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I.1 | Anton Brenek (Brünn, 1848 - BAden 1908) 30 | Busto di Francesco Giuseppe I d’Austria, bronzo, 99 cm (h), 1897. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Collezioni, inv. M00978 I.1 | Anton Brenek (Brünn, 1848 - Baden 1908) Busto di Francesco Giuseppe I d’Austria, bronzo, 99 cm (h), 1897. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Collezioni, inv. M00978 Il Trentino, il Tirolo, la monarchia asburgica: politica e geografia tra i due secoli Marco Bellabarba Cesare Battisti e un discorso parlamentare (1911) È il 24 ottobre 1911 quando Cesare Battisti, un Journalist come lo deiniscono gli stenograi parlamentari, pronuncia il suo primo discorso alla Camera dei deputati austriaca. Il giovane politico socialista fa parte della ventina di deputati espressi dal Land del Tirolo nelle elezioni a sufragio universale tenutesi a giugno di quell’anno: nove provengono dai distretti meridionali della provincia (i collegi di Trento, Rovereto e delle valli trentine limitrofe) di lingua italiana; sedici sono espressione dei collegi settentrionali (grosso modo gli attuali Alto Adige-Südtirol con il Tirolo austriaco) abitati a maggioranza da popolazione germanofona. Tra di loro, il gruppo più consistente è costituito dai popolari trentini (sette su nove) e dai cristiano sociali tirolesi (dodici su sedici), due partiti di matrice cattolica, abbastanza vicini e disposti a collaborare nonostante le rispettive appartenenze nazionali. Cesare Battisti e Simon Abram sono iscritti al Klub dei socialdemocratici, un partito trasversale a tutti i territori asburgici e, per il momento almeno, tenuto assieme in parlamento dall’essere i più temibili oppositori alle scelte di governo. Agli estremi del gruppo ogni propensione al dialogo s’incrina bruscamente: il barone Valeriano Malfatti, unico esponente dei liberali, rappresenta le istanze di una borghesia urbana conservatrice e idealmente ilo-italiana, mentre i tre parlamentari ‘tedesco-nazionali’ (iscritti al Deutscher Nationalverband) guidati dall’avvocato Eduard Erler appartengono all’ala più intransigente dei movimenti pangermanisti – e, a livello austriaco, i veri vincitori della recente tornata elettorale1. Le divisioni nazionali si sommano dunque alle rivalità politiche, creando tante linee di frattura che si rilettono fedelmente nel discorso di Battisti. L’intervento occupa i lavori dell’assemblea per parecchie decine di minuti, interrotto da applausi e da aperte contestazioni2. Battisti afronta un tema, l’istituzione di un’università in lingua italiana in Austria, già più volte messo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari. Da decenni si sono susseguiti disegni di legge discussi nelle commissioni della Camera e sempre regolarmente afossati per volontà dei ministri responsabili. Prendendo spunto da quegli insuccessi, il deputato socialista attacca frontalmente il governo guidato del primo ministro Gautsch: “Il modo con il Governo ed il Parlamento austriaci han trattato la questione universitaria italiana dal 1871, anno in cui fu portata in questa Camera per la prima volta, ino ad oggi, è il documento maggiore dell’insipienza di Stato austriaca”. Tutto l’insieme del discorso mantiene il tono tagliente dell’esordio: vengono ricordate le violenze tra studenti scoppiate nel novembre del 1904 a Innsbruck, all’inaugurazione di una facoltà giuridica I.1 ‘provvisoria’ in lingua italiana, subito prese a pretesto dalla polizia per decretarne la chiusura immediata; si rimprovera al governo di voler concedere solo la facoltà di giurisprudenza – “una piccola fabbrica di impiegati” messa al servizio dell’amministrazione pubblica – invece di corsi in medicina e filosofia, necessari tanto al benessere delle popolazioni quanto alla difesa culturale della nazione italiana. Forse l’educazione universitaria e la scienza hanno un carattere universale ma è il “genio nazionale” a stabilire i limiti entro i quali “è possibile lo studio dei problemi scientiici. E il nostro genio, la storia nostra, la nostra tradizione sono essenzialmente diversi da quelli dei popoli nordici”. Mentre Battisti parla, è interrotto più volte da Eduard Erler (fig. 1). Già vice borgomastro di Innsbruck e al secondo mandato parlamentare, Erler era intervenuto sul tema dell’università italiana nella sessione del 17 novembre 1904, in un aspro scambio di accuse con i deputati trentini a commento delle violenze accadute a Innsbruck. A distanza di anni, la sua contrarietà al progetto si è raforzata: considerando l’istituzione di un’università italiana a Innsbruck un tentativo camufato di ‘snazionalizzare’ la natura tedesca del Tirolo, egli replica di continuo alle parole di Battisti. Il battibecco, trascritto puntualmente dagli stenografi, cresce d’intensità quando Battisti avanza le sue proposte. In risposta al progetto del governo di aprire alcuni corsi in italiano presso le facoltà viennesi, il deputato propone la candidatura di Trieste come unica sede ammissibile per un’università italiana. Città di porto e più raggiungibile per gli studenti italiani che non Vienna o Graz, Trieste “è l’unica città italiana che abbia dovizia di biblioteche, di musei, di società scientiiche, di istituzioni di cultura” in grado di accogliere gli “oltre seicento studenti italiani dell’Austria”. Una scelta a suo giudizio ragionevole, ma osteggiata anzitutto | 31 1. Cartolina autografa di Cesare Battisti inviata al sig. dottor Riccardo Largaiolli di Ala (TN) da Vienna raigurante il Parlamento, timbro postale del 31.12.1913, Biblioteca comunale di Ala, raccolte del Museo Civico “Luigi Dalla Laita”, C4, n. 3 negli ambienti politici viennesi. Il sospetto che un’università italiana alimenti le proteste irredentiste circola da tempo tra tutti i ministri, come sa bene Battisti, che prova a confutare i motivi di questa ostilità. La parte conclusiva del suo discorso si trasforma in un 32 | duro attacco al governo Gautsch, accusato di non volere afatto l’università italiana, e ai deputati tirolesi colpevoli di averla boicottata da sempre. Erler e i “pangermanisti” (Alldeutschen) vengono citati per nome come responsabili di un clima di odio antitaliano assecondato dal governo: “Io non ho sentito dal deputato a Innsbruck signor Erler dei ragionamenti. Ho solo sentito parole di brutale prepotenza ed ofese”3. Da Vienna si ritorna a Innsbruck, nel parlamento tirolese, dove la questione universitaria ha diviso, e continua a dividere, i deputati provinciali. Proprio il ricordo dei dibattiti svoltisi negli anni dentro l’assemblea tirolese (il Landtag, o dieta provinciale) gli consente di mettere a nudo le ragioni del veto posto all’università italiana: lo spettro del contagio irredentista, così come l’eccesso di spese militari autorizzate a detrimento di quelle sociali e la volontà, nemmeno troppo nascosta secondo lui, di privare le classi operaie del diritto all’istruzione superiore: “Io voglio sperare – termina Battisti – che i rappresentanti delle varie borghesie nazionali si sentiranno scossi dall’esempio che viene da noi socialisti, che tutti ci troviamo d’accordo nel riconoscere per ogni nazione il diritto alla cultura”. Il tema dell’università a Trieste, come si vede, è politico e nazionale, almeno che altrettanto culturale. In ogni caso l’intervento di Battisti, come pure le repliche di Erler, sono un ottimo punto di partenza per comprendere la situazione del Trentino negli anni precedenti lo scoppio della Grande guerra. E, più in generale, di tutta la minoranza italiana che abita le province asburgiche, ovvero i distretti meridionali del Tirolo (grosso modo l’odierno Trentino), il Litorale adriatico (la contea di Gorizia, il distretto di Trieste, l’Istria) e la costa della Dalmazia4. Non c’è da stupirsi se Battisti ha deciso di aprire il proprio discorso toccando la questione dell’università. Oltre a essere un tema dotato di una grande eco internazionale – i quotidiani del Regno d’Italia hanno reagito duramente alle notizie degli scontri di Innsbruck – esso intercetta le sensibilità dei suoi colleghi di lingua italiana; possono essere diverse, talvolta antitetiche, le loro proposte di soluzione, ma dopo decenni di ritardi improduttivi la questione universitaria sembra il ritratto più evidente della paralisi in cui afonda l’azione di governo. L’esigenza di un ateneo nelle province asburgiche a sud delle Alpi non è pretestuosa. Tra il 1859 e il 1866, con la cessione all’Italia di Lombardia e Veneto, mancano sedi universitarie (prima erano Pavia e Padova) dove si possano frequentare corsi in lingua italiana. La necessità di iscriversi a Vienna, Innsbruck o Graz, più di rado a Praga, onerosa dal punto di vista economico è ritenuta oltre a ciò in contrasto con le stesse leggi austriache. La costituzione emessa nel 1867 non assegna al tedesco il rango uiciale di ‘lingua di stato’; al contrario di quanto accade nella metà ungherese dell’impero5, ogni gruppo etnico ha il diritto di ricevere l’istruzione primaria nella propria lingua materna e di usarla come veicolo di comunicazione quotidiana negli uici pubblici. Ma il regime di parità giuridica è un velo che si spezza ai piani alti dell’amministrazione pubblica, nel servizio diplomatico, nei quadri di comando dell’esercito, e inine nelle aule universitarie, in cui il requisito d’accesso formale per gli studenti è una buona conoscenza della lingua tedesca. La tormentata questione di un’università italiana nasce da questo fragile equilibrio tra un plurilinguismo uiciale e un regime di ‘diglossia’ pratica che sembra incrinare ogni principio di parità. A lungo, grosso modo sino alla ine del secolo, questa sorta di tacito compromesso ha resistito bene. Tutti i deputati trentini al parlamento, a prescindere dal loro indirizzo politico, si sono prodigati a difendere l’insegnamento delle materie scolastiche in italiano come presidio al “genio nazionale” dei loro elettori; e hanno allo stesso tempo insistito affinché nelle scuole si provvedesse a insegnare precocemente il tedesco, un requisito indispensabile per chi decideva di proseguire gli studi nelle università o cercava un impiego nelle altre province austriache: “il tedesco – aveva detto in aula nel 1884 Roberto de Terlago – è la lingua della cultura e dello stato austriaco, il solo mezzo di comprensione tra le diverse nazionalità dell’Austria. Senza conoscere questa lingua di stato nessun cittadino austriaco colto («gebildeter österreichischer Staatsbürger») potrà sentirsi a casa in Austria”6. Negli ultimi anni dell’Ottocento, tuttavia, il delicato composto di lingue quotidiane, scolastiche e uiciali dell’impero prende a disgregarsi. Dalla Boemia al Trentino (e ritorno) tra Otto e Novecento I primi segnali di diicoltà si sono avvertiti in Boemia e Moravia, province slave ma con una storica presenza di minoranze tedescofone concentrate nelle grandi città (Praga, Brno, Plzeň) e nelle aree industriali. Un rapido processo di modernizzazione economica ha consentito alla borghesia ceca di accorciare le distanze con l’élite tedesca, grandi nobili possessori terrieri, industriali, inanzieri, che da sempre avevano monopolizzato il controllo della dieta provinciale e dei consigli municipali. A questa sostituzione di ruolo politico, ha fatto seguito una presa di coscienza culturale e linguistica. Da un certo momento in poi, i ‘cittadini austriaci colti’ abitanti nel regno di Boemia non hanno sentito più così familiare una lingua parlata e scritta benissimo da tutti, ma ormai sentimentalmente lontana. Gli efetti del disamore verso la lingua di stato hanno avuto conseguenze immediate proprio sul terreno scolastico. Già nel 1869, grazie alle pressioni dei parlamentari locali, l’Università tecnica di Praga si era spezzata in due sezioni distinte, ma il vero successo era arrivato nel 1882, quando l’intera università di Praga, la più | 33 antica dell’Europa centrale, aveva introdotto facoltà solo tedesche o solo ceche. Sull’esempio dell’università praghese, negli anni seguenti le divisioni linguistiche toccano le istituzioni teatrali, i consigli scolastici a ogni livello, l’Accademia delle scienze (nel 1890 i cechi ne fondano una autonoma, scindendola dalla storica istituzione settecentesca), in un susseguirsi di provvedimenti che rendono sempre più precaria la convivenza tra i due gruppi etnici delle province7. Le ripercussioni sulla politica imperiale sono immediate. La più grave crisi della storia parlamentare austriaca, la cosiddetta crisi Badeni del 1897, ha avuto origine proprio dal progetto di considerare il ceco allo stesso livello del tedesco in quanto lingua ‘interna’ dell’amministrazione in Boemia e Moravia; il disegno di legge, di per sé un tentativo di compromesso, è afossato in poche settimane sotto il peso delle dimostrazioni di piazza e del violento ostruzionismo parlamentare messo in piedi dai deputati boemi e austro-tedeschi. La bocciatura provoca immediatamente le dimissioni del primo ministro; dopo l’allontanamento di Badeni, l’attività parlamentare entra in uno stato di ibrillazione destinato a protrarsi ino allo scoppio della guerra. I governi si succedono a ritmi sempre più ravvicinati: sono quattro solo tra 1897 e 1900, costretti a rassegnare il loro mandato di fronte all’impossibilità di creare delle coalizioni stabili. Lo scrittore americano Mark Twain, in viaggio come reporter a Vienna durante la crisi Badeni, racconta di un’assemblea rappresentativa di fatto ingovernabile. C’è una costituzione e c’è un parlamento – scrive per l’“Harper’s New Monthly Magazine” nel marzo 1898 – composto di 425 deputati: “Questi uomini rappresentano popolazioni che parlano undici lingue. Ciò significa undici distinte varietà di gelosie, ostilità e interessi che si combattono a vicenda. […] Il parlamento è suddiviso in molti partiti – i clericali, i progressisti, i tedesco-nazionali, i Giovani cechi, i socialdemocratici, i cristiano sociali, e altri ancora – ed è diicile creare delle alleanze funzionanti tra loro. A volte preferiscono combattersi l’un l’altro”8. La rissosità della Camera dei deputati è sotto gli occhi di tutti, così come la diicoltà incontrata dai vari Ministerpräsidenten nel costruire delle maggioranze in appoggio ai loro governi. Da molti punti di vista, dopo la crisi del 1897, il meccanismo parlamentare in Austria cessa di funzionare regolarmente; la sensazione di paralisi è attestata dal rapido succedersi dei capi di governo e dal ricorso, anch’esso sempre più usuale, alla legislazione d’emergenza da parte dell’imperatore che, sfruttando un apposito paragrafo della costituzione, emana spesso disegni di legge saltando la mediazione del parlamento. Al centro delle critiche di Twain stanno le divisioni di carattere linguistico tra i gruppi dei deputati; è un rilesso quasi condizionato per gli osservatori esterni imputare il cattivo funzionamento della politica austriaca alle frizioni 34 | tra i suoi undici gruppi etnici. A chi viene da fuori e non ne conosce bene la realtà, la mescolanza di lingue ed etnie dell’ediicio asburgico lascia di solito un’impressione negativa. Per altro, il pregiudizio verso gli imperi, l’austroungherese come quello ottomano o russo, è un luogo comune della cultura politica otto-novecentesca. Tutti, con appena qualche sfumatura, sembrano sistemi politici oramai decadenti costretti ad attendere l’attimo in cui spariranno9. L’aspettativa di morte che aleggia sugli imperi deriva in gran I.1 parte proprio dall’eterogeneità della loro isionomia etnica; guardati dalla prospettiva dei grandi stati nazionali europei (e non solo, come mostrano i rilievi del nordamericano Twain), essi appaiono delle anomalie anacronistiche, indebolite dall’assenza di un passato e di una tradizione nazionale unitaria. Una simile lettura possiede ottimi argomenti a suo favore, se si guarda ad esempio alle sconitte militari subite dall’impero asburgico nel corso delle guerre d’indipendenza tedesche e italiane pochi decenni prima; a patto però di non scambiare il pluralismo etnico per un segno di arretratezza e di immobilismo, come fosse un indicatore inequivocabile di una crisi che lo attanaglia da sempre. Si tratta, al contrario di una condizione strutturale della sua storia. Fin dall’ascesa al trono di di Francesco I d’Asburgo l’11 agosto del 1804, l’impero asburgico aveva compreso dentro di sé regioni di lingua tedesca, magiara, italiana, slava (nelle loro molteplici varianti), rumena e ucraina, senza avere mai l’intenzione di costruire sopra di essi un modello di stato centralizzato. Al suo interno la geograia imperiale si presentava suddivisa in grandi unità territoriali, derivanti in parte dalle conquiste sei-settecentesche della dinastia asburgica e in parte dalle acquisizioni successive al congresso di Vienna nel 1815: a inizio Ottocento i territori ereditari asburgici erano formati, grosso modo, dall’Austria odierna, dal regno di Boemia (attuale repubblica ceca unita a un frammento di Slesia polacca), la Slovenia, il Litorale adriatico (adriatisches Küstenland) e la Dalmazia; c’erano poi le province incluse nel regno storico d’Ungheria (Ungheria, Slovacchia, Croazia, la Transilvania rumena, parti dell’attuale Serbia), il regno di Galizia-Lodomeria e il ducato della Bucovina (oggi Ucraina), arrivati alla dinastia dopo le spartizioni del regno di Polonia, inine il regno del Lombardo-Veneto. Alcune di queste terre, in particolare la vasta appendice italiana annessa per volontà del principe Metternich nel 1815, l’impero le perderà nel corso del XIX secolo. A seguito della guerra del 1866, la Lombardia e il Veneto verranno ceduti al regno d’Italia, riducendo a una piccola minoranza la popolazione italofona, che ino ad allora era stata, per ricchezza e prestigio politico, una delle importanti nazionalità ‘storiche’ del complesso asburgico. L’anno seguente, a causa della sconitta con l’Italia e la Prussia, Francesco Giuseppe aveva dovuto arrendersi alle pressioni dell’élite magiara, la quale dal 1848 chiedeva maggiore autonomia per le province storiche del regno d’Ungheria. L’esito di tali pressioni era sfociato nella stipula del famoso Compromesso (l’Ausgleich del 1867) grazie al quale l’impero si era spaccato in due tronconi, il primo formato dalle terre ereditarie asburgiche più occidentali, incluse però Galizia-Lodomeria e Bucovina, il secondo dal blocco del regno storico d’Ungheria. Escluso il vincolo dinastico e alcune materie gestite in comune (economia e iscalità, guerra e difesa, relazioni diplomatiche) Austria e Ungheria, anche chiamate Cisleitania e Transleitania, erano due entità statali del tutto separate per quanto concerneva i rispettivi afari interni, con ministeri, amministrazioni, personale burocratico, istituzioni educative, che si muovevano in piena autonomia rispondendo solo ai due parlamenti di Vienna e Budapest. “Sebbene gli Asburgo non fossero mai riusciti a uniicare realmente i loro territori in uno stato pienamente centralizzato, fu questo il primo riconoscimento ufficiale che un simile progetto avrebbe dovuto essere abbandonato”10. Nasceva la ‘monarchia dualistica’ (Doppelmonarchie), un ibrido unicum nel panorama europeo, dentro la quale le due metà austriaca e ungherese si trovarono a perseguire obiettivi politici molto diversi: nonostante le spinte a centralizzare il proprio apparato amministrativo centrale, l’Austria, dove Francesco Giuseppe manteneva il titolo di imperatore, conservò forti elementi di parziale federalismo lasciando intatti i privilegi di autonomia goduti dai propri territori; all’opposto le classi dominanti magiare del regno d’Ungheria, in cui Francesco Giuseppe era ‘solo’ re, vararono da subito una serie di leggi intese a circoscrivere i diritti delle sue molte minoranze etniche. Per quanto il Compromesso raggiungesse l’obiettivo di rendere meno conlittuali le relazioni con l’Ungheria il modo in cui fu realizzato fece trasparire immediatamente alcuni difetti. Austria e Ungheria, a breve distanza dalla ratiica del loro ‘divorzio’, si erano dotate di carte costituzionali che tutelavano i diritti individuali dei cittadini, tra i quali – ed era un principio evocato tra le righe del discorso di Battisti del 1912 – quello di essere educati nella loro lingua materna. All’eguaglianza giuridica delle singole nazionalità la costituzione austriaca del dicembre 1867 dedicò un articolo speciico, il numero 19: “Tutte i popoli (Volksstämme) dello Stato godono eguali diritti e ciascuno di essi ha un diritto inalienabile a conservare e sviluppare la propria nazionalità e lingua. L’eguaglianza di tutte le lingue d’uso comune (landesüblich) nelle province, nelle scuole, nell’amministrazione e nella vita pubblica, viene riconosciuto dallo Stato. Nelle province abitate da più nazionalità, l’istruzione pubblica deve essere organizzata in modo tale che ciascuno di questi popoli disponga dei mezzi necessari per l’istruzione nella propria lingua, senza essere costretto ad apprenderne una seconda”. Secondo il testo, quindi, non poteva esistere un gruppo etnico privilegiato rispetto agli altri; nella pratica tuttavia “la situazione si presentava alquanto diferentemente, perché le misure concordate nel Compromesso collocavano di fatto in una posizione dominante” la popolazione di lingua tedesca in Austria e, forse in modo più esplicito, i magiari in Ungheria11. La disparità era evidente nei meccanismi con cui si eleggevano i deputati ai parlamenti centrali di Vienna e Budapest. I regolamenti prevedevano delle restrizioni di censo accanto a un disegno dei collegi elettorali che escludevano dal voto una larga fetta della popolazione; nulla di inusuale per i sistemi politici dell’Europa ottocentesca, ma nella monarchia asburgica, la combinazione di questi fattori tendeva a favorire fasce precise di elettorato – ceti proprietari, borghesie urbane, aristocratici – coincidenti con le élites austro-tedesche e magiare. Anche a livello dei parlamenti (o diete) provinciali, sbarramenti censitari e distribuzioni dei seggi premiavano un singolo gruppo etnico. In Tirolo, come notò in un suo discorso alla Camera il deputato trentino don Giovanni Salvadori, i distretti di lingua italiana potevano disporre di dodici seggi (un deputato ogni 28.550 abitanti) contro i ventidue di quelli tedeschi (un deputato ogni 16.832); oltre a questo i 342.600 abitanti dei comuni rurali trentini erano rappresentati alla Camera da tre deputati, mentre ai collegi rurali tedeschi, di poco più popolosi (370.307 residenti), spettavano cinque seggi12. Esistevano altre questioni, non meno spinose, lasciate irrisolte dopo la pubblicazione del Compromesso. La prima riguardava la possibilità di dare una fisionomia riconoscibile ai popoli di cui si parlava nella carta: erano di certo un Volksstamm (popolo, stirpe)13 gli austro-tedeschi, i magiari, i cechi, gli italiani, ovvero le ‘nazioni’ storiche della monarchia, che vi appartenevano da secoli e risiedevano in spazi amministrativi delimitati: ma la stessa deinizione valeva per gli insediamenti slavi di nuova acquisizione, per le minoranze ucraine e rumene disperse nelle pianure orientali? Una seconda questione controversa aiorava considerando la distribuzione geograica dei gruppi linguistici. Nella Cisleitania (lo stesso valeva per la porzione ungherese) si contavano sulle dita di una mano i territori abitati in modo compatto da un solo gruppo etnico: i vecchi arciducati austriaci, l’entroterra croato e sloveno, la parte meridionale del Tirolo erano tra questi i casi più evidenti. Ma nelle restanti province austriache la mescolanza di due, o talvolta tre, famiglie linguistiche, costituiva la regola; tutte le città di dimensioni medie o grandi ospitavano comunità alloglotte, disposte di solito attorno a un nucleo più o meno numeroso di residenti tedeschi – funzionari dell’amministrazione pubblica, militari, imprenditori borghesi. E la stessa scena si ripeteva nei | 35 distretti rurali boemi e moravi, abitati da tedeschi e cechi, in Istria e Dalmazia, dove italiani, sloveni e croati vivevano gomito a gomito da secoli, nelle campagne della Galizia segnate dalla presenza di ruteni, ebrei e polacchi. Ancora una volta la forma giuridica si scontrava con gli imprevisti della realtà: se famiglie di etnia diversa vivevano l’una accanto all’altra nello stesso quartiere o villaggio, come si sarebbero identiicate allo scopo di proteggere i loro diritti di “nazionalità e lingua”? Com’era pensabile mettere su carta dei conini etnici quando i rapporti di vita quotidiana tendevano a ignorarli? A complicare ancora di più gli intrecci etnici stavano i rimescolamenti causati dai lussi migratori. Se le continue crisi agrarie spinsero milioni di contadini austro-ungheresi a imbarcarsi verso le terre americane – dal 1876 al 1910 saranno in tutto 3,55 milioni ad attraversare l’oceano – i primi segnali di industrializzazione nella seconda parte del secolo provocarono un’ondata di migrazioni interne ancora più consistente. Almeno un quinto di tutti gli abitanti della monarchia a inizi Novecento non era nato nel posto in cui viveva14. All’incirca 9,4 milioni di persone appartenenti a etnie diverse cambiarono luogo di residenza alla ricerca disperata di migliori opportunità lavorative. Nel 1880 a Vienna, appena il 38,5% della popolazione era nata nella città e questa percentuale sarebbe rimasta al di sotto della soglia del 50% anche nei due censimenti successivi del 1900 e del 1910. A cavallo del nuovo secolo, circa 410.000 degli 1,6 milioni di residenti nella capitale provenivano da Boemia e Moravia, 43.000 e 11.000, rispettivamente da province slovacche e croate (allora regno di Ungheria), 37.000 dalle terre della Galizia polacca15. La crescita industriale arricchiva alcuni luoghi e ne svuotava altri, creava lussi di persone richiamate dalla prospettiva di una vita migliore e abbandonava alla miseria i luoghi da cui si erano staccati. I grandi agglomerati metropolitani della monarchia assorbirono nel secondo Ottocento una corrente inesauribile di nuovi arrivi16. Dei 225.000 abitanti attestati a Trieste dal censimento del 1910, più di un quarto provenivano dall’hinterland sloveno, al quale andavano aggiunti circa 11.000 tedeschi, una folta colonia di ‘regnicoli’ italiani, e gruppi più piccoli di croati, serbi, greci, ebrei. Vivevano a Trieste più sloveni che a Lubiana (la terza città per numero di abitanti sloveni era Cleveland, in Ohio)17, ma la loro diaspora toccava anche città minori come Graz, in Stiria, o i margini meridionali della Carinzia, nei quali la loro presenza risaliva all’età moderna e continuava a ingrossarsi. I trasferimenti potevano riguardare, in ogni caso, aree manifatturiere minori, che all’improvviso divenivano attraenti per le popolazioni limitrofe. Nel Vorarlberg, all’angolo più occidentale del Tirolo, lo sviluppo delle industrie locali fu capace di richiamare corposi lussi di lavoratori provenienti in primo luogo dal Trentino, un’area desolatamente spoglia, 36 | invece, di attività manifatturiere: la cittadina di Bludenz, si riempì di manodopera italofona (erano il 12% dei residenti e il 30% dei battezzati prima del 1914), la parte maggioritaria di un’emigrazione che interessava comunque tutte le vallate del Tirolo settentrionale e in particolare il comune di Innsbruck, dove abitavano circa 4000 trentini. Com’è facile immaginare, modiicazioni così radicali della struttura socio-economica di intere aree della monarchia agirono sui profili della sua distribuzione etnica. Le migliaia di volti sconosciuti che invadevano le città austriache provocavano tensioni sociali e attriti con i vecchi residenti; interi quartieri urbani erano soggetti a un continuo giro di persone e di cambi d’indirizzo quasi inaferrabile agli occhi delle autorità. D’altra parte la mobilità degli individui apriva anche nuove prospettive di ascesa per chi sapeva approfittarne: le rapide ascese imprenditoriali compiute dagli immigrati – i commercianti e gli artigiani sloveni a Trieste, o gli industriali cechi a Praga – contribuivano a scardinare le posizioni di rendita godute dalle élites locali. E a quel punto era inevitabile che nuove gerarchie della ricchezza si tramutassero in pretese di carattere politico. Un po’ dappertutto nelle regioni della monarchia gruppi etnici ino a lì minoritari cominciarono a premere per veder riconosciute le loro prerogative costituzionali. Posto di fronte a una multietnicità ormai sfuggente, il governo cercò di correre ai ripari. Con una legge del 1880 si avviarono le procedure di redazione del primo censimento austriaco in cui i cittadini dovevano dichiarare, non era mai accaduto in precedenza, quale lingua parlassero nelle comunicazioni quotidiane. Molto probabilmente il quesito sulla ‘lingua d’uso’, o Umgangssprache (i censimenti ungheresi rilevavano invece la lingua materna) aveva l’obiettivo di mantenere il tedesco a un gradino superiore sugli altri idiomi parlati nella monarchia. Di fatto, in quanto veicolo di comunicazione obbligatorio nell’esercito e in tutti i settori più alti dell’amministrazione pubblica, il tedesco godeva di una rendita di posizione oggettiva; perciò i legislatori pensarono che la maggioranza della gente, per semplici ragioni di opportunità, avrebbero preferito indicarla nei questionari come propria lingua quotidiana, anche se non avevano genitori tedeschi. I risultati del censimento disattesero le aspettative. Da un lato, la mobilità sociale ed economica degli ultimi decenni aveva eroso il prestigio dei tedeschi, che non venivano più identiicati come il solo ceto dirigente della monarchia; dall’altro, benché si trattasse di un quesito ‘tecnico’, il rilevamento linguistico costringeva tutti a dichiarare la propria appartenenza a una comunità nazionale. L’esito forse principale e imprevisto del censimento fu infatti quello di attribuire alle lingue (erano 11 quelle riconosciute uicialmente) un valore politico, di marcatore degli spazi nazionali, che ino ad allora non possedevano. Non per nulla, a partire dal 1880 cominciarono a essere fondate associazioni private volte a preservare l’insegnamento prima del tedesco e poi di tutte le altre lingue nella monarchia dove venivano sentite in pericolo. Nel giro di pochi anni, dentro i consigli cittadini o i parlamenti provinciali, la tutela delle lingue divenne uno degli aspetti più infuocati del dibattito politico. La temperatura dello scontro fu subito altissima in zone particolari, come Praga, Trieste, la regione dei Sudeti, le aree di conine fra Austria e Slovenia, contrassegnate dalla storica mescolanza di etnie diferenti. Ma interessò anche parti di territorio asburgico dove non si correva alcun rischio di snazionalizzazione linguistica. Prendiamo ad esempio proprio il caso del Trentino. Durante una sessione parlamentare dell’aprile 1884 il deputato liberale Pietro Lorenzoni aveva rinfacciato al governo di finanziare un liceo e una scuola elementare tedesca a Trento mentre trascurava di sostenere con fondi adeguati i salari degli insegnanti trentini. La soppressione dei due istituti tedeschi avrebbe permesso i risparmi necessari a dotare di nuove risorse le scuole italiane, senza farle gravare sulle casse già esauste dei comuni; allo stesso tempo “il governo avrebbe dimostrato di essere estraneo ad ogni tentativo di germanizzazione del Tirolo italiano e di rispettare il sentimento nazionale di questa terra”18. Roberto de Terlago, che abbiamo incontrato sopra, prese le distanze dal collega, precisando che il liceo, una sezione distaccata dell’istituto in lingua italiana, non veniva frequentato solo da tedeschi e inoltre che sui 458 alunni complessivi delle scuole elementari, più di due terzi provenivano da famiglie italiane. Secondo Terlago, l’amministrazione statale avrebbe semplicemente corrisposto ai suoi doveri nel garantire la possibilità a tutti di apprendere il tedesco in dai primi anni di scuola. Bastarono queste dichiarazioni, in fondo piuttosto ragionevoli, a ingenerare in Trentino un’ondata di critiche che verso la ine dell’anno, sotto forma di petizioni dirette al Consiglio dell’impero, vide protagonisti i podestà di Trento e Rovereto accanto a decine di comuni rurali. Una delle smentite più secche venne dalla nobiltà del grande possesso fondiario, tra l’altro il collegio elettorale di Terlago, a cui si rimproverò di aver commesso “un’ofesa alla nazionalità italiana del Trentino, ed un ostacolo ad una buona educazione della nostra gioventù, nonché allo sviluppo delle nostra coltura”19. Reazioni di rigetto così aggressive non avevano alcun riscontro di realtà. Considerando il numero esiguo di residenti tedeschi in Trentino l’eventualità di conflitti con la maggioranza italiana era del tutto remota. La presenza di funzionari austriaci creava talvolta inquietudini o rancori nella classe dirigente, ma non si giunse mai a una spaccatura frontale. Nemmeno le attività delle associazioni pangermaniste, di cui la stampa locale dava sempre conto con molta enfasi, potevano andare al di là di una propaganda aggressiva e incapace di catturare larghi consensi. Infine, la debole attrattività economica della provincia, impediva l’arrivo in massa di forza lavoro da altre regioni vicine, un fatto che a Praga, Trieste, Lemberg, Graz, era stato regolarmente il motivo dell’erompere di scontri etnici20. Il volto compattamente italiano del Tirolo meridionale21, la sua lingua d’uso, le sue tradizioni, insomma non correvano rischi di sorta. Nonostante ciò, la diferenza linguistica aveva accresciuto il suo valore identitario ino a essere individuata immediatamente come un segno di diferenza culturale, di mentalità diferenti, di diferenti esigenze nel campo del diritto o delle amministrazioni. Il nazionalismo era meno una causa che un rilesso delle diicoltà in cui si dibatteva la monarchia; ma se le prese di posizione più estreme contagiavano solo una parte minoritaria della popolazione, poco a poco le contese etniche divennero il linguaggio della quotidianità politica e attecchirono velocemente. Molti amministratori austriaci, anche quelli chiamati a governare aree ‘rischiose’ come il Tirolo, percepiscono i risvolti contraddittori di quanto sta accadendo. I rapporti inviati nel 1893 al governo dal luogotenente del Tirolo Franz von Merveldt e dal suo delegato per la sede di Trento, il consigliere aulico Benedikt Giovanelli, sono in grado di ofrire una rappresentazione realistica del territorio in cui operano. Pur divisi su molti punti, anche a causa di una strisciante rivalità personale, ambedue provano a mettere a fuoco con oggettività le ragioni della parte trentina. Le lamentele – essi scrivono – scaturiscono da condizioni di svantaggio innegabili: il mancato sviluppo industriale, il carico eccessivo della fiscalità, i meccanismi elettorali penalizzanti per i trentini nella distribuzione dei seggi alla dieta di Innsbruck. Entrambi riconoscono che le richieste di maggiore autonomia nei confronti della parte tedesca del Land hanno favorito la recezione di discorsi ilo-italiani, fattisi più pericolosi dopo la costituzione del regno d’Italia, che costituisce un polo d’attrazione naturale per tutti i suoi “Connationalen” stranieri. Ma nessuno dei due è disposto a caricare di simboli nazionali la scontentezza dei tirolesi meridionali. Nelle loro analisi vengono prima di tutto i motivi materiali. Giovanelli ritiene la questione trentina essenzialmente un fatto economico, che ha acquisito solo col passare del tempo, in larga misura grazie alla povertà dilagante, una dimensione nazionale e politica; ed è esplicito nell’osservare che la “mancata considerazione di questi dati di fatto da parte dell’autorità governativa e luogotenenziale offre al partito irredentista – che sarebbe altrimenti una inima minoranza con difusione limitata alla borghesia professionale cittadina – la possibilità di sfruttare ai propri ini eversivi la legittima insoddisfazione esistente tra la popolazione”22. | 37 Sarebbe dunque compito del governo eliminare in fretta le cause del malessere sociale riacquistando così il favore delle classi popolari, il cui lealismo asburgico sembra fuori questione, oltre ai proprietari terrieri nobili ed ecclesiastici, i cui interessi sono legati alla stabilità dell’assetto vigente. Su questo punto, c’è piena sintonia con l’analisi di Merveldt, il quale tende a ridimensionare ancora di più l’entità dell’“Irredentismus” evocato spesso nel testo del suo subalterno. Non ci si trova di fronte, in altri termini, a una “Katastrofe” imminente, né a progetti di secessione concreti: occorre invece distinguere tra le poche espressioni separatiste, condannate a restare minoritarie, e una forma di nazionalismo culturale il cui richiamo ha conquistato le simpatie sia dell’Intelligenz borghesi e liberale delle città, sia degli “Austriacanten, che in in dei conti sono pure essi italiani”. Isolare i gruppi radicali e favorire gli elementi italiani più progressisti, mediante provvedimenti che li leghino ai partiti ilo-governativi, è il consiglio suggerito dal luogotenente tirolese. La ricetta del luogotenente consiste perciò nell’introduzione di corpose riforme economiche, ritenute il più valido antidoto alle tendenze irredentiste. È un suggerimento in linea con gli indirizzi governativi del periodo, preoccupati che qualsiasi concessione si ripercuota con un efetto moltiplicatore in province caratterizzate da analoghe tensioni etniche; ma è anche un invito a non mutare in nulla l’assetto costituzionale, una cautela che finisce per trascurare quelle aspirazioni a un’autonomia amministrativa verso cui convergono in Trentino le forze politiche di qualsiasi colore. L’impossibile compromesso trentino (e altri discorsi parlamentari) Emerge da questi rapporti “lo stato di costante paralisi politico-nazionale che caratterizza gli ultimi decenni della monarchia absburgica, paralisi determinata dall’assenza di una volontà politica di impegnarsi in un’azione di riforma nazionale ad ampio respiro, e dalla conseguente impossibilità di risolvere le singole questioni locali”23. A Vienna, la sola strategia razionale per difendere la propria posizione di potenza, dilatata ma fragile, sembra esattamente questa: innovare il meno possibile; o in caso di situazioni giunte al limite della rottura, risolvere i contrasti nazionali attraverso accordi raggiunti in sede locale. Laddove i conlitti linguistici minacciano di delagrare, si introducono forme di compromessi parziali ricalcati sul testo austro-magiaro del 1867, che separano scuole, distretti elettorali, iscalità, chiese, in base un criterio di appartenenza linguistica. Il primo di questi compromessi è varato in Moravia nel 1905, separandola dal regno di Boemia; ne seguono un paio, 38 | realizzati, in Galizia e in Bucovina, altri rimasti solo allo stato di disegno di legge per la Boemia, l’Istria, la Dalmazia, anche il Trentino. Questi compromessi su scala provinciale sono improponibili dove le etnie formano un intreccio troppo denso: non si possono nemmeno attuare, però, in territori dove la separazione porterebbe a un muro contro muro senza vie d’uscita. Lo ha notato con estrema lucidità Augusto Avancini, il primo deputato socialista eletto al consiglio dell’impero dopo l’introduzione del sufragio universale. La legislatura si era aperta nel giugno 1908, con l’esortazione dell’imperatore ai nuovi deputati affinché cessassero le contrapposizioni nazionali che avevano impedito l’approvazione del bilancio; una paralisi non accettabile – aveva commentato Francesco Giuseppe – che la politica austriaca doveva a tutti i costi eliminare. Descrivendo la situazione del suo collegio elettorale, Avancini sembra replicare punto per punto al hronrede del monarca. L’elenco circostanziato delle cause che stringono il Trentino nella morsa della povertà, la crisi dell’agricoltura, l’emigrazione24, l’assenza di investimenti, sono gli impedimenti più stringenti a una possibile riconciliazione nazionale. A peggiorare le cose contribuisce una lettura strumentale delle tensioni etniche. Il fatto che le élites tedesche del Tirolo agitino in ogni circostanza il fantasma del nazionalismo italiano ha impedito al governo di valutare con ponderazione i progetti di autonomia amministrativa avanzati al parlamento tirolese – progetti, come si sa, usciti dalle discussioni dietali dopo un ultimo debole tentativo di riforma nel 1905. I “Signori” irredentisti, come li apostrofa con qualche disprezzo, sono però una piccola fetta di borghesia urbana “troppo fannullona per essere un pericolo verso lo stato” dietro la quale le autorità di polizia nascondono le proprie rappresaglie antipopolari25. Sulla reale portata dell’irredentismo Merveldt e Avancini esprimono dunque opinioni abbastanza simili. Divergono, profondamente invece, sulle modalità necessarie a uscire dall’impasse nazionalistico. La critica mossa dal deputato trentino alla presenza crescente di installazioni militari sul territorio tocca un nervo scoperto della politica della monarchia che ha profonde implicazioni sulla società trentina. Dai primi anni del Novecento, la ‘difesa speciale’ dei conini meridionali ha concesso ai militari una sempre maggiore ingerenza nell’amministrazione del paese a danno dell’autorità politica ordinaria26. La costruzione incessante di forti, il sequestro di terreni ed edifici storici ridotti a caserme – specie a Trento, dove i soldati della guarnigione assommano al 10,9% dei circa 31.000 abitanti27 – sono giustamente stigmatizzati da Avancini come un ulteriore freno allo sviluppo economico della provincia. Ma l’invadenza dell’apparato militare, oggetto di interpellanze critiche da parte di tutti i deputati in quegli anni, non riguarda 2. Il maresciallo di campo Conrad von Hötzendorf saluta le ragazze giudicariesi decorate colla croce di ferro col nastro al valore, cartolina viaggiata, datata 18.7.1917, Trento, Soprintendenza per i beni culturali, Archivio fotograico, Fondo Mazzalai unicamente il Trentino. Essa testimonia la scelta della classe dirigente della monarchia di riportare l’Austria, dopo le sconitte patite con Italia e Germania, al vertice delle grandi potenze mondiale. La nomina a capo di stato maggiore del generale Franz Conrad von Hötzendorf (ig. 2) nel 1906 e le pressioni esercitate dall’erede al trono Francesco Ferdinando sfociano due anni più tardi nella guerra per l’annessione della Bosnia Erzegovina, un episodio che preannuncia il rapido deteriorarsi dell’assetto politico mondiale. L’atmosfera bellicista dominante negli ambienti viennesi contribuisce ad aggravare, se fosse possibile, il già precario equilibrio politico interno. La revanche auspicata dai militari accentua il peso delle componenti sociali da cui provengono i quadri dirigenti dell’esercito, che sono a larghissima maggioranza austro-tedeschi e, con molto distacco, magiari. Così, il loro predominio sancito dall’accordo del 1867 evolve adesso nel mito di una supremazia storica austro-magiara sugli altri gruppi etnici; slavi, italiani, rumeni, galiziani, non appaiono suicientemente aidabili per perseguire una politica estera tesa a riportare l’Austria Ungheria a un rango di leadership europea disertata da troppo tempo. Nel quadro di quest’ideologia politica militaristica ed autoritaria, gli atteggiamenti di soprafazione sulle minoranze divengono in qualche modo scontati. Come annota il corrispondente del quotidiano inglese “Times” a Vienna, Henry Wickham Steed, a proposito della questione universitaria italiana, qualsiasi governo dotato di un briciolo di senso d’equità avrebbe condannato i dimostranti tedeschi e istituito un ateneo a Trieste. Non così il governo austriaco, posto sotto ricatto dall’ascesa del Nationalverband e disposto a scommettere che nei prossimi anni gli italiani d’Austria, già una percentuale di sudditi assai contenuta, diminuiranno ancora demograicamente28. I crudi rapporti di forza numerici possono essere un fattore di decisione importante: come ordine di grandezza i veri concorrenti degli austro-tedeschi sono le aggregazioni slave, non certo lo scarno 2% degli italofoni. Ma è un fatto che la strategia rinunciataria del governo asburgico, sempre più incline a lasciare spazio alle ingerenze dei militari, radicalizza le diversità al livello più basso dei propri territori. Torniamo al discorso di Cesare Battisti del 1911 da cui siamo partiti. Per coglierne tutte le sfumature vale la pena di scorrere brevemente i discorsi dei due deputati che prendono la parola subito dopo di lui. Nell’ordine Ottokar Rybář e Josip Smodlaka, uno sloveno istriano e un croato di Spalato, non hanno motivi di avversione locale del tipo di quelli esposti dal tirolese Erler. Entrambi riconoscono la correttezza formale delle richieste di Battisti, ma bastano poche righe per accorgersi della distanza che in realtà li separa dal deputato trentino. Lo scarto è nettissimo in Rybář, eletto nel collegio di Trieste, che confronta la richiesta di un’università italiana con il divieto messo in campo dai liberali italiani, proprio a Trieste, contro l’esistenza di semplici scuole popolari in lingua slava: qualsiasi minoranza etnica a seconda dei contesti geograici e delle sue condizioni di privilegio può schiacciarne un’altra e da vittima trasformarsi in oppressore. E gli sloveni del Litorale sofrono senza ombra di dubbio l’atteggiamento di quegli italiani che proclamano di volere rimanere “a Trieste Signori (Herren) per l’eternità” e impediscono agli sloveni di parlare la loro lingua negli uici o nelle corti giudiziarie. Il tentativo di ratiicare un compromesso per dirimere le vertenze tra italiani e sloveni – con l’aiuto del trentino Malfatti, ricorda Rybář – era franato all’ultimo momento contro il divieto della borghesia triestina. Meno dura nella sostanza ma strumentale la posizione di Smodlaka, il cui obiettivo è di rivendicare la parità della lingua croata con il tedesco nelle lezioni dell’Università di Zagabria; imbevuto di ideologie panslaviste, Smodlaka non considera i pochi italiani residenti a Spalato e lungo le coste della Dalmazia un ostacolo politico di rilievo: sono invece gli Alldeutschen, i pangermanisti, con le loro asserzioni di essere la sola “nazione culturale” della monarchia i nemici più pericolosi al sogno di realizzare un regno autonomo per gli slavi del sud29. L’attenzione a questi problemi manca del tutto nell’intervento di Battisti; il solo passaggio dedicato alle resistenze slovene sull’università a Trieste compare nelle sue parole con un tono di suicienza, come se si trattasse di liquidare una questione di puntiglio e immotivata30. Rybář peraltro non manca di fargli notare l’incongruenza delle richieste italiane, assumendo una posizione a difesa della minoranza slovena e in questo speciico caso molto vicina al governo. Come accade spesso a chi cerchi di capire la politica austriaca di questi anni, si prova la sensazione di essere sballottati tra punti di | 39 vista che si elidono a vicenda, e tutti in fondo con qualche ragione oggettiva a loro vantaggio. È però solo in questo quadro che si comprende la radicalizzazione del contrasto nazionale tra i vari gruppi etnici poco prima della guerra: le lotte per le scuole, le università, le autonomie territoriali, le isole linguistiche e così via, sono espressione a volte più di paure e speranze reciproche, che non di diicoltà concrete; di una tensione spesso creata dall’esterno e dalle inluenze della competizione tra stati; contrasti nazionali, infine, che sono il rilesso più di cause politiche ed economiche al fondo delle diicoltà imperiali, invece di esserne il motivo scatenante. Il Nationalverband era uscito dalle elezioni come la maggiore aggregazione dei partiti di lingua tedesca, mentre si erano indebolite le “forze centripete”, come i cristiano sociali e i socialdemocratici, raggruppatisi in tre Klubs nazionali, tedesco, al quale aderivano ruteni e italiani, polacco, ceco-slavo: Ara 1979a, p. 168. 2 La traduzione italiana dell’intervento si trova in Battisti 1966b, da cui cito. Il testo originale in tedesco del Reden battistiano è consultabile invece nella serie degli Stenographische Protokolle des Hause der Abgeordneten des Reichsrates mit Beilagen und Indices, Sitzung der XXI. Session am 24. Oktober 1911 (ora consultabili online al sito alex.onb.ac.at). Il saggio ancor’oggi più esauriente sul tema è quello di Ara 1974. Ma si veda, inoltre, Università e nazionalismi 2009. 3 Battisti 1966b, p. 345. Gli Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), p. 1126, registrano alle parole di Battisti la protesta immediata di Erler: “Widerspruch des Abgeordneten Dr. Erler”. Nella versione italiana l’intervento di Erler non è trascritto, mentre compare a p. 346 questo scambio di battute, “(Deputato Erler interrompendo) Desideriamo solo che siate buoni Tirolesi. (Battisti) Jamais” che invece è assente nel verbale originale tedesco. Ma in più punti la traduzione italiana degli Stenographische Protokolle mostra minimi scostamenti. 4 A questi territori andrebbe aggiunta anche la popolazione italofona residente a Fiume, com’è noto città inclusa nella parte ungherese della monarchia. Nel complesso, stando alle statistiche uiciali del 1910, la percentuale degli italiani si attestava sul 2% degli abitanti censiti (ca. 51.390.649), dunque una delle minoranze etniche meno consistenti in termini numerici: Rumpler 2005, p. 557. 5 Un anno dopo la stipula del cosiddetto Compromesso del 1867, che concedeva alle terre del regno storico d’Ungheria (la “Transleitania”) una larga autonomia in materie amministrative, il governo di Budapest emanò una costituzione grazie alla quale il magiaro, la lingua dell’élite al potere, godeva di una posizione privilegiata sugli altri idiomi (rumeno, serbo, croato, italiano, ucraino). Nelle province soggette a Vienna (con la denominazione usuale di “Cisleitania” o più semplicemente Austria), la costituzione del 1867 stabiliva invece – e la norma non fu mai messa in discussione – la parità giuridica delle lingue d’uso. 6 Cit. nel bel volume di Ganz 2001, p. 91. 7 Kamusella 2009, pp. 509 e ss. 8 Twain 1898, p. 532 (consultabile online al sito http://ebooks.library. cornell.edu). 9 Per una rassegna di queste interpretazioni Judson 2008; Kwan 2011; Cornwall 2006. 10 Cole 2006, p. 327. Su questo ancora, Ivi, p. 328. Ganz 2001, p. 139; l’intervento venne pronunciato alla Camera il 24 aprile 1896. 13 Stourzh 1987. 14 Fassmann 2010, pp. 172-175. 15 John 2003, pp. 91-93. 16 Rumpler 2005, p. 474, ricorda che se nel 1830 viveva nelle campagne ancora l’84% della popolazione dell’impero, nel 1910 questa percentuale era scesa al 54%. 17 Moritsch 2001, p. 368. 18 Ganz 2001, p. 90. 19 Il fascicolo delle petizioni è conservato presso la Biblioteca comunale di Trento, BCT 1-2630; la citazione è tratta dalla “Protesta degli elettori del grande nobile possesso Fondiario contro l’introduzione delle scuole tedesche nel Trentino”, cc. 30r-31v. 20 Rumpler 2005, p. 476. 21 Come puntualmente rileva Zaffi 1995. 22 Ara 1979b, p. 233. 23 Ivi, p. 244. 24 Aferma Avancini che negli ultimi cinque anni sono emigrati in America 9822 persone, mentre l’emigrazione temporanea ne ha riguardato 66.933; secondo le ricerche più recenti, pur in assenza di dati certi, pare “accettabile per il periodo 1881-1910 una media annua di 6000 espatri uiciali, cifra ulteriormente aumentata da alcune migliaia di clandestini”, Grandi 2003b, p. 879. L’ultimo censimento asburgico del 1910 registrava la presenza di 386.583 trentini con un aumento assoluto rispetto all’inizio del secolo di 26.404 unità, una crescita inferiore di quasi la metà di quella complessiva dello stato asburgico. Per questi dati Grandi 2003a, p. 855. 25 Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), 83. Sitzung der XVIII Session am 5. Juni 1908, pp. 5480-5481. 26 Pombeni 2007, pp. 114-115. 27 Fontana 2011. 28 Steed 1919, p. 127. 29 Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), Sitzung der XXI. Session am 24. Oktober 1911, p. 1333 e ss. 30 Ecco il passo: “Gli Sloveni sono del pari contro Trieste, perché Trieste ha una minoranza slovena. E che vuol dire ciò? A questa stregua Vienna non dovrebbe avere un’Università tedesca, poiché ha una minoranza ceca”: Battisti 1966b, p. 344. 1 40 | 11 12 I.2 | Achille Beltrame (Arzignano [Vi], 1871- Milano, 1945) Il divieto dell’università italiana ad Innsbruck. Conlitto tra studenti tedeschi e italiani, stampa, 379 x 270 mm, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, teca VII icon Battisti 135 | 41