I.1 | Anton Brenek (Brünn, 1848 - BAden 1908)
30 | Busto di Francesco Giuseppe I d’Austria, bronzo, 99 cm (h), 1897. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Collezioni, inv. M00978
I.1 | Anton Brenek (Brünn, 1848 - Baden 1908)
Busto di Francesco Giuseppe I d’Austria, bronzo, 99 cm (h), 1897. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Collezioni, inv. M00978
Il Trentino, il Tirolo, la monarchia asburgica:
politica e geografia tra i due secoli
Marco Bellabarba
Cesare Battisti e un discorso parlamentare (1911)
È il 24 ottobre 1911 quando Cesare Battisti, un Journalist
come lo deiniscono gli stenograi parlamentari, pronuncia
il suo primo discorso alla Camera dei deputati austriaca. Il
giovane politico socialista fa parte della ventina di deputati
espressi dal Land del Tirolo nelle elezioni a sufragio universale tenutesi a giugno di quell’anno: nove provengono
dai distretti meridionali della provincia (i collegi di Trento,
Rovereto e delle valli trentine limitrofe) di lingua italiana;
sedici sono espressione dei collegi settentrionali (grosso
modo gli attuali Alto Adige-Südtirol con il Tirolo austriaco)
abitati a maggioranza da popolazione germanofona. Tra
di loro, il gruppo più consistente è costituito dai popolari
trentini (sette su nove) e dai cristiano sociali tirolesi (dodici
su sedici), due partiti di matrice cattolica, abbastanza vicini
e disposti a collaborare nonostante le rispettive appartenenze
nazionali. Cesare Battisti e Simon Abram sono iscritti al
Klub dei socialdemocratici, un partito trasversale a tutti i
territori asburgici e, per il momento almeno, tenuto assieme
in parlamento dall’essere i più temibili oppositori alle scelte
di governo. Agli estremi del gruppo ogni propensione al
dialogo s’incrina bruscamente: il barone Valeriano Malfatti,
unico esponente dei liberali, rappresenta le istanze di una
borghesia urbana conservatrice e idealmente ilo-italiana,
mentre i tre parlamentari ‘tedesco-nazionali’ (iscritti al
Deutscher Nationalverband) guidati dall’avvocato Eduard
Erler appartengono all’ala più intransigente dei movimenti
pangermanisti – e, a livello austriaco, i veri vincitori della
recente tornata elettorale1. Le divisioni nazionali si sommano
dunque alle rivalità politiche, creando tante linee di frattura
che si rilettono fedelmente nel discorso di Battisti.
L’intervento occupa i lavori dell’assemblea per parecchie
decine di minuti, interrotto da applausi e da aperte contestazioni2. Battisti afronta un tema, l’istituzione di un’università
in lingua italiana in Austria, già più volte messo all’ordine
del giorno dei lavori parlamentari. Da decenni si sono
susseguiti disegni di legge discussi nelle commissioni della
Camera e sempre regolarmente afossati per volontà dei ministri responsabili. Prendendo spunto da quegli insuccessi,
il deputato socialista attacca frontalmente il governo guidato
del primo ministro Gautsch: “Il modo con il Governo ed il
Parlamento austriaci han trattato la questione universitaria
italiana dal 1871, anno in cui fu portata in questa Camera
per la prima volta, ino ad oggi, è il documento maggiore
dell’insipienza di Stato austriaca”. Tutto l’insieme del
discorso mantiene il tono tagliente dell’esordio: vengono
ricordate le violenze tra studenti scoppiate nel novembre del
1904 a Innsbruck, all’inaugurazione di una facoltà giuridica I.1
‘provvisoria’ in lingua italiana, subito prese a pretesto dalla
polizia per decretarne la chiusura immediata; si rimprovera
al governo di voler concedere solo la facoltà di giurisprudenza – “una piccola fabbrica di impiegati” messa al servizio
dell’amministrazione pubblica – invece di corsi in medicina
e filosofia, necessari tanto al benessere delle popolazioni
quanto alla difesa culturale della nazione italiana. Forse
l’educazione universitaria e la scienza hanno un carattere
universale ma è il “genio nazionale” a stabilire i limiti entro
i quali “è possibile lo studio dei problemi scientiici. E il
nostro genio, la storia nostra, la nostra tradizione sono
essenzialmente diversi da quelli dei popoli nordici”.
Mentre Battisti parla, è interrotto più volte da Eduard
Erler (fig. 1). Già vice borgomastro di Innsbruck e al
secondo mandato parlamentare, Erler era intervenuto sul
tema dell’università italiana nella sessione del 17 novembre
1904, in un aspro scambio di accuse con i deputati trentini
a commento delle violenze accadute a Innsbruck. A distanza
di anni, la sua contrarietà al progetto si è raforzata: considerando l’istituzione di un’università italiana a Innsbruck
un tentativo camufato di ‘snazionalizzare’ la natura tedesca
del Tirolo, egli replica di continuo alle parole di Battisti.
Il battibecco, trascritto puntualmente dagli stenografi,
cresce d’intensità quando Battisti avanza le sue proposte.
In risposta al progetto del governo di aprire alcuni corsi
in italiano presso le facoltà viennesi, il deputato propone
la candidatura di Trieste come unica sede ammissibile per
un’università italiana. Città di porto e più raggiungibile per
gli studenti italiani che non Vienna o Graz, Trieste “è l’unica
città italiana che abbia dovizia di biblioteche, di musei, di
società scientiiche, di istituzioni di cultura” in grado di accogliere gli “oltre seicento studenti italiani dell’Austria”. Una
scelta a suo giudizio ragionevole, ma osteggiata anzitutto
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1. Cartolina autografa
di Cesare Battisti inviata
al sig. dottor Riccardo
Largaiolli di Ala (TN)
da Vienna raigurante
il Parlamento, timbro
postale del 31.12.1913,
Biblioteca comunale di
Ala, raccolte del Museo
Civico “Luigi Dalla
Laita”, C4, n. 3
negli ambienti politici viennesi. Il sospetto che un’università
italiana alimenti le proteste irredentiste circola da tempo tra
tutti i ministri, come sa bene Battisti, che prova a confutare
i motivi di questa ostilità.
La parte conclusiva del suo discorso si trasforma in un
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duro attacco al governo Gautsch, accusato di non volere
afatto l’università italiana, e ai deputati tirolesi colpevoli
di averla boicottata da sempre. Erler e i “pangermanisti”
(Alldeutschen) vengono citati per nome come responsabili
di un clima di odio antitaliano assecondato dal governo:
“Io non ho sentito dal deputato a Innsbruck signor Erler dei
ragionamenti. Ho solo sentito parole di brutale prepotenza
ed ofese”3. Da Vienna si ritorna a Innsbruck, nel parlamento tirolese, dove la questione universitaria ha diviso, e
continua a dividere, i deputati provinciali. Proprio il ricordo
dei dibattiti svoltisi negli anni dentro l’assemblea tirolese
(il Landtag, o dieta provinciale) gli consente di mettere
a nudo le ragioni del veto posto all’università italiana: lo
spettro del contagio irredentista, così come l’eccesso di
spese militari autorizzate a detrimento di quelle sociali e la
volontà, nemmeno troppo nascosta secondo lui, di privare
le classi operaie del diritto all’istruzione superiore: “Io voglio
sperare – termina Battisti – che i rappresentanti delle varie
borghesie nazionali si sentiranno scossi dall’esempio che
viene da noi socialisti, che tutti ci troviamo d’accordo nel
riconoscere per ogni nazione il diritto alla cultura”.
Il tema dell’università a Trieste, come si vede, è politico
e nazionale, almeno che altrettanto culturale. In ogni caso
l’intervento di Battisti, come pure le repliche di Erler, sono
un ottimo punto di partenza per comprendere la situazione
del Trentino negli anni precedenti lo scoppio della Grande
guerra. E, più in generale, di tutta la minoranza italiana che
abita le province asburgiche, ovvero i distretti meridionali
del Tirolo (grosso modo l’odierno Trentino), il Litorale
adriatico (la contea di Gorizia, il distretto di Trieste, l’Istria)
e la costa della Dalmazia4. Non c’è da stupirsi se Battisti ha
deciso di aprire il proprio discorso toccando la questione
dell’università. Oltre a essere un tema dotato di una grande
eco internazionale – i quotidiani del Regno d’Italia hanno
reagito duramente alle notizie degli scontri di Innsbruck
– esso intercetta le sensibilità dei suoi colleghi di lingua
italiana; possono essere diverse, talvolta antitetiche, le loro
proposte di soluzione, ma dopo decenni di ritardi improduttivi la questione universitaria sembra il ritratto più evidente
della paralisi in cui afonda l’azione di governo.
L’esigenza di un ateneo nelle province asburgiche a sud
delle Alpi non è pretestuosa. Tra il 1859 e il 1866, con la
cessione all’Italia di Lombardia e Veneto, mancano sedi
universitarie (prima erano Pavia e Padova) dove si possano
frequentare corsi in lingua italiana. La necessità di iscriversi
a Vienna, Innsbruck o Graz, più di rado a Praga, onerosa dal
punto di vista economico è ritenuta oltre a ciò in contrasto
con le stesse leggi austriache. La costituzione emessa nel
1867 non assegna al tedesco il rango uiciale di ‘lingua di
stato’; al contrario di quanto accade nella metà ungherese
dell’impero5, ogni gruppo etnico ha il diritto di ricevere
l’istruzione primaria nella propria lingua materna e di usarla
come veicolo di comunicazione quotidiana negli uici pubblici. Ma il regime di parità giuridica è un velo che si spezza
ai piani alti dell’amministrazione pubblica, nel servizio
diplomatico, nei quadri di comando dell’esercito, e inine
nelle aule universitarie, in cui il requisito d’accesso formale
per gli studenti è una buona conoscenza della lingua tedesca.
La tormentata questione di un’università italiana nasce
da questo fragile equilibrio tra un plurilinguismo uiciale
e un regime di ‘diglossia’ pratica che sembra incrinare ogni
principio di parità. A lungo, grosso modo sino alla ine del
secolo, questa sorta di tacito compromesso ha resistito bene.
Tutti i deputati trentini al parlamento, a prescindere dal loro
indirizzo politico, si sono prodigati a difendere l’insegnamento delle materie scolastiche in italiano come presidio al
“genio nazionale” dei loro elettori; e hanno allo stesso tempo
insistito affinché nelle scuole si provvedesse a insegnare
precocemente il tedesco, un requisito indispensabile per chi
decideva di proseguire gli studi nelle università o cercava un
impiego nelle altre province austriache: “il tedesco – aveva
detto in aula nel 1884 Roberto de Terlago – è la lingua della
cultura e dello stato austriaco, il solo mezzo di comprensione
tra le diverse nazionalità dell’Austria. Senza conoscere questa
lingua di stato nessun cittadino austriaco colto («gebildeter
österreichischer Staatsbürger») potrà sentirsi a casa in
Austria”6. Negli ultimi anni dell’Ottocento, tuttavia, il
delicato composto di lingue quotidiane, scolastiche e uiciali
dell’impero prende a disgregarsi.
Dalla Boemia al Trentino (e ritorno) tra Otto e
Novecento
I primi segnali di diicoltà si sono avvertiti in Boemia
e Moravia, province slave ma con una storica presenza di
minoranze tedescofone concentrate nelle grandi città (Praga,
Brno, Plzeň) e nelle aree industriali. Un rapido processo di
modernizzazione economica ha consentito alla borghesia
ceca di accorciare le distanze con l’élite tedesca, grandi nobili
possessori terrieri, industriali, inanzieri, che da sempre avevano monopolizzato il controllo della dieta provinciale e dei
consigli municipali. A questa sostituzione di ruolo politico,
ha fatto seguito una presa di coscienza culturale e linguistica.
Da un certo momento in poi, i ‘cittadini austriaci colti’
abitanti nel regno di Boemia non hanno sentito più così
familiare una lingua parlata e scritta benissimo da tutti, ma
ormai sentimentalmente lontana. Gli efetti del disamore
verso la lingua di stato hanno avuto conseguenze immediate
proprio sul terreno scolastico. Già nel 1869, grazie alle pressioni dei parlamentari locali, l’Università tecnica di Praga si
era spezzata in due sezioni distinte, ma il vero successo era
arrivato nel 1882, quando l’intera università di Praga, la più
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antica dell’Europa centrale, aveva introdotto facoltà solo
tedesche o solo ceche. Sull’esempio dell’università praghese,
negli anni seguenti le divisioni linguistiche toccano le istituzioni teatrali, i consigli scolastici a ogni livello, l’Accademia
delle scienze (nel 1890 i cechi ne fondano una autonoma,
scindendola dalla storica istituzione settecentesca), in un susseguirsi di provvedimenti che rendono sempre più precaria
la convivenza tra i due gruppi etnici delle province7.
Le ripercussioni sulla politica imperiale sono immediate.
La più grave crisi della storia parlamentare austriaca, la cosiddetta crisi Badeni del 1897, ha avuto origine proprio dal
progetto di considerare il ceco allo stesso livello del tedesco
in quanto lingua ‘interna’ dell’amministrazione in Boemia e
Moravia; il disegno di legge, di per sé un tentativo di compromesso, è afossato in poche settimane sotto il peso delle
dimostrazioni di piazza e del violento ostruzionismo parlamentare messo in piedi dai deputati boemi e austro-tedeschi.
La bocciatura provoca immediatamente le dimissioni del
primo ministro; dopo l’allontanamento di Badeni, l’attività
parlamentare entra in uno stato di ibrillazione destinato a
protrarsi ino allo scoppio della guerra.
I governi si succedono a ritmi sempre più ravvicinati: sono
quattro solo tra 1897 e 1900, costretti a rassegnare il loro
mandato di fronte all’impossibilità di creare delle coalizioni
stabili. Lo scrittore americano Mark Twain, in viaggio
come reporter a Vienna durante la crisi Badeni, racconta
di un’assemblea rappresentativa di fatto ingovernabile. C’è
una costituzione e c’è un parlamento – scrive per l’“Harper’s
New Monthly Magazine” nel marzo 1898 – composto di
425 deputati: “Questi uomini rappresentano popolazioni
che parlano undici lingue. Ciò significa undici distinte
varietà di gelosie, ostilità e interessi che si combattono a
vicenda. […] Il parlamento è suddiviso in molti partiti – i
clericali, i progressisti, i tedesco-nazionali, i Giovani cechi,
i socialdemocratici, i cristiano sociali, e altri ancora – ed è
diicile creare delle alleanze funzionanti tra loro. A volte preferiscono combattersi l’un l’altro”8. La rissosità della Camera
dei deputati è sotto gli occhi di tutti, così come la diicoltà
incontrata dai vari Ministerpräsidenten nel costruire delle
maggioranze in appoggio ai loro governi. Da molti punti di
vista, dopo la crisi del 1897, il meccanismo parlamentare in
Austria cessa di funzionare regolarmente; la sensazione di
paralisi è attestata dal rapido succedersi dei capi di governo
e dal ricorso, anch’esso sempre più usuale, alla legislazione
d’emergenza da parte dell’imperatore che, sfruttando un
apposito paragrafo della costituzione, emana spesso disegni
di legge saltando la mediazione del parlamento.
Al centro delle critiche di Twain stanno le divisioni di
carattere linguistico tra i gruppi dei deputati; è un rilesso
quasi condizionato per gli osservatori esterni imputare il
cattivo funzionamento della politica austriaca alle frizioni
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tra i suoi undici gruppi etnici. A chi viene da fuori e non
ne conosce bene la realtà, la mescolanza di lingue ed etnie dell’ediicio asburgico lascia di solito un’impressione
negativa. Per altro, il pregiudizio verso gli imperi, l’austroungherese come quello ottomano o russo, è un luogo
comune della cultura politica otto-novecentesca. Tutti, con
appena qualche sfumatura, sembrano sistemi politici oramai
decadenti costretti ad attendere l’attimo in cui spariranno9.
L’aspettativa di morte che aleggia sugli imperi deriva in gran I.1
parte proprio dall’eterogeneità della loro isionomia etnica;
guardati dalla prospettiva dei grandi stati nazionali europei
(e non solo, come mostrano i rilievi del nordamericano
Twain), essi appaiono delle anomalie anacronistiche, indebolite dall’assenza di un passato e di una tradizione nazionale
unitaria. Una simile lettura possiede ottimi argomenti a suo
favore, se si guarda ad esempio alle sconitte militari subite
dall’impero asburgico nel corso delle guerre d’indipendenza
tedesche e italiane pochi decenni prima; a patto però di non
scambiare il pluralismo etnico per un segno di arretratezza
e di immobilismo, come fosse un indicatore inequivocabile
di una crisi che lo attanaglia da sempre.
Si tratta, al contrario di una condizione strutturale della
sua storia. Fin dall’ascesa al trono di di Francesco I d’Asburgo l’11 agosto del 1804, l’impero asburgico aveva compreso
dentro di sé regioni di lingua tedesca, magiara, italiana,
slava (nelle loro molteplici varianti), rumena e ucraina,
senza avere mai l’intenzione di costruire sopra di essi un
modello di stato centralizzato. Al suo interno la geograia
imperiale si presentava suddivisa in grandi unità territoriali,
derivanti in parte dalle conquiste sei-settecentesche della
dinastia asburgica e in parte dalle acquisizioni successive al
congresso di Vienna nel 1815: a inizio Ottocento i territori
ereditari asburgici erano formati, grosso modo, dall’Austria
odierna, dal regno di Boemia (attuale repubblica ceca
unita a un frammento di Slesia polacca), la Slovenia, il
Litorale adriatico (adriatisches Küstenland) e la Dalmazia;
c’erano poi le province incluse nel regno storico d’Ungheria
(Ungheria, Slovacchia, Croazia, la Transilvania rumena,
parti dell’attuale Serbia), il regno di Galizia-Lodomeria e il
ducato della Bucovina (oggi Ucraina), arrivati alla dinastia
dopo le spartizioni del regno di Polonia, inine il regno del
Lombardo-Veneto.
Alcune di queste terre, in particolare la vasta appendice
italiana annessa per volontà del principe Metternich nel
1815, l’impero le perderà nel corso del XIX secolo. A seguito
della guerra del 1866, la Lombardia e il Veneto verranno
ceduti al regno d’Italia, riducendo a una piccola minoranza
la popolazione italofona, che ino ad allora era stata, per ricchezza e prestigio politico, una delle importanti nazionalità
‘storiche’ del complesso asburgico. L’anno seguente, a causa
della sconitta con l’Italia e la Prussia, Francesco Giuseppe
aveva dovuto arrendersi alle pressioni dell’élite magiara, la
quale dal 1848 chiedeva maggiore autonomia per le province
storiche del regno d’Ungheria. L’esito di tali pressioni era
sfociato nella stipula del famoso Compromesso (l’Ausgleich
del 1867) grazie al quale l’impero si era spaccato in due
tronconi, il primo formato dalle terre ereditarie asburgiche
più occidentali, incluse però Galizia-Lodomeria e Bucovina,
il secondo dal blocco del regno storico d’Ungheria. Escluso
il vincolo dinastico e alcune materie gestite in comune
(economia e iscalità, guerra e difesa, relazioni diplomatiche)
Austria e Ungheria, anche chiamate Cisleitania e Transleitania, erano due entità statali del tutto separate per quanto
concerneva i rispettivi afari interni, con ministeri, amministrazioni, personale burocratico, istituzioni educative, che
si muovevano in piena autonomia rispondendo solo ai due
parlamenti di Vienna e Budapest.
“Sebbene gli Asburgo non fossero mai riusciti a uniicare
realmente i loro territori in uno stato pienamente centralizzato, fu questo il primo riconoscimento ufficiale che
un simile progetto avrebbe dovuto essere abbandonato”10.
Nasceva la ‘monarchia dualistica’ (Doppelmonarchie), un
ibrido unicum nel panorama europeo, dentro la quale le
due metà austriaca e ungherese si trovarono a perseguire
obiettivi politici molto diversi: nonostante le spinte a
centralizzare il proprio apparato amministrativo centrale,
l’Austria, dove Francesco Giuseppe manteneva il titolo di
imperatore, conservò forti elementi di parziale federalismo
lasciando intatti i privilegi di autonomia goduti dai propri
territori; all’opposto le classi dominanti magiare del regno
d’Ungheria, in cui Francesco Giuseppe era ‘solo’ re, vararono
da subito una serie di leggi intese a circoscrivere i diritti delle
sue molte minoranze etniche.
Per quanto il Compromesso raggiungesse l’obiettivo di
rendere meno conlittuali le relazioni con l’Ungheria il modo
in cui fu realizzato fece trasparire immediatamente alcuni
difetti. Austria e Ungheria, a breve distanza dalla ratiica
del loro ‘divorzio’, si erano dotate di carte costituzionali
che tutelavano i diritti individuali dei cittadini, tra i quali
– ed era un principio evocato tra le righe del discorso di
Battisti del 1912 – quello di essere educati nella loro lingua
materna. All’eguaglianza giuridica delle singole nazionalità la
costituzione austriaca del dicembre 1867 dedicò un articolo
speciico, il numero 19: “Tutte i popoli (Volksstämme) dello
Stato godono eguali diritti e ciascuno di essi ha un diritto
inalienabile a conservare e sviluppare la propria nazionalità
e lingua. L’eguaglianza di tutte le lingue d’uso comune (landesüblich) nelle province, nelle scuole, nell’amministrazione
e nella vita pubblica, viene riconosciuto dallo Stato. Nelle
province abitate da più nazionalità, l’istruzione pubblica
deve essere organizzata in modo tale che ciascuno di questi
popoli disponga dei mezzi necessari per l’istruzione nella
propria lingua, senza essere costretto ad apprenderne una
seconda”.
Secondo il testo, quindi, non poteva esistere un gruppo
etnico privilegiato rispetto agli altri; nella pratica tuttavia “la
situazione si presentava alquanto diferentemente, perché
le misure concordate nel Compromesso collocavano di
fatto in una posizione dominante” la popolazione di lingua
tedesca in Austria e, forse in modo più esplicito, i magiari
in Ungheria11. La disparità era evidente nei meccanismi con
cui si eleggevano i deputati ai parlamenti centrali di Vienna
e Budapest. I regolamenti prevedevano delle restrizioni di
censo accanto a un disegno dei collegi elettorali che escludevano dal voto una larga fetta della popolazione; nulla di
inusuale per i sistemi politici dell’Europa ottocentesca, ma
nella monarchia asburgica, la combinazione di questi fattori
tendeva a favorire fasce precise di elettorato – ceti proprietari, borghesie urbane, aristocratici – coincidenti con le élites
austro-tedesche e magiare. Anche a livello dei parlamenti
(o diete) provinciali, sbarramenti censitari e distribuzioni
dei seggi premiavano un singolo gruppo etnico. In Tirolo,
come notò in un suo discorso alla Camera il deputato
trentino don Giovanni Salvadori, i distretti di lingua italiana
potevano disporre di dodici seggi (un deputato ogni 28.550
abitanti) contro i ventidue di quelli tedeschi (un deputato
ogni 16.832); oltre a questo i 342.600 abitanti dei comuni
rurali trentini erano rappresentati alla Camera da tre deputati, mentre ai collegi rurali tedeschi, di poco più popolosi
(370.307 residenti), spettavano cinque seggi12.
Esistevano altre questioni, non meno spinose, lasciate
irrisolte dopo la pubblicazione del Compromesso. La
prima riguardava la possibilità di dare una fisionomia
riconoscibile ai popoli di cui si parlava nella carta: erano di
certo un Volksstamm (popolo, stirpe)13 gli austro-tedeschi, i
magiari, i cechi, gli italiani, ovvero le ‘nazioni’ storiche della
monarchia, che vi appartenevano da secoli e risiedevano
in spazi amministrativi delimitati: ma la stessa deinizione
valeva per gli insediamenti slavi di nuova acquisizione, per le
minoranze ucraine e rumene disperse nelle pianure orientali?
Una seconda questione controversa aiorava considerando la
distribuzione geograica dei gruppi linguistici. Nella Cisleitania (lo stesso valeva per la porzione ungherese) si contavano
sulle dita di una mano i territori abitati in modo compatto
da un solo gruppo etnico: i vecchi arciducati austriaci,
l’entroterra croato e sloveno, la parte meridionale del Tirolo
erano tra questi i casi più evidenti. Ma nelle restanti province austriache la mescolanza di due, o talvolta tre, famiglie
linguistiche, costituiva la regola; tutte le città di dimensioni
medie o grandi ospitavano comunità alloglotte, disposte di
solito attorno a un nucleo più o meno numeroso di residenti
tedeschi – funzionari dell’amministrazione pubblica, militari, imprenditori borghesi. E la stessa scena si ripeteva nei
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distretti rurali boemi e moravi, abitati da tedeschi e cechi,
in Istria e Dalmazia, dove italiani, sloveni e croati vivevano
gomito a gomito da secoli, nelle campagne della Galizia
segnate dalla presenza di ruteni, ebrei e polacchi.
Ancora una volta la forma giuridica si scontrava con gli
imprevisti della realtà: se famiglie di etnia diversa vivevano
l’una accanto all’altra nello stesso quartiere o villaggio, come
si sarebbero identiicate allo scopo di proteggere i loro diritti
di “nazionalità e lingua”? Com’era pensabile mettere su carta
dei conini etnici quando i rapporti di vita quotidiana tendevano a ignorarli? A complicare ancora di più gli intrecci
etnici stavano i rimescolamenti causati dai lussi migratori.
Se le continue crisi agrarie spinsero milioni di contadini
austro-ungheresi a imbarcarsi verso le terre americane – dal
1876 al 1910 saranno in tutto 3,55 milioni ad attraversare
l’oceano – i primi segnali di industrializzazione nella seconda
parte del secolo provocarono un’ondata di migrazioni
interne ancora più consistente. Almeno un quinto di tutti
gli abitanti della monarchia a inizi Novecento non era nato
nel posto in cui viveva14. All’incirca 9,4 milioni di persone
appartenenti a etnie diverse cambiarono luogo di residenza
alla ricerca disperata di migliori opportunità lavorative. Nel
1880 a Vienna, appena il 38,5% della popolazione era nata
nella città e questa percentuale sarebbe rimasta al di sotto
della soglia del 50% anche nei due censimenti successivi del
1900 e del 1910. A cavallo del nuovo secolo, circa 410.000
degli 1,6 milioni di residenti nella capitale provenivano da
Boemia e Moravia, 43.000 e 11.000, rispettivamente da province slovacche e croate (allora regno di Ungheria), 37.000
dalle terre della Galizia polacca15. La crescita industriale
arricchiva alcuni luoghi e ne svuotava altri, creava lussi di
persone richiamate dalla prospettiva di una vita migliore e
abbandonava alla miseria i luoghi da cui si erano staccati.
I grandi agglomerati metropolitani della monarchia
assorbirono nel secondo Ottocento una corrente inesauribile
di nuovi arrivi16. Dei 225.000 abitanti attestati a Trieste
dal censimento del 1910, più di un quarto provenivano
dall’hinterland sloveno, al quale andavano aggiunti circa
11.000 tedeschi, una folta colonia di ‘regnicoli’ italiani, e
gruppi più piccoli di croati, serbi, greci, ebrei. Vivevano a
Trieste più sloveni che a Lubiana (la terza città per numero
di abitanti sloveni era Cleveland, in Ohio)17, ma la loro
diaspora toccava anche città minori come Graz, in Stiria,
o i margini meridionali della Carinzia, nei quali la loro
presenza risaliva all’età moderna e continuava a ingrossarsi.
I trasferimenti potevano riguardare, in ogni caso, aree manifatturiere minori, che all’improvviso divenivano attraenti
per le popolazioni limitrofe. Nel Vorarlberg, all’angolo più
occidentale del Tirolo, lo sviluppo delle industrie locali fu
capace di richiamare corposi lussi di lavoratori provenienti
in primo luogo dal Trentino, un’area desolatamente spoglia,
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invece, di attività manifatturiere: la cittadina di Bludenz, si
riempì di manodopera italofona (erano il 12% dei residenti
e il 30% dei battezzati prima del 1914), la parte maggioritaria di un’emigrazione che interessava comunque tutte le
vallate del Tirolo settentrionale e in particolare il comune di
Innsbruck, dove abitavano circa 4000 trentini.
Com’è facile immaginare, modiicazioni così radicali della
struttura socio-economica di intere aree della monarchia
agirono sui profili della sua distribuzione etnica. Le migliaia di volti sconosciuti che invadevano le città austriache
provocavano tensioni sociali e attriti con i vecchi residenti;
interi quartieri urbani erano soggetti a un continuo giro di
persone e di cambi d’indirizzo quasi inaferrabile agli occhi
delle autorità. D’altra parte la mobilità degli individui
apriva anche nuove prospettive di ascesa per chi sapeva
approfittarne: le rapide ascese imprenditoriali compiute
dagli immigrati – i commercianti e gli artigiani sloveni a
Trieste, o gli industriali cechi a Praga – contribuivano a
scardinare le posizioni di rendita godute dalle élites locali.
E a quel punto era inevitabile che nuove gerarchie della
ricchezza si tramutassero in pretese di carattere politico.
Un po’ dappertutto nelle regioni della monarchia gruppi
etnici ino a lì minoritari cominciarono a premere per veder
riconosciute le loro prerogative costituzionali.
Posto di fronte a una multietnicità ormai sfuggente, il
governo cercò di correre ai ripari. Con una legge del 1880
si avviarono le procedure di redazione del primo censimento
austriaco in cui i cittadini dovevano dichiarare, non era
mai accaduto in precedenza, quale lingua parlassero nelle
comunicazioni quotidiane. Molto probabilmente il quesito
sulla ‘lingua d’uso’, o Umgangssprache (i censimenti ungheresi rilevavano invece la lingua materna) aveva l’obiettivo
di mantenere il tedesco a un gradino superiore sugli altri
idiomi parlati nella monarchia. Di fatto, in quanto veicolo
di comunicazione obbligatorio nell’esercito e in tutti i settori
più alti dell’amministrazione pubblica, il tedesco godeva
di una rendita di posizione oggettiva; perciò i legislatori
pensarono che la maggioranza della gente, per semplici
ragioni di opportunità, avrebbero preferito indicarla nei
questionari come propria lingua quotidiana, anche se non
avevano genitori tedeschi. I risultati del censimento disattesero le aspettative. Da un lato, la mobilità sociale ed
economica degli ultimi decenni aveva eroso il prestigio dei
tedeschi, che non venivano più identiicati come il solo ceto
dirigente della monarchia; dall’altro, benché si trattasse di
un quesito ‘tecnico’, il rilevamento linguistico costringeva
tutti a dichiarare la propria appartenenza a una comunità
nazionale.
L’esito forse principale e imprevisto del censimento fu
infatti quello di attribuire alle lingue (erano 11 quelle riconosciute uicialmente) un valore politico, di marcatore degli
spazi nazionali, che ino ad allora non possedevano. Non
per nulla, a partire dal 1880 cominciarono a essere fondate
associazioni private volte a preservare l’insegnamento prima
del tedesco e poi di tutte le altre lingue nella monarchia dove
venivano sentite in pericolo. Nel giro di pochi anni, dentro
i consigli cittadini o i parlamenti provinciali, la tutela delle
lingue divenne uno degli aspetti più infuocati del dibattito
politico. La temperatura dello scontro fu subito altissima in
zone particolari, come Praga, Trieste, la regione dei Sudeti,
le aree di conine fra Austria e Slovenia, contrassegnate dalla
storica mescolanza di etnie diferenti. Ma interessò anche
parti di territorio asburgico dove non si correva alcun rischio
di snazionalizzazione linguistica.
Prendiamo ad esempio proprio il caso del Trentino.
Durante una sessione parlamentare dell’aprile 1884 il
deputato liberale Pietro Lorenzoni aveva rinfacciato al
governo di finanziare un liceo e una scuola elementare
tedesca a Trento mentre trascurava di sostenere con fondi
adeguati i salari degli insegnanti trentini. La soppressione
dei due istituti tedeschi avrebbe permesso i risparmi
necessari a dotare di nuove risorse le scuole italiane, senza
farle gravare sulle casse già esauste dei comuni; allo stesso
tempo “il governo avrebbe dimostrato di essere estraneo ad
ogni tentativo di germanizzazione del Tirolo italiano e di
rispettare il sentimento nazionale di questa terra”18. Roberto
de Terlago, che abbiamo incontrato sopra, prese le distanze
dal collega, precisando che il liceo, una sezione distaccata
dell’istituto in lingua italiana, non veniva frequentato solo
da tedeschi e inoltre che sui 458 alunni complessivi delle
scuole elementari, più di due terzi provenivano da famiglie
italiane. Secondo Terlago, l’amministrazione statale avrebbe
semplicemente corrisposto ai suoi doveri nel garantire la
possibilità a tutti di apprendere il tedesco in dai primi anni
di scuola. Bastarono queste dichiarazioni, in fondo piuttosto
ragionevoli, a ingenerare in Trentino un’ondata di critiche
che verso la ine dell’anno, sotto forma di petizioni dirette al
Consiglio dell’impero, vide protagonisti i podestà di Trento
e Rovereto accanto a decine di comuni rurali.
Una delle smentite più secche venne dalla nobiltà del
grande possesso fondiario, tra l’altro il collegio elettorale
di Terlago, a cui si rimproverò di aver commesso “un’ofesa
alla nazionalità italiana del Trentino, ed un ostacolo ad
una buona educazione della nostra gioventù, nonché allo
sviluppo delle nostra coltura”19. Reazioni di rigetto così
aggressive non avevano alcun riscontro di realtà. Considerando il numero esiguo di residenti tedeschi in Trentino
l’eventualità di conflitti con la maggioranza italiana era
del tutto remota. La presenza di funzionari austriaci creava
talvolta inquietudini o rancori nella classe dirigente, ma
non si giunse mai a una spaccatura frontale. Nemmeno le
attività delle associazioni pangermaniste, di cui la stampa
locale dava sempre conto con molta enfasi, potevano andare
al di là di una propaganda aggressiva e incapace di catturare
larghi consensi. Infine, la debole attrattività economica
della provincia, impediva l’arrivo in massa di forza lavoro da
altre regioni vicine, un fatto che a Praga, Trieste, Lemberg,
Graz, era stato regolarmente il motivo dell’erompere di
scontri etnici20. Il volto compattamente italiano del Tirolo
meridionale21, la sua lingua d’uso, le sue tradizioni, insomma
non correvano rischi di sorta.
Nonostante ciò, la diferenza linguistica aveva accresciuto
il suo valore identitario ino a essere individuata immediatamente come un segno di diferenza culturale, di mentalità
diferenti, di diferenti esigenze nel campo del diritto o delle
amministrazioni. Il nazionalismo era meno una causa che un
rilesso delle diicoltà in cui si dibatteva la monarchia; ma
se le prese di posizione più estreme contagiavano solo una
parte minoritaria della popolazione, poco a poco le contese
etniche divennero il linguaggio della quotidianità politica e
attecchirono velocemente.
Molti amministratori austriaci, anche quelli chiamati
a governare aree ‘rischiose’ come il Tirolo, percepiscono i
risvolti contraddittori di quanto sta accadendo. I rapporti
inviati nel 1893 al governo dal luogotenente del Tirolo
Franz von Merveldt e dal suo delegato per la sede di Trento,
il consigliere aulico Benedikt Giovanelli, sono in grado di
ofrire una rappresentazione realistica del territorio in cui
operano. Pur divisi su molti punti, anche a causa di una
strisciante rivalità personale, ambedue provano a mettere
a fuoco con oggettività le ragioni della parte trentina. Le
lamentele – essi scrivono – scaturiscono da condizioni di
svantaggio innegabili: il mancato sviluppo industriale,
il carico eccessivo della fiscalità, i meccanismi elettorali
penalizzanti per i trentini nella distribuzione dei seggi alla
dieta di Innsbruck. Entrambi riconoscono che le richieste
di maggiore autonomia nei confronti della parte tedesca del
Land hanno favorito la recezione di discorsi ilo-italiani,
fattisi più pericolosi dopo la costituzione del regno d’Italia,
che costituisce un polo d’attrazione naturale per tutti i suoi
“Connationalen” stranieri. Ma nessuno dei due è disposto a
caricare di simboli nazionali la scontentezza dei tirolesi meridionali. Nelle loro analisi vengono prima di tutto i motivi
materiali. Giovanelli ritiene la questione trentina essenzialmente un fatto economico, che ha acquisito solo col passare
del tempo, in larga misura grazie alla povertà dilagante, una
dimensione nazionale e politica; ed è esplicito nell’osservare
che la “mancata considerazione di questi dati di fatto da
parte dell’autorità governativa e luogotenenziale offre al
partito irredentista – che sarebbe altrimenti una inima minoranza con difusione limitata alla borghesia professionale
cittadina – la possibilità di sfruttare ai propri ini eversivi
la legittima insoddisfazione esistente tra la popolazione”22.
| 37
Sarebbe dunque compito del governo eliminare in fretta
le cause del malessere sociale riacquistando così il favore
delle classi popolari, il cui lealismo asburgico sembra fuori
questione, oltre ai proprietari terrieri nobili ed ecclesiastici,
i cui interessi sono legati alla stabilità dell’assetto vigente.
Su questo punto, c’è piena sintonia con l’analisi di
Merveldt, il quale tende a ridimensionare ancora di più
l’entità dell’“Irredentismus” evocato spesso nel testo del
suo subalterno. Non ci si trova di fronte, in altri termini,
a una “Katastrofe” imminente, né a progetti di secessione
concreti: occorre invece distinguere tra le poche espressioni
separatiste, condannate a restare minoritarie, e una forma
di nazionalismo culturale il cui richiamo ha conquistato le
simpatie sia dell’Intelligenz borghesi e liberale delle città,
sia degli “Austriacanten, che in in dei conti sono pure essi
italiani”. Isolare i gruppi radicali e favorire gli elementi
italiani più progressisti, mediante provvedimenti che li
leghino ai partiti ilo-governativi, è il consiglio suggerito dal
luogotenente tirolese. La ricetta del luogotenente consiste
perciò nell’introduzione di corpose riforme economiche,
ritenute il più valido antidoto alle tendenze irredentiste. È
un suggerimento in linea con gli indirizzi governativi del
periodo, preoccupati che qualsiasi concessione si ripercuota
con un efetto moltiplicatore in province caratterizzate da
analoghe tensioni etniche; ma è anche un invito a non
mutare in nulla l’assetto costituzionale, una cautela che
finisce per trascurare quelle aspirazioni a un’autonomia
amministrativa verso cui convergono in Trentino le forze
politiche di qualsiasi colore.
L’impossibile compromesso trentino (e altri discorsi
parlamentari)
Emerge da questi rapporti “lo stato di costante paralisi
politico-nazionale che caratterizza gli ultimi decenni della
monarchia absburgica, paralisi determinata dall’assenza
di una volontà politica di impegnarsi in un’azione di
riforma nazionale ad ampio respiro, e dalla conseguente
impossibilità di risolvere le singole questioni locali”23. A
Vienna, la sola strategia razionale per difendere la propria
posizione di potenza, dilatata ma fragile, sembra esattamente
questa: innovare il meno possibile; o in caso di situazioni
giunte al limite della rottura, risolvere i contrasti nazionali
attraverso accordi raggiunti in sede locale. Laddove i conlitti
linguistici minacciano di delagrare, si introducono forme
di compromessi parziali ricalcati sul testo austro-magiaro
del 1867, che separano scuole, distretti elettorali, iscalità,
chiese, in base un criterio di appartenenza linguistica. Il
primo di questi compromessi è varato in Moravia nel 1905,
separandola dal regno di Boemia; ne seguono un paio,
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realizzati, in Galizia e in Bucovina, altri rimasti solo allo
stato di disegno di legge per la Boemia, l’Istria, la Dalmazia,
anche il Trentino.
Questi compromessi su scala provinciale sono improponibili dove le etnie formano un intreccio troppo denso:
non si possono nemmeno attuare, però, in territori dove
la separazione porterebbe a un muro contro muro senza
vie d’uscita. Lo ha notato con estrema lucidità Augusto
Avancini, il primo deputato socialista eletto al consiglio
dell’impero dopo l’introduzione del sufragio universale. La
legislatura si era aperta nel giugno 1908, con l’esortazione
dell’imperatore ai nuovi deputati affinché cessassero le
contrapposizioni nazionali che avevano impedito l’approvazione del bilancio; una paralisi non accettabile – aveva
commentato Francesco Giuseppe – che la politica austriaca
doveva a tutti i costi eliminare. Descrivendo la situazione del
suo collegio elettorale, Avancini sembra replicare punto per
punto al hronrede del monarca. L’elenco circostanziato delle
cause che stringono il Trentino nella morsa della povertà,
la crisi dell’agricoltura, l’emigrazione24, l’assenza di investimenti, sono gli impedimenti più stringenti a una possibile
riconciliazione nazionale. A peggiorare le cose contribuisce
una lettura strumentale delle tensioni etniche. Il fatto che
le élites tedesche del Tirolo agitino in ogni circostanza il
fantasma del nazionalismo italiano ha impedito al governo
di valutare con ponderazione i progetti di autonomia amministrativa avanzati al parlamento tirolese – progetti, come
si sa, usciti dalle discussioni dietali dopo un ultimo debole
tentativo di riforma nel 1905. I “Signori” irredentisti, come
li apostrofa con qualche disprezzo, sono però una piccola
fetta di borghesia urbana “troppo fannullona per essere un
pericolo verso lo stato” dietro la quale le autorità di polizia
nascondono le proprie rappresaglie antipopolari25.
Sulla reale portata dell’irredentismo Merveldt e Avancini
esprimono dunque opinioni abbastanza simili. Divergono,
profondamente invece, sulle modalità necessarie a uscire
dall’impasse nazionalistico. La critica mossa dal deputato
trentino alla presenza crescente di installazioni militari
sul territorio tocca un nervo scoperto della politica della
monarchia che ha profonde implicazioni sulla società
trentina. Dai primi anni del Novecento, la ‘difesa speciale’
dei conini meridionali ha concesso ai militari una sempre
maggiore ingerenza nell’amministrazione del paese a danno
dell’autorità politica ordinaria26. La costruzione incessante
di forti, il sequestro di terreni ed edifici storici ridotti a
caserme – specie a Trento, dove i soldati della guarnigione
assommano al 10,9% dei circa 31.000 abitanti27 – sono
giustamente stigmatizzati da Avancini come un ulteriore
freno allo sviluppo economico della provincia. Ma l’invadenza dell’apparato militare, oggetto di interpellanze critiche
da parte di tutti i deputati in quegli anni, non riguarda
2. Il maresciallo di campo Conrad von Hötzendorf saluta le ragazze
giudicariesi decorate colla croce di ferro col nastro al valore, cartolina viaggiata,
datata 18.7.1917, Trento, Soprintendenza per i beni culturali, Archivio
fotograico, Fondo Mazzalai
unicamente il Trentino. Essa testimonia la scelta della classe
dirigente della monarchia di riportare l’Austria, dopo le
sconitte patite con Italia e Germania, al vertice delle grandi
potenze mondiale. La nomina a capo di stato maggiore del
generale Franz Conrad von Hötzendorf (ig. 2) nel 1906 e le
pressioni esercitate dall’erede al trono Francesco Ferdinando
sfociano due anni più tardi nella guerra per l’annessione
della Bosnia Erzegovina, un episodio che preannuncia il
rapido deteriorarsi dell’assetto politico mondiale.
L’atmosfera bellicista dominante negli ambienti viennesi
contribuisce ad aggravare, se fosse possibile, il già precario
equilibrio politico interno. La revanche auspicata dai militari
accentua il peso delle componenti sociali da cui provengono
i quadri dirigenti dell’esercito, che sono a larghissima
maggioranza austro-tedeschi e, con molto distacco, magiari.
Così, il loro predominio sancito dall’accordo del 1867 evolve adesso nel mito di una supremazia storica austro-magiara
sugli altri gruppi etnici; slavi, italiani, rumeni, galiziani,
non appaiono suicientemente aidabili per perseguire una
politica estera tesa a riportare l’Austria Ungheria a un rango
di leadership europea disertata da troppo tempo. Nel quadro
di quest’ideologia politica militaristica ed autoritaria, gli
atteggiamenti di soprafazione sulle minoranze divengono
in qualche modo scontati.
Come annota il corrispondente del quotidiano inglese
“Times” a Vienna, Henry Wickham Steed, a proposito
della questione universitaria italiana, qualsiasi governo
dotato di un briciolo di senso d’equità avrebbe condannato
i dimostranti tedeschi e istituito un ateneo a Trieste. Non
così il governo austriaco, posto sotto ricatto dall’ascesa del
Nationalverband e disposto a scommettere che nei prossimi
anni gli italiani d’Austria, già una percentuale di sudditi
assai contenuta, diminuiranno ancora demograicamente28.
I crudi rapporti di forza numerici possono essere un fattore
di decisione importante: come ordine di grandezza i veri
concorrenti degli austro-tedeschi sono le aggregazioni slave,
non certo lo scarno 2% degli italofoni. Ma è un fatto che
la strategia rinunciataria del governo asburgico, sempre più
incline a lasciare spazio alle ingerenze dei militari, radicalizza
le diversità al livello più basso dei propri territori.
Torniamo al discorso di Cesare Battisti del 1911 da cui
siamo partiti. Per coglierne tutte le sfumature vale la pena
di scorrere brevemente i discorsi dei due deputati che
prendono la parola subito dopo di lui. Nell’ordine Ottokar
Rybář e Josip Smodlaka, uno sloveno istriano e un croato
di Spalato, non hanno motivi di avversione locale del tipo
di quelli esposti dal tirolese Erler. Entrambi riconoscono la
correttezza formale delle richieste di Battisti, ma bastano
poche righe per accorgersi della distanza che in realtà li
separa dal deputato trentino. Lo scarto è nettissimo in
Rybář, eletto nel collegio di Trieste, che confronta la richiesta
di un’università italiana con il divieto messo in campo dai liberali italiani, proprio a Trieste, contro l’esistenza di semplici
scuole popolari in lingua slava: qualsiasi minoranza etnica
a seconda dei contesti geograici e delle sue condizioni di
privilegio può schiacciarne un’altra e da vittima trasformarsi
in oppressore. E gli sloveni del Litorale sofrono senza ombra
di dubbio l’atteggiamento di quegli italiani che proclamano
di volere rimanere “a Trieste Signori (Herren) per l’eternità”
e impediscono agli sloveni di parlare la loro lingua negli
uici o nelle corti giudiziarie. Il tentativo di ratiicare un
compromesso per dirimere le vertenze tra italiani e sloveni –
con l’aiuto del trentino Malfatti, ricorda Rybář – era franato
all’ultimo momento contro il divieto della borghesia triestina. Meno dura nella sostanza ma strumentale la posizione
di Smodlaka, il cui obiettivo è di rivendicare la parità della
lingua croata con il tedesco nelle lezioni dell’Università di
Zagabria; imbevuto di ideologie panslaviste, Smodlaka non
considera i pochi italiani residenti a Spalato e lungo le coste
della Dalmazia un ostacolo politico di rilievo: sono invece
gli Alldeutschen, i pangermanisti, con le loro asserzioni di
essere la sola “nazione culturale” della monarchia i nemici
più pericolosi al sogno di realizzare un regno autonomo per
gli slavi del sud29.
L’attenzione a questi problemi manca del tutto nell’intervento di Battisti; il solo passaggio dedicato alle resistenze
slovene sull’università a Trieste compare nelle sue parole con
un tono di suicienza, come se si trattasse di liquidare una
questione di puntiglio e immotivata30. Rybář peraltro non
manca di fargli notare l’incongruenza delle richieste italiane,
assumendo una posizione a difesa della minoranza slovena e
in questo speciico caso molto vicina al governo. Come accade spesso a chi cerchi di capire la politica austriaca di questi
anni, si prova la sensazione di essere sballottati tra punti di
| 39
vista che si elidono a vicenda, e tutti in fondo con qualche
ragione oggettiva a loro vantaggio. È però solo in questo
quadro che si comprende la radicalizzazione del contrasto
nazionale tra i vari gruppi etnici poco prima della guerra: le
lotte per le scuole, le università, le autonomie territoriali, le
isole linguistiche e così via, sono espressione a volte più di
paure e speranze reciproche, che non di diicoltà concrete;
di una tensione spesso creata dall’esterno e dalle inluenze
della competizione tra stati; contrasti nazionali, infine,
che sono il rilesso più di cause politiche ed economiche al
fondo delle diicoltà imperiali, invece di esserne il motivo
scatenante.
Il Nationalverband era uscito dalle elezioni come la maggiore aggregazione
dei partiti di lingua tedesca, mentre si erano indebolite le “forze centripete”,
come i cristiano sociali e i socialdemocratici, raggruppatisi in tre Klubs
nazionali, tedesco, al quale aderivano ruteni e italiani, polacco, ceco-slavo:
Ara 1979a, p. 168.
2
La traduzione italiana dell’intervento si trova in Battisti 1966b, da cui
cito. Il testo originale in tedesco del Reden battistiano è consultabile invece
nella serie degli Stenographische Protokolle des Hause der Abgeordneten des
Reichsrates mit Beilagen und Indices, Sitzung der XXI. Session am 24. Oktober
1911 (ora consultabili online al sito alex.onb.ac.at). Il saggio ancor’oggi più
esauriente sul tema è quello di Ara 1974. Ma si veda, inoltre, Università e
nazionalismi 2009.
3
Battisti 1966b, p. 345. Gli Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), p.
1126, registrano alle parole di Battisti la protesta immediata di Erler: “Widerspruch des Abgeordneten Dr. Erler”. Nella versione italiana l’intervento
di Erler non è trascritto, mentre compare a p. 346 questo scambio di battute,
“(Deputato Erler interrompendo) Desideriamo solo che siate buoni Tirolesi.
(Battisti) Jamais” che invece è assente nel verbale originale tedesco. Ma in più
punti la traduzione italiana degli Stenographische Protokolle mostra minimi
scostamenti.
4
A questi territori andrebbe aggiunta anche la popolazione italofona residente a Fiume, com’è noto città inclusa nella parte ungherese della monarchia.
Nel complesso, stando alle statistiche uiciali del 1910, la percentuale degli
italiani si attestava sul 2% degli abitanti censiti (ca. 51.390.649), dunque
una delle minoranze etniche meno consistenti in termini numerici: Rumpler
2005, p. 557.
5
Un anno dopo la stipula del cosiddetto Compromesso del 1867, che
concedeva alle terre del regno storico d’Ungheria (la “Transleitania”) una larga
autonomia in materie amministrative, il governo di Budapest emanò una
costituzione grazie alla quale il magiaro, la lingua dell’élite al potere, godeva
di una posizione privilegiata sugli altri idiomi (rumeno, serbo, croato, italiano,
ucraino). Nelle province soggette a Vienna (con la denominazione usuale di
“Cisleitania” o più semplicemente Austria), la costituzione del 1867 stabiliva
invece – e la norma non fu mai messa in discussione – la parità giuridica delle
lingue d’uso.
6
Cit. nel bel volume di Ganz 2001, p. 91.
7
Kamusella 2009, pp. 509 e ss.
8
Twain 1898, p. 532 (consultabile online al sito http://ebooks.library.
cornell.edu).
9
Per una rassegna di queste interpretazioni Judson 2008; Kwan 2011;
Cornwall 2006.
10
Cole 2006, p. 327.
Su questo ancora, Ivi, p. 328.
Ganz 2001, p. 139; l’intervento venne pronunciato alla Camera il 24
aprile 1896.
13
Stourzh 1987.
14
Fassmann 2010, pp. 172-175.
15
John 2003, pp. 91-93.
16
Rumpler 2005, p. 474, ricorda che se nel 1830 viveva nelle campagne
ancora l’84% della popolazione dell’impero, nel 1910 questa percentuale era
scesa al 54%.
17
Moritsch 2001, p. 368.
18
Ganz 2001, p. 90.
19
Il fascicolo delle petizioni è conservato presso la Biblioteca comunale di
Trento, BCT 1-2630; la citazione è tratta dalla “Protesta degli elettori del
grande nobile possesso Fondiario contro l’introduzione delle scuole tedesche
nel Trentino”, cc. 30r-31v.
20
Rumpler 2005, p. 476.
21
Come puntualmente rileva Zaffi 1995.
22
Ara 1979b, p. 233.
23
Ivi, p. 244.
24
Aferma Avancini che negli ultimi cinque anni sono emigrati in America
9822 persone, mentre l’emigrazione temporanea ne ha riguardato 66.933;
secondo le ricerche più recenti, pur in assenza di dati certi, pare “accettabile
per il periodo 1881-1910 una media annua di 6000 espatri uiciali, cifra
ulteriormente aumentata da alcune migliaia di clandestini”, Grandi 2003b,
p. 879. L’ultimo censimento asburgico del 1910 registrava la presenza di
386.583 trentini con un aumento assoluto rispetto all’inizio del secolo di
26.404 unità, una crescita inferiore di quasi la metà di quella complessiva
dello stato asburgico. Per questi dati Grandi 2003a, p. 855.
25
Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), 83. Sitzung der XVIII Session am
5. Juni 1908, pp. 5480-5481.
26
Pombeni 2007, pp. 114-115.
27
Fontana 2011.
28
Steed 1919, p. 127.
29
Stenographische Protokolle (cfr. nota 2), Sitzung der XXI. Session am 24.
Oktober 1911, p. 1333 e ss.
30
Ecco il passo: “Gli Sloveni sono del pari contro Trieste, perché Trieste
ha una minoranza slovena. E che vuol dire ciò? A questa stregua Vienna
non dovrebbe avere un’Università tedesca, poiché ha una minoranza ceca”:
Battisti 1966b, p. 344.
1
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12
I.2 | Achille Beltrame (Arzignano [Vi], 1871- Milano, 1945)
Il divieto dell’università italiana ad Innsbruck. Conlitto tra studenti tedeschi e italiani, stampa, 379 x 270 mm, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino,
teca VII icon Battisti 135
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