMUNICAZIONE “Catturare l’immagine nello specchio” Questa riflessione nasce da una delle domande fondamentali che caratterizzano l’essere umano a partire dal formarsi della sua identità: “Chi sono io?”, oppure: “Io rimango me stesso anche se cambio il modo in cui mi relaziono con gli altri?”. Sono queste domande che ogni persona si pone dal momento in cui si attiva il processo di formazione della propria identità. Ma l’individuo che si trova a riflettere sulla propria personalità e sul proprio Sé, si accorgerà che pensare a se stessi in rapporto con gli altri è un passo inevitabile, anzi: è il passo cruciale per comprendere pienamente se stessi. Certamente la nostra personalità è determinata dall’ambiente esterno e dai rapporti con le persone che ci stanno accanto. L’uomo è un essere sociale, in quanto è nella sua natura comunicare. Il linguaggio e la comunicazione sono costitutivi della condizione umana: fanno parte di noi e danno forma alla nostra attività intellettuale e cognitiva. La comunicazione è la caratteristica fondamentale della società: viviamo immersi nella comunicazione. È tramite la comunicazione che una società può esistere. Interessante è però considerare il fatto che un individuo, per riflettere su se stesso, lo faccia usando il linguaggio, ovvero il principale strumento comunicativo – il sistema modellizzante primario di Lotman – su cui si basano tutti gli altri tipi di comunicazione. Il linguaggio della riflessione è il linguaggio condiviso, quello che si usa per relazionarsi con gli altri. “Nel linguaggio e mediante il linguaggio l’uomo può costituirsi come soggetto” (Manetti 2000, 16): nel linguaggio comune trova realizzazione la soggettività. Questo è una dei punti cruciali dell’identità, in quanto il soggetto che mette in gioco se stesso nella situazioni di discorso e di dialogo usa i pronomi personali io e tu – che sono espressioni a referenza variabile – che sono segno dell’appropriazione del linguaggio da parte dell’individuo il quale si designa come ego in una determinata situazione comunicativa. Il linguaggio verbale è cioè il luogo in cui il soggetto fornisce una testimonianza oggettiva su se stesso e si differenzia dal tu a cui si rivolge. Il Tu corrisponde all’Altro, e la relazione Io-Tu è un passaggio fondamentale per il formarsi dell’autocoscienza e per la riflessione su di sé. Ciò significa che con l’utilizzo del linguaggio ci si mette in rapporto con gli altri, ma anche con se stessi: nell’enunciazione che l’individuo fa sono presenti i pronomi personali che sono simulacri del soggetto. Tramite questi l’individuo si aggancia al proprio discorso, diventando parte attiva della comunicazione e si intreccia nell’enunciazione. L’uomo è dunque un essere sociale che vive costantemente in circostanze comunicative: “la comunicazione è intorno a noi ma innanzitutto […] dentro di noi” (Volli 2008, 23): essa non è soltanto un atto, ma è un ambiente in cui abitiamo. La comunicazione è un’area in cui siamo immersi e a cui possiamo partecipare. L’ambiente comunicativo è uno spazio che si costruisce a partire dagli individui che vi partecipano: ciascuno contribuisce a suo modo a formare un ambiente comunicativo. Lotman (1985) definisce Semiosfera la zona – un ambiente prettamente umano - in cui avviene la comunicazione. Essa è una struttura artificiale, frutto di processi storici e sociali in cui si produce la comunicazione. Le diverse situazioni comunicative determinano il modo in cui noi ci poniamo nei confronti degli altri: chiunque entri all’interno di un ambiente comunicativo lo fa presentandosi attraverso una certa esteriorità conforme al ruolo che scegliamo di assumere o che ci viene assegnato o richiesto. Le situazioni comunicative sono situazioni sceniche: chi si trova sulla scena ha una certa faccia – da mantenere e da non perdere. L’Io che si espone al pubblico è un altro Io, frutto di un compromesso fra ciò che sono e ciò che mi è richiesto di essere. Il comunicatore deve essere adeguato al personaggio assegnatogli dalla situazione comunicativa. La nostra esteriorità si modella dunque in relazione ad un ruolo e ad in contesto specifico. Con la comunicazione si costruisce un Io sociale che viene comunicato all’esterno: è la dimensione fisica dell’apparire che sottostà all’assunzione di certi modelli socialmente pre-confezionati. La faccia è allora un oggetto sociale: è un’apparenza, una costruzione sociale variabile nel tempo e nello spazio, dipendente dalle singole culture. Nella nostra società abbiamo la richiesta continua di inserirci all’interno della griglia sociale: ciascuno articola la propria apparenza in riferimento alla griglia socio-culturale a cui appartiene. Esiste una grammatica dell’apparenza e convenzioni sociali da rispettare: è necessario inserirsi all’interno del giusto quadrante per non essere devianti; l’apparenza non è una creazione artistica ma sociale: non si tratta di compiere un atto di falsità, ma di aderire a norme tacite socialmente stabilite. Non assumere il ruolo che viene convenzionalmente richiesto in una data situazione significa violare le regole tacite, significa essere devianti. La grammatica dell’apparenza è costruita culturalmente e socialmente e determina le diverse facce possibili, ovvero diverse identità sociali. La scelta della propria veste sociale dipende dal contesto o situazione contingente. All’interno di tale contesto possono essere difatti richieste determinate regole di comportamento o etichette alle quali è necessario attenersi per poter rimanere all’interno dell’ambiente comunicativo. Ma la faccia non è soltanto espressione di un ruolo che si sceglie e che si è richiesti di assumere: è anche e soprattutto un dispositivo per presentare se stessi. Con essa si può decidere cosa di sé si vuole comunicare agli altri. L’apertura verso l’Altro è sicuramente da mettere in relazione alla fiducia che si ha nell’Altro a cui ci si vuole rivelare: la nostra maschera esteriore sarà più aderente al nostro volto se staremo comunicando con persone con cui abbiamo rapporti personali; sarà invece più spessa e rigida – lontana dalla nostra natura – se ci troveremo di fronte a persone sconosciute. Davanti a persone importanti, per esempio, abbiamo la necessità di fare affidamento all’etichetta: un libretto di istruzioni sul comportamento da adottare in determinate situazioni che si rivela essere piuttosto comodo per evitare di fare degli errori e tradire le aspettative che gli altri all’interno dell’ambiente comunicativo si riserbano per noi. La faccia è la prima cosa che comunichiamo di noi: è il nostro stato esteriore che ci mette in contatto con l’ambiente e con gli altri, un mediatore posto fra la nostra interiorità e l’ambiente esterno. Essa è un’identità che si sovrappone a quella originale. Come si è visto, la faccia ha diversi livelli di permeabilità: ciò vuol dire che fra essa (faccia intesa cioè come identità sociale o ruolo che si assume in un certo contesto) e volto (la vera identità, l’Io) c’è sempre uno scarto. Ciò significa che nella comunicazione si verifica sempre un distacco – un débrayage – attoriale, spaziale e temporale. Non c’è garanzia che l’Io comunicativo aderisca all’identità del parlante. Tuttavia non si deve pensare alla maschera sociale come ad un dispositivo di nascondimento del Sé. Anzi: a parer mio, è proprio attraverso l’uso della faccia che noi diventiamo in grado di delineare la nostra vera identità. Sicuramente la socializzazione è un processo che si attiva molto prima di quello di costruzione della nostra identità. Già il neonato - che ancora non ha una sua identità, ma esiste soltanto all’interno della diade madre-figlio - è un essere sociale capace di relazionarsi con gli altri, la madre, nonostante non abbia ancora acquisito la facoltà del linguaggio e non sia ancora un essere autocosciente. Malgrado la sua immaturità, il neonato è già un essere sociale. Prima dell’esperienza dell’Io si ha l’esperienza dell’Altro: il primo specchio che il bambino incontra è rappresentato dal volto materno, dallo sguardo di chi ci ama. Il neonato ricerca la reciprocità di quello sguardo che soltanto l’intimità di un rapporto amoroso può dare. L’amore diviene mezzo tramite il quale rispecchiarsi con l’Altro e con esso completarsi. La socializzazione è una facoltà dell’uomo che viene acquisita molto prima dell’acquisizione di una vera e propria identità. Solo tramite l’esperienza e con il relazionarsi con le altre persone l’individuo potrà prendere coscienza di sé: l’immagine che si ha di se stessi dipende dall’immagine che abbiamo noi degli altri e dall’immagine che gli altri hanno di noi. È quindi nella comunicazione che noi abbiamo accesso all’identità. È necessaria l’esperienza con l’Altro affinché l’Io possa poi riconoscersi come un Sé. L’Altro diventa la proiezione di me stesso, lo specchio in cui mi rifletto e mi riconosco. In questo senso l’uomo del mito di Aristofane è l’emblema del completamento della propria identità tramite il rapporto con l’Altro. Tuttavia, il mito sembra più cercare una spiegazione alla constante sensazione di incompletezza tipicamente umana piuttosto che voler spiegare cosa si intenda rispecchiarsi nell’Altro. Il raggiungimento dell’interezza della persona e dell’identità è l’obiettivo primario di ogni uomo. Il congiungimento amoroso è per Aristofane il ritorno all’antica natura, all’identità originaria che per volere e timore di Zeus è stata divisa. L’uomo ha così perso, per timore del dio, la sua metà che lo rendeva un essere integrale e autosufficiente. L’autonomia dell’uomo originario era una forza pericolosa. Gli esseri umani originari del mito erano infatti uomini terribili e violenti che minacciavano gli dei, perciò Zeus decise di dividerli: la potenza di un’identità completa sarebbe quindi tanto potente da minacciare la divinità. Il mito spiega anche che l’uomo ha dovuto inevitabilmente subire una negazione dell’Altro da sé per diventare un essere dotato di autocoscienza: l’identità emerge tramite la negazione dell’Altro che è diverso da me ma contemporaneamente come me. Il pensiero greco riserba nell’Altro la connotazione della negatività e dell’esclusione. L’Io si costituisce in rapporto con quell’altro che è la sua stessa immagine ma da cui si differenzia. La mia identità trae origine dalla mia capacità di guardare l’Altro come un alter ego, ovvero dalla capacità di sdoppiamento interno e riflessione, coscienza. L’alterità diventa uno specchio con cui mi confronto. La conquista del proprio Io sembra essere un gioco di simmetrie e differenze. L’Io che aderisce completamente all’Altro diventa un doppio, una falsa copia, e non consegue un’identità propria. Chi invece saprà individuare se stesso nel riflesso dell’Altro, diverrà un Io simile ma allo stesso tempo differente dall’altro. Differenziarsi dagli altri vuol dire significare, avere valore, ma vuol anche dire negare l’Alterità. Come il linguaggio è un sistema di relazioni negative, così io nego l’altro in cui mi identifico per differenziarmi e avere senso. Il pensiero classico indica le strade devianti che possono snodarsi in seguito al non compimento di questo processo di differenziazione e similitudine necessari per la realizzazione dell’Identità. Il primo esempio è il mito di Dioniso, che mirandosi allo specchio, vede il mondo non sapendo di contemplare se stesso: il dio fanciullo non riconosce se stesso nell’immagine riflessa, ma vede l’Altro da sé. Lo specchio è per il dio un oggetto affascinante, che mostra un mondo che lo strega e lo incanta. Dioniso, assorto nella contemplazione dello specchio, permette ai Titani il deicidio: così Dioniso, nato da uno dei molteplici rapporti adulterini del padre degli dei, viene ucciso per volere di Hera, che ordina ai Titani di distrarre la giovane divinità con quell’oggetto riflettente. Lo specchio è un gioco con il quale il dio si diletta, ma è anche il simbolo della sua passione, della sua morte: è simbolo dell’inganno perché strumento dello stratagemma dei Titani. Ma il dio fanciullo non si riconosce non per via della sua immaturità, ma perché i Titani hanno spalmato il suo viso di fango e gesso: il suo volto è stato trasformato in una maschera affinché non si riconoscesse guardandosi sulla superficie riflettente. Dioniso crede nell’inganno che lui stesso produce. Vedendo nel suo specchio l’Altro e non se stesso, il dio abolisce la differenza fra divinità e mondo. La venuta di Dioniso sovverte i ruoli sociali. Dioniso è infatti il dio intermedio fra l’istintività della natura e la socialità della cultura. È il dio del carnevalesco, che mette in discussione la tassonomia delle differenze trasmesse dalla cultura tradizionale: costringe a divenire altri da ciò che si è normalmente. Il Dionisismo permette di uscire dalla condizione umana evadendo nella bestialità: il dio rappresenta l’irruzione nell’ambito della normalità della vita quotidiana, dell’ebbrezza, del delirio estatico, creando uno spazio diverso e liberatorio all’interno della stessa sfera sociale. Egli abolisce i limiti e fa cadere tutte le barriere che caratterizzano il mondo organizzato: per tutti questi motivi, egli è il dio dell’indifferenziazione. Lo specchio ha una centralità simbolica all’interno del mito in quanto indica ad un tempo l’immagine del Sé e l’Altro, che da Dioniso vengono confusi: il circuito del riconoscimento di se stessi attraverso l’alterità in questo caso si rompe. Lo specchio viene qui indicato come uno strumento pericoloso: non identificato come strumento di riflessione, ma come finestra sul mondo, esso porta alla morte del dio e al chaos dell’indifferenziazione fra il mondo dei segni – il mondo vero – e il mondo privo di significato in se stesso – quello all’interno dello specchio. Il secondo esempio fornito dal pensiero greco circa la rottura del processo di realizzazione dell’identità è rappresentato dal mito di Narciso, in cui lo specchio, ancora una volta, opera una funzione determinante. Narciso, nella versione delle Metamorfosi di Ovidio, rappresenta la cifra stessa della genesi dell’Io e del Sé, della nascita psicologica dell’identità individuale. Narciso è l’emblema del paradosso dell’Identità: rispecchiandosi sulla superficie acquea della fonte Ramnusia, il fanciullo si innamora dell’immagine riflessa, non accorgendosi che l’oggetto del suo desiderio non è altri che se stesso. Come Dioniso, Narciso non riconosce il suo riflesso all’interno dello specchio, vedendo soltanto Altro da sé. Ma prima di affrontare il mito di Narciso, vorrei soffermarmi sul sofferto amore per il fanciullo provato dalla ninfa Eco, il quale precede e annuncia, all’interno del Carmen perpetuum, la vicenda di Narciso. Eco è innamorata perdutamente di Narciso, ma punita anch’essa da Hera per essere segno dei tradimenti di Zeus, la ninfa è costretta ad essere uno specchio sonoro del proprio interlocutore. Di fronte al suo amato quindi non può che rispondere con le stesse parole di lui: essendo uno specchio delle parole di Narciso, Eco non può significare da sola. Narciso è un giovane stupendo, che fa innamorare tutti, ma che non si innamora di nessuno. Anche Eco viene rifiutata. La disperazione causata dalla negazione della reciprocità dell’amore la poterà ad isolarsi fra le valli e a far consumare lentamente il suo corpo, tanto che di lei resteranno soltanto le ossa, che si tramuteranno in pietra, e la voce. Eco perde dunque la sua densità materiale e di lei perdura unicamente la voce: è un suono soltanto quello che di lei vive. L’amore non corrisposto da parte di Narciso indica il rifiuto del fanciullo di riconoscere quell’altra metà di se stesso che Eco rappresenta in quanto Altro in cui identificarsi, ma anche in quanto specchio – sonoro, nel caso della ninfa. Narciso respinge i suoi amanti con freddo disprezzo: egli rifiuta la reciprocità dello sguardo dell’Altro, sottraendosi così alla relazione di identità e differenza dell’Altro e dello Stesso. È incapace di entrare in relazione con la concreta diversità dell’altro. Giunto infatti allo specchio d’acqua della fonte per rinfrescarsi, il giovane si imbatte nella propria immagine riflessa, di cui si innamora perdutamente. Narciso crede di aver trovato finalmente quell’Altro in cui rispecchiarsi e a cui essere reciproco: come nel mito di Dioniso, il fanciullo viene ingannato dallo specchio, credendo che l’immagine dello specchio sia un segno, che sia l’Altro. Egli scambia per un corpo ciò che è acqua: il suo è un desiderio senza oggetto e senza corpo che si basa sull’inganno creato dal riflesso. Narciso, specchiandosi, diventa il solo e primo innamorato di se stesso: fallisce così il rapporto con l’Altro. L’amore del narcisista è un circuito chiuso, in cui il soggetto è autosufficiente: la soddisfazione dell’amore non deve passare necessariamente per il confronto con l’alterità. L’autonomia del narcisista ricorda quella degli uomini del mito di Aristofane, che erano creature autosufficienti e superiori all’uomo comune. Tuttavia, quelle creature erano terribili e maligne; più che indipendenti io le considererei sprezzanti del resto dei loro simili, come sprezzante e maligno è Narciso nei confronti dei suoi innamorati e delle convenzioni sociali - come l’unione del matrimonio. Soltanto la spaccatura attuata da Zeus renderà quelle creature aperte al resto degli uomini. Aristofane chiama quegli esseri uomini già prima che avvenga la loro divisione da parte del dio: personalmente io non vedo caratteristiche di umanità in loro, poiché dal mito emerge il fatto che la loro umanità scaturisce proprio dalla separazione e dal tentativo di ricongiunzione con la metà andata perduta. La spaccatura innesca così il processo di scambio comunicativo, di ricerca dell’altro in cui rispecchiarsi e vedere se stesso. Grazie alla divisione attuata dal timore di Zeus, inizia la socialità: grazie alla separazione dall’Altro, nasce il dialogo, il quale è determinante per potersi avvicinare all’identità dell’altro – non ci si conosce se non con il dialogo – e che permette così di raggiungere la propria identità, seguendo quel percorso fatto di similitudini e differenze con l’Altro che è stato sopra menzionato. L’amore narcisistico è dunque un processo a spirale nel quale il soggetto desiderante coincide con l’oggetto desiderato: una spirale che il Narciso di Ovidio riesce a rompere. Difatti, nella versione ovidica del mito, il protagonista infine riconosce se stesso nel riflesso acqueo e realizza che in realtà egli desidera ciò che non può avere. Si identifica nell’immagine riflessa, non vedendovi più un altro, ma vedendo se stesso: comprende dunque che non può possedersi. Comprende che il suo desiderio è una follia e desidera a questo punto uno sdoppiamento non illusorio – come quello del riflesso – ma reale: desidera duplicarsi, divenire altro da sé. La follia di Narciso lo porta ad abbandonare la condizione umana: non potrà mai possedersi, mai contraccambiare l’amore per se stesso se non nella vanità. Per tali motivi, deciderà di annegarsi, scegliendo, con piena coscienza di causa, l’errore in quanto tale, perseguendolo fino alle sue estreme conseguenze. Narciso capisce che il fanciullo di cui è innamorato non è altro che se stesso tramite il linguaggio: parlando al proprio riflesso, si accorge che il suo amato ripete esattamente le sue stesse cose, senza però emettere alcun suono: similmente a Eco, l’acqua della fonte rispecchia le parole di Narciso. “Ma costui sono io! Me ne sono accorto e la mia figura riflessa non mi trae in inganno”: il riconoscimento coincide con l’instaurarsi della sfera simbolica del linguaggio. Il linguaggio, ovvero la comunicazione puramente umana, riporta Narciso alla coscienza: per comunicare con l’amato, costantemente silenzioso, il protagonista del mito decide di utilizzare lo strumento primario della comunicazione e della socialità. Come nei dialoghi di Platone, tramite l’uso del linguaggio viene rivelata la verità. Essere dichiaratamente asociale, in quanto nega ogni contatto con l’Altro – i suoi innumerevoli amanti – e con le convenzioni sociali – il rifiuto del matrimonio – il protagonista del mito ritorna ad una situazione di socialità (l’uso del linguaggio) per far sì che l’amato ricambi il suo desiderio. È proprio nell’istanza simbolica del discorso che si realizza il riconoscimento dell’inganno del riflesso. Narciso quindi ci insegna la centralità dei rapporti sociali all’interno del processo di formazione della propria identità: il mito si spinge oltre al semplice ammonimento per chi si sofferma all’esteriorità dei corpi, che non sono altro che semplici simulacri. Narciso spiega la necessità del rispecchiamento nell’Altro per la costituzione del Sé. Nei miti che abbiamo analizzato si vede l’importanza che ha l’Altro per la costituzione della propria identità, ma emerge anche il ruolo cruciale che ha lo specchio: sia Dioniso che Narciso vengono ingannati dallo specchio ed entrambe le loro identità “non funzionano”. Dioniso viene fatto a pezzi dai Titani in quanto viene distratto e affascinato dallo specchio: sarà poi Apollo a ricomporlo e a restituirlo alla vita, ma resterà comunque il dio dell’indifferenziato. Narciso invece, svelato l’inganno, deciderà di uccidersi. La fonte Ramnusia, però, innamorata anch’essa del giovane, farà sì che egli non muoia: Narciso viene trasformato in fiore. Lo specchio è uno strumento per la costruzione dell’immagine unificata di sé. Il soggetto, secondo Lacan, non è il dato originario della vita psichica dell'individuo, ma il risultato di una costruzione. La prima tappa è infatti costituita dallo stadio dello specchio. Tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio e elabora una prima delineazione del proprio Io: egli impara a riconoscersi come un’unità. Lo specchio è un fenomeno-soglia che marca i confini fra immaginario e simbolico: ad un primo istante il soggetto confonde l’immagine dello specchio con la realtà, poi si rende conto che ciò che sta guardando non è altro che un’immagine riflessa; infine il soggetto riferisce quell’immagine a se stesso, capendo che quel riflesso indica proprio lui. Wallon afferma che fra i sei e i dodici mesi d’età il bambino percepisce il suo corpo come qualcosa di frammentario: il mito del dio fanciullo torna ad essere un punto di riferimento, in quanto, non riconosciutosi nello specchio viene smembrato – fatto a pezzi e disperso – dai sicari di Hera. Tramite il duplice passo della percezione dell’immagine e del riferimento di quell’immagine a se stesso, il bambino fa coincidere nel tempo e nello spazio l’immagine riflessa e la presenza reale, definendo il suo corpo nella sua interezza: grazie all’immagine del proprio riflesso il bambino riesce a ricostruire i frammenti del proprio corpo in un’unità. Il momento primario dello specchio consente una padronanza immaginaria del proprio corpo, in quanto permette di esteriorizzare se stessi: la rappresentazione di sé può esistere solo esteriorizzandosi, andando cioè fuori da se stessi, processo che in Narciso si attiverà soltanto alla fine, provocando la sua morte. Lo specchio diviene dunque la metafora dell’Identità e della coscienza: permette di vedersi con la vista degli altri e spinge al riesame della problematica dell’apparire: non una spirale dello sguardo come nel mito di Narciso, ma una reciprocità con se stessi. Lo specchio infatti produce dei sosia di noi stessi con cui noi ci confrontiamo, che noi trattiamo come se fossimo davanti ad un Altro, rimanendo coscienti che siamo di fronte a noi stessi. È un gioco contraddittorio che ci vede soggetti e oggetti insieme, ma è proprio questa la caratteristica primaria della riflessività: il soggetto coincide con l’oggetto. La realtà contenuta nello specchio è mero riflesso di ciò che è reale. Lo specchio è certamente veritiero (ed è questa la sua principale caratteristica positiva), ma è anche parassita di ciò che vi si riflette. Uno specchio non può significare da solo perché il suo contenuto è determinato dagli oggetti che vi si riflettono: esso non è in grado di riprodurre un’immagine, ma riproduce il reale: contiene un’immagine che non è segno, ma che è una diretta conseguenza fisica. Le definizioni agostiniana e peirceana di segno sono entrambe costruite in modo da escludere gli specchi: segno è qualcosa che sta per qualcos’altro sotto qualche rispetto o capacità. Il segno ha il potere di rendere presente un’assenza: lo specchio non ha questo potere, ma ha la necessità della co-presenza dell’oggetto che riflette. Gli specchi non sono segni, ma sono certamente utili mezzi per estendere le nostre capacità visive: essi sono protesi che consentono di pervenire lo stimolo visivo là dove l’occhio non potrebbe pervenire. Ci permettono di guardare meglio il mondo e noi stessi come ci vedono gli altri. Lo specchio dunque non è un vero e proprio testo: non può essere considerato un segno in quanto non produce un’immagine che sta per qualcos’altro, ma necessita sempre di un oggetto a cui fare riferimento. Il riflesso è dunque strettamente legato al “questo”, al “qui” e all’ “ora”. “Se le immagini dello specchio dovessero essere paragonate alle parole, esse sarebbero simili a pronomi personali” (Eco 1995, 20) in quanto sono strettamente legate all’oggetto a cui si riferiscono. Come i pronomi, gli specchi non hanno una referenza oggettiva costante, ma ne assumono una ogni volta differente a seconda del soggetto. Lo specchio è incapace di tenere traccia di chi vi si pone davanti: se l’oggetto si nega dal raggio d’azione dello specchio, quest’ultimo non avrà il potere di rifletterlo. Esso è unicamente un dispositivo per la riflessione: pertanto non bisogna confonderlo come qualcosa che abbia senso in sé. È proprio questo il pericolo dello specchio: illudersi che esso sia autonomo e che abbia la capacità di esistere da solo: Dioniso e Narciso sono caduti nell’inganno e sono morti. Lo specchio non è un segno, ma è un mezzo per l’autoriflessione: la creazione di un nostro simulacro, di un nostro doppio che ci serve per riflettere – pensare – su noi stessi. Noi, come d’altronde fanno anche i testi, ci serviamo di dispositivi specifici per attuare un autoriferimento. Il testo fa un autoriferimento per spiegare se stesso e per rendere esplicito il proprio contenuto, cioè fa un’operazione di metacomunicazione: la stessa cosa vale per l’uomo che si pone di fronte allo specchio. Ma le superfici riflettenti non sono l’unico mezzo che l’uomo possiede per entrare in contatto con se stesso: oggi i mezzi di comunicazione permettono di avere un’idea ben precisa di come sia la nostra faccia sociale. La propria carta d’identità conservata nel portafogli, i filmini prodotti dai nostri genitori quando eravamo piccoli, le innumerevoli fotografie tramite cui ci presentiamo sui social network ai nostri amici: i nostri simulacri girano liberi per il mondo e presentano agli altri chi siamo. Rispetto all’epoca classica, abbiamo una vasta rosa di mezzi tramite quale conoscerci sempre più a fondo: con gli strumenti della comunicazione, abbiamo la possibilità di diffondere ovunque dei Noi virtuali, dei nostri simulacri. È chiaro che i mezzi di comunicazione, a differenza degli specchi, hanno la capacità di memorizzazione e fissazione dell’immagine. Perciò, il sosia di noi che viene creato non è a noi sincrono come nello specchio, ma differisce nel tempo: una fotografia è portatrice di memoria e ci permette di vedere chi eravamo, non chi siamo ora. I mezzi di comunicazione ci permettono quindi di avere una più elevata consapevolezza della nostra corporalità e della nostra immagine sociale. I media basati sull’immagine hanno apportato, a parer mio, un cambiamento nelle modalità di percezione del proprio corpo. Si pensi all’esempio banale di due donne: la modella e la casalinga. La prima ha senza dubbio una visione maggiormente oggettivata del proprio corpo rispetto alla seconda. Si può allora pensare che la fase dello specchio individuata da Lacan perduri per certi aspetti per l’intero corso della vita, rafforzata dall’immagine di noi che i media ci restituiscono. La continua ricerca o affermazione di sé tramite immagini dell’Io esterne all’Io stesso è indice dell’inquietudine e dell’insicurezza dell’uomo contemporaneo. Un altro aspetto interessante a proposito dei mezzi di comunicazione è il fatto che essi ci mettono in costante rapporto con altre persone: i media diventano il luogo in cui l’Io si confronta con l’Altro che rappresenta la società o una sua porzione. La televisione propone diversi modelli sociali a cui fare riferimento per costruire la propria identità. Non si è dimenticato che il proponimento dei modelli sociali deriva primariamente dalla società e dalla cultura: qui si intende sottolineare il ruolo centrale che i mezzi di comunicazione hanno assunto nella edificazione della propria personalità. In prima istanza, con le mode, l’individuo costruisce la propria faccia sociale (abbigliamento, comportamento, gestualità); inoltre – ipotesi azzardata, forse – l’immedesimazione nei modelli proposti da parte dell’individuo può essere tanto profonda da mettere in crisi l’Identità al punto di falsificarla per diventare chi è richiesto di essere. Secondo Siri (2001), l’era del post-modernismo è anche l’era del Sé fluido, molteplice. Quella attuale é un’epoca in cui viene meno la centralità dei sistemi ideologici istituzionali che organizzano il senso della vita. Da questa perdita di punti di riferimento stabili emerge la “consapevolezza che la visione del mondo e l’idea di verità non è ancorabile a metafisiche universali, ma viene costruita dall’esperienza sociale (culturale, linguistica) storicamente determinata dal contesto specifico di esperienza di ciascun individuo o gruppo sociale” (Siri 2001, 18). Non esistendo più i valori universali che le istituzioni promuovevano, l’identità dell’individuo non ha più la forte coerenza interna che presentava nell’epoca moderna. Nel post-modernismo viene esaltata invece la flessibilità della persona, la sua capacità di adattarsi a contesti diversi. Esisterebbero molteplici Sé coesistenti – cioè un Sé fluido - , attivati da contesti che chiamano la persona ad assumere un determinato ruolo in una determinata situazione. Oltre a ciò, si evidenzia il fatto che i modelli proposti dai media sono altamente variabili e temporanei: il rinnovamento di sé diviene dunque incalzante e questo è possibile soltanto grazie ad un alto grado di adattamento della propria persona a tutto ciò che è mutevole nella società odierna. Tale adattamento permette di mantenere una certa stabilità interiore: se ad ogni Sé corrispondesse un’identità completa implicherebbe per l’individuo una condizione schizofrenica, ma nella realtà non è così. L’individuo ha un proprio Sé che - come si è visto sopra in relazione ai diversi ruoli assunti nelle situazioni comunicative – si adatta al contesto in cui è inserito. Siamo totalmente immersi nei segni della produzione culturale in ogni contesto e in ogni momento della quotidianità. Non possiamo liberarci del condizionamento della cultura: essa concorre dunque alla costruzione del proprio Sé. I media sono fondamentali per la costruzione dell’Io nell’era del post-moderno. Tuttavia, i mezzi di comunicazione implicano una produzione indiretta del proprio volto: sono oggetti e strumenti tecnologici e meccanici, che non comportano, se non in modo del tutto fugace, un intervento umano: la nostra immagine viene prodotta da questi mezzi in modo istantaneo e immediato. La macchina fa tutto il lavoro di produzione del nostro doppio. Un dispositivo che non coinvolge processi meccanici e utilizzato da secoli dall’uomo, che insieme allo specchio risponde alla domanda “Chi sono io?” è senza dubbio l’autoritratto. Perché nasca l’autoritratto bisogna che sia avviato un radicale gesto di separazione dalla quale prende avvio lo sviluppo indipendente dell’uomo in quanto individuo singolo, fino ad acquistare un valore puramente autonomo. Una fotografia può essere prodotta in modo istantaneo o quasi e senza che sia richiesto un esame su se stessi, l’atto di “costruire” il proprio autoritratto richiede tempo, riflessione, competenze e tecniche artistiche. Con l’autoritratto si costruisce la propria identità, che è il risultato di un lavoro, di un compito portato avanti nella solitudine, volgendo le spalle al mondo. Ma soprattutto, richiede un riflessione su di sé, una presa di coscienza. Fare un autoritratto è rappresentare con le proprie mani il proprio corpo: ci troviamo di fronte ad un altro processo di metacomunicazione. Per la realizzazione del proprio autoritratto ci si ritira in solitudine, ovvero ci si separa dagli altri per non rispecchiarsi più in loro ma in se stessi: l’autoritratto dà vita ad un dialogo interno di riflessione che porterà all’analisi di sé e dunque ad una più profonda autocoscienza. L’atto di negazione dell’Altro per la scoperta dello Stesso aderisce alla vicenda del mito di Narciso, che perde il mondo per acquistare la visione del proprio volto. Rispecchiarsi negli altri, ma anche separarsene, dunque, per attuare quella differenziazione dall’Altro che caratterizza l’essere umano: siamo tutti simili, ma al contempo profondamente diversi. Tale diversità non può che emergere in solitudine, dopo aver però accettato di essere – almeno ad un primo livello – lo specchio dell’Altro. Quasi tutti i pittori hanno sfruttato le proprie capacità artistiche per rappresentare se stessi e per comprendersi come parte del mondo. L’autoritratto parte dalla stessa problematica dello specchio: possiamo conoscere il volto degli altri, ma non il nostro in maniera completa. La prima fase, quella della similitudine, consiste nel rispecchiarsi nell’Altro quando ancora non ho piena coscienza di me stesso. Il nostro volto è l’unico punto oscuro a cui non possiamo accedere: lo specchio in prima istanza e poi l’autoritratto ci permettono di accedere a quel luogo che solo a noi appartiene, ma a cui non abbiamo diretto accesso. Il volto degli altri mi è più familiare rispetto al mio: lo specchio permette di riscoprire se stessi tramite la produzione di uno sdoppiamento della persona; la stessa cosa vale per l’autoritratto. Ma fra questi due oggetti vi sono grandi differenze che non possono non essere messe in evidenza. La prima differenza fra specchio e autoritratto consiste, come si è già visto, nel fatto che lo specchio non mantiene traccia di ciò che viene riflesso: ciò significa che non rimanda a nulla se non all’oggetto che ha di fronte. L’autoritratto è invece capace di differire ciò che indica nel tempo: è, a differenza dello specchio, un segno. Indica infatti un’identità specifica: è l’icona dell’artista. Tuttavia, per la realizzazione del proprio autoritratto, l’artista necessita di uno specchio a cui fare continuo riferimento. Specchio e autoritratto producono entrambi un doppio della persona – un simulacro - ma mentre il primo produce solamente un riflesso, provvisorio e momentaneo, il secondo produce un’effigie duratura del soggetto. L’autoritratto serve per “catturarsi”: lo scopo del pittore non è soltanto analizzarsi e costruire la propria immagine, ma è anche quello di tenere traccia di sé. L’autoritratto è un’assicurazione contro la scomparsa definitiva, uno strappo al silenzio della morte: l’intento dell’artista è quello di strappare e mettere in salvo la propria immagine celebrata per sempre nell’accordo delle linee e dei colori. Il pittore lascia un’immagine, un segno, per tenere traccia del sua passaggio. Del ritratto colpisce il fatto che con esso il nostro volto – la parte meno conoscibile di noi, ma luogo dell’espressività e dunque del proprio essere comunicato agli altri - diventa un segno. La sua funzione è quella di catturare il volto e trasformarlo in una rappresentazione: un segno statico, morto e immobile, una maschera. Il volto, colto e congelato in un determinato istante, si traduce in immagine significante. L’autoritratto serve a definire la propria identità mediante la raffigurazione del proprio aspetto. In esso l’artista tenta di “definire la propria identità, mediante la raffigurazione del proprio aspetto esterno, di arrivare a congiungere la superficie al profondo, il visibile al mondo invisibile” (Boatto 2002, 13): il soggetto dell’autoritratto ricerca la propria identità e tenta di renderla visibile sulla tela. L’autoritratto dunque va oltre alla pura rappresentazione mimetica di se stessi: l’involucro fisico del corpo viene scavalcato per andare a scavare in profondità nel retroterra nascosto dell’uomo. Rivolgere lo sguardo ad un ritratto fermandosi alla pura rappresentazione significa soffermarsi alla superficie: bisogna osservare il ritratto non come oggetto inerte ma come segno, come testimonianza di un uomo che grazie alla sua opera è scampato alla rovina del tempo. Se si va al di là della maschera si può arrivare a conoscere l’interiorità – se non tutta, almeno una parte o un suo stato - del soggetto che vi si è rappresentato. Studiare un autoritratto in profondità richiede la capacità di inferire, non per analogia ma per sensazione: l’arte è fatta per stimolare il senso della vista, ma soprattutto per coinvolgere le nostre emozioni ed i nostri sentimenti. L’arte ricerca e richiede empatia. C’è da chiedersi però se l’autoritratto dica o no la verità come lo specchio, spietatamente, fa. Non sempre gli artisti, infatti, si sono attenuti alla riproduzione mimetica della propria immagine: alcuni di essi rimangono indifferenti alla verosimiglianza fisiognomica: il proprio volto viene messo da parte e sostituito da lineamenti anonimi, ma scossi dai sentimenti provati dall’artista. È questo l’esempio dell’autoritratto del 1958 di Francis Bacon, in cui l’artista non è attento a produrre un volto in analogia con il suo, ma fa un tentativo di rappresentazione di tristezza, depressione, malinconia. Sembra dunque che l’esterno – corpo, volto, faccia – non sia il carattere discriminante dell’individuo: ciò che invece veramente conta è l’insieme di sentimenti e passioni che si muovono sotto la pelle. Questo è il motivo dominante dell’arte espressionista. Gli espressionisti si pongono una domanda interessante circa la capacità espressiva del proprio volto: dice veramente il nostro viso quello che sentiamo e quello che proviamo? Quale corrispondenza c’è fra la confusa immagine che abbiamo di noi stessi e l’immagine chiara e univoca che gli altri hanno di noi? Proviamo più spesso un senso di insoddisfazione di fronte la nostra immagine riflessa nello specchio piuttosto che appagamento; quel volto, che è nostro, a volte non sembra far trasparire il nostro vero Io. Quella “crosta” che ricopre la nostra anima nasconde la nostra vera identità. “Dunque io sono questo?”: increduli, non possiamo accettare che il nostro volto comunichi così poco di noi. Non importa quanto siamo vanitosi e quanto troviamo bello il nostro viso: la delusione, seppure sottile, che scaturisce dal vedersi allo specchio è originata dall’impossibilità di comunicare in un solo istante tutto quello che siamo. Non sono e non sarò mai una persona istantaneamente conoscibile dall’Altro: soltanto con la comunicazione, con la fiducia e con un rapporto prolungato nel tempo l’Altro avrà la possibilità di conoscermi. Ma anche se si conosce una persona da anni, non possiamo avere la pretesa di sapere tutto di lei: se si ha tale presunzione, significa svilire e appiattire l’identità dell’altro. L’autoritratto al contrario dello specchio è un vero e proprio testo che molto ci comunica circa l’autore, la sua vita, ma anche sul suo stato d’animo e sulla percezione che egli ha di sé e che desidera comunicare. L’autoritratto è un argomento molto più delicato da trattare, rispetto agli specchi. Là dove lo specchio è uno strumento veritiero e mezzo a cui affidarsi, l’autoritratto è il luogo della possibile menzogna, in quanto è un segno. L’autoritratto è il luogo in cui il soggetto può presentarsi ipoteticamente nel modo in cui desidera, a seconda dei suoi scopi comunicativi. Scopo dell’autoritratto non è solo la comunicazione su se stessi per se stessi, ma è anche l’immagine che di sé viene comunicata agli altri. L’artista può affrontare la tela in due diversi modi. Innanzitutto, può riprodurre ciò che vede nello specchio così com’è, senza distorsioni: in tal modo il prodotto artistico sarà una fedele riproduzione del riflesso dello specchio. Questa è un’operazione di mimesi, tramite la quale il soggetto si oggettivizza: grazie allo specchio – utilizzato come sostegno per la realizzazione artistica - ha la possibilità di vedersi come se fosse un altro e dipingersi come gli altri lo vedono. È un’operazione di tipo sociale in quanto si decide di rappresentare il modo in cui il soggetto si manifesta nel mondo: il pittore mimetico raffigura la propria faccia, ovvero la propria veste sociale. L’altro modo di presentarsi tramite l’autoritratto è quello di preferire la rappresentazione della propria Identità alla propria faccia: l’artista, facendo ricorso alla fantasia piuttosto che alla mimesi, decide di tradurre in colore la propria interiorità. Ciò che verrà presentato sarà il prodotto del proprio occhio interiore, e non ciò cui l’Altro può accedere. Tale artista dischiude la propria intimità per presentarsi al mondo tramite il proprio linguaggio artistico. Chi si ritrae non decide di rappresentare solo il suo corpo fisico, ma tenta di mostrare il proprio essere nel mondo. A tal proposito è interessante fare un breve riferimento alla distinzione che Husserl fa della duplice percezione che l’uomo ha del proprio corpo. Egli chiama Körper la massa fisica e biologica, mentre denomina Leib il corpo che l’uomo percepisce come indiscutibilmente legato alla propria identità. È a questa seconda tipologia di percezione di se stessi che l’autoritrattista è profondamente legato. Secondo Husserl è il Lieb ad essere il dispositivo tramite il quale confrontarsi con gli altri: il soggetto riconosce altri oggetti simili a lui che appaiono dotati di un corpo proprio e assimila la loro esperienza alla sua. Il pensiero di Husserl è proficuo per comprendere l’identità – legata alla corporalità e al proprio esistere – e la similitudine che il soggetto riscontra fra lui e gli altri. Tuttavia, non si tiene conto di un passaggio fondamentale: la differenza che determina la particolare identità. Gli uomini non sono tutti uguali né a livello fisico (eccetto i gemelli omozigoti), né tantomeno a livello intellettuale: fra loro c’è sempre uno scarto. Non ci fosse tale scarto – determinato da opinioni ed esperienze diverse, ma anche reazioni emozionali differenti, per esempio – non avrebbe senso comunicare. Husserl fa riferimento all’altro come se si trattasse di un alter ego: “Husserl non costruisce un Tu, quanto piuttosto un altro io, condizione non sufficiente per l’instaurarsi di un dialogo vero e proprio” (Volli 2008, 93). Allora la domanda sorge spontanea: l’autoritratto è un alter ego dell’artista oppure è Altro? “Je est un autre”, risponderebbe Rimbaud: l’oggettivazione che l’artista fa del proprio corpo comporta che egli si astragga dal suo corpo stesso e dall’identità che gli è legata. Tale distacco permette la costruzione del doppio al quale fare riferimento per studiarsi. La riflessione su se stessi, cioè, comporta l’edificazione di un Tu altro, che però coincide con lo Stesso. Soltanto in un rapporto Io-Tu si può compiere la comunicazione, un dialogo interiore che si riferisce all’Io, ma che richiede che questo Io si sdoppi nella diade Io-Tu. Nell’autoritratto, “l’identità si è fatta alterità irrimediabile, distanza, separazione, divorzio” (Boatto 2002, 24). Definirsi da se stessi comporta dunque un débrayage ed una condizione di ascolto. Tuttavia, il débrayage comporta anche un successivo riavvicinamento: riprendere se stessi con l’émbrayage ed accettarsi è necessario per non annegare come Narciso nelle acque della fonte Ramnusia. Il distacco non deve essere totale ma, nella riflessione, si deve sempre poter fare un ritorno a se stessi. Che il linguaggio dell’artista si attenga alla mimesi o alla fantasia non ha qui rilevanza: ciò che importa è evidenziare il fatto che per l’artista, l’atto di ritrarsi ha sempre costituito un atto di proiezione, un progetto di se stesso e meno una descrizione realistica. Con l’autoritratto si accentua la propria esperienza personale: si allentano i legami con la società civile per chiudersi nella propria solitudine. Nell’isolamento l’uomo trova se stesso: l’eremita è espressione radicale di tale processo. I due tipi di ritratti ipotizzati sono due poli del tutto teorici dell’attività dell’artista: far aderire l’autoritratto al proprio corpo oppure astrarre completamente dalla propria condizione fisica sono le due estremità entro le quali è racchiuso l’autoritratto. La storia dell’arte mette in evidenza il progressivo passaggio da un polo all’altro operato dai maggiori artisti. Nato in Italia, nel panorama del rinnovamento artistico del Rinascimento, l’autoritratto si distaccava dalla mentalità artistica medievale – la quale negava l’importanza dell’individualità delle persone, preferendovi invece il simbolo e l’astrazione – e metteva al centro la specificità del soggetto. L’individuo era infatti posto al centro dell’universo e considerato artefice di se stesso. L’artista cominciava in quest’epoca ad avere coscienza del suo individuale essere nel mondo, ad autonomizzarsi dalla religione. Egli prendeva coscienza del carattere unico e originale della propria arte e rivendicava la dignità del suo ruolo di creatore. L’autoritratto è nel Rinascimento l’atto attraverso il quale egli si impone in seno alla sua stessa opera. Gli artisti rinascimentali concentravano l’attenzione sulla fisionomia del volto rappresentato, che doveva riflettere la verità psicologica del soggetto: l’opera d’arte riproduceva nel miglior modo possibile l’immagine dell’artista. Così, egli cercava un modo per essere riconosciuto, non soltanto attraverso le opere da lui realizzate, ma attraverso la sua immagine da lui stesso prodotta. L’autore del dipinto non doveva essere solo apprezzato per la sua arte, ma riconosciuto. Grande attenzione al proprio volto che emerge nettamente dal fondo, rivelando immediatamente e in modo efficace lo stato d’animo e la personalità del soggetto, ma anche attenzione a farsi riconoscere come artista: molteplici sono gli autoritratti in cui i pittori si rappresentano con i propri strumenti del mestiere – tavolozza e pennelli. Con l’invenzione dello specchio veneziano – lo specchio moderno al quale siamo abituati – il ritratto mimetico ha la massima espressione. In questo periodo l’autoritratto è un riflesso esternalizzato, fissato sulla tela per tenere traccia dell’esistenza dell’artista. Nell’autoritratto romantico diventa assolutamente centrale la resa psicologica del soggetto, rappresentato spesso come personalità inquieta, scissa tra opposte passioni. L’artista vuole esprimere la propria individualità, unica e irripetibile, e al contempo la lotta interiore che lo pone in una condizione di perenne incertezza esistenziale. Cerca, allora, di rappresentare la verità del suo essere: l’autoritratto è una sorta di emanazione dell’Io. È dunque in quest’epoca che l’autoritratto viene concepito non solo come un’autorappresentazione, ma anche come ricerca di se stesso, tentando di comunicare agli altri e a sé medesimo i propri moti interiori. La fine del secolo segna l’inizio della crisi della società occidentale. A cavallo fra Ottocento e Novecento, gli scritti dei Maestri del Sospetto iniziano a mettere in dubbio la società e il singolo individuo. Nietzsche mette in discussione l’esistenza dei valori; Freud individua nella mente umana giochi inconsci incontrollabili dall’uomo; Marx mette in evidenza il fatto che la società è mutevole e frutto di processi economici in lotta. Essi, con le loro teorie, porteranno una marcata frattura nella dimensione dello spirito. Anche gli artisti vengono colpiti profondamente dalla crisi dell’identità e dal Novecento l’autoritratto si distacca progressivamente dal carattere mimetico che lo aveva contraddistinto nei secoli precedenti. La rappresentazione dell’io dell’artista contemporaneo non può che essere confusa, nevrotica, frammentaria. Non più riflesso di se stesso, bensì analisi e ricerca continua del significato della propria esistenza: Il pittore cessa di dipingere delle fisionomie più o meno somiglianti di se stesso per procedere a delle radiografie, a degli spaccati, delle esperienze esistenziali, per elaborare una figura e un progetto del proprio destino. Una visione totale dell’uomo, che discendeva da un cristianesimo svuotato ormai di ogni trascendenza, sta franando in una molteplicità di propositi e agonie, mentre pochi individui solitari, spesso sconosciuti gli uni agli altri, si sforzano di crearne una nuova (Boatto 2002, 54). I caratteri del ritratto tradizionale vengono scardinati dall’avvento della pittura espressionista. Nell’autoritratto espressionista l’artista mira non tanto a rappresentare le fattezze di se stesso, quanto a suggerirne la personalità, attraverso forme spesso angosciose e improntate a una sorta di inquieto misticismo. Le pennellate vigorose sembrano essere traccia di un animo inquieto che si impossessa del colore per trovare il modo di divenire oggetto concreto, visibile e palpabile: l’autoritratto diviene il luogo sperimentale dell’Io. L’artista studia la propria autocoscienza e i suoi mutamenti, avvicinandosi alla propria essenza. La verità è ormai distaccata dalla mimesi e dall’evento sensibile: il graduale passaggio dalla rappresentazione della realtà all’astrattezza indica un pensiero che guarda oltre agli indizi del reale e che cerca di rappresentare l’invisibile e l’inconoscibile. La fisionomia viene abbandonata per essere sostituita da un essere-nel-mondo – il Lieb di Husserl. La fisionomia, dato esteriore, si trasforma con il lento avanzare degli anni, mentre l’essere-nel-mondo è un’ipotesi e un progetto dell’artista e si trasforma continuamente con l’esperienza del vivere. L’autoritratto, con maggior evidenza nell’espressionismo, è testimone dell’intreccio fra arte e vita dell’artista: l’arte diviene il mezzo tramite il quale prendere coscienza di se stessi e vivere. L’immagine che l’artista ha di se stesso non è più soltanto una presenza fisica: nel suo ritrarsi, l’artista tenta di catturare ciò che va al di là del dato sensibile, ovvero la propria identità. A seconda di ciò che vuole comunicare l’artista, avremo sensazioni diverse. Il soggetto che si coglie nella sua immagine reale e sociale produrrà un effetto meno empatico rispetto ad un autoritratto interiore. È specialmente nei ritratti oggettivi – esteriori – che il pittore necessita di un dispositivo come lo specchio che gli permetta di vedersi con occhi altrui. Producendo un autoritratto, l’artista ha la possibilità di analizzare la propria immagine per poi comunicarla agli altri, ma soprattutto a se stesso. Si vede dunque che il ritratto, a differenza dello specchio, è materia manipolabile per le finalità del suo autore. Non soltanto uno strumento per comunicare la propria immagine, ma mezzo d’analisi che, forse anche maggiormente rispetto allo specchio, permette lo studio e l’affermazione del proprio ruolo nella società, delle proprie emozioni, della personalità, della soggettività: l’identità è la vera protagonista dell’autoritratto, non la mera immagine. Nello specchio, invece, non emerge che l’immagine: se non siamo noi che guardiamo il nostro stesso riflesso, non possiamo accedere all’identità dell’altro che si presenta allo specchio. Come detto sopra, l’autoritratto è un volto che diventa segno e dunque linguaggio: come testimonia il mito di Narciso e da come si può dedurre da quello raccontato da Aristofane nel Simposio, l’identità emerge dal linguaggio e dalla relazione con gli altri, la quale richiede, appunto, di ricorrere al linguaggio. Si nota dunque l’importanza della comunicazione nel processo di costruzione dell’identità. Bibliografia Boatto, Alberto Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol. Laterza, Roma-Bari 2002. Eco, Umberto Sugli specchi e altri saggi. Sugli specchi e altri saggi : il segno, la rappresentazione, l'illusione, l'immagine. Bompiani, Milano 1995. Siri, Giovanni La psiche del consumo, F. Angeli, Milano 2001. Tagliapietra, Andrea La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica. Bollati Boringhieri, Torino 2008. Volli, Ugo Manuale di semiotica. Laterza, Milano 2003. Volli, Ugo Lezioni di filosofia della comunicazione. Laterza Roma-Bari 2008. 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