MARIA BARBARA GUERRIERI BORSOI
I RESTAURI ROMANI PROMOSSI DAL CARDINALE FABRIZIO VERALLI
IN SANT’AGNESE E SANTA COSTANZA E LA CAPPELLA IN SANT’AGOSTINO
La vicenda biografica di Fabrizio Veralli è esemplare
dei modi in cui avveniva una carriera curiale di successo, nei primi decenni del Seicento, quando si
apparteneva ad una famiglia di discreto lignaggio e
adeguate relazioni sociali.1)
Il medico Giovan Battista Veralli aveva fatto fortuna
grazie all’amicizia con il cardinale Alessandro Farnese,
poi papa Paolo III. Il figlio Matteo aveva continuato la
famiglia mentre suo fratello Girolamo si era messo al
servizio della Chiesa, ricevendo la porpora nel 1549.
Questi però era morto prima ancora che il nipote
Fabrizio nascesse e l’educazione di quest’ultimo avvenne con il cardinale Giambattista Castagna, cugino di
Girolamo, che fu papa con il nome di Urbano VII nel
1590 per soli tredici giorni.
Certamente questi precedenti favorirono l’assegnazione dei primi incarichi in Curia, via via più prestigiosi. Urbano VII lo fece canonico di San Pietro, Clemente VIII nel 1600 lo mandò inquisitore a Malta, ma
l’incarico determinante arrivò nel 1606 con la nomina
a nunzio in Svizzera, paese politicamente difficile per
le tensioni religiose che lo attraversavano. La carica di
nunzio era particolarmente prestigiosa per la visibilità
che comportava ed era anche estremamente costosa
per il prescelto che doveva mantenersi nel paese straniero con un tenore di vita adeguato al suo status. Era
perciò molto frequente che essa preludesse alla nomina cardinalizia, come avvenne anche in questo caso il
24 novembre 1608, con l’assegnazione del titolo di
Sant’Agostino, legato alle memorie familiari. Le fonti
ricordano tra i suggeritori di questa nomina il cardinale Giovanni Garsia Millini, al quale il Veralli rimase
sempre molto legato.2)
Teodoro Amayden, che conobbe il cardinale di persona, lo presentò come un uomo tenace e probo, dotato di grandezza d’animo, solo indulgente al vino a
causa dell’abitudine contratta nel gelido paese degli
Svizzeri. Anche Giovan Pietro Caffarelli lo considerava
«homo quieto e da bene», ma non mancava di sottolineare che i Veralli «non sono ricchi di patrimonio»,
notizia sostanzialmente vera come dimostreranno le
vicende relative all’eredità del porporato.3)
Secondo una dinamica sociale più volte riscontrata,
subito dopo aver avuto la porpora Fabrizio comprò un
palazzo e ne cominciò l’ingrandimento e l’abbellimento
per adeguarlo al suo rango e ad una carriera che, con
ottimismo o presunzione, presumeva lunga e fortunata.
L’edificio era situato lungo via del Corso, all’altezza
di piazza Colonna, ove oggi sorge l’omonima Galleria.
Il cardinale vi intraprese lavori di ristrutturazione,
affidati all’architetto Francesco Peparelli, che erano
ancora in corso alla sua morte, volti a conferire decoro
estetico ad un insieme informe di strutture preesistenti.4) Benché le opere murarie non fossero concluse,
nella zona già terminata commissionò gli affreschi
della galleria ad Antonio Pomarancio come ricorda
Baglione e attesta un documento di pagamento registrato tra i debiti della sua eredità.5)
Nel 1618 il Veralli ricevette in commenda l’antica
Abbazia di Sant’Agnese sulla via Nomentana.6) Questa era stata restaurata e abbellita dai due commendatari precedenti, prima il cardinale Alessandro
Medici (1602–1605) e poi Paolo Emilio Sfondrato
(1605–1618), secondo una prassi diffusissima che
induceva il detentore di un beneficio ecclesiastico a
“restituire” alla chiesa che gli era stata assegnata
parte delle rendite riscosse sotto forma di restauri e
abbellimenti. Il Medici aveva fatto realizzare interventi di sterro all’esterno e lavori nell’antico scalone
che collegava la chiesa al monastero, probabilmente
facendo ingrandire le finestre perché fosse più luminoso, e vi aveva fatto eseguire anche decorazioni pittoriche, come poi vedremo. Più impegnativi furono i
lavori voluti dallo Sfondrato, già abituato ad imprese di questo tipo, come aveva mostrato nel suo titolo
cardinalizio di Santa Cecilia. A lui si devono la realizzazione del soffitto ligneo, la costruzione della
balaustrata sul matroneo e intorno al ciborio sovrastante l’altare maggiore e i decori pittorici posti
negli spazi tra gli archi della navata centrale e nelle
lunette del matroneo. In questi stessi anni fu collocata sull’altare maggiore la celebre statua di Sant’Agnese che Nicolas Cordier aveva realizzato assemblando ad un torso antico nuove parti di metallo.7)
Salvo il soffitto e la decorazione dell’altare maggiore, le altre opere furono eliminate in occasione dei
restauri ottocenteschi della basilica, ma ne abbiamo
notizia da fonti antiche e documenti iconografici.
Tra le prime è di particolare interesse un manoscritto di Michelangelo Monsagrati (1719–1798) che
ricorda le figure delle sante inserite sopra gli archi
inferiori, indicando anche l’identità di alcune di
esse, mentre al livello superiore erano immagini di
angeli con palme, allusive al martirio.8) Questi soggetti, e la balaustrata del matroneo, si vedono bene
in varie incisioni tra cui quella di Letarouilly (fig.
1).9) Per quel che mi è noto non avevamo sin qui
notizie sugli artefici coinvolti in questi lavori, ma i
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1
–
PAUL LETAROUILLY: VEDUTA INTERNA DELLA CHIESA DI SANT’AGNESE IN ROMA (INCISIONE)
(da P. LETAROUILLY, Edifices de Rome moderne, Liège 1849, tavola 114)
pagamenti fatti a carico dell’erede del cardinale
Sfondrato, il monastero di Santa Cecilia, ci permettono ora di identificarli.
Veniamo così a sapere che la balaustrata era stata
eseguita dallo scalpellino Domenico Marchesi e che
l’autore degli affreschi fu Marco Tullio Montagna.10)
Alla morte dello Sfondrato, il cardinale Veralli ne
continuò senza indugio l’opera. Fu lui a commissionare gli affreschi posti nell’arco absidale poiché le biografie antiche ricordano che ornò la chiesa con pitture
e fonti settecentesche menzionano il suo stemma in
questa parte della chiesa. I tre dipinti raffiguravano al
centro l’‘Incoronazione di Maria’ e ai lati ‘Sant’Agnese
fatta trafiggere dal tiranno’ e ‘Sant’Emerenziana lapidata mentre prega sul sepolcro di Sant’Agnese’.
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Anch’essi appaiono nell’incisione citata e hanno condiviso la sorte sfortunata dei precedenti. Non sappiamo chi li abbia eseguiti, ma, poiché il cardinale Veralli
fece lavorare in questo stesso edificio il Montagna, è
probabile che a lui fossero stati assegnati anche questi
dipinti.11) Certamente il ponteggio per il pittore e la
preparazione del muro (le “colle”) sopra la tribuna,
«al di sotto del soffitto per insino alla cascata da basso
del panno dipinto» erano state realizzate entro il
1619.12)
Marco Tullio Montagna (circa 1594–1649), ricordato nei documenti come originario di Velletri, autore
di buona parte delle opere che esamineremo, è un
pittore estremamente prolifico eppure ancora poco
noto.
Per molti anni è stato identificato con l’artista di cui
parla Baglione, citandolo solo con il nome di battesimo, che ne ricorda le opere in San Nicola in Carcere e
Santa Cecilia, quindi l’andata a Torino con Federico
Zuccari e la morte precoce. È evidente che quest’artista non può essere il Montagna di cui trattiamo per
molti motivi, soprattutto per la data di morte, che
oggi sappiamo con certezza essere avvenuta nel 1649,
ben dopo la stesura delle Vite di Baglione.13)
Da alcuni anni si accetta come data di nascita di
Montagna il 1584, proposta da Alessandra Bartomioli,
e ripresa successivamente da vari studiosi, che si riferisce ad un Marco Tullio, di Virgilio e Ginevra Veralli,
nato a Cori in seno ad una famiglia decisamente benestante, alla quale appartennero persone importanti.14)
Il pittore fu però figlio di Lucantonio e Vittoria,15)
cosicché l’identificazione del pittore con il Montagna
nato nel 1584 è errata. Pertanto è necessario dare credito alla notizia contenuta nel referto del decesso,
benché questi dati siano talvolta approssimativi, in cui
al pittore sono attribuiti cinquantacinque anni di età e
dunque ritenerlo nato intorno alla metà degli anni
Novanta del XVI secolo.
Si è affermato che Montagna sarebbe stato allievo di
Federico Zuccari (morto nel 1609), seguendo l’affermazione di Baglione relativa al pittore più antico, ed
anche l’indicazione di un documento di dubbia credibilità;16) in ogni caso la data di nascita qui proposta
esclude automaticamente il riferimento allo Zuccari e
palesi elementi stilistici ricollegano invece la formazione del Montagna a Giuseppe Cesari.17) Ciò appare
evidente soprattutto nelle opere precoci, cioè proprio
quelle che vedremo in questa sede, mentre negli anni
Trenta, nei quali si concentra buona parte della sua
attività conosciuta, si nota un allontanamento dal
Cavalier d’Arpino e una cauta e manierata assimilazione di elementi cortoneschi.
Le opere precedentemente note del pittore di Velletri partivano quasi tutte dalla fine degli anni Venti,18)
mentre il lavoro per lo Sfondrato ne attesta l’operosità
assai prima, proprio in coincidenza con l’ammissione
all’Accademia di San Luca, avvenuta nel 1619, che
non sarebbe stata certamente concessa ad un artista
ancora sconosciuto al pubblico.19)
Tra i suoi dipinti più noti sono quelli nei palazzi
Borghese e del Quirinale, nonché i cicli sacri nell’oratorio di San Giuseppe dei Falegnami, in Santi Cosma
e Damiano e quello distrutto della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, il più tardo attualmente
conosciuto, che dimostrano l’importanza dei suoi
committenti.20)
All’inizio del Seicento la chiesa di Sant’Agnese aveva
una sola cappella, posta a metà della navata destra,
voluta dal cardinale Alessandro Medici e finita dal suo
maestro di camera Pietro Giovanni Cima.21) Il Veralli
aggiunse le due laterali, che ebbero una decorazione a
stucco e furono preparate per ricevere anche affreschi,
ma entrambi i vani sono stati completamente alterati e
restano solo i suoi stemmi sopra gli archi di accesso.22)
Il cardinale decise inoltre di far costruire in marmo
la scala di accesso al monastero che già Alessandro
Medici aveva migliorato. Sin dal 18 giugno 1618 fu
sottoscritto l’accordo con lo scalpellino Felice Gargiolli, di Andrea, per la realizzazione dell’opera a fronte
del pagamento di 880 scudi. Nel minuzioso patto, che
stabilisce persino spessori e modalità di incastro delle
lastre per garantire la massima resistenza possibile del
manufatto, fu esplicitamente previsto che «detto maestro s’obliga di far la scala, che va in ghiesa qual è
longa canne dicidotto larga p.mi vinti sette in circa
con li marmi, che oggi si trovano in diversi luoghi
dentro, et fuori di d.a ghiesa eccetto l’incrostature di
marmo che sono in opera, et li pili intieri, che sono
nelli giardini di sopra et altri luoghi, et non bastando
d.ti marmi promette supliri con suoi marmi, senza che
sua Sig.ra Ill.ma si senta di spesa alcuna».23)
Se da un lato il patto sembra voler tutelare i reperti
antichi più importanti, quali i sarcofagi e i commessi,
d’altro canto l’aver imposto al muratore di fornire il
materiale eventualmente necessario avrà reso il capomastro particolarmente avido e attento nella ricerca di
tutti i frammenti presenti in loco. Fu proprio nel corso
di questi lavori che si rinvennero gli otto raffinati e
celebri rilievi, oggi a Palazzo Spada. La loro qualità li
salvò dal diventare lastre pavimentali e furono acquisiti dal cardinale e quindi dai suoi eredi.24) È evidente
un comportamento spregiudicato nei confronti delle
testimonianze classiche delle quali si dispone liberamente, non riconoscendo loro alcun valore documentario, ma al massimo quello estetico (e quindi venale)
in singoli casi.
Il cardinale ebbe cura di far incidere i suoi stemmi
sui ripiani del grande scalone e ritenne necessario
anche farlo decorare con pitture. Quelle ubicate sulle
due pareti terminali delle rampe, recano infatti il suo
stemma e rappresentano, ai lati della porta superiore,
due semplici angeli simmetrici e con un braccio levato
proprio verso l’insegna cardinalizia centrale (fig. 2),
nonché, sulla parete verso la chiesa, l’‘Apparizione
della Madonna a Sant’Agnese’ e le quattro ‘Virtù cardinali’ (fig. 3). Tra il novembre del 1618 e il gennaio
dell’anno successivo Marco Tullio Montagna ricevette
45 scudi complessivi per la pittura che «deve fare nel
frontespizio della scala fatta a Sant’Agnese, secondo il
disegno» e per «final pagamento della pittura fatta
sopra la scala».25)
Purtroppo la grande lunetta con l’‘Apparizione della
Vergine a Sant’Agnese’ e le sottostanti ‘Virtù’ sono in
condizioni quasi illeggibili, ma una certa dilatazione
spaziale e una mimica espressiva evidente, che umanizza il rapporto tra la Madonna e la santa, sembrano
segnare un elemento di autonomia rispetto al Cesari,
meno evidente nella fascia sottostante con le ‘Virtù’.
Fra queste sono intercalati tre stemmi, al centro quello
papale di Paolo V, a destra quello Borghese–Veralli, e a
sinistra quello cardinalizio Borghese, con riferimento a
Scipione Borghese, manifestazione piuttosto forte di
sudditanza al pontefice regnante che aveva creato cardinale il Veralli.26)
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laterali, gli angeli alludenti al martirio, le storie di
estrema testimonianza della fede dipinte sopra l’arco
absidale si raccordavano in un insieme coerente ed
unitario. Ancora una volta la Chiesa delle origini era
riproposta come santa e feconda di stimoli, capace di
spronare verso una religiosità più viva. Nel contempo
la ricchezza delle decorazioni moderne, marmi e pitture, entrava in risonanza con la rarefatta bellezza dell’antico mosaico absidale e conferiva all’aula un aspetto sfarzoso. L’isolata basilica, lontana dalla città, ma
legata a venerati luoghi di santità, dimostrava grazie
alla solerzia dei suoi pastori, la continuità e la grandezza della storia della Chiesa.
2
– ROMA, CHIESA DI SANT’AGNESE, SCALONE DI ACCESSO
AL MONASTERO – MARCO TULLIO MONTAGNA: ANGELO
I due affreschi citati appartengono senza dubbio a
Montagna, vista la collocazione e le affermazioni dei
documenti, mentre si pone il problema della decorazione della volta che copre la scala. Qui sono affrescati il
Salvatore al centro, fra le Sante Agnese ed Emerenziana, e due croci con simboli di martirio. L’evidente
difformità stilistica rispetto alle opere di Montagna,
nonché la mancanza di stemmi del Veralli, sempre
molto attento ad autocelebrarsi, inducono ad accettare
la tesi, già in se stessa convincente, formulata da Alessandro Zuccari, che questi affreschi siano stati eseguiti
al tempo di Alessandro Medici, ad opera del pittore
senese Sebastiano Folli, mentre precedentemente erano
assegnati ad Agostino Ciampelli.27)
Alla fine di tutti questi lavori la chiesa di Sant’Agnese era stata dotata di un più elegante accesso monumentale, completamente decorata in tutto il vano
della navata centrale e ampliata con nuove cappelle.
L’altare, sontuosamente coperto da un ciborio e ornato da lampade d’argento, focalizzava l’attenzione sulle
reliquie ritrovate di Agnese, proposta come ideale
modello di comportamento.28) Le sante delle pareti
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È probabile che già nel 1619 il cardinale Veralli avesse volto il proprio interesse verso l’adiacente chiesa di
Santa Costanza, che, a differenza di Sant’Agnese, non
aveva avuto recenti interventi di ripristino. L’iscrizione
dipinta, posta a memoria dell’intervento, afferma che il
tempio era prossimo alla rovina ed effettivamente furono eseguiti notevoli restauri murari, affidati di nuovo
alla coppia Muggiano–Vassalli.29)
Certamente, in questo caso, l’intervento di Veralli
non fu teso solo all’abbellimento di un edificio sacro,
ma alla sua salvaguardia, in quanto struttura di singolare rarità e bellezza, sorta nei primi secoli del Cristianesimo.
Inoltre l’edificio non era strettamente legato ad una
comunità religiosa ed era un po’ abbandonato. È sintomatico che, all’inizio del Seicento, la colonia dei pittori
nordici, detta Bentvueghels, in occasione dell’iniziazione di un nuovo adepto, vi facesse una sorta di processione, considerandolo il Tempio di Bacco, e poi concludesse la giornata in un’osteria.30) In Santa Costanza
il nuovo rivestimento pittorico, così esteso e appariscente, mirò, a mio avviso, ad accrescere nel fedele la
percezione della sacralità del luogo, contro la latente
idea di trovarsi in una struttura pagana, non immediatamente riconoscibile come chiesa, né per la forma né
per la decorazione.
Quando il cardinale intraprese questi lavori l’antichissimo mausoleo aveva ancora parte della decorazione musiva della cupola e delle incrostazioni marmoree
del tamburo, come attestano numerose testimonianze
iconografiche, tra le quali è particolarmente nota quella incisa da Pier Sante Bartoli, derivata però da disegni
cinquecenteschi.31) L’evidente riprovazione per questa
distruzione traspare già alla fine del Settecento nelle
parole di Carlo Fea e quest’atto ha nuociuto pesantemente alla valutazione dell’intervento di Veralli.32)
Oggi possiamo però affermare che lo stato di conservazione di questa decorazione musiva era pessimo.
L’analitica stima redatta da Francesco Peparelli dei
lavori fatti nella chiesa ci informa che non solo fu
rifatto tutto il tetto che copriva la cupola ma che questa presentava ampi squarci, riempiti a forza di pietre
e chiodi.33) La distruzione del mosaico, e delle sottostanti incrostazioni del tamburo, apparve inevitabile,
ma si procedette con singolare cura e i muratori furono pagati per «haver scopato, unito, et raccolto d.
3
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ROMA, CHIESA DI SANT’AGNESE, SCALONE DI ACCESSO AL MONASTERO – MARCO TULLIO MONTAGNA:
APPARIZIONE DELLA MADONNA A SANT’AGNESE E LE QUATTRO VIRTÚ CARDINALI
Musaico con suo stucco ass.e crivellato et capato in più
volte, doppo portato nel Refettorio del Monast.o» e
«per haver con ogni diligenza possibile levato tutte le
pietre et lastre de marmi mischi facevano incrostatura
attorno d.o muro dalle d.e finestre abbasso attorno il
tamburo e portate in securo nel refettorio». È probabile che la raccolta delle tessere musive fosse finalizzata
ai restauri dei mosaici restanti e, infatti, furono integrati quelli delle due absidiole e del vano rettangolare
in asse con la porta, allora occupato dal sarcofago porfiretico.34)
Probabilmente i mosaici del deambulatorio presentavano lacune troppo estese perché il cardinale potesse affrontare le difficoltà e la spesa di un’integrazione
simile alla precedente. Veralli fece comunque conservare i lacerti superstiti ordinando di far integrare le
zone mancanti con inserti pittorici che si raccordassero armoniosamente allo stile dei mosaici stessi.
Purtroppo quasi tutta questa decorazione è andata
distrutta e solo vecchie foto ci tramandano l’immagine dell’interno della chiesa (fig. 4). Nell’agosto del
1620 dunque si stipulò l’accordo con Montagna per
la realizzazione di un complesso ciclo decorativo ad
affresco: il pittore avrebbe dipinto nella cupola il
Paradiso, gli ordini e le gerarchie angeliche (fig. 5),
nel tamburo dodici storie di San Gallicano e Santa
Costanza (figg. 6–9), nel deambulatorio un finto
colonnato che riprendesse quello reale della chiesa,
Cristo e gli apostoli nelle nicchie del deambulatorio
e avrebbe colmato le lacune della volta anulare.35) Il
pittore aveva presentato, come sempre, disegni preparatori e si impegnava a dipingere tutto questo
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complesso di immagini entro un anno e mezzo, per
250 scudi.
La parte principale sopravvissuta di questo ciclo è
quella ubicata nella cupola, seppur assai dilavata, e
meglio leggibile solo in una sezione, inferiore ad un
quarto del totale, in conseguenza di un recente intervento di restauro (cfr. fig. 5).
L’intera superficie della calotta è divisa in nove
corone concentriche, probabilmente con riferimento
ai nove cori angelici, anche se la prima ospita, per
motivi di visibilità, le figure umane.36) In questa prima
fascia assai alta, si assiepano una moltitudine di personaggi del Vecchio e Nuovo Testamento, tutti seduti e
dotati degli attributi iconografici che ne facilitano il
riconoscimento. Cristo si staglia contro il cielo, al di
sopra di grandi personaggi biblici tra i quali si riconoscono agevolmente Mosè e David. Vari angeli si
dispongono nei cerchi concentrici della cupola mentre
altri campeggiano, più grandi, davanti ad essi, ma la
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povertà della pellicola pittorica impedisce di capire
come Montagna avesse alluso alle varie gerarchie di
queste creature divine. Il pittore forse trasse uno spunto iconografico per la sua realizzazione dalla cupola
della cappella di San Giacinto in Santa Sabina, dipinta da Federico Zuccari, che presenta nel piano più
vicino all’osservatore le figure umane e le gerarchie
angeliche nelle successive fasce concentriche, mentre
le tipologie dei singoli personaggi dipinti da Montagna dimostrano chiaramente il legame con il Cavalier
d’Arpino.
Per la ricostruzione della parte restante della decorazione di Santa Costanza dobbiamo avvalerci di vecchie fotografie poiché, come abbiamo detto, quasi
tutti gli affreschi furono distrutti, quelli del tamburo
addirittura negli anni Trenta del Novecento.
Il tamburo fu diviso da paraste, poste in corrispondenza delle colonne sottostanti, in dodici sezioni contenenti altrettanti riquadri, affiancati da festoni. Solo
ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA – VEDUTA INTERNA PRIMA DEI RESTAURI
CON L’INTERA DECORAZIONE SEICENTESCA ANCORA INTEGRA
5
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ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA, CUPOLA – MARCO TULLIO MONTAGNA: IL PARADISO
E LE GERARCHIE ANGELICHE (PARTICOLARE)
tre scene sono dedicate alla santa titolare della chiesa
mentre le altre raccontano la vita del suo promesso
sposo, Gallicano, personaggio leggendario e privo di
significative raffigurazioni precedenti.37) Nella scelta
di questo tema Veralli sembrò più sensibile ai richiami
dell’agiografia apologetica che non a quelli del rigore
storico, propugnati a Roma nei decenni precedenti
soprattutto da Cesare Baronio.
Forse anche per la rarità del tema, le scene furono
accompagnate da cartigli esplicativi che dovevano
aiutare il fedele a seguire la vicenda e coglierne il
carattere di exemplum.38) Le storie qui narrate derivano da una tarda redazione della Passio dei Santi Giovanni e Paolo, secondo la quale Costanza, già cristiana, aveva maturato la decisione di rimanere vergine.
Ciò nonostante acconsentì a sposare il console e
generale romano Gallicano solo al ritorno dalla sua
missione contro gli Sciti. Quando questi partì trattenne con sé le due figlie di lui, Attica e Artemia, convertendole alla sua religione, e gli dette come compagni
di battaglia i suoi servi Giovanni e Paolo. Gallicano,
quando già si sentiva sconfitto e meditava la fuga, per
consiglio dei due giovani, si rivolse a Dio che gli
accordò la vittoria. Era quindi tornato a Roma, celebrandovi il trionfo e rendendo grazie a Dio, insieme a
Costantino, nella basilica di San Pietro. Riconoscente
per l’aiuto ricevuto aveva chiesto di essere sciolto
dalla promessa di matrimonio e aveva dato prova di
fede e carità liberando i servi, aiutando i poveri e
costruendo una basilica in onore di San Lorenzo,
come il santo stesso gli aveva richiesto. Aveva infine
ricevuto il martirio ad Alessandria, durante il regno
di Giuliano l’Apostata.39)
L’intera storia era narrata in senso antiorario e i
primi tre riquadri, incentrati sulla figura di Costanza,
occupavano la posizione centrale, di fronte alla porta
di entrata e quindi erano particolarmente visibili.
L’avventurosa vicenda era stata certamente poco raffigurata, ma aveva una sua notorietà come prova una
sorta di riduzione teatrale scritta da Lorenzo dei
Medici, più volte ristampata, e anche l’esistenza di un
breve testo seicentesco del canonico Francesco Domenici intitolato ‘Santa Costanza overo il dispregio del
mondo’.40) La santa era effettivamente sentita come
esempio di rifiuto delle glorie mondane, tesa alla conquista di un superiore livello di vita. Figlia dell’imperatore, aveva scelto la purezza, aveva esercitato doti
carismatiche sulle figlie del promesso sposo, lo aveva
spinto, tramite i consiglieri che gli aveva dato, alla
conversione. Lo stesso Gallicano, console e generale
trionfatore, è presentato come una sorta di Costantino, vincitore nel segno della fede, ma più degno di
lode e celebrazione per aver saputo testimoniare il suo
credo anche con il martirio.
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ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA, TAMBURO
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(FOTOGRAFIE
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MARCO TULLIO MONTAGNA:
6 – TRE AFFRESCHI CON STORIE DI SANTA COSTANZA (DISTRUTTI)
TRE AFFRESCHI CON STORIE DI SAN GALLICANO (DISTRUTTI, TRANNE QUELLO CENTRALE, STACCATO)
ANTERIORI AL 1934)
ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA, TAMBURO
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MARCO TULLIO MONTAGNA:
8 – TRE AFFRESCHI CON STORIE DI SAN GALLICANO (DISTRUTTI)
TRE AFFRESCHI CON STORIE DI SAN GALLICANO (DISTRUTTI, TRANNE QUELLO CENTRALE, STACCATO)
(FOTOGRAFIE
ANTERIORI AL 1934)
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ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA, NICCHIA LUNGO IL DEAMBULATORIO
MARCO TULLIO MONTAGNA: APOSTOLO (PARTE SUPERSTITE)
La scena ‘Gallicano medita la fuga’ è una riduzione
banalizzante della ‘Battaglia di Tullio Ostilio’ dipinta
dal Cesari nel Palazzo dei Conservatori, con i due
schieramenti contrapposti guidati dai comandanti sui
cavalli impennati, l’assieparsi dei due gruppi di lance
parallele sul fondo, il soldato di schiena in primo
piano. Anche le figure, assai allungate e un po’ rigide
ricordano quelle del prototipo. Nel riquadro con il
‘Trionfo di Gallicano’, ove domina la stasi più assoluta, il pittore sembra invece aver voluto riecheggiare
bassorilievi antichi nella grande quadriga in primo
piano. In questo caso Montagna non seguì un noto
modello arpinesco quale il ‘Trionfo di Costantino’
dipinto da Bernardino Cesari in San Giovanni in
Laterano. La scena seguente con il ‘Ringraziamento in
San Pietro’ è memore di esempi tardo cinquecenteschi, come mostrano le figure a mezzo busto in primo
piano e la bilanciata distribuzione dei personaggi.
Anche le tre storie dedicate a Santa Costanza hanno
schemi compositivi scontati, in cui si privilegia la leggibilità del contenuto, con intento didascalico, tanto
che gli affreschi quasi ricordano la pittura di epoca
sistina.
Nella sistemazione del deambulatorio il Montagna
proiettò sulla parete della chiesa un colonnato fatto ad
imitazione di quello reale e sotto ciascun arco così
creato inquadrò una delle nicchie del sacello entro le
quali dipinse grandi figure di apostoli e Cristo nel
vano di fronte all’ingresso. L’effetto di quadratura
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monumentale fu risolto con perizia ed è istintivo chiedersi se Montagna avesse già conosciuto Agostino
Tassi, grande specialista in questo settore , con il quale
certamente collaborò nel 1631 a Palazzo Borghese.41)
Delle figure degli apostoli restano scarsi frammenti
— presento qui ‘San Simone’ (fig. 10) che è il più leggibile — mentre sono state eliminate nell’Ottocento le
ridipinture collocate tra i mosaici della volta. Un
lucernaio collocato di fronte alla porta, sul lato opposto del deambulatorio, era stato invece interamente
affrescato, come mostrano foto precedenti all’improvvido ripristino purista, e qui il pittore aveva collocato
‘Santa Costanza’ (fig. 11), tra le due fanciulle da lei
convertite, raffigurate sulle pareti laterali.42)
Infine, ovunque si scorgevano gli stemmi Veralli,
disseminati nel vano centrale della chiesa e nel deambulatorio, persino sulle vetrate, nonché sull’altare
maggiore che il cardinale fece realizzare nel 1623. Lo
scalpellino Vincenzo Canino dovette seguire disegni
forniti dal solito Montagna, evidentemente ben accetto al cardinale, e si impegnò ad eseguire l’opera per
100 scudi, anche in questo caso usufruendo di marmi
antichi messi a disposizione dal committente.43) L’altare, collocato al centro della chiesa, è sopravvissuto, ma
privato dell’originario scalino sopra la mensa, e presenta le quattro facciate rivestite di eleganti commessi
marmorei. Il lato volto verso il celebrante presenta l’iscrizione con l’elenco delle reliquie, sostituita da una
croce sul lato opposto, tra le rose e la fascia ondata
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ROMA, CHIESA DI SANTA COSTANZA, VOLTA DEL DEAMBULATORIO
MARCO TULLIO MONTAGNA: SANTA COSTANZA (DISTRUTTO)
dell’arma Veralli, mentre sui fianchi campeggiano gli
stemmi del committente. Sappiamo che il cardinale
fece smontare e riassemblare l’altare per avere sul lato
volto verso l’ingresso l’iscrizione, probabilmente
anche in questo caso per richiamare immediatamente
l’attenzione del fedele sulla santità del luogo nel quale
era entrato a pregare.44)
In occasione di questi lavori fu creata anche l’attuale facciata della chiesa, resecando i muri che sporgevano dal piano a questo scopo prescelto e dotandolo di
un adeguato coronamento. Montagna intervenne
anche qui: dovette graffire e dipingere una «prospettiva di tempio», di cui non v’è traccia antica o presente,
ma che probabilmente fu una finta struttura architettonica che arricchiva quella reale della facciata stessa.45) Anche in questo caso ci si attenne a modalità
operative consolidate, i cui esempi più significativi si
rintracciano nei restauri promossi dal cardinale Alessandro Medici ai Santi Quirico e Giulitta e da Cesare
Baronio ai Santi Nereo e Achilleo. Questi interventi
consentivano di economizzare sul costo di costruzione
di una facciata reale e, spesso, di inserire simboli sacri
nella decorazione della parete.46)
Quando Veralli morì i lavori nelle chiese esaminate
erano sostanzialmente conclusi, come dimostra l’esistenza di un solo pagamento fatto dall’erede per queste opere.
Erano così disponibili i capitali per la realizzazione
della cappella di famiglia in Sant’Agostino che ora
esamineremo.
Che cosa il cardinale Veralli possedesse ce lo dice
l’inventario dei beni conservati nel palazzo a piazza
Colonna.47) Fra gli altri arredi sono descritti molti
dipinti, purtroppo quasi tutti senza attribuzione, con
l’eccezione di un paesaggio di Paolo Brill, sette del
Tassi e due copie da Bassano. Come sempre i quadri
sacri erano i più numerosi, ma c’erano anche parecchi
paesaggi, poche nature morte e svariati ritratti. Il cardinale possedeva inoltre teste e busti antichi, gli otto
bassorilievi già ricordati, murati nella galleria, e alcune statue.
Gli amministratori procedettero immediatamente
all’alienazione di alcuni beni del cardinale. Furono
venduti arazzi, corami e tappeti al cardinale Savelli,
gli argenti, la libreria e Alessandro Rondinini comprò
per 450 scudi due preziosi studioli pieni di medaglie.48)
Il totale delle entrate dell’eredità, valutato oltre
63.000 scudi, risultava dal valore dei beni immobili,
delle rendite, degli oggetti alienati.49)
Fabrizio Veralli aveva chiesto di essere tumulato
nella chiesa di Sant’Agostino, suo titolo cardinalizio,
alla quale aveva lasciato tutti gli argenti e i parati della
sua cappella personale. Non aveva però ordinato l’attivazione dei lavori di cui parleremo, ma aveva solo
87
affermato che la sepoltura doveva avvenire «con quella convenienza» ritenuta opportuna dagli esecutori
testamentari. I suoi beni erano destinati al primogenito nascituro del fratello Giovan Battista Veralli, sposatosi nel 1612 con Eugenia Rocci, dalla quale aveva già
avuto Giulia e Maria.50) Nel caso questo primogenito
non fosse arrivato il patrimonio sarebbe passato al
primo maschio nato da una delle ragazze, con l’obbligo di assumere il cognome Veralli. Il cardinale istituì
una cappellania alla Madonna dei Monti, poiché era
dal 1622 protettore dell’arciconfraternita dei Catecumeni alla quale la basilica apparteneva, lasciò gli usuali donativi alla famiglia e stabilì che i suoi esecutori
testamentari fossero i cardinali Giovanni Garsia Millini e Scipione Borghese, nonché amministratori, sino
al compimento dei vent’anni del futuro erede, monsignor Ciriaco Rocci e il fratello Antonio, cognati di
Giovan Battista Veralli, «nell’integrità e bontà de’
quali sommamente confidiamo», e Arcangelo Mandosi
«nostro confidentissimo».51)
La necessità di tenere un’amministrazione separata
dell’eredità dette luogo ai documenti fondamentali per
la storia della cappella in Sant’Agostino.52) Ciriaco Rocci
rinunciò al suo ruolo di amministratore, probabilmente
perché costantemente lontano da Roma, mentre rimase
13 – ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, TERZO PILASTRO
A DESTRA – MONUMENTO FUNEBRE DI GIROLAMO VERALLI
12 – ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, TERZO PILASTRO
A DESTRA – EGIDIO MORETTI: BUSTO DI GIROLAMO VERALLI
88
il fratello che esercitava l’attività bancaria e dava quindi
ampie garanzie di saper gestire adeguatamente un
incarico di questo genere. Ciò nonostante pare che i
conti siano stati tenuti in modo piuttosto irregolare,
tanto che ne nacque una controversia legale.53)
In generale i rapporti tra Giovan Battista Veralli e i
Rocci si deteriorarono progressivamente, arrivando ad
essere molto tesi, come testimoniano alcune lettere.
Al momento della morte di Fabrizio, Ciriaco Rocci
scrisse: «amavo, e servivo il Sig. Card.le Verallo di tanto
cuore, senza mira d’interesse, ne mi dolgo se non m’ha
lasciato niente, dispiacendomi solo la perdita della sua
persona». Pochi anni dopo Giovan Battista Veralli riteneva di essere stato danneggiato dagli amministratori
romani mentre il cardinale Rocci nel 1637 arrivò ad
affermare di aver ricavato dal compito di occuparsi
dell’eredità solo problemi, amarezze e forse anche un
danno economico.54)
Nella chiesa di Sant’Agostino aveva avuto la sua
cappella il cardinale Giambattista Castagna, poi Urbano VII, come abbiamo detto parente e protettore di
Fabrizio Veralli. Dunque è comprensibile che le attenzioni degli amministratori dell’erede si indirizzassero
tore dell’eredità del cardinale Veralli, come abbiamo
già ricordato protettore dell’arciconfraternita dalla
quale dipendeva la chiesa monticiana.
Lo scalpellino si occupò solo della struttura architettonica dei monumenti mentre la realizzazione dei
due busti dei cardinali fu affidata ad uno scultore, che
ricevette i relativi pagamenti dal 1627 al 1631.59) Si
tratta di Egidio Moretti (c. 1585 – c. 1651) commerciante di antichità, restauratore e scultore, secondo
una modalità operativa tipica del primo Seicento a
Roma. Come venditore e restauratore sono noti i suoi
rapporti con i Mattei, i Colonna, i Barberini e con
Scipione Borghese.60) Le sue opere scultoree conosciute sono concentrate soprattutto nel pontificato
borghesiano, allorché lavorò in Santa Maria Maggiore
e San Pietro.61) Sempre in quest’epoca, nel
1614–1615, eseguì quattro statue di personaggi
all’antica per lord Thomas Howard che rivelano la
sua lunga consuetudine con la statuaria classica, ma
anche doti modeste di ideatore.62) Allo stato attuale
non conosciamo altri busti realizzati da lui, cosicché
le due effigi Veralli assumono un particolare interesse. Esse rivelano il mantenimento di modi tradizionali, legati ad un realismo di lontana ascendenza lombarda, che aveva dominato nella ritrattistica funeraria
14 – ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, SECONDO PILASTRO
A DESTRA – MONUMENTO FUNEBRE DI FABRIZIO VERALLI
su questo vano. La storia cinquecentesca della cappella è già stata ricostruita e sappiamo che sin dal 1587 vi
si lavorava per ordine del Castagna che voleva esservi
seppellito.55) Nel 1590 i beni del papa andarono
all’Arciconfraternita della Santissima Annunziata dalla
quale gli eredi di Fabrizio acquisirono il sacello nel
1631, come ricordava anche un’iscrizione.56)
Forse le difficoltà giuridiche della transazione allungarono i tempi per la sottoscrizione dell’atto, ma i
lavori decorativi cominciarono certamente sin dal
1627. Il 15 aprile di quell’anno furono sottoscritti i
capitoli con lo scalpellino Ercole de Curtis che avrebbe dovuto realizzare i due monumenti funebri dedicati ai cardinali Girolamo e Fabrizio Veralli, posti sui
pilastri esterni alla cappella (figg. 12–15), per l’ammontare di 340 scudi più dieci di gratifica, conforme
al disegno dato.57) Questi era un artigiano esperto,
capace di gestire anche lavori più complessi come l’altare e l’intera decorazione marmorea della cappella
Baccini nella chiesa della Madonna dei Monti, per la
quale elaborò i disegni preparatori.58) Non è un caso
che nella realizzazione di quell’opera fosse implicato
Arcangelo Mandosi, parente del Baccini e amministra-
15 – ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, SECONDO PILASTRO
A DESTRA – EGIDIO MORETTI: BUSTO DI FABRIZIO VERALLI
89
16
–
ROMA, COLLEGIO DEI NEOFITI – EGIDIO MORETTI:
MADONNA E SANTI
del tardo Cinquecento e primo Seicento. Arcaico è
anche il trattamento schiacciato delle pieghe delle
mozzette, realizzate in marmo rosso, che non riescono a suggerire l’articolazione volumetrica del corpo
sottostante. Se si pensa che a questa data Gian Lorenzo Bernini aveva già realizzato vari ritratti capaci di
esprimere la vitalità dell’effigiato, e persino una sensazione di movimento, non si può certo dire che il
Moretti si mantenesse al passo con i mutamenti del
suo tempo e neanche che ci provasse in modo prudente.
Ciò nonostante le teste, nel trattamento minuzioso e
incisivo delle irregolarità dell’epidermide e delle capigliature, rivelano buon mestiere e l’aspetto austero dei
volti contribuisce a dare dignità ai porporati.
Certamente Moretti fu chiamato a realizzare questo
lavoro da Antonio Rocci poiché sin dal 1617 aveva firmato con lui e Ciriaco Rocci, nonché con Diomede e
Giovan Pietro Varesi, l’obbligo per la realizzazione del
monumento funebre del cardinale Pompeo Arrigoni
da inviare nel Duomo di Benevento.63) L’Arrigoni
aveva lasciato eredi due sorelle, madri dei personaggi
citati che si assunsero l’onere di questa realizzazione
costosa, del valore di 400 scudi. Il monumento, tutto
realizzato con marmi pregiati, era alto ben 34 palmi,
cioè quasi otto metri, e prendeva a modello quelli
eretti in onore di Pio IV e del cardinale Serbelloni nel
coro di Santa Maria degli Angeli. Gli storici beneventani del Seicento ricordano le molte benemerenze dell’Arrigoni nei confronti della sua sede vescovile e celebrano il suo «famosissimo tumulo» che si trovava nel
90
lato destro del capocroce.64) Purtroppo i molti terremoti che hanno martoriato questa città e il suo
Duomo ne hanno cancellato la memoria, oggi affidata
unicamente al contratto di allogazione allo scultore.65)
Segnalo ancora un’opera inedita di Moretti e cioè il
bassorilievo sul cantonale del Collegio dei Neofiti (fig.
16), adiacente alla chiesa di Santa Maria dei Monti.
Questo edificio fu fatto costruire dal cardinale Antonio
Barberini senior, protettore dell’ente pio, e raffigura la
‘Madonna con il Bambino tra i santi Francesco e Agostino, Stefano e Lorenzo’. Moretti lo eseguì nel 1635
prendendo a modello la celebre e miracolosa immagine che si trova sull’altar maggiore della basilica limitrofa, il cui scoprimento aveva determinato la costruzione dell’edificio, e questo prototipo determinò il
sorprendente sapore arcaistico del rilievo.66)
Ma torniamo alla cappella Veralli di Sant’Agostino.
Per quanto riguarda le pitture, sin dal 1627 fu richiesto il quadro d’altare a Benigno Vangelini,67) pittore
quasi sconosciuto, la cui unica opera pubblica citata
dalla storiografia antica — un quadro con i ‘Santi
Cirillo e Metodio’ conservato nella chiesa di San Girolamo degli Schiavoni — non è più rintracciabile.68)
L’artista copiò in questo caso un originale raffaellesco,
la ‘Madonna del velo’, oggi conservato nel Museo
Condé di Chantilly, al quale aggiunse gli angeli in alto
17
–
ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, CAPPELLA VERALLI
BENIGNO VANGELINI: LA MADONNA DELLE ROSE
18
–
ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, CAPPELLA VERALLI – MARCO TULLIO MONTAGNA
(SU PRECEDENTI DIPINTI DI AVANZINO NUCCI): DECORAZIONE DEL CATINO
e le rose in primo piano, chiara allusione allo stemma
dei Veralli (fig. 17). Questa tela dovette sostituire la
precedente, eseguita al tempo del cardinale Castagna,
opera di Domenico, pittore spagnolo, nell’ambito del
generale rinnovamento decorativo della cappella.69) È
probabile che questo modesto pittore sia stato chiamato da Rocci poiché era l’affittuario di una casa già di
proprietà Arrigoni, parte dei beni passati ai Rocci e ai
Varese.70)
Nel 1631, quando ormai la cessione della cappella
si stava felicemente concludendo, si intervenne sulla
decorazione scultorea in stucco e soprattutto si rinnovò tutta la decorazione ad affresco.71) Questa volta il
Vangelini dovette sembrare inadeguato e si tornò a
Marco Tullio Montagna, l’artista preferito dal cardinale Veralli. Il minuzioso conto presentato nel luglio del
1631 permette di sapere esattamente cosa fece.72) Il
pittore intervenne sugli affreschi cinquecenteschi di
Avanzino Nucci perché molto rovinanti. All’esterno
della cappella si trovavano due profeti, oggi perduti,
nel catino le tre storie con la ‘Visitazione’, l’‘Annunciazione’ e la ‘Presentazione al Tempio’ (fig. 18) e tre
riquadri con angioletti tutti rifatti sulla traccia precedente, mentre potrebbero essere del tutto suoi i due
santi laterali così descritti: «Per aver fatto il S.to Giovanbattista et il S.to Giovanni Evangelista tutti doi di
novo affresco et ritoccati a secco a sedere nel deserto
come il naturale». Questi ultimi dipinti sono recentemente riapparsi, una volta spostate le tele ottocentesche che li coprivano, e presentano i tipici tratti di
Montagna: nel San Giovanni Battista i muscoli troppo
schematici e dipinti a lunghe pennellate chiare sulle
braccia e le mani con le dita allungate e dinoccolate
(fig. 19), nel San Giovanni Evangelista (fig. 20) la testa
incorniciata da capelli scomposti, baffi e barba a ciocche separate, complessivamente così simile, ad esempio, al Dio Padre dipinto nella sacrestia di San Sebastiano.73)
Montagna chiese per il suo lavoro 215 scudi, di cui
80 per le dorature.74) Come lo stesso conto rivela non
disdegnava lavori da decoratore, ma le sue quotazioni
sembrano essere salite visto che poco più di un decennio prima aveva pattuito la decorazione dell’intera
chiesa di Santa Costanza per 250 scudi.
Giovan Battista Veralli non ebbe alcun erede
maschio legittimo. Nel 1627 rimase vedovo di Eugenia Rocci, ma l’anno successivo era già convolato a
nuove nozze. Negli anni seguenti sembra essere vissuto soprattutto a Castel Viscardo, da dove scriveva alle
due figlie rimaste a Roma, affidate ai Rocci. Da una
donna veneziana ebbe ben tre figli illegittimi che gli
attirarono l’ulteriore ostilità di Ciriaco Rocci, divenuto
cardinale nel 1634, e del nuovo parente acquisito, il
91
19
– ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, CAPPELLA VERALLI
MARCO TULLIO MONTAGNA: SAN GIOVANNI BATTISTA
cardinale Bernardino Spada.75) Infatti Maria Veralli
sposò nel 1636 Orazio Spada, mentre la sorella Giulia
rimase nubile e le visse vicina sino alla morte precoce
avvenuta nel 1643.76)
Il patrimonio della famiglia Veralli passò agli
Spada: le terre, gli immobili romani, le opere d’arte e,
non ultimi, i documenti che ci hanno permesso di
ricostruire queste vicende.
REFERENZE
FOTOGRAFICHE
Fig. 3: Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Romano; fig. 4: Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione; figg. 6–9 e 11: Soprintendenza per i Beni Ambientali e
Architettonici, Roma.
20 – ROMA, CHIESA DI SANT’AGOSTINO, CAPPELLA VERALLI
MARCO TULLIO MONTAGNA: SAN GIOVANNI EVANGELISTA
stico si veda, in generale, M. RAFFAELI CAMMAROTA, Il fondo
archivistico Spada Veralli. Ipotesi per un inventario, Napoli
1980. Per le fonti a stampa sul cardinale: G. PALATIO, Fasti
Cardinalium omnium Sanctae Romanae Ecclesiae, Venetis
1703, pp. 30 e 31. Sull’educazione si veda S. VIOLA, Memorie istoriche dell’antichissima città di Cori ne’ Volsci, Roma
1825, p. 79; studiò filosofia e lettere al Collegio Romano e si
laureò in legge a Perugia. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, Venezia, 93, 1859, pp. 224–226
per Girolamo (c. 1500–1555) e Fabrizio (c. 1570–1624); 86,
1857, pp. 36–41 per Giambattista Castagna (1521–1590),
cardinale dal 1583. Questi era figlio di Costanza Jacovacci,
sorella di Giulia, moglie di Giovan Battista Veralli, quindi il
Castagna era cugino di Girolamo, zio di Fabrizio.
3) T. AMAYDEN, Elogia Summorum Pontificum et S. R. E.
Cardinalium suo aevo defunctorum. Ho consultato la copia
1) C. WEBER, Genealogien zur Papstgeschichte, IV, Stuttgart
2001, pp. 946 e 947. Fabrizio Veralli era figlio di Matteo e
Giulia Monaldeschi della Cervara. T. AMAYDEN (Storia delle
famiglie romane, edizione a cura di A. BERTINI, Roma
(1910–1915), II, p. 220) dimostra grande rispetto per la famiglia. Lo stemma è: di rosso, alla fascia ondata d’argento,
accompagnata in capo da uno rosa dello stesso.
di questo testo conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi BAV), ms. Vat. Lat. 8747, n. 162. Su questo
studio e sulla figura dell’autore si legga l’ottimo libro di A.
BASTIAANSE, Teodoro Ameyden (1586–1656) un neerlandese
alla corte di Roma, Staatsdrukkerij–Gravenhage 1967. G. P.
CAFFARELLI, De familiis romanis vel Romae, BAV, ms. Ferraioli 283, c. 214v.
2) Vari documenti relativi a questi incarichi si trovano in
Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Fondo Spada
Veralli (d’ora in poi FSV), vol. 437. Su questo fondo archivi-
4) Sulle vicende del palazzo si veda A. PAMPALONE, Un
episodio di restauro settecentesco in un edificio distrutto:
palazzo Spada Veralli (poi Piombino) a piazza Colonna, in
92
E. DEBENEDETTI (a cura di), Roma borghese. Case e palazzetti di affitto, II (Studi sul Settecento Romano, 11), Roma
1995, pp. 109–125, soprattutto pp. 109–110. I lavori proseguirono dopo la morte del cardinale, per importi cospicui,
perché nelle condizioni in cui si trovava il palazzo era difficilmente affittabile: ASR, FSV, vol. 399, fasc. 27. Alcune interessanti lettere sui lavori in corso, scritte da Antonio Rocci a
Giovan Battista Veralli, sono in ASR, FSV, vol. 449.
Peparelli ricevette un pagamento di 25 scudi il 4 maggio
1628 dagli eredi del cardinale «per stime e fatiche fatte»:
ASR, FSV, vol. 817, c. 15 destra.
5) G. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti,
Roma 1642, p. 302; ASR, Trenta notai capitolini, uff. 18, L.
Boncincontro, sesta parte del 1624, c. 684v: scudi 30 ad
«Antonio Pomaranci Pitt.re per saldo della pittura fatta nella
Galleria al sig.r Card.le di buon mis.a, e d’ogni pretensione», che gli furono liquidati nel 1626 (ASR, FSV, vol. 817, c.
7bis). Il contratto con Giobbe Muggiano e Antonio Vassalli
per i lavori murari della galleria, non datato, si trova tra
documenti del 1620–1622 circa e potrebbe risalire a quell’epoca: ASR, FSV, vol. 437, cc. 93–94.
6) A. P. FRUTAZ, Il complesso monumentale di S. Agnese, 3°
ed., Città del Vaticano 1976, con bibliografia precedente. Si
veda ora anche il recente libro di M. MAGNANI CIANETTI, C.
PAVOLINI (a cura di), La basilica Costantiniana di Sant’Agnese. Lavori archeologici e di restauro, Milano 2004, che
però non si sofferma sulle decorazioni della chiesa.
7) Sul cardinale Sfondrato si vedano i recenti studi di K.
GALLAGHER, An expression of piety: the last will of cardinal
Paolo Emilio Sfondrato (1561–1618), in Papers of the British School of Rome, LXVII, 1999, pp. 303–321 (p. 311 n. 41
per un riferimento ai pagamenti del soffitto di Sant’Agnese),
e H. ECONOMOPOULOS, “La pietà con l’arte e l’arte con la
pietà”: collezionismo e committenze del cardinale Paolo Emilio Sfondrato, in M. GALLO (a cura di), I Cardinali di Santa
Romana Chiesa, 3, “Veri cardines et clarissima Ecclesiae
lumina”, Roma 2001, pp. 23–53.
La chiesa aveva beneficiato anche di lavori promossi da
Paolo V, in particolare il bel ciborio.
8) Il manoscritto del Monsagrati è stato segnalato da P. A.
FRUTAZ. È conservato presso l’Archivio Storico di San Pietro
in Vincoli con la segnatura A 950. A c. 38 si legge: «Sopra le
colonne più grandi [cioè quelle inferiori della navata] a man
destra vi è dipinta S. …, S. Cecilia, S. Lucia, S. … e nell’angolo l’arma del Card. Sfondrato. Sopra le due colonne
dinanzi alla porta maggiore vi sono dipinte S. ... Sopra le
colonne a man sinistra si sono dipinte S. Agnese, S. Costanza, …, nel angolo in fine l’arma del Card. Sfondrato» (gli
spazi sono lasciati in bianco nel manoscritto).
9) P. M. LETAROUILLY, Edifices de Rome moderne, Liège
1849, I, tavv. 113 e 114. Per errore questo autore mise lo
stemma Veralli al posto di quello Sfondrato nel soffitto
ligneo e due stemmi diversi (Sfondrato/Veralli) sull’arco
absidale in due diverse incisioni.
10) Il Marchesi ebbe il saldo dei suoi lavori addirittura nel
1620, probabilmente a causa dell’entità della cifra che doveva riscuotere, poiché l’intera balaustrata fu stimata 876
scudi, mentre Montagna aveva avuto il suo pagamento conclusivo sin dall’anno precedente.
ASR, Monte di Pietà, Mastro del 1618/II parte, vol. 34, c.
1021: pagamento a Marchesi; 1619/II, vol. 36, c. 707: paga-
menti al muratore Pietro Pozzo, a Marchesi, a Montagna.
Per quest’ultimo: 17 giugno, s. 30, per la «pittura che fa nel
vano che resta fra le colonne e la nova balaustrata della
sud.a Chiesa di S. Agnese conforme al disegno già messo»;
altro il 6 luglio di 10 scudi, «a conto della pittura a fresco
che deve fare sotto la balaustrata»; c. 1065: il 27 luglio s. 30
«per intiera soddisfazione dell’opera fatta nella chiesa di S.
Agnese». 1620/I, vol. 37, c. 310: al muratore Pietro Pozzo 8
scudi a saldo di 120; a Marchesi scudi 270 a saldo del lavoro
stimato s. 875,88, ma pagato leggermente meno. 483 scudi
li aveva avuti prima della morte del cardinale, quindi i lavori erano in corso da un po’ di tempo. Per notizie su D. Marchesi si veda: A. DI CASTRO, P. PECCOLO, V. GAZZANIGA, Mar-
morari e argentieri a Roma e nel Lazio tra Cinque e
Seicento: i committenti, i documenti e le opere, Roma 1994,
ad indicem. Non ho svolto ricerche sui lavori antecedenti
all’epoca Sfondrato.
11) AMAYDEN, op. cit., ms. Vat. Lat. 8747, n. 162; PALATIO,
op. cit., p. 30; MORONI, op. cit., vol. 93, p. 226; per la notizia
degli stemmi MONSAGRATI, op. cit., ms. A 950.
Nei conti dell’eredità Veralli è ricordato un pagamento a
Montagna nel 1625 di 60 scudi «per aver dipinto la chiesa di
S. Agnese, e Costanza» (ASR, FSV, vol. 817, c. 5; vol. 291, c.
14). Naturalmente le chiese associate nel pagamento sono
due e non è chiaro di cosa possa trattarsi. Vedremo in seguito i pagamenti più circostanziati per interventi in entrambi
gli edifici sacri.
12) ASR, FSV, vol. 437, c. 112v, in una Misura e stima
delli lavori di stucco … del 10 dicembre 1619.
13) H. RÖTTGEN aveva già compreso l’impossibilità di
identificare il pittore citato da Baglione con il Montagna e
aveva proposto il nome di Marco Tullio Onofri: G. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma 1642, pp.
92 e 93; edizione commentata a cura di J. HESS e H. RÖTTGEN, Città del Vaticano 1995, ad indicem. Un riscontro sui
documenti di pagamento relativi agli affreschi in Santa Cecilia ha rivelato un cognome diverso, seppur leggibile con difficoltà (de Notis o de Nosis): M. B. GUERRIERI BORSOI, Palaz-
zo Besso. La dimora dai Rustici ai Paravicini e gli affreschi
di Tarquinio Ligustri, Roma 2000, p. 91 n. 126. I due cicli di
affreschi in Santa Cecilia e San Nicola in Arcione furono
dipinti per il 1600: M. C. ABROMSON, Painting in Rome
during the papacy of Clement VIII (1592–1605). A Documented Study, New York–London 1981.
14) A. BARTOMIOLI, Marco Tullio Montagna, un pittore
nella Roma di Urbano VIII, Università degli Studi di Roma,
Facoltà di Magistero, a. a. 1989–1990, relatore G. Briganti.
La Bartomioli rintracciò l’atto di morte, in data 12 giugno
1649, presso la parrocchia di Sant’Andrea delle Fratte (p. 2).
Per l’autrice Montagna coincide con il personaggio citato da
Baglione, poiché data agli anni Venti i cicli di Santa Cecilia
e San Nicola in Carcere.
La tesi della Bartomioli è stata citata, credo per la prima
volta, da L. LAUREATI, L. TREZZANI, Il patrimonio artistico del
Quirinale. Pittura antica. La decorazione murale, Milano–Roma 1993, che hanno però trascritto erroneamente la
data di morte (spostata al 1659) nella scheda principale sul
pittore (II, pp. 176 e 177), ma riportata correttamente alle
pp. 232,236. Io stessa ho ripreso gli estremi cronologici così
fissati (1584–1659), non avendo allora avuto modo di esaminare la tesi in questione: M. B. GUERRIERI BORSOI, La chiesa
della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, in Bolletti-
93
no d’Arte, LXXXIII, 1998, 105–106, pp. 33–48, soprattutto
pp. 40–42.
15) M. L. POZZI, Riscoperta di un pittore velletrano:
Marco Tullio Montagna, in Lunario Romano, 10, 1981, pp.
111–127, p. 114, lo dice figlio di Lucantonio e nato a Velletri. Questa studiosa non conosce gli estremi biografici esatti
del pittore (per lei circa 1593–post 1643) e lo considera coincidente con il personaggio citato da Baglione. La Pozzi
segnalò però documenti ed opere inedite del pittore. Il
nome del padre è certamente indicato in un contratto relativo al pittore: Archivio Storico del Vicariato di Roma (d’ora
in poi ASV), Arciconfraternita dei Catecumeni e Neofiti, vol.
113 (Istrumenti 1639), cc. 453 e ss. Per il nome della madre
si veda ASV, San Salvatore ai Monti, Stati delle anime, 1621,
c. 63: Marco Tullio Montagna (senza qualifica) vi risiedeva
con la moglie Caterina, i figli Margherita, Orsola e Fabrizio,
e la madre Vittoria. Mancano gli Stati delle anime precedenti e la famiglia non è più nella parrocchia l’anno successivo.
Il Montagna “da Velletri” si era sposato nel 1616 con Caterina di Giovan Battista Verri nella parrocchia di San Marco
(POZZI, op. cit., p. 114). Mancano purtroppo le relative licenze matrimoniali.
16) POZZI, op. cit, p. 115 n. 10; BARTOMIOLI, op. cit., p. 77.
La segnatura fornita per i documenti in questione non è
stata sufficiente per effettuare un riscontro. La Bartomioli
però precisa che Montagna è detto allievo dello Zuccari non
nel contratto del 1631, relativo all’assegnazione degli affreschi per San Giuseppe dei Falegnami, ma in carte del 1913,
presentate per non far distruggere l’oratorio.
17) H. RÖTTGEN, Il Cavaliere Giuseppe Cesari d’Arpino:
un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, Roma 2002, pp. 206, 545, lo considera certamente allievo del Cesari.
18) E. FUMAGALLI, Guido Reni (e altri) a San Gregorio al
Celio e a San Sebastiano fuori le mura, in Paragone, 1990,
483, p. 82; qui dipinse due affreschi nella sacrestia nel 1628.
Nel 1624 lavorò anche alla decorazione degli strombi delle
finestre nella galleria di Palazzo Mattei: G. PANOFSKY SÖRGEL, Zur Geschichte des palazzo Mattei di Giove, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, XI, 1967–1968, p. 148;
U. FISCHER PACE, recensione a J. MERZ, Pietro da Cortona, in
Bollettino d’Arte, 1992, 76, p. 104 (con fotografie). Ulteriori
documenti inediti mostrano Montagna attivo già nel 1618,
con Giacomo Spadarino, in un importante palazzo romano,
come spero di poter discutere in altra occasione.
Non è invece vero che Montagna abbia lavorato nel 1617
nelle Grotte vaticane (POZZI, op. cit., p. 116; BARTOMIOLI, op.
cit., p. 46) come dimostrano gli studi recenti: M. SPAGNOLO,
Grotte, in A. PINELLI, La Basilica di S. Pietro in Vaticano,
Modena 2000, II pp. 867–869. Ricordo infine che Montagna lavorò per Ciriaco Rocci nella sua villa a Frascati: M.B.
GUERRIERI BORSOI, Le ville tuscolane. Potere centrale e classi
sociali, committenti e maestranze, edifici e decorazioni: storia
artistica del territorio dal XVI al XVIII secolo, tesi di dottorato presso l’Università La Sapienza di Roma, XVIII ciclo,
conclusa nell’a.a. 2004–2005, pp. 354–355.
19) POZZI, op. cit., p. 115.
20) GUERRIERI BORSOI, op. cit., 1998 con ulteriore bibliografia. Molte opere furono eseguite in Vaticano, spesso in
collaborazione con Simone Lagi. Si ricordi che Montagna
esercitò certamente, accanto a quella di pittore, anche l’atti-
94
vità di decoratore. Sul Lagi si veda ora S. BRUNO, La prima
bottega cortonesca, in Paragone, LVII, 2006, 68, pp. 41–71.
21) FRUTAZ, op. cit., pp. 57–59.
22) I due conti per i lavori degli stucchi di Giobbe Muggiano e Antonio Vassalli, in data 18 novembre e 10 dicembre
1619, si trovano in ASR, FSV, vol. 437, cc. 108–112v. I lavori sono stimati da Domenico de Quartis.
23) ASR, Trenta notai capitolini, ufficio 22, A. Palladio,
vol. 70, cc. 527–529, 546–547; copia in ASR, FSV, vol. 437,
cc. 101 e ss.
24) FRUTAZ, op. cit., p. 86. Si vedano le immagini dei rilievi in L. NEPPI, Palazzo Spada, Roma 1975, figure 4–11 e p.
145, con notizie su altre sculture antiche del cardinale F.
Veralli.
25) ASR, FSV, vol. 437, cc. non numerate
26) Gli affreschi dello scalone sono attribuiti a Giuseppe
Puglia detto il Bastaro nelle schede OA della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma, realizzate da S.
Lombardi nel 1991.
27) A. ZUCCARI, Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, Roma 1984, p. 96; A. ZUCCARI, I toscani a Roma.
Committenza e “riforma” pittorica da Gregorio XIII a Clemente VIII, in R. P. CIARDI, A. NATOLI (a cura di), Storia
delle arti in Toscana. Il Cinquecento, Firenze 2000, p. 160,
fig. 130. Lo studioso si basa su motivi di stile e su una significativa citazione di Mancini «Bastian Folli che diede soddisfazione in S. Agnese al card. di Fiorenza». L’attribuzione
non è ricordata da F. MOZZETTI, Sebastiano Folli, in Dizionario Biografico degli Italiani, 48, Roma 1997, pp. 566–568.
Per il riferimento a Ciampelli si veda FRUTAZ, op. cit., p. 86.
28) Le biografie già citate ricordano che il Veralli fece fare
otto lampade d’argento per la chiesa di Sant’Agnese.
29) ASR, FSV, vol. 437, cc. 92–95 capitolato, non datato,
ma certamente antecedente all’agosto del 1620, quando si
sottoscrisse l’accordo con il pittore; c. 98 preventivo di
spesa, cc. non numerate: molte ricevute dal 1620 al 1623.
Iscrizione da V. FORCELLA, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma, Roma 1877, XI, p. 367 n. 565: FABRITIVS S.R.E.
CARD. VERALLVS/ TEMPLVM DIVAE CONSTANTIAE RVINIS/ PROPINQVM RESTAVRAVIT ET ORNAVIT/ ANNO DNI MDCXX.
30) M. E. TITTONI, in Persone. Ritratti di gruppo da Van
Dyck a De Chirico (catalogo della mostra. Roma, Palazzo di
Venezia, 31 ottobre 2003–15 febbraio 2004), Roma 2003, n.
56, pp. 180 e 181.
31) FRUTAZ, op. cit., p. 111; A. A. AMADIO, I mosaici di S.
Costanza: disegni, incisioni e documenti dal XV al XIX secolo, Roma 1986.
32) C. FEA, Miscellanea filologico critica e antiquaria,
Roma 1790, pp. 250 e 251.
33) ASR, FSV, vol. 437, cc. 117–126, stima del 10 dicembre 1623.
34) ASR, FSV, vol. 437, c. 91: 19 agosto 1621 accordo con
Gaspero Casi per restaurare «tre nicchi di musaico» a Santa
Costanza per 30 scudi; saldato il 6 settembre 1622. I mosaici del deambulatorio furono restaurati con la tecnica musiva
solo nel 1838–1840, sotto la direzione di V. Camuccini.
35) ASR, FSV, vol. 437, cc. 99, 106; vedi Appendice documentaria, n. 1. Questo contratto era stato rintracciato e sun-
teggiato da A. DRAGHI (Il mausoleo di Santa Costanza: i
restauri del 1938 e del 1948/1949, in P. R. DAVID, L. GIGLI
(a cura di), Il progetto di restauro, Atti della Giornata di studio, San Michele, 15 dicembre 1994, Roma 1995, pp.
235–240) come ho appurato dopo aver condotto per intero
la ricerca documentaria di questo studio. La studiosa ha reso
nota l’esistenza di due pannelli distaccati della decorazione
della chiesa, conservati presso la Soprintendenza per i Beni
Ambientali e Architettonici del Lazio, e ha preannunciato
ulteriori studi sull’autore di queste opere, non ancora editi.
Gli affreschi staccati corrispondono ai numeri 5 e 11 dell’elenco alla nota 38 e sussistono in condizioni non buone di
conservazione nel salone accanto all’ufficio del Soprintendente. Ringrazio la dott.ssa Draghi per avermene precisato
l’ubicazione.
36) Gli affreschi della cupola sono stati parzialmente
restaurati nel 1990 (DRAGHI 1995, p. 237 n. 8). Nel 1948 se
ne stava programmando la rimozione che si arrestò ad un
solo piccolo spicchio della superficie.
Secondo il pensiero dello Pseudo Dionigi, accettato anche
da Dante, gli angeli sono divisi in tre gerarchie o ordini, ciascuno diviso in tre cori: serafini, cherubini, troni; dominazioni, virtù, potestà; principati, arcangeli, angeli.
37) Nella realtà Costanza, o Costantina, figlia di Costantino, sposò il cugino Annibaliano e, dopo la sua morte, Gallo,
creato Cesare nel 351 e fatto giustiziare dall’imperatore tre
anni dopo per i suoi comportamenti, non per la sua fede.
38) Gli affreschi furono distrutti nel 1938–1939 (FRUTAZ
1976, p. 113). I cartigli sono stati trascritti con vari errori,
dal Monsagrati: ms. A 950, c. 93 (dal quale sono tratte le lettere di seguito indicate tra parentesi). Si riporta la lezione
corretta ricavata dalle fotografie della Soprintendenza ai
Beni Ambientali e Architettonici di Roma, neg. nn. 3103,
3266, 4127, 3143. Queste immagini furono archiviate presso
il suddetto ufficio nel gennaio 1934.
1. COSTANTIA ATTICA ET ARTHEMIA/ ACCIPIVNT VELAMEN VIRGINITATIS
2.
GALLICANVS CONSTA/NTIAM CONSTANTINI/ FILIAM IN VXOREM
POSCIT
3.
CONSTANTIA ATTICAM ET ARTHEMIAM VIRGINES EXCIPIT/ ET
GALLICANVS PARITER IOANNEM ET PAVLVM
4.
GALLICANVS CONTRA SCYTHAS MITTITVR ET M(AR)/TI IN CAPITOLIO SACRIFI(CAT)
5.
6.
GALLICANVS PENE VIC/TVS DE FUGA/ COGITAT
IOANNIS ET PAVLI CONSILIO VOVET DEO CAELI ET/ VICTOR
MIRABILITER EVADIT
7.
8.
9.
ROMAM REDIT TRIVM(PHANS) CVM SE/NATV ROMANO
IN BASILICA DIVI PE/TRI CVM CONSTANTINO/ DEO GRATIA AGIT
QVINQVE MILLIA SERVORVM LIBERTATE DONAT/ BONA SUA PAUPERIBUS DISTRIBVIT
10. (PAVPERES ALIT FOVET ET) MVNDAT
11. (AEDEM) DIVI LA/V(REN)TII CONSTRVIT/E(IVS
EXCI/(TA)TVS
12. ALEXANDRIE MARTIRIO CORONATVS
MO)NITIS
39) A. AMORE, Costanza, Attica e Artemia, in Bibliotheca
Sanctorum, IV, Roma 1964, pp. 257–259; G. DE SANCTIS,
Gallicano, ibidem, VI, 1965, pp. 12 e 13.
40) L. DE’ MEDICI, Rime spirituali: la rappresentazione di
San Giovanni e Paulo, a cura di B. TOSCANI, Roma 2000; F.
DOMENICI, Santa Costanza overo il dispregio del mondo,
Perugia 1620.
41) E. FUMAGALLI, Palazzo Borghese: committenza e decorazione privata, Roma 1994, ad indicem.
42) Le foto sono conservate presso la, allora, Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Roma (oggi
Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Romano): inv.
1278 per Santa Costanza visibile con gli stessi attributi rappresentati negli affreschi, inv. 1273–1274 per le due figure
femminili. La figura di Santa Costanza è citata nella perizia
di F. Peparelli: ASR, FSV, vol. 437, c. 122.
43) ASR, FSV, vol. 437, c. 90. Utilizzò a questo scopo il
“pilo”? che precedentemente copriva il vaso con le reliquie
di Costanza, Attica e Artemia.
44) ASR, FSV, vol. 437, c. 122v.
45) Vedi Appendice documentaria, n. 1. Il fatto che la
decorazione fosse in parte graffita si ricava dalla perizia di
Peparelli: ASR, FSV, vol. 437, c. 123.
46) A. ZUCCARI, in La regola e la fama. San Filippo Neri e
l’Arte, catalogo della mostra, Milano 1995, schede 57–58,
pp. 498–501, con ampia bibliografia.
47) ASR, Trenta notai capitolini, uff. 18, L. Bonincontri,
sesta parte del 1624, cc. 525 e ss., cc. 655 e ss., cc.
664v–666v per i quadri, cc. 672–681 per la libreria. Tra i
debiti (c. 684v) sono citati quello di 19 scudi con il pittore
Gio. Batt.a Paolucci, quello con il Montagna (cfr. nota 11) e
quello con Antonio Pomarancio (cfr. nota 5).
Vari quadri erano in casa di Giovan Battista Veralli, che
viveva nell’edificio accanto al palazzo del fratello, e i dipinti
sono elencati nell’inventario dei beni del cardinale. Per notizie sui quadri Veralli pervenuti agli Spada si veda M. L. VICINI, in R. CANNATÀ, M. L. VICINI, La Galleria di Palazzo
Spada. Genesi e storia di una collezione, Roma s. a. (1992),
pp. 92 e 93, nonché notizie sui beni di Alessandro Biffi passati all’eredità Veralli e poi agli Spada (elenchi dei dipinti in
ASR, FSV, vol. 355, fascicolo 200).
48) ASR, FSV, vol. 291, alla voce entrate; vol. 817. Queste
vendite assommarono complessivamente a varie migliaia di
scudi.
49) ASR, FSV, vol. 291, a consuntivo.
50) Eugenia Rocci era figlia di Bernardino, sorella di
Antonio e Ciriaco. Precedentemente Giovan Battista Veralli
era stato sposato con Giulia Benzoni, morta nel 1611.
51) ASR, Trenta notai capitolini, uff. 18, L. Bonincontri,
testamenti, vol. 4, cc. 159–160, 171, aperto il 17 novembre
1624; c. 174 codicillo. Secondo alcuni documenti (ASR, FSV,
vol. 514) il testamento fu redatto in tutta fretta, poco prima
della morte del cardinale, tanto che questi non vi inserì le
doti per le nipoti, come aveva detto di voler fare, cosa che
l’erede cercò di ottenere a spese del patrimonio ereditario
del porporato. Risulta evidente che Giovan Battista era,
almeno in parte, mantenuto dal fratello.
Arcangelo Mandosi morì il 17 giugno 1630, come risulta
dal testamento (ASR, Trenta notai capitolini, uff. 18, L.
Bonincontri, testamenti, vol. 1063, cc. 70–75) e pertanto le
responsabilità maggiori per l’amministrazione dell’eredità
ricaddero su Antonio Rocci.
52) I conti che ci interessano sono riportati prevalentemente in ASR, FSV, vol. 817: Giornale dell’Heredità della bo.
mem. del S.r Card.le Verallo (1624–1630) [manca il successivo] e in ASR, FSV, vol. 291: Spoglio cavato dal Libro Mastro
95
che hanno fatto tenere li SS.ri amministratori dell’Heredità
dell’Em.mo Rever.mo S.re Cardinal Veralli … (1637), diviso
in entrate e uscite. Le spese per la cappella in Sant’Agostino
sono registrate anche all’interno del conto relativo alla fabbrica del palazzo a piazza Colonna, che comincia a c. 22. Tra
i due manoscritti vi sono piccole differenze.
53) ASR, FSV, vol. 362, n. 882: «1637 Transunto degli
atti o processo di rendimento de conti dell’amministrazione
fatta dal q.m Sig. Ant.o Rocci Amministratore dell’Eredità
del Sig.r Cardinale Fabbrizio Veralli avanti di Mons.r Cecchini Giudice deputato dell’AC per gli atti del Crisostomi
oggi Fatij». Ivi, n. 881: il cardinale Ciriaco Rocci, curatore
dei figli di Antonio, consegna beni Veralli che si trovavano
presso la casa del fratello. Il successivo amministratore dell’eredità fu Virgilio Vespignani: ASR, FSV, vol. 399, fascicolo 27.
54) ASR, FSV, vol. 449.
55) L. SELVETELLA, in M. L. MADONNNA (a cura di), Roma di
Sisto V. Le arti e la cultura, Roma 1993, pp. 189–191. In
generale sulla chiesa: B. MONTEVECCHI, Sant’Agostino, Roma
1985 (pp. 161–163 per la cappella).
56) ASR, FSV, vol. 362, n. 879: cessione della cappella a
Giovan Battista Veralli e alle figlie Maria e Giulia, in data 8
maggio 1631, atti Ottaviani. Tra le clausole c’era quella di
porre una lapide che ricordasse i vari passaggi di proprietà,
iscrizione il cui testo è trascritto in ASR, FSV, vol. 389, n. 10:
SACELLVM HOC/ AB VRBANO VII P. M. FVNDATVM AC DOTATVM/
HAEREDES FABRITII CARD. VERALLI SIBI POSTERISQ. SVIS/ VRBANI
VIII P. M. BENEFICIO/ ACCEPERE AB ARCHICONFR. B. V. ANNVNCIATAE/ EIVSDEM VRBANI VII HAEREDE/ ASSIGNATIS PRAETEREA TRIBVS
MONTIVM NON VACABILIVM LOCIS/ AD SACELLI CVLTVM (FORCELLA, op. cit., V, 1874, n. 296 p. 99).
57) ASR, FSV, vol. 399, fasc. 104. Per i pagamenti ASR,
FSV, vol. 291 (dal 1627 al 1632).
58) M. B. GUERRIERI BORSOI, Un’eredità e i suoi frutti:
opere di Giovani da San Giovanni e Innocenzo Tacconi
nella cappella Baccini in Santa Maria dei Monti, in Paragone, 1995, n. 543–545, pp. 115–125, in particolare p. 117.
59) ASR, FSV, vol. 817 pagamenti nel 1627–1628 per 90
scudi; vol. 291, pagamento di 10 scudi il 3 ottobre 1631 «per
resto di un ritratto di marmo fatto per il nro S. card.l».
60) F. CARINCI, H. KEUTNER, L. MUSSO, M. G. PICOZZI,
Catalogo della Galleria Colonna in Roma: sculture, Busto
Arsizio 1990, p. 19 e nota 91 a pp. 42 e 43 con bibliografia
precedente. Desumo da questo studio gli estremi biografici
citati. Inoltre K. KALVERAM, Die Antikensammlungen des
Kardinals Scipione Borghese, Worms am Rhein 1995, ad
indicem.
61) A. M. CORBO, M. POMPONI, Fonti per la storia artistica
romana al tempo di Paolo V, Roma 1995, pp. 232 e 242. I.
BUONAZIA, in PINELLI, op. cit., II, p. 450 e ss.
62) M. VICKERS, Lord Arundel’s Roman Patronage. Two
‘Lost’ Statues by Egidio Moretti Rediscovered, in Apollo,
1979, pp. 224 e 225. Il documento qui citato (ASR, Notai
dell’Auditor Camerae, D. Amodeus, vol. 119, c. 851, in data
10 giugno 1614) definisce lo scultore romano, del quondam
Andrea, residente nella piazza della Trinità dei Monti, e stabilisce che ognuna delle statue, alte dieci palmi, gli sarebbe
stata pagata 160 scudi.
96
63) ASR, Trenta notai capitolini, uff. 9, Q. Garganus, vol.
122, cc. 156, 175, in data 9 luglio 1617; vedi Appendice
documentaria, n. 2.
64) G. DE NICASTRO, Benevento sacro (1683), edizione a
cura di G. INTORCIA, Benevento 1976, p. 56.
65) Così mi conferma Lamberto Ingaldi, responsabile dell’ufficio Beni Culturali della Diocesi, che ringrazio per
l’informazione.
66) ASV, Pia casa per Catecumeni e Neofiti, Mastro
1632–1635, c. 323 (ricevette 100 scudi).
67) Non è chiaro quale fu la cifra percepita dal pittore:
ASR, FSV, vol. 817, c. 15 sinistra; vol. 291; vol. 378, fasc. 10,
13 marzo 1628 scudi 22,20 «a bon conto del quadro per li
Sig.ri Veralli nella cappella di S. Agostino». Nello stesso
giorno ebbe altri 5 scudi.
68) U. THIEME, F. BECKER, Allgemeines Lexikon der Bildenden Kunstler, Leipzig, XXXIV, 1940, p. 96. Il quadro
nella chiesa dei Croati era del 1634–1635.
69) SELVETELLA, op. cit., pp. 189–191.
70) ASR, Trenta notai capitolini, uff. 9, Q. Gargario, vol.
114, c. 705, in data 6 aprile 1616; la casa si trovava nel rione
Ponte, «ad ficum».
71) I pagamenti per gli stucchi furono fatti a Giovanni
Maria Fontana, sempre senza causale, per un ammontare
complessivo di 120 scudi, dal 9 agosto 1631 al saldo del 10
ottobre: ASR, FSV, vol. 291.
72) ASR, FSV, vol. 378, fascicolo 10; vedi Appendice docu-
mentaria, n. 3.
73) Ne dà brevemente notizia A. M. PEDROCCHI, Sant’Agostino, in A. NEGRO (a cura di), Restauri d’arte e Giubileo.
Gli interventi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma nel Piano per il Grande Giubileo del 2000,
Napoli 2001, pp. 163–168, in particolare p. 163 con attribuzione ad Avanzino Nucci. Per la fotografia dell’affresco in
San Sebastiano: FUMAGALLI op. cit., 1990, fig. 80. È probabile che le tre storie del catino siano state ancora ridipinte
dopo l’intervento di Montagna.
74) I pagamenti rintracciati sono però per un importo
inferiore: ASR, FSV, vol. 291: 150 scudi dal 24 luglio 1631 al
saldo del 20 ottobre. Il 26 febbraio 1632 fu fatto un ulteriore piccolo pagamento per artigiani imprecisati attivi nella
cappella.
75) ASR, FSV, busta 355 fasc. 208: inventario dei beni di
G. B. Veralli portati a casa della moglie Caterina de Fabi nel
1628; ASR, FSV, vol. 449 per le lettere. Il matrimonio con la
de Fabi fu annullato nel 1629.
76) VICINI, op. cit., p. 92.
APPENDICE DOCUMENTARIA
1. ACCORDO PER LA DECORAZIONE DI SANTA COSTANZA
PITTORE MARCO TULLIO MONTAGNA
CON IL
ASR, FSV, vol. 437, cc. 99, 106:
«Nel nome di N.ro Sig.r Giesù Cristo. Hoggi che siamo alli
… (in bianco) del mese d’agosto 1620 havendo il S.r Card.
Verallo determinato di risarcire il tempio di S.ta Costanza
posto nel distretto di S.ta Agnese, et havendolo risarcito di
fuori con haverlo coperto di tevoli et canali, tanto la cupula
di mezzo quanto l’altra dilla circonferenza del tempio, et
arricciata intonacata et imbiancata di fuori, et per maggior
ornamento di quello volendolo di dentro anco risarcire, et
rabbellire, con pitture et historie proporzionate al ditto tempio cioè volendo che nella Cuppula di mezzo vi se depinga
una gloria del Paradiso con tutti l’ordini et hierarchie cili
stessi et sotto dodici quadri con l’historia di S. Gallicano
essendoci nell’altare di mezzo li corpi di S. Costa.a, et di S.
Attica e Artemia figliole di detto S. Gallicano, et anco nelli
nichi dipingerci li dodici Apostoli et in mezzo un Cristo
trionfante et nello spatio di detti nichi dipingerci un colonnato che corrisponda alli 24 colonne del tempio di mezzo,
et anco risarcire la volta di sopra di musaico con pittura
dove manca essi dove cascata la colla et detto musaico in
alcuni luoghi per l’umidità di sopra che col tempo è penetrata in modo che accompagni con il musaico vecchio et
anco fare una prospettiva di tempio nella facciata di nanzi di
detto tempio per maggiore ornamento. Perciò è convenuto
con M.r Marco Tullio Montagna da Velletri che secondo il
disegno fatto da lui debba dipingere nelli sopradetti luochi
ditti di sopra per prezzo et nome di prezzo et pagamento di
scudi doi cento cinquanta di moneta da pagar sili finita
detta opera, et facendola di mano in mano darli denari a
bon conto et questa opera la debba finire in termine di un
anno e mezzo tutta dilig.ti tutta di mano sua et porti lui tutti
li colori, et il Card.l farli far la colla dove si deve far la pittura di modo che lui non habbi da far altro che la pittura et
anco dipingere li finestroni a guisa di vetrate conforme divino esser le tre principali che saranno fatte di vetro. et così si
obliga detto M.r Manco Tullio in forma camere dando faculta a qualsivoglia … … …, et caso che detto M.r Marco Tullio
non … di far la ditta opera o non la facesse conforme al
disegno accordato in tal caso sia lecito al detto S. Card.le di
farla fare da altri a beneplacito del S. Card.le a sue spese
danari et interessi, anche che costassi de più del convenuto;
et così per maggior fermezza delle cose sud.e detto M.r
Marco Tullio si sottoscrivera alla presentia di doi testimoni li
quali anco si sottoscriveranno, et anco si sottoscrivera il S.
Card.le obligandosi anche lui in forma camere per assicuratione di quello che tocca a lui quanto al pagamento et mantica da farsi da muratori
questo di et anni sopradetti».
[la bozza di accordo non è firmata]
2. ACCORDO PER L’ESECUZIONE DEL SEPOLCRO DEL CARDINALE
POMPEO ARRIGONI NELLA CHIESA METROPOLITANA DI BENEVENTO TRA CIRIACO E ANTONIO ROCCI, DIOMEDE E GIOVAN
PIETRO VARESI, E EGIDIO MORETTI
ASR, trenta notai capitolini, uff. 9, Q. Garganus, vol. 122,
cc. 156, 175, 9 luglio 1617.
(omissis)
«Detto ms. egidio promette a detti S.ri Heredi far detta
sepoltura commessa di marmi mischi cioè di porta santa,
giallo africano e verde di altezza pp. trentaquattro di ornamento sin al timpano e altri cinq la croce con suo piede di
giallo o rosso come più piacerà a detti S.ri Heredi et conforme alla sepoltura di pp. Pio quarto e del cardinal Sorbelloni
in S. Maria delli Angeli di Roma
It. che la larghezza sia di palmi dicisette al maggiore
It. che li marmi e mischi siano di tutta bontà e grossezza
recipiente a giudizio de periti
It. che debba aver finito tutto detto lavoro per tutto settembre prossimo e conforme al disegno colorato che resta
appresso detti S.ri Heredi sotto scritto da esso ms. egidio
It. che detto ms. egidio debba intagliarvi le lettere dell’epitaphio in mezzo dell’opera che li sarà dato da detti S.ri
Heredi e tutti detti lavori detto ms. egidio promette farli per
prezzo di scudi quattro cento di moneta di giulij diece per
scudo da pagarsi cento scudi anticipatamente altri cinquanta tra un mese prossimo, et il resto da pagarsi di mano in
mano secondo si farà l’opra in modo tale però che detti S. ri
possino retener cinquanta scudi per pagarli in fin dell’opera
quale mr egidio debba darla finita e qui nella sua bottega et
convengono che mancando detto mr egidio in far li sudetti
lavori della qualità e nel tempo predetti in tal caso detti S.ri
Heredi possino farli fare da altri a spese lui et interesse di
detto mr egidio
It. convengono che detto mr egidio debba mandare un scalpellino pratico et idoneo in benevento a requisitione di detti
S.ri Heredi quale assista mentre si mette su detta sepoltura
et detti S.ri Heredi debbino per detto scarpellino et assistenza dar a esso mr egidio dodici scudi di moneta, debbano
però detti S.ri Heredi pagar del loro il muratore che la metterà su e preveder del loro de piombo spranghe e di tutto
quello che bisognarà condotto a spese di essi S.ri Heredi nel
loco dove s’havrà da mettere in opra senza alcuna spesa di
esso mr egidio qual solo doverà mandare a far assistere a sue
spese detto scarpellino dovera agiutare sprangare et retoccare quello sarra di bisogno nell’opera
(omissis)
(c. 175) che tutti li marmi bianchi debbiano esser boni e
recipienti senza tasselli di sorte alcuna e tutti d’un pezzo sin
alle congionture e commessure di ciaschedun pezzo
It. che detto mr egidio debba dar condotto detto lavoro alla
riva del Tevere a sue spese per imbarcarsi
It. detto m. egidio sia tenuto incassarli detti lavori a tutte
sue spese excetto quelle delle casse quali deveranno dar
detti S.ri Heredi».
(omissis)
3. CONTO
PRESENTATO DA MARCO TULLIO MONTAGNA PER LA
DECORAZIONE DELLA CAPPELLA VERALLI IN SANT’AGOSTINO
ASR, FSV, vol. 378, fasc. 10
«A di 25 di luglio 1631 lavori fatti di pittura et indoratura
per li eredi dell’Em.mo et Rev.mo Sig.re Cardinal Verallo da
me Marco Tullio Montagna Pittore nella cappella di S. Agostino
Per aver fatto l’indoratura di stuchi novi et li stuchi vechi
rifatta dove è bisognato ci sono andati quaranta scuti doro et
altrettanto in porta di fattura
s. 80
Per aver nettato loro vecchio et dato di bianco all’intaglio
delli stuchi con diligenza et alli pinni p tutto
s. 15
Per aver rifatte le ciocciole doro et ricampite di colore verde
et roscio di ginaprio tanto quella delle storie come quella
m.e dellimprese della madonna con colori fini
s. 16
Per aver fatto la fascia che va in torno alli profeti con rose
bianche in campo roscio con una legatura gialla
s. 6
Per aver fatto nelli dipositi li padiglioni rossi et putti di chiaro scuro bianco et altri abbellimenti
s.12
Per aver fatto et ritrovato et parte rifatto di novo pchè era
guasto pchè non si vedeva niente et ricoperti rifatti di colori
97
fini a secco doi profeti et doi angoli p do volte il naturale
rifatte teste abiti
s. 25
Per aver rifatti tre quatri con angioli sopra nuvole in campo
torchino con splendori pchè sono detti quatri sopra li storie
fatti con colori fini a gesso
s. 10
Per aver ridipinto tre ovati in uno ci[o]e la Visitazione di S.ta
Elisabetta e nell’altra la Nuntiata e nell’altra la presentatione al tempio rifatte di novo con colori fini con diligenza a
98
secco ricoperte di colori e parte non si vedeva
s. 25
Per aver ritoccate l’imprese della madonna et rifatte le cartelle con sue littere come prima che erano guaste
s. 6
Per aver fatto il S.to Giovanbattista et il S.to Giovanni Evangelista tutti doi di novo affresco et ritoccati a secco a sedere
nel deserto come il naturale
s. 20».
Sono state sciolte alcune abbreviazioni di uso corrente.