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Experimental analysis of reinforcement techniques for local stone

Analisi sperimentale su elementi in tufo e pietre locali-redazione di tecniche di rinforzo con valenza applicativa su larga scala

Ministero dell’Economia e REGIONE PUGLIA Ministero dell’Istruzione, delle Finanze ASSESSORATO ell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica LANCIO E PROGRAMMAZIONE Settore Programmazione PROGETTO STRATEGICO PROGETTO S.I.S.M.A. Strutture Innovative e Sperimentazione di Materiali Avanzati Analisi sperimentale su elementi in tufo e pietre locali - redazione di tecniche di rinforzo con valenza applicativa su larga scala Partnership: Ge.Di. S.r.l. Borsista: Ing. Romanazzi Gem. Paparella Francesco 1. I materiali compositi oggetto di sperimentazione 1.1 Gli FRP I materiali fibrorinforzati a matrice polimerica (fig.1), meglio conosciuti come FRP (acronimo di Fiber Reinforced Polymer), sono materiali compositi, cioè costituiti da due fasi di natura diversa. Esse sono, la matrice polimerica di natura organica, che può essere considerata come un continuo isotropo, e le fibre di rinforzo con caratteristiche anisotrope, aventi proprietà differenti a seconda del tipo di fibra considerata. Le fibre costituiscono l’elemento resistente alle sollecitazioni mentre la matrice ha il compito di trasferire gli sforzi alle fibre e tra le fibre stesse e di proteggerle dall’ambiente circostante. La natura delle fasi che costituiscono il composito, soprattutto quella delle fibre impiegate, contribuisce in maniera determinante alla formazione della proprietà finali del materiale ma, per ottenere un prodotto ad elevata resistenza meccanica, non è sufficiente utilizzare solo fibre resistenti perché è anche indispensabile garantire una buona adesione tra la matrice ed il rinforzo (interfase). Fig. 1 costituenti di un rinforzo composito in FRP Gli FRP, in origine largamente usati nelle applicazioni aeronautiche e meccaniche, da qualche decennio hanno trovato impiego anche in campo civile, soprattutto nel consolidamento e nel rinforzo delle strutture, con produzioni specifiche nel settore del rinforzo strutturale di calcestruzzi armati e precompressi, murature, legno ed acciaio. I vantaggi degli FRP sono molteplici: leggerezza, elevate proprietà meccaniche e caratteristiche anticorrosive. I compositi per il rinforzo strutturale sono disponibili in diverse geometrie: esse vanno dalle lamine pultruse, utilizzate per il rinforzo di elementi dotati di superfici regolari, ai tessuti che possono essere invece facilmente adattati alla forma dell’elemento da rinforzare, fino anche alle reti. Le principali normative di riferimento per l’utilizzo degli FRP, a livello internazionale sono: ACI 440/2000 – per gli Stati Uniti d’America JSCE/1997 – per il Giappone Istruzioni CNR–DT 200/2004 - per l’Italia Raccomandazioni FIP-CEB – per l’area Europa I compositi si suddividono in due principali categorie, a seconda della lunghezza della fibra impiegata. Difatti si hanno compositi: - a fibra corta non orientata nella matrice, come per esempio quelli impiegati nei prodotti cementizi non strutturali (malte) e in alcuni elementi in pultruso; - a fibra lunga orientata nella matrice, come per esempio quelli utilizzati nella realizzazione degli elementi sollecitati secondo una o più direzioni preferenziali e per gran parte della gamma dei pultrusi. Le proprietà dei compositi a fibra corta dipendono, oltre che dalle proprietà intrinseche dei singoli componenti, anche dalla quantità, lunghezza media, distribuzione ed orientazione delle fibre stesse. Per quanto attiene i compositi a fibra lunga, la tecnologia di produzione, consentendo di combinare la matrice con fibre disposte secondo direzioni determinate da considerazioni ad esigenze progettuali, permette di ottenere un materiale ortotropo con proprietà specifiche per il particolare stato di sollecitazione. 1.1.1 Le fibre Le fibre principalmente utilizzate nelle applicazioni dell’ingegneria civile per la formazione dei compositi sono : di cabonio (CFRP), di vetro (GFRP), di aramide (AFRP) e di PBO. 1.1.1.1 Fibre di carbonio Le fibre di carbonio si ottengono da un processo industriale di lavorazione ad alta temperatura di particolari polimeri denominati precursori, il poliacrilonitrile, indicato generalmente con il suo acronimo PAN e il rayon. Le elevate caratteristiche meccaniche delle fibre di carbonio derivano dall’assenza di imperfezioni della loro struttura molecolare e dalla temperatura raggiunta nel processo di realizzazione che è superiore a 1000°C. A seconda della microstruttura delle fibre si hanno fibre di carbonio con elevato modulo elastico (HM) e fibre ad elevata resistenza. Le fibre ad elevato modulo elastico hanno minore resistenza, mentre le fibre ad alta resistenza hanno un più basso modulo elastico. Queste proprietà derivano dalla disposizione degli strati esagonali di grafene, il cui orientamento preferenziale determina il modulo elastico della fibra, influisce sull’assorbimento d’acqua della superficie della fibra nonché sulla resistenza dell’interfaccia con la matrice. Le fibre di carbonio con modulo elastico di circa 200 GPa richiedono, pertanto, che gli strati rigidi di grafene siano allineati approssimativamente con andamento parallelo all’asse delle fibre. Precursori di rayon e bitume sono usati per produrre fibre di carbonio con basso modulo elastico (circa 50GPa) che successivamente aumenta in seguito a trattamento termico con temperature comprese tra i 1000°C ed i 3000°C in funzione del precursore utilizzato. La massima resistenza meccanica si raggiunge invece per temperature più basse rispetto a quelle necessarie per massimizzare i moduli elastici; per esempio le fibre PAN raggiungono la loro massima resistenza con trattamento termico a 1500°C. Le fibre di carbonio sono facilmente impregnabili con resine solo dopo aver subito trattamenti superficiali atti ad aumentare il numero di gruppi chimici attivi per la resina d’impregnazione. Le fibre di carbonio sono disponibili in commercio come cavi o fasci a fibre parallele; il numero di singoli filamenti nel cavo si aggira attorno a 1000-2000, oppure come pre-preg sotto forma di fogli unidirezionali (fig.2). Fig. 2 proprietà delle fibre di carbonio più utilizzate a confronto con l'acciaio 1.1.1.2 Fibre di vetro Le fibre di vetro si ottengono con un processo industriale di fusione di vari ossidi (ossidi di calcio, silicio, magnesio, alluminio e boro). Tali ossidi, uniti a formare il tank, vengono fusi a 1500°C, quindi miscelati e raffreddati bruscamente fino a 1200°C. Successivamente il vetro fuso viene fatto passare per gravità attraverso appositi fori praticati sul fondo di filiere in platino. I filamenti sono quindi raggruppati a formare una treccia o fibra (trand o end) tipicamente costituita da 204 filamenti e sono ricoperti da un legante (binder o size). Le fibre di vetro, a differenza di quelle di carbonio, sono attive sulla loro superficie ed idrofile, quindi necessitano solamente di un film protettivo per evitare il danneggiamento durante il loro impiego e per proteggerle dall’umidità. La superficie delle fibre di vetro contiene microscopici vuoti che fungono da punti di concentrazione degli sforzi. L’aria umida, contenendo biossidi di acidi di carbonato, esercita un’azione corrosiva sulle fibre tale da incrementare i vuoti e gli sforzi tensionali portando a rottura il filamento. Inoltre, l’esposizione ad ambienti con elevato pH può promuovere l’invecchiamento e la rottura nel tempo. Nella soluzione impiegata come film protettivo viene aggiunto un promotore di adesione per incrementare l’accoppiamento fibra-matrice. I promotori di adesione ed il tipo di protezione superficiale sono scelti a seconda della matrice resinosa e del processo di produzione del composito. Le fibre di vetro sono tra le più usate nell’ingegneria civile e si distinguono in: - tipo E: impiegato prevalentemente in campo elettrico - tipo S: possiede elevate resistenze, anche alle alte temperature, ma risente fortemente degli attacchi alcalini, per cui necessita di un opportuno trattamento superficiale - tipo C: composto da carbonio di sodio, calce e borosilicato, è impiegato in ambienti corrosivi, grazie alla sua stabilità chimica. Le fibre di vetro esibiscono comportamento elastico lineare fino a rottura e scorrimenti trascurabili in condizioni controllate. 1.1.2 Le matrici 1.1.2.1 Le matrici a base di resine Le matrici più utilizzate per l’applicazione dei compositi fibrorinforzati sono quelle polimeriche a base di resine termoindurenti. I vantaggi da esse presentati sono diversi: sono caratterizzate da una bassa viscosità allo stato fluido e quindi da una relativa facilità di impregnazione delle fibre, da ottime proprietà adesive, dalla possibilità di avere formulazioni che reticolano a temperatura ambiente, da una buona resistenza agli agenti chimici e dall’assenza di una temperatura di fusione. I principali svantaggi sono invece rappresentati dall’ampiezza del campo di temperature di esercizio, limitato superiormente dalla temperatura di transizione vetrosa, dalla modesta tenacità a frattura (comportamento fragile) e dalla sensibilità all’umidità in fase di applicazione sulla struttura. Le resine termoindurenti più utilizzate sono le epossidiche e le poliestere. Le resine epossidiche sono caratterizzate da una bassa resistenza all’umidità ed agli agenti chimici, ma presentano ottime proprietà adesive. Sono perciò particolarmente adatte per la realizzazione di compositi. Le resine poliestere sono caratterizzate da una viscosità inferiore rispetto a quelle epossidiche e presentano notevole versatilità ed un’elevata reattività. La resistenza meccanica e le proprietà adesive sono solitamente inferiori rispetto a quelle delle resine epossidiche. Esistono anche materiali compositi fibrorinforzati con matrici polimeriche termoplastiche. Esse sono più tenaci e, in alcuni casi, presentano temperature di esercizio più elevate. Sono inoltre caratterizzate da una migliore resistenza nei confronti dei fattori ambientali. La principale limitazione al loro uso è rappresentata dalla viscosità elevata, che rende problematica l’impregnazione delle fibre e richiede apparecchiature di lavorazione complesse e costose. 1.1.2.1.1 Le resine Con il termine resine si individua una vasta gamma di prodotti polimerici aventi caratteristiche diverse. Alcune si distinguono per le spiccate caratteristiche adesive (resine epossidiche e poliuretaniche) mentre altre, non dotate di particolari proprietà meccaniche, sono usate soprattutto per la realizzazione di consolidamenti superficiali (resine silaniche ma anche acriliche e viniliche). I silani, più propriamente detti alchilalcossilani, sono prodotti liquidi che per la loro reattività all’acqua sono in grado di idrolizzarsi e ricombinarsi con le molecole di calcio presenti nella matrice cementizia. Per questo motivo vengono spalmati sulla superficie del calcestruzzo dove, penetrando per qualche millimetro nella massa del conglomerato cementizio, si fissano in prossimità dei pori superficiali e ne riducono le dimensioni, consentendo la realizzazione di pellicole idrofobizzanti. Tale prodotto è commercializzato in forma monometrica e utilizza come acqua di reazione direttamente quella presente nella massa del calcestruzzo. 1.1.3 Tessuti in FRP Le fibre descritte in precedenza trovano applicazione, come sistemi di rinforzo, dopo essere state trasformate in tessuti attraverso delle tecniche simili a quella tessile dell’abbigliamento. La configurazione geometrica dei tessuti è di tre tipi: - tessuti monoassiali: costituiti da un ordito di fibre tra loro parallele tenute insieme da una trama che può essere o non essere dello stesso materiale dell’ordito. I filamenti della trama non hanno funzione statica ma servono per tenere insieme le fibre prima che siano impregnate di resina; in quanto la perdita dell’allineamento dell’ordito risulterebbe particolarmente deleteria causando una sostanziale riduzione delle caratteristiche meccaniche del tessuto. La trama è in genere tessuta con nylon, filamenti di poliestere o altri materiali di scarso pregio e basso costo. In commercio è possibili reperire prodotti a trama inclinata di 160° con l’ordito, molto più affidabili e resistenti nelle fasi di movimentazione e taglio rispetto ai più comuni tessuti con maglie rettangolari. Le stoffe monoassiali sono correttamente impiegate se disposte lungo le isostatiche di trazione. Se l’elemento strutturale da riparare è soggetto a due direzioni principali di tensione allora se ne possono sovrapporre più fasce (fig.3) - tessuti biassiali, realizzati intrecciando fasci di fibre secondo due direzioni ortogonali. Si dicono rispettivamente bilanciati o ibridi se le fibre disposte nelle due direzione sono o meno dello stesso materiale, peso e tipo (es. CF-CF oppure CF-AF). I tessuti ibridi sono poco utilizzati nell’ingegneria civile, ma sono impiegati in altri settori produttivi dove si richiedono prestazioni meccaniche anisotrope. I tessuti biassiali sono prodotti a lama larga per permettere alle resine di penetrare bene dalle fibre. La posizione reciproca della trama e dell’ordito è garantita dal knitting, una fitta legatura eseguita con filati acrilici o di poliestere - tessuti pluriassiali realizzati disponendo le fibre in più ordini e in più direzioni. In commercio esistono i tessuti triassiali ( a tre ordini di fibre e trama a 120°) e quadri assiali (a quattro ordini di fibre e trama a 135°). In questi casi, siccome le fibre sono debolmente intrecciate è indispensabile un knitting particolarmente fitto. I prodotti biassiali e pluriassiali si prestano meglio alla riparazione di elementi con isostatiche di trazione curve o variabili in genere. Essi sono da preferire rispetto all’applicazione multipla di tessuti monoassiali perché consentono di ridurre le fasi operative di lavorazione. fig. 3 tessuto bidirezionale (sinistra) e tessuto quadriassiale (destra) In particolare, nel corso della sperimentazione saranno testati i seguenti materiali. Mapegrid G120 e Mapegrid G220, speciale rete in fibre di vetro resistenti agli alcali per il rinforzo di murature. Planitop HDM Maxi, malta bicomponente ad elevata duttilità per il rinforzo di elementi strtutturali. 2. Materiale lapideo: caratterizzazione fisico-meccanica Il suolo e i prodotti derivati sono influenzati dalla localizzazione, dalla giacitura, dalla storia del sito, dalla presenza di acqua e altri agenti che ne influenzano le caratteristiche e la stabilità. Secondo l’impiego è necessario operare una selezione e una scelta oculata, evidenziandone le peculiarità e i parametri per un impiego ottimale. Si parla di materiale inteso come quantità di materia solida che si adatta all’impiego in una costruzione, di pietra come prodotto della frantumazione della roccia ottenuta per via naturale o artificiale e di roccia come aggregato minerale che forma una massa geologicamente indipendente. In generale progettare una struttura, o mettere in sicurezza una esistente, significa studiarne gli elementi che formano un complesso organico e stabile, in modo da assicurare un margine di sicurezza sufficiente e adeguato all’ importanza dell’opera. Si fa quindi riferimento alla forma geometrica, all’aspetto, ai materiali e ai sistemi costruttivi, oltre alle necessità economiche e funzionali dell’opera. E’ necessario quindi definire i materiali, conoscerne le proprietà e individuarne le caratteristiche che interessano la specifica applicazione, comprese le sollecitazione indotte e i relativi valori di riferimento, adottando oculatamente i parametri tecnici per garantire durabilità e sicurezza. Tutto ciò facendo riferimento alla costituzione dei materiali, all’ambiente in cui vengono utilizzati, alla localizzazione specifica nella singola opera, alle azioni previste, alla loro modalità di applicazione, alla loro intensità e alla loro direzione. Un materiale da costruzione secondo l’impiego cui è destinato deve avere proprietà che gli permettono di resistere, per un tempo ragionevole, a sollecitazioni meccaniche, chimiche e termiche; di lasciarsi attraversare da determinati flussi di energia; di assumere la forma e le dimensioni di progetto conservandole anche successivamente, con tolleranze predefinite, sotto carico e anche in condizioni avverse. Si distinguono nelle pietre proprietà tecniche e meccaniche, laddove per proprietà tecniche si intendono quelle che si riferiscono alla caratteristiche fisiche e alla resistenza agli agenti atmosferici, mentre per proprietà meccaniche quelle che si riferiscono alle sollecitazioni cui devono resistere. 2.2.1 Caratterizzazione tufi Nel seguito si procederà alla caratterizzazione del materiale tufo costituente la struttura oggetto di rinforzo, con prove riguardanti proprietà tecniche e meccaniche. Per quanto riguarda le proprietà tecniche si farà riferimento alla gelività e porosità, per arrivare a quest’ultima si parla anche del coefficiente di imbibizione. Per quanto riguarda le proprietà meccaniche si farà riferimento alla resistenza a compressione, flessione e trazione. Le prove sono state effettuate su provini provenienti da due tipologie di tufi diverse (fig.4). I tufi costituenti i provini definiti “vecchi”, contrassegnati con la lettera V, sono quelli che provengono dalla struttura, sarebbero i conci che vanno a formare gli archi e le volte. Tali tufi sono stati prelevati dalla struttura esistente, portati in laboratorio e tagliati in modo da realizzare elementi cubici o prismatici da testare. Ci sono poi i tufi costituenti i provini “nuovi”, contrassegnati con la lettera A quelli cubici e lettera D quelli prismatici, questi sono stati ricavati dai tufi nuovi che andranno a sostituire quelli vecchi e poi saranno rinforzati con materiali compositi. Anche i provini nuovi hanno subito la stessa preparazione in laboratorio. fig. 4 Provini in tufo su cui sono state svolte le prove Le prove sono state effettuate in ossequio alla normativa vigente, riguardo ai materiali lapidei: - Regio Decreto 1939 n.2232 - UNI 9725/1990: Prodotti lapidei. Criteri di accettazione. - UNI EN 1925/2000: (raccomandata) indica un metodo per determinare il coefficiente di assorbimento d’acqua per capillarità delle pietre naturali. - UNI EN 1926/2000: Determinazione della resistenza a compressione. - UNI EN 1936/2001: Metodi di determinazione della massa volumica reale, della massa volumica apparenta e delle porosità totale e aperta. Le sperimentazioni sono state effettuate presso il laboratorio ufficiale Salvati del Politecnico di Bari, sito in viale Japigia a Bari. 2.2.1.1 Determinazione della porosità aperta La porosità aperta è definita in percentuale come rapporto fra il volume dei pori aperti e il volume apparente del provino. Dipendente dalla porosità c’è l’imbibizione, che indica la quantità d’acqua che la roccia assorbe quando è annegata nell’acqua. La norma di riferimento è la UNI EN 1936/2001. I provini devono essere almeno sei, rappresentativi della pietra da provare. Devono avere forma di cilindri o cubi o prismi e devono essere ottenuti mediante taglio con disco diamantato o carotaggio. Il volume apparente deve essere ≥25 ml (ovvero ≥25 cm3), da calcolare misurando gli spigoli. Il rapporto tra l’area della superficie e il volume deve essere compreso tra 0,1 e 0,2 mm-1 . se soddisfano il suddetto rapporto superficie/volume si possono utilizzare anche i provini preparati per la determinazione della resistenza a compressione o a flessione. Nel nostro caso vengono utilizzati provini cubici, gli stessi della resistenza a compressione, aventi spigolo di 7cm. Tali provini soddisfano le prescrizioni e sono tagliati secondo norma, sono sei nuovi provenienti dai tufi nuovi e uno dal tufo vecchio. Sono stati utilizzati i seguenti strumenti - stufa ventilata che mantenga una temperatura di 70 ± 5ºC; - recipiente in cui immergere gradualmente i provini, che sia collegato con una pompa a vuoto che mantenga una pressione di 2 ± 0,7 kPa; - bilancia con precisione ≥ 0,01% della massa da pesare, con un dispositivo che consenta di pesare il provino immerso nell’acqua; - volumometro ( tipo Le Chatelier) a forma di pallone con il fondo piatto e provvisto di un tubo graduato da 0 ml a 24 ml con tacche ogni 0,1 ml; - picnometro con capacità nominale di 50 ml; - setaccio con aperture di 0,063 mm; - essiccatore. Per la determinazione della porosità aperta [%] bisogna operare dopo essiccazione fino a massa costante ( a temperatura di 70 ± 5ºC ). I provini vengono conservati in un essiccatore, fino a quando non raggiungono la temperatura ambiente; si considera raggiunta la massa costante quando la differenza fra due pesate successive è ≤ 0,1% della massa del provino, a intervallo di 24 ± 2 h. Si è pesato ciascun provino ( md ), quindi si inseriti in un recipiente vuoto e si diminuisce gradualmente la pressione fino a 2,0 ± 0,7 kPa = 15 ± 5 mm Hg, quindi questa viene mantenuta per 24 ± 2 h per eliminare l’aria contenuta nei pori aperti dei provini. Nel recipiente viene introdotta piano piano acqua demineralizzata a 20 ± 5ºC, in un tempo ≥ 15 min, finché i provini si trovano immersi completamente. Durante l’introduzione dell’acqua e per le successive 24 ± 2 h, la pressione di 2,0 ± 0,7 kPa deve essere mantenuta costante, dopo di che il recipiente viene riportato alla pressione atmosferica e i provini vengono lasciati in acqua per altre 24 ± 2 h. Infine si pesa in acqua ciascun provino e si registra la sua massa ( mh ), si asciuga velocemente con un panno umido e si determina la massa ( ms ) del provino saturo di acqua. fig.5 provini nel forno per essiccazione La porosità è espressa dal rapporto, in %, fra il volume dei pori aperti e il volume apparente del provino: ρo = ( ms - md )100/ ( ms - mh ) con ms = massa del provino saturo, in g md = massa del provino secco, in g mh = massa del provino immerso in acqua, in g. 2.2.1.2 Determinazione del coefficiente di imbibizione Per imbibizione si intende l’assorbimento di un liquido da parte di un solido senza che ciò comporti l’insorgere di fenomeni chimici. Per i solidi si può avere: - imbibizione capillare, quando l’assorbimento avviene per riempimento delle piccole cavità naturali presenti nel corpo solido, senza variazione di volume; - imbibizione molecolare, quando l’assorbimento avviene in corpi compatti, privi di cavità, e genera aumento di volume. I provini di tufo immersi in acqua per un certo tempo, assorbono acqua in funzione della loro porosità e la loro resistenza è inversamente proporzionale all’imbibizione. La norma di riferimento è il Regio Decreto 1939 n.2232, art.7. Il coefficiente di imbibizione, riferito al peso, è dato dal rapporto tra l’aumento di peso che subisce il provino quando è saturo di acqua e il suo peso allo stato asciutto: ( Gm – G )/G Con G = peso del provino asciutto Gm = peso del provino saturo d’acqua. Il coefficiente di imbibizione, riferito al volume, si può ricavare con: Kv = ( Gm – G )/V I valori della porosità e del coefficiente d’imbibizione ottenuti in laboratorio sono riportati nella tabella I seguente: Campioni A15 A7 A5 A11 A8 A16 MEDIA Mi (gr) Ms (gr) Mh (gr) 546 523 534 541 522 525 531,8333 644 615 630 631 619 617 626 299 266 268 269 268 268 273 395 534 185 V3 Coef. Imbi. Porosità 0,179487 0,175908 0,179775 0,166359 0,185824 0,175238 0,177099 0,351899 0,284058 0,26361 0,265193 0,248619 0,276353 0,26361 0,266907 0,398281 Tabella I Il grafico (fig.6) mostra sinteticamente l’andamento dei valori, rendendo immediatamente percettibile la differenza tra provini nuovi e quello vecchio. Come già citato i provini di tufo immersi in acqua per un certo tempo, assorbono acqua in funzione della loro porosità e la loro resistenza è inversamente proporzionale all’imbibizione, quindi si capisce l’utilità di tali valori. Valori porosità 0,4 0,35 0,3 0,25 0,2 0,15 0,1 0,05 0 A15 A7 provini provini A15 0,284057971 A7 0,263610315 A5 0,26519337 A11 0,248618785 A8 0,276353276 A16 0,263610315 V3 0,398280802 fig. 6 provini e valori di gelività A5 A11 A8 A16 V3 Il grafico seguente mostra la differenza tra i provini nuovi, indicati con media, e quello vecchio, V3, confrontando quest’ultimo con il valore medio dei primi (fig.7). 0,4 0,35 0,3 0,25 0,2 0,15 0,1 0,05 0 MEDIA V3 fig. 7 grafici di confronto 2.2.1.3 Gelività La gelività consiste nella frammentazione del materiale per effetto dell’alternarsi di gelo e disgelo. L’acqua gelando nei pori ha un’azione disgregatrice, aumenta di volume, per cui si creano tensioni che provocano fessure indotte proprio dall’alternarsi di gelo e disgelo dell’acqua assorbita, che esercita una pressione sulle pareti. Risulta pertanto importante indicare il comportamento dei tufi sottoposti a questi cicli. La prova può essere eseguita facendo riferimento ad una delle due normative, il Regio Decreto 1939 n. 2232 e il UNI EN 12371/2003. Si è utilizzato il Regio Decreto 1939 n. 2232 in particolare ART. 28. E’ stata scelta questa modalità di prova perché risultava essere di più semplice realizzazione. I provini sono di forma cubica: - lato = 7,1 cm ( sezione 50 cm2 ) per pietre a grana fine; - lato = 10 cm ( sezione 100 cm2 ) per pietre a grana grossa. Non è stato possibile inoltre identificare il piano di posa naturale dei tufi, specie per quelli vecchi. Tali tufi sono stati prelevati dalla struttura esistente e portati in laboratorio, risultava impossibile individuare il piano di cava. La prova è stata eseguita su 24 campioni (fig.8). fig. 8 grafici di confronto Si seguono tre serie di prove di resistenza a compressione: - sui provini asciutti; - sui provini saturi d’acqua; - sui provini congelati. Per ciascuna delle tre serie: - quattro cubetti devono essere sottoposti a pressione nella direzione del piano di posa; - quattro cubetti nella direzione ortogonale al piano di posa. I provini della prima serie sono stati completamente asciugati, i provini della seconda serie saturati d’acqua. I provini della terza serie congelati: prima vengono resi saturi con la stessa acqua, immergendoli in acqua distillata a +35ºC per 3 h, poi vengono posti in un frigorifero a -10ºC, lasciandoveli congelati per altre 3 h. Il ciclo completo è stato ripetuto 20 volte. Il materiale risulta non gelivo se: - nessuno dei provini presenta screpolature né tracce di lesioni, durante e dopo i 20 cicli; - la resistenza media a compressione, sempre dopo 20 cicli, è minore o uguale all’80% di quella dei provini saturi d’acqua; non si verifica riduzione di peso > 2%. Nel nostro caso è stata calcolata la riduzione percentuale di resistenza a compressione per gelività. Le prove sono state effettuate su una macchina METROCOM oleodinamica con portata massima di 500 kN e di classe 1 (fig.9). fig. 9 Esempi di compressione su provino nuovo congelato, macchina METROCOM laboratorio prove materiali Politecnico di Bari. Nella tabella II sono riportati i valori numerici ottenuti per la riduzione percentuale della resistenza a compressione e sono citati i valori della resistenza in N/mm2. Calcolo della riduzione percentuale di resistenza comp. Per gelività Resist. Campione confronto (N/mm2) Riduzione della resist. comp. (%) Provino Nuovo 2,496 26,14 Provino Vecchio 1,071 18,35 Tabella II Si nota dai grafici (fig.10) che è molto maggiore la riduzione della resistenza a compressione per i provini nuovi: si passa da 18,35% per i vecchi a 26,14% per quest’ultimi. Riduzione della resist. comp. (%) 30,00 25,00 20,00 15,00 Provino Nuovo Provino Vecchio 10,00 5,00 0,00 Provino Nuovo Provino Vecchio Fig.10 confronto della riduzione di resistenza tra i differenti provini 2.2.1.4 Resistenza a compressione La resistenza a compressione indica la resistenza allo schiacciamento, è un’azione che tende ad accorciare un materiale soggetto in modo uniforme ortogonalmente all’asse. La prova può essere eseguita su diverse tipologie di provini, a seconda dell’uso che dovrà essere fatto del materiale: 1. su provini regolari; 2. su provini di forma irregolare; 3. a punzonamento. La normativa di riferimento è stata il Regio Decreto 1939 n. 2232 e la UNI EN 1926/2000. Il numero dei provini deve essere ≥6, vengono quindi utilizzati sei provini provenienti dal tufo vecchio e sei da quello nuovo e sono di forma cubica di spigolo 70±5 mm. Le dimensioni della sezione trasversale del provino (dimensione dello spigolo per provini cubici) sono misurate a 0,1mm mediando due misure prese in direzioni ortogonali fra loro sulla faccia superiore del provino e due misure prese sulla faccia inferiore del provino. Il valore medio della dimensione dello spigolo deve essere utilizzato per calcolare l’area della sezione trasversale. La misura dell’altezza del provino deve essere arrotondata a 1,0mm. Le facce sulle quali viene applicato il carico sono piane con tolleranza di 0,1mm e si scostano dalla perpendicolarità rispetto all’asse del provino in misura di ≤0,1rad o di 1mm su 100mm. I lati del provino devono essere lisci, senza irregolarità e rettilinei con una deviazione massima di 0,3mm sull’intera lunghezza del provino. Tutte le prescrizioni citate vanno a soddisfare la suddetta Norma e sono caratterizzanti i dodici campioni di tufo. Dopo la preparazione i provini sono stati essiccati fino a massa costante a temperatura di 70 ± 5ºC. La massa è considerata costante quando la differenza fra due pesate successive, effettuate a un intervallo di 24 ± 2h, è ≤0,1% della massa del provino. Dopo l’essiccamento, questi sono stati mantenuti a 20 ± 5ºC fino a raggiungere l’equilibrio termico e la prova eseguita entro 24 h. Al momento della prova sono state pulite le superfici portanti della macchina e si è applicato un carico uniforme, centrato e distribuito, crescente in modo continuo fino alla rottura. Il carico massimo sul provino è stato registrato con la precisione di 1 kN. Le prove sono state effettuate su una macchina METROCOM oleodinamica con portata massima di 500 kN e di classe 1. La resistenza a compressione (R) di ogni provino viene espressa dal rapporto fra carico di rottura e area della sezione trasversale misurata come detto sopra: R = F/A Con A = area della sezione trasversale del provino prima della prova, in mm2 F = carico di rottura, in N. Nella tabella III di seguito riportata ci sono i valori del carico di rottura in N e quelli della resistenza a compressione in N/mm2 Dim. A (mm) Vecchi MEDIA Dim. A (mm) Nuovi MEDIA Area 5300,000 5200,000 5300,000 5500,000 5400,000 5500,000 5366,667 Carico di Rottura (N) 4900,000 4920,600 5097,800 5097,800 5124,600 4900,000 5006,800 12250,000 12320,000 7130,000 12740,000 7270,000 12150,000 10643,333 Tensione di rottura Incertezza Tipo A 2 (N/mm ) 2,500 2,504 1,399 2,499 1,419 2,480 2,133 Dim. B (mm) Area Carico di Rottura (N) 0,010871554 Nuovi 70,000 69,500 71,800 71,800 70,200 70,000 70,550 4962,300 4970,160 4941,930 5191,180 4990,320 5019,720 5012,602 Tensione di rottura Incertezza Tipo A 2 (N/mm ) 1,068 1,046 1,072 1,059 1,082 1,096 1,071 Tensione di rottura Incertezza Tipo A 2 (N/mm ) 70,000 70,000 4900,000 12250,000 2,500 70,800 69,500 4920,600 12320,000 2,504 71,000 71,800 5097,800 12740,000 2,499 70,000 70,000 4900,000 12150,000 2,480 70,450 70,325 4954,600 12365,000 2,496 Dati ottenuti scartando i valori dei due provini in blu affetti da errore di fedeltà Dim. A (mm) MEDIA Dim. B (mm) Carico di Rottura (N) 0,561408875 70,000 70,800 71,000 71,000 73,000 70,000 70,967 69,500 70,800 70,700 72,200 71,700 70,900 70,967 Area 0,017248967 71,400 70,200 69,900 71,900 69,600 70,800 70,633 Dim. B (mm) Tabella III Tra i provini nuovi sono stati scartati due campioni affetti da errore, probabilmente dovuto all’imperfetta planarità delle facce dei provini (fig.11) Fig.11 evidenti problemi di planarità Si è ottenuto un carico medio di rottura per i tufi vecchi pari a 5366,667 N ed una resistenza a compressione media di 1,071 N/mm2. Per i tufi nuovi un carico medio di rottura di 12365,000 e una tensione di rottura, o resistenza a compressione, media di 2,496 N/mm2 (fig.12) 14000,000 12000,000 10000,000 8000,000 6000,000 4000,000 2000,000 0,000 1 2 fig.12 grafico con valori del carico di rottura. 1 media provini vecchi, 2 media nuovi. Il valore medio del carico di rottura per i tufi nuovi è quasi doppio del valore medio di quelli vecchi (fig.13). 2,500 2,000 1,500 1,000 0,500 0,000 1 2 fig.13 grafico con valori della tensione di rottura. 1 media provini vecchi, 2 media nuovi 2.2.1.5 Resistenza a flessione Per resistenza a flessione si intende la resistenza alla sollecitazione derivante dell’applicazione di azioni che giacciono su un piano passante per l’asse dell’elemento. Questa prova può essere eseguita sotto carico concentrato o sotto momento costante. La Norma di riferimento è il Regio Decreto 1939 n. 2233 e le norme UNI EN 12372 e UNI EN 13161. Nel nostro caso si è fatto riferimento al Regio Decreto 1939 n. 2233, ART. 14, quindi prova sotto carico concentrato. Si sono impiegati provini prismatici, aventi base quadrangolare e altezza pari a tre volte la dimensione dello spigolo di base. La prova è stata eseguita su un prisma appoggiato su due coltelli a spigolo arrotondato caricato in mezzeria con un altro coltello anch’esso a spigolo arrotondato (fig.14). Fig.14 provino prismatico poggiato sui coltelli a spigoli arrotondati e coltello in mezzeria a spigolo arrotondato. Il carico di rottura è dato da: RF = 3Fl/2bh2 Con: l = distanza tra i due coltelli b = base della sezione del provino, in mm h = altezza del provino, in mm F = carico totale. Nel nostro caso di studio sono stati testati quattro provini (fig.15) , tutti rappresentativi del tufo nuovo, contrassegnati con la lettera D. I risultati per il carico di rottura, e quindi tensione di rottura o resistenza a flessione RF, comprensivi dei relativi valori medi, sono riportati nella tabella IV seguente. Dim. A (mm) Dim. B (mm) Area MEDIA 92,0 100,0 94,0 86,0 93,000 Carico di Rottura (N) Tensione di rottura (N/mm2) 80,0 7360,0 90,0 9000,0 95,0 8930,0 89,0 7654,0 88,500 8236,000 1610,0 1760,0 1760,0 1650,0 1695,000 1,1 0,9 0,8 1,0 0,9 Tabella IV Fig.15 provini dopo la rottura per flessione Il carico di rottura ha valori compresi tra 1610 N e 1760 N e la tensione di rottura tra 0,8 e 1,1 N/mm2 presentando un valore medio di 0,9 N/mm2. 2.2.1.6 Resistenza a trazione. Prova brasiliana La resistenza a trazione nei materiali lapidei, quindi nei tufi, ha valori molto bassi di conseguenza viene in genere considerata nulla. In questo caso è stata valutata mediante la prova brasiliana (fig.16). fig.16 Prova brasiliana. Macchina METROCOM E’ stato così possibile ottenere valori indicativi per il carico di rottura e quindi per la tensione di rottura. Tali valori sono riportati nella tabella V seguente. Dim. A (mm) 70,0 Tabella V Dim. B (mm) 70,0 Carico di Rottura Tensione di rottura Area (N) (N/mm2) 4900,0 3650,0 4,7 3. tecniche di rinforzo di sistemi murari con materiali compositi 3.1 Concetti basilari Nel consolidamento di elementi strutturali che non soddisfano i requisiti e le verifiche di sicurezza prescritte dalla Normativa vigente, è indispensabile disporre di competenze qualificate. Tale necessità diventa più urgente nel caso di impiego di compositi fibrorinforzati, la cui novità ed originalità richiede attualmente competenze altamente specialistiche. In particolare si assume che: - la scelta ed il progetto del sistema di rinforzo siano eseguiti da tecnici qualificati ed esperti; - la successiva esecuzione dell’intervento sia effettuata da maestranze in possesso di un adeguato livello di capacità ed esperienza; - siano garantite da un’adeguata supervisione ed un controllo di qualità durante lo sviluppo del processo; - i materiali da costruzione ed i prodotti utilizzati siano impiegati come specificato in seguito. Si noti che per l’elemento rinforzato non può essere considerato un incremento della capacità resistente di calcolo, dovuto al solo FRP, superiore al 60% di quella dell’elemento non rinforzato. Tale limitazione non si applica per azioni eccezionali e sismiche, soprattutto nel caso di interventi che mirano ad aumentare la duttilità locale in cui facilmente si possono ottenere valori superiori. Per assicurare la durabilità dell’intervento si deve tener conto: - della destinazione d’uso prevista per la struttura rinforzata - delle condizioni ambientali attese - della composizione, delle proprietà e delle prestazioni dei materiali preesistenti e di quelli nuovi, nonché dei prodotti utilizzati per la messa in opera di questi ultimi - della scelta della configurazione del rinforzo e dei particolari costruttivi - della qualità delle maestranze e del livello di controllo - delle particolari misure protettive nei confronti del fuoco o dell’impatto - della manutenzione attesa durante la vita utile. Le verifiche di sicurezza vanno eseguite sia per lo stato limite di esercizio sia per quello ultimo. Il formato adottato è quello dei coefficienti parziali. Le proprietà di calcolo dei materiali i dei prodotti sono ottenute dai corrispondenti valori caratteristici, divisi per opportuni coefficienti parziali. Un punto di particolare innovazione consiste nel fatto che le proprietà di calcolo Xd dei materiali della struttura esistente vengono ricavate in funzione del numero di prove eseguite in situ per acquistare informazioni su di essi: Xd = η/γmmx(1-knVx) Dove: η è un fattore di conversione, minore di 1, che considera problemi di progetto particolari relativi alle condizioni ambientali e ai fenomeni di lunga durata, γm è il coefficiente parziale del materiale, mx è il valore medio della proprietà X che risulta dalle n prove in situ, il valore kn è fornito in funzione di n assumendo noto il coefficiente di variazione Vx. Questo può essere preso pari a 0,10 per l’acciao, a 0,20 per il calcestruzzo e a 0,30 per muratura e legno. Si noti che tale impostazione differisce in maniera sostanziale da quanto indicato nell’Ordinanza PCM 3431 del maggio 2005, laddove si fa riferimento ai valori medi delle proprietà dei materiali esistenti. Per la generica proprietà di resistenza o di deformazione di un materiale o di un prodotto usato nel rinforzo, da determinarsi mediante prove normalizzate di laboratorio, il valore di calcolo, Xd si può esprimere in forma generale mediante una relazione del tipo: Xd = ηXk/γm I soli parametri di rigidezza dei materiali o dei prodotti usati nel rinforzo e quelli dei materiali preesistenti sono valutati attraverso i corrispondenti valori medi. Un altro aspetto innovativo riguarda la definizione della capacità di progetto, data come: Rd = 1/γrdR(Xd,i;ad,i) Dove R() è la funzione che descrive il modello meccanico che si sta verificando (flessione, taglio, aderenza) e γrd è un coefficiente parziale che raccoglie le incertezze insite nel modello di capacità (pari a 1 per la flessione, 1,2 per il taglio e a 1,1 per il sconfinamento). Gli argomenti della funzione sono in generale un insieme di proprietà meccaniche e di quantità geometriche, di cui Xd,i e ad,i rappresentano rispettivamente i valori di calcolo e nominali. Mentre per gli s.l.e. si suggerisce di attribuire un valore unitario ai coeff.parziali γm = γf dei materiali e dei prodotti in composito fibrorinforzati per gli s.l.u. possibili valori sono suggeriti, distinguendo i casi in cui il collasso avviene per rottura del materiale o per delaminazione. È immediato constatare come le applicazioni che non rispettano il procedimento di certificazione previsto dal documento sono particolarmente penalizzate, ad ulteriore conferma dell’importanza di un accurato controllo sulla qualità dell’applicazione. Un problema di particolare interesse riguarda il decadimento delle proprietà meccaniche di alcuni sistemi di FRP in presenza di determinate condizioni ambientali quali: ambiente alcalino, umidità, temperature estreme, cicli termici, cicli di gelo e disgelo, radiazioni ultraviolette. La protezione nei confronti di tali fenomeni è attualmente ottenibile in maniera forfetaria mediante l’applicazione di taluni fattori, detti “di conversione”, riduttivi delle proprietà meccaniche. È auspicabile, quando lo stato delle conoscenze avrà prodotto risultati più affidabili, poter disporre di strumenti più completi per la trattazione di tali problemi. I valori del fattore di conversione ambientale ηd possono essere aumentati del 10% qualora si impieghino rivestimenti protettivi le cui proprietà di mitigazione degli effetti dell’esposizione ambientale risultino sperimentalmente comprovate e sempre che tali rivestimenti siano mantenuti per tutta la durata del periodo di utilizzo del sistema a base di FRP. Le proprietà meccaniche di alcuni sistemi a base di FRP degradano per l’effetto della viscosità, del rilassamento e della fatica. Per evitare la rottura del rinforzo di FRP sotto tensioni prolungate nel tempo, si cambiano i valori da attribuire al fattore di conversione. In presenza sia di carico persistente che ciclico, il fattore di conversione complessivo è ottenuto come prodotto dei relativi fattori di conversione. Nel caso di esposizione al fuoco, per prevenire il collasso della struttura rinforzata con FRP, fin quando non saranno disponibili ulteriori informazioni sul reale comportamento dei rivestimenti e dei diversi tipi di resine in siffatte condizioni, è consigliato contenere prudenzialmente il contributo richiesto al rinforzo. Quello delle prestazioni del rinforzo in presenza di fuoco è un problema che deriva in parte dalla scarsità di risultati sperimentali ma anche dal fatto che, pur essendo un tipico problema di progetto, esso potrebbe trovare soddisfacente soluzione in campo tecnologico, con la formulazione di una resina adatta a resistere a temperature elevate oppure con l’individuazione della tecnica di protezione esterna più idonea. Pur se proposto un metodo di progetto, che tende a ridurre il rischio di collasso in presenza di fuoco, richiedendo la verifica per combinazioni di carico ad elevata probabilità di verificarsi nel corso di un incendio e nella fase successiva, è comunque suggerito l’impiego di rivestimenti nonché di sistemi di isolamento certificati. L’intervento di rinforzo delle murature tramite compositi FRP ha lo scopo di conseguire, per i singoli elementi strutturali e per l’intera costruzione, un incremento di resistenza nei confronti delle azioni. Gli interventi di rinforzo con FRP applicabili sulle murature sono molteplici e diversificati in base alla finalità del rinforzo ed alla tipologia dell’elemento oggetto di intervento. Essi consistono nell’applicazione di lamine, tessuti, reti o barre di FRP sugli elementi strutturali della costruzione, per adesione o mediante dispositivi meccanici di ancoraggio. Tale applicazione può avvenire sulle superfici esterne della muratura (paramenti murari) o in alloggiamenti e scanalature realizzate al suo interno. L’impiego del rinforzo è motivato principalmente dalle seguenti ragioni: - trasmissione di sforzi di trazione all’interno di singoli elementi strutturali o tra elementi contigui (rinforzi a flessione, taglio, ecc.) - collegamento tra elementi che collaborano a resistere alle azioni esterne (connessioni tra parete ortogonali, ecc.) - irrigidimento di solai nel proprio piano per conseguire un funzionamento a diaframma rigido - limitazione dell’apertura di fessure - confinamento di colonne al fine di incrementare la resistenza del materiale. L’applicazione di rinforzi in FRP deve essere necessariamente effettuata su elementi strutturali di adeguate proprietà meccaniche e, qualora la muratura si presenti danneggiata, disomogenea o viziata da difetti che possano precludere la corretta trasmissione degli sforzi mutui con il rinforzo, si deve procedere al suo preconsolidamento secondo tecniche tradizionali. L’applicazione di tessuti o lamine di FRP su superfici murarie impedisce la traspirabilità del supporto murario. Per tale motivo tali interventi non possono interessare estese superfici del paramento murario al fine di preservare l’adeguata traspirabilità del sistema. Tale limitazione non si pone invece nel caso si utilizzino compositi FRCM con matrice a base cementizia che non ostacola la traspirazione. Il consolidamento con l’uso di compositi in FRP o FRCM può essere realizzato: - incrementando la resistenza di pannelli, archi o volte - cerchiando colonne e pilastri allo scopo di incrementarne la resistenza a compressione e la duttilità - contrastando la spinta di strutture spingenti - trasformando elementi non strutturali in elementi strutturali - irrigidendo strutture orizzontali non spingenti - incatenando o fasciando l’edificio all’altezza degli impalcati o della copertura. Le principali modalità di crisi di una struttura muraria rinforzata con FRP sono: - fessurazione per trazione della muratura - schiacciamento della muratura - taglio-scorrimento della muratura - rottura del composito fibrorinforzato - delaminazione del rinforzo di FRP dalla muratura. 3.2 Problemi di resistenza alla delaminazione Nel rinforzo di paramenti murari mediante applicazione di lamine o tessuti di FRP, il ruolo dell’aderenza tra muratura e composito è di grande importanza, poiché la crisi per perdita di aderenza del rinforzo è un modo di rottura fragile e, quindi, in un dimensionamento strutturale che osservi il criterio di gerarchia delle resistenza, da evitare. Se la resistenza dell’adesivo utilizzato per l’applicazione del rinforzo è più elevata della resistenza del materiale su cui è apposto il rinforzo, la perdita di aderenza tra rinforzo e muratura avviene per de coesione di uno strato superficiale della muratura. Nel caso di rinforzi a rete con elevata superficie specifica e aggrappo mediante matrici cementizie, il distacco può avvenire anche tra la rete e lo strato di adesione. La delaminazione dal paramento murario di lamine o tessuti applicati a strisce isolate, per il rinforzo secondo direttrici rettilinee, può essere classificata secondo due modalità principali: - delaminazione di estremità del rinforzo (plate end debonding) - delaminazione a partire dai giunti di malta o da fessure trasversali nella muratura in tufo (intermediate crack debonding) Nel caso di rinforzi applicati su superfici curve o quando la rigidezza flessionale della lamina è elevata, si possono avere significativi sforzi di trazione in direzione normale all’interfaccia (detti peeling) che riducono la forza di ancoraggio trasmissibile. La delaminazione a taglio, in corrispondenza della parte terminale del rinforzo (ancoraggio), può essere accompagnata dall’asportazione di un consistente strato di muratura ( ripoff failure), manifestandosi con la formazione di fessure dovute alla diffusione dello sforzo di ancoraggio, cui possono associarsi, nel paramento murario, trazioni tali da provocarne la frattura. Il valore ultimo della forza sopportabile dal rinforzo prima della delaminazione dipende dalla lunghezza della zona incollata. Tale valore della forza cresce fino a un massimo corrispondente ad una ben precisa lunghezza, oltre la quale, ulteriori incrementi della zona di incollaggio, non comportano incrementi della forza trasmessa. Tale lunghezza viene definita lunghezza ottimale di ancoraggio cioè la lunghezza minima necessaria alla trasmissione del massimo sforzo di aderenza. Essa si calcola come: le = √Ef·tf/2·fmtm Ef modulo di elasticità normale del composito FRP nella direzione della forza F tf spessore del rinforzo fmtm resistenza media a trazione della muratura (paragonabile a quella del tufo). 4. Prove sperimentali di delaminazione su tufi 4.1 Realizzazione e progettazione dei provini Generalmente, per il rinforzo di strutture in cemento armato si adottano fogli in fibra di carbonio (CFRP), anche se in alcuni casi sono stati impiegati anche tessuti in fibra di vetro (GFRP) o aramidica (AFRP). E’ stata così progettata una prova di delaminazione che consiste nella trazione di due blocchi di tufo, dimensione 25x25x16 collegati tra loro da 4 strati di frp. Fig.17. Rendering grafico della prova I blocchi sono stati resi solidali attraverso l’uso di 4 profili a U UNP160 sottoposti a lavorazioni meccaniche quali quelle indicate (fig.18). Fig.18 esecutivo delle lavorazioni sul profilato UPN 160 Per la posa in opera delle fibre stata utilizzata Mapegrid220 applicato con Planitop HDM Maxi. Nella simulazione sottostante in blu sono indicati profilati in acciaio a “C” posti in opera attraverso barre filettate da 16 che costituiscono il castelletto di prova. Gli elementi in tuo (giallo) sono collegati tra loro attraverso 4 strati di fibra. La realizzazione dei provini ha visto la posa in opera del collante Planitop HDM Maxi, Malta cementizia a reattività pozzolanica bicomponente ad elevata duttilità nella qual sono stati inseriti strati successivi di fibra (fig.19-20). Nella muratura con blocchi di pietrame squadrato la delaminazione normalmente si manifesta attraverso interazioni tra materiali differenti. Pertanto si è proceduti all’apposizione di uno strato di malta di regolarizzazione sul quale effettuare l’incollaggio. Fig.19 Fasi della realizzazione del provino Fig.20 Fasi della realizzazione del provino 4.3 Considerazioni sulla resistenza alla delaminazione radente allo stato limite ultimo Sperimentalmente, attraverso prove di trasmissione dell’azione radente trasferita ad un substrato coesivo da un rinforzo di FRP ad esso incollato, si rileva che il valore ultimo della forza sopportabile dal rinforzo prima che subentri la delaminazione dipende, a parità di tutte le altre condizioni, dalla lunghezza, lb, della zona incollata. La lunghezza ottimale di ancoraggio, le è data dalla formula sottostante La lunghezza ottimale calcolata sul nostro prodotto è di circa 3m. Con riferimento ad una delaminazione che coinvolga i primi strati di muratura, come a noi interessa, il valore caratteristico dell’energia specifica di frattura del legame di aderenza rinforzomuratura è esprimibile come: Il carico di rottura raggiunto si è attestato su una media di 2400 daN. Tabella Riepilogativa dati: Ef = modulo di elasticità normale del composito fibrorinforzato nella direzione della forza F = 8000 N/mm2 tf = spessore del composito fibrorinforzato = 60mm c1 = 0,015 fmtm = resistenza media a trazione della muratura1 = 0,025 fmk = resistenza a compressione del materiale = 2,5 N/mm2 Resist. trazione rete = 45 kN/m 1 assunto fmtm = 0.10 fmk Ci si aspettava dalla prova un meccanismo di decoesione tra rinforzo e muratura per distacco di uno strato superficiale del blocco di pietra, anche senza una effettiva disponibilità delle lunghezze utili di cui e di cui si dovrà tener conto e che quindi ogni elemento in fibra contribuisca al massimo per l.80% alla resistenza alla delaminazione. 4.4 Descrizione della prova sperimentale e risultati La prova è stata effettuata utilizzando una macchina idraulica a controllo manuale Metrocom di classe1 (fig.21-22). Sono state inoltre usate le linee guida CNR-DT 200/2004: CNR-DT 200/2004 Istruzioni per la Progettazione, l’Esecuzione ed il Controllodi Interventi di Consolidamento Statico mediante l’utilizzo di Compositi Fibrorinforzati Materiali, strutture di c.a. e di c.a.p., strutture murarie. Fig.21 Fasi della prova di delaminazione Particolare in figura 22 Fig.22 Dinamica della prova di de laminazione ( in rosso il verso di lettura, dall’alto verso il basso, dalle colonne di destra verso quelle di sinistra) La rottura, fragile di tipo esplosivo, è avvenuta per delaminzione attraverso decoesione di uno strato superficiale blocco di pietra mantenendo intatto il pacchetto di adesivo-fibra. La delaminazione a taglio, proposta nella sperimentazione condotta, che si è verificata in corrispondenza della parte terminale del rinforzo ed è stata accompagnata dall’asportazione di un consistente strato di tufo (fig.23) Fig.23 La modalità di crisi si è manifestata con la formazione di fessure dovute alla diffusione dello sforzo di ancoraggio, tali da provocarne la frattura proprio come supportato dalla Letteratura. Fig.24 Immagine del campione dopo la delaminazione e confronti tipologie di rottura teorica Successivamente alla già descritta sperimentazione, sono stati preparati nuovi provini questa volta posti in opera attraverso la realizzazione di casseforme ( fig.25-26) appositamente preparate. Queste infatti hanno permesso una maggiore uniformità degli spessori delle parti fibrorinforzate garantendo una migliore uniformità degli strati e di distribuzione degli sforzi. Fig.25 Preparazione dei nuovi provini e realizzazione delle casseforme in legno ed acciaio Fig.26 Preparazione dei nuovi provini. Le fibre sono annegate nello strato di malta 5. Cinematismi a rottura di elementi strutturali a semplice e doppia curvatura Gli elementi strutturali a semplice o a doppia curvatura perdono generalmente la propria funzionalità in seguito alla formazione di cerniere, a causa della scarsa resistenza a trazione della muratura, che attivano meccanismi di collasso. Le volte in muratura collassano per meccanismo quando si forma un numero di cerniere plastiche, sia all’estradosso che all’intradosso, sufficienti a renderle labili. Si possono individuare, essenzialmente, quattro distinte tipologie di meccanismi cinematici di collasso delle volte: 1) meccanismo cinematico di collasso con apertura delle imposte, che si manifesta con la rototraslazione dei piedritti (o di una parte di essi) e la formazione di tre cerniere nell’arco ( una all’estradosso in chiave, due all’intradosso delle reni) 2) meccanismo cinematico di collasso con chiusura delle imposte, che si manifesta con la rototraslazione dei piedritti (o di una parte di essi) e la formazione di due cerniere all’estradosso dell’imposta più due cerniere all’intradosso delle reni dell’arco Figura 27 Meccanismo di collasso con apertura delle imposte (a sinistra) e meccanismo cinematico di collasso con chiusura delle imposte 3) meccanismo cinematico di collasso con imposte fisse, asimmetrico, dovuto alla presenza di carico non simmetrico e si manifesta con la formazione di quattro cerniere nell’arco, alternate estradosso-intradosso. Di solito, l’ultima cerniera dalla parte meno caricata è all’estradosso dell’imposta 4) meccanismo cinematico di collasso con imposte fisse, simmetrico, che si manifesta con la formazione di cinque cerniere nell’arco, alternate estradosso-intradosso (estradosso delle imposte, intradosso delle reni, estradosso della chiave) Figura 28 Meccanismo cinematico di collasso con imposte fisse, asimettrico (a sinistra) e simmetrico (a destra) L’applicazione di un rinforzo in FRP, in tali circostanze, è finalizzato ad impedire il meccanismo di rotazione relativa e quindi l’apertura dei cigli fessurativi, impedendo così la formazione di cerniere sulla porzione di contorno opposta a quello su cui lo stesso rinforzo è applicato. Conseguentemente, la presenza del rinforzo all’intradosso (rispettivamente all’estradosso), se adeguatamente ancorato, inibisce la formazione delle cerniere sull’opposta porzione di estradosso (rispettivamente intradosso). Figura 29 Esempi di posizionamento del rinforzo all'estradosso e all'intradosso di una superficie curva 5.1 Modalità di rottura dell’arco rinforzato La rottura avviene per lo scorrimento della muratura nella linea d’imposta dell’arco e nel punto in cui c’è il carico esterno (concentrato) se il rinforzo è attaccato sull’intera lunghezza dell’estradosso. Il distacco dell’FRP può anche portare alla rottura. Una striscia di FRP collegata con resina epossidica su una superficie curva, provoca le concentrazioni degli sforzi normali alle superfici dei conci messi insieme a formare l’arco. L’esistenza di queste tensioni è dovuta alla curvatura dell’arco, e infatti, sono proporzionali alla curvatura. Per rinforzi messi all’intradosso queste tensioni sono di trazione per l’interfaccia muratura-FRP, denotanti che il distacco è un argomento di interesse. Queste tensioni normali di cui si è parlato in precedenza sono anche proporzionali alla forza di trazione della striscia di FRP, indicando che sorgono principalmente sui conci vicino alle zone dove c’è una rottura (per esempio quando una frattura sta per aprirsi su un concio o mattone, la striscia collegata a tale concio sviluppa forze di trazione). Come risultato, il distacco avviene nel punto di applicazione del carico o più generalmente nell’area di intradosso dove una cerniera del meccanismo di collasso tende ad attivarsi. In qualche caso il distacco dell’FRP è accompagnato sia con lacerazione di una membrana di pietra attaccata al rinforzo (rottura locale a trazione della muratura), sia con la fuoriuscita di un intero concio. In entrambi i casi il distacco è correlato alla muratura, non all’FRP, ed è dovuto alla circostanza secondo cui la resina epossidica è più resistente a trazione della muratura, sempre se il rinforzo è stato correttamente applicato. Comunque i distacchi possono essere correlati anche all’FRP, se la connessione muratura-FRP non è abbastanza forte. In aggiunta, alcuni esperimenti dimostrano che una modalità di rottura per distacco può essere accompagnata dal meccanismo di collasso dell’arco con quattro cerniere, meccanismo introdotto da Heyman. Una breve descrizione del meccanismo di collasso a quattro cerniere è riportata più avanti. Nel caso in cui non è permesso il distacco, in un arco rinforzato, sull’intera lunghezza dell’intradosso, il collasso avviene a causa dello schiacciamento della muratura. In questo caso il carico limite è notevolmente incrementato. Infine, se il rinforzo comprende FRP posti nell’intradosso, è possibile che la struttura arrivi al collasso con il meccanismo delle quattro cerniere, ma la posizione di tali cerniere può essere differente se paragonata a quella del meccanismo di collasso dell’arco non rinforzato. Sono stati cosi effettuati dei modelli FEM di archi semplici con giunti in malta comune e successivamente con collante Planitop HDM Maxi – Mapei caratterizzato da un modulo elastico dichiarato pari a circa il doppio della comune malta, con un poco significante incremento delle tensioni. Sono state studiati agli elementi finiti tre tipologie di rinforzi: 1. FRP attaccati all’estradosso Ricerche in letteratura affermano che i collassi della struttura sono dovuti allo scorrimento della muratura nella sezione d’imposta e nel punto in cui è applicato il carico concentrato. Il carico di rottura è circa 6 volte più grande rispetto a quello dell’arco senza FRP. Dopo dell’innesco dello scorrimento nella muratura, l’FRP si snerva nell’ area dove ha luogo lo scorrimento della muratura, specialmente nel punto in cui è applicato il carico, mentre non avviene la crisi per schiacciamento della muratura. 2. FRP attaccati all’intradosso In questo caso di solito il distacco del rinforzo insieme con un meccanismo di collasso dell’arco, sembrano essere le più probabili modalità di rottura. 3. FRP attaccati all’intradosso e all’estradosso dell’arco In questo caso si assume che l’FRP sia attaccato sia all’intradosso che all’estradosso dell’arco. Se la connessione è abbastanza forte e non permette distacchi dell’FRP all’intradosso, il carico di rottura è circa 5 volte più grande di quello della struttura non rinforzata. Una significativa riduzione del carico di rottura avviene se si può sviluppare il distacco dell’FRP all’intradosso. Una prima modellazione si riferisce ad un arco con conci in tufo allettati con malta normale e con Mapei HDM Maxi. I valori ottenuti di tensione e deformazione non sono stati significativamente differenti. 6. Modellazione agli elementi finiti Il Metodo degli Elementi Finiti, ovvero FEM (Finite Element Method), è una tecnica dell’analisi numerica volta ad ottenere soluzioni approssimate per una molteplicità di problemi, non solo di Ingegneria Strutturale, ma anche di Fisica, Bioingegneria, Astronomia. Originariamente sviluppato per studiare il campo tensionale nelle strutture aerodinamiche, è stato poi esteso ed applicato al vasto campo della Meccanica dei continui già a partire dalla seconda metà degli anni '50 con i lavori di Turner, di J. Argyris e di Clough (che per primo parlò di metodo FEM e la cui collaborazione con Turner diede vita al celebre lavoro che è universalmente riconosciuto come l’inizio del moderno FEM). A partire dagli anni '70 il metodo agli elementi finiti ha trovato diffusione come strategia di modellazione numerica di sistemi fisici in un’ampia varietà di discipline ingegneristiche. Per la risoluzione di problemi fisici reali, che implicano complesse proprietà dei materiali, condizioni di carico e condizioni al contorno, si preferisce ottenere, con opportune ipotesi ed idealizzazioni, soluzioni numeriche approssimate piuttosto che soluzioni analitiche esatte di difficile utilizzo pratico. Infatti, se è possibile scrivere, sotto certe ipotesi, le equazioni differenziali e le condizioni al contorno di problemi anche abbastanza complessi, non lo è, d’altro canto, trovare una soluzione analitica in forma chiusa, a causa della irregolarità della geometria. Per superare questa difficoltà è necessario discretizzare il continuo, che è caratterizzato da un numero infinito di incognite, con un insieme di elementi di dimensioni finite (generalmente triangoli e quadrilateri per domini 2D, esaedri e tetraedri per domini 3D), in modo da ricondurre il problema ad un sistema di equazioni algebriche con un numero finito di incognite. Per ciascun elemento caratterizzato da una forma elementare, si assume una funzione approssimata detta funzione di forma (solitamente polinomiale), che è individuata attraverso valori che la variabile dipendente assume in punti specifici detti nodi. Tali nodi sono variabili in numero a seconda del tipo di elemento scelto e sono posti solitamente sul contorno degli elementi o addirittura all’interno dell’elemento stesso. I valori che la variabile assume sui nodi ne definiscono univocamente l’andamento all’interno dell’elemento, rappresentando le nuove incognite. È evidente che all’aumentare del numero di nodi aumenta il grado della funzione polinomiale utilizzata per interpolazione dei dati ai nodi e quindi aumenta la qualità dell’approssimazione. Sono state così definiti i tre step: Il pre-processing dove si costruisce il modello agli elementi finiti definendo non solo la geometria dell’elemento e le proprietà dei materiali che lo compongono, ma anche il tipo di elementi finiti e la costruzione della maglia di discretizzazione; Il processing che esegue l’analisi statica e dinamica agli elementi finiti, determinando la risposta strutturale; Il post-processing che elabora e rappresenta la soluzione attraverso la visualizzazione di spostamenti, deformazioni e tensioni. E’ stata successivamente effettuata una modellazione FEM di un arco fibrorinforzato con costituito da 15435 NODES e 14484 PLATES e numero di equazioni 30712. Modellazione geometrica e vincolare dell’arco. Come si nota si ha la formazione di due cerniere all’intradosso. Le tensioni utilizzando il criterio TRESCA variano da 0-27 Mpa. Ed infine le tensioni principali σ11 Di seguito le immagini del post processing della dinamica della formazione delle cerniere Come si nota si ha la formazione di due cerniere all’intradosso. Le tensioni utilizzando il criterio TRESCA variano da 0-27 Mpa. Distribuzione del tutto simile per l’arco messo in opera con Mapei HDM Maxi con tensioni, utilizzando il criterio TRESCA, di poco superiori tra 0-30 Mpa. Nella raffigurazione seguente viene mostrata con una deformazione del 10% la formazione della cerniera.