Ber ardi, M.
. U i troduzio e alla “hari g E o o
.
Ebook della serie Laboratorio Expo KEYWORDS, Fondazione GianGiacomo Feltrinelli.
http://en.fondazionefeltrinelli.it/dm_0/FF/FeltrinelliPubblicazioni/allegati//Bernardi/index.html
1
È capitato a tutti di leggere sul giornale o di sentir parlare di Sharing Economy: di questi tempi è un’idea
che è diventata di moda e che sta interessando individui, amministrazioni, imprese. Inoltre ci sono
fenomeni di grande rilevanza mediatica come le contestazioni diffuse a livello globale dei servizi di taxi
“sostitutivo” di Uber che in qualche modo si ricollegano a questo discorso e che ricevono una costante
attenzione per l’escalation che li contraddistingue.
Questo ebook, “Un’introduzione alla Sharing economy”, offre una panoramica generale sui processi di
condivisione e collaborazione che stanno prendendo piede nell’attuale quadro economico e sociale.
Monica Bernardi si occupa del tema con un approccio sociologico e ci offre, in queste pagine, un
inquadramento fenomenologico che costituisce una piccola enciclopedia della questione. Il discorso
parte presentando le più rilevanti definizioni proposte dagli studiosi e dagli esperti del settore con il fine
di tracciare le caratteristiche principali delle nuove forme di consumo e produzione che si stanno
diffondendo. Da un certo punto di vista, il cambio di paradigma di cui si cerca di dare conto consiste in
un nuovo atteggiamento mentale in cui l’accesso e l’esperienza di un bene hanno più rilevanza del
possesso del bene stesso. Le persone che accedono a questa dimensione di condivisione vivono una
trasformazione del “valore del consumo” e i benefici che ne derivano hanno potenziali conseguenze
perlomeno in tre ambiti: 1) la sfera economica, in quanto la condivisione offre a tutti la possibilità di
essere imprenditori di se stessi, rimettersi in gioco, risparmiare e anche guadagnare in modo
innovativo; 2) la sfera ambientale: la rimessa in circolazione nel mercato di beni inutilizzati o
sottoutilizzati genera modalità di consumo più sostenibili e di minor impatto, in cui il riuso e il riciclo
favoriscono una riduzione degli sprechi in una logica di salvaguardia ambientale e sviluppo sostenibile,
senza contare la condivisione dei mezzi di trasporto che garantisce livelli d’inquinamento minori; 3) la
sfera sociale: le nuove piattaforme digitali aggregano persone con interessi comuni ricostruendo i
legami sociali e la solidarietà dapprima online e in seconda battuta offline, superando l’individualismo e
la solitudine urbana e creando comunità.
Leggendo queste pagine possiamo capire chi siano i soggetti e gli operatori della Sharing Economy e
quali gli oggetti e le modalità con cui condivisione e collaborazione avvengono. Le implicazioni di
questo scenario sono tante, alcuni autori come Belk sostengono che la condivisione dissolva i confini
personali posti dal materialismo, l’attaccamento e il desiderio di possesso ed espanda il Sé esteso
aggregato; altri riflettono su come queste pratiche possano incidere sulle sfide della crescente
mercificazione, fino a spingersi a sostenere che all’interno dei modelli neoliberisti si possano insinuare
prassi che si vendono come alternative al capitalismo pur non essendolo.
L’autrice ci presenta un approccio critico che ragiona sui vari aspetti del fenomeno e propone alcune
criticità che mettono in luce le possibili derive che l’acclamata Sharing Economy potrebbe avere o sta
già avendo.
Davide Diamantini
2
UN’INTRODUZIONE ALLA SHARING ECONOMY
Nell’attuale contesto globale, caratterizzato da una forte urbanizzazione e industrializzazione, una crisi
economica diffusa, una popolazione mondiale in crescita soprattutto nelle aree urbane e una crescente
attenzione per il tema della sostenibilità ambientale e la ricerca di fonti alternative, si stanno
diffondendo risposte resilienti e adattive quasi inimmaginabili qualche anno fa: nuove pratiche, più
aperte, trasparenti e partecipative, basate su condivisione e collaborazione; nuovi modelli di servizio
che abilitano le persone a scambiare e condividere beni, spazi e competenze, promuovendo stili di vita
che prediligono il risparmio, la ridistribuzione del denaro e la socializzazione. Jeremy Rifkin parla
addirittura di un passaggio epocale: dal possesso all’accesso, dall’acquisto al riuso, un passaggio che
vede la proprietà di un bene sostituita con l’esperienza di utilizzo di quel bene. Così per ascoltare
musica e guardare film si usa il peer-to-peer, per andare in vacanza ci si affida alle persone del posto o
si scambia la casa, per vestire i figli si scambiano abiti a seconda di età e stagione, per viaggiare e
spostarsi si usa il carsharing o il carpooling, si scambiano oggetti di ogni tipo, dai trapani alle biciclette,
ma non solo oggetti, anche tempo e competenze, si condividono gli spazi di lavoro (coworking), si usa il
web per raccogliere fondi e finanziare progetti (crowdfunding) e per fare brainstorming con risorse
creative al fine di produrre nuove idee (crowdsourcing). Ormai le pratiche di condivisione stanno
diventando una tendenza dominante e, anche se non si tratta di vere e proprie novità, ma più del
“proseguimento con altri mezzi, la rete, di antiche comunità di pratiche di prossimità”, come ricorda Aldo
Bonomi1, sempre di più si parla di Sharing Economy e delle tante sperimentazioni che con questo
termine vengono etichettate. Per il The Guardian si tratta di “un’alternativa sostenibile in un momento di
crisi energetica, con un sistema finanziario che avvantaggia pochi a spese di molti e con un degrado
ambientale incombente”, per l’Economist di una possibile risposta alternativa alla crisi economica, e
aggiungerei relazionale, e per il Time di una delle 10 idee che cambieranno il mondo2. Sì perché i
vantaggi di questi nuovi modelli di consumo e produzione, enfatizzati dai media e dagli esperti di tutto il
mondo, sono di tipo ambientale (riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale), economico
(risparmio, guadagno, facilitazione e possibilità di fare impresa), e sociale (condivisione valoriale,
socializzazione, creazione di comunità) e il giro d’affari generato dalle nuove piattaforme digitali di
condivisione si aggira intorno ai 26 miliardi di dollari.
Le pagine che seguono, seppur senza la pretesa di coprire tutte le sfaccettature esistenti, vogliono
essere una prima introduzione al fenomeno. Si cercherà di mettere a fuoco il significato dietro al
termine Sharing Economy, i soggetti e gli oggetti coinvolti nelle pratiche di scambio e condivisione e
alcuni punti critici che stanno via via emergendo.
MA COS’È ESATTAMENTE LA SHARING ECONOMY?
Il fenomeno, partito dagli Stati Uniti intorno al 2008, ha avuto una vera e propria esplosione nel 2013
anche in Europa e in Italia. Ma cosa si intende esattamente con Sharing Economy?
Manca ad oggi una definizione univoca e condivisa e il dibattito, su quali servizi comprenda e quale sia
il suo reale significato in termini di implicazioni e impatti, è acceso. L’assenza di una definizione univoca
genera inevitabilmente confusione nell’uso dei termini e nelle prospettive, non solo per esperti e filosofi,
ma anche per i governi, perplessi e in dubbio tra promozione, regolazione e divieto, per le grandi
imprese incerte sul fatto che si tratti di un’opportunità o di una minaccia; e per i cittadini che si
domandano se si tratti o meno di una pratica che fa al caso loro. Termini come economia della
condivisione, consumo collaborativo, peer to peer si fondono nel concetto di Sharing Economy, nel
quale confluiscono prassi e pratiche anche molto diverse e distanti le une dalle altre, dall’open source
alle Social Street, passando per quelli che sono ormai oggi dei colossi come AirBnb e Uber.
1
http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2015-03-01/la-nuova-milano-old-ansaldo-all-ansaldo-20081246.shtml?uuid=AB1npV2C
2
http://content.time.com/time/specials/packages/article/0%2C28804%2C2059521_2059717_2059710%2C00.html
3
Qui di seguito sono proposte alcune distinzioni e definizioni che consentono di mettere a fuoco le
caratteristiche e le sfaccettature del fenomeno.
Innanzitutto, come sottolineato dal comitato di indirizzo di “Sharexpo – Milano città condivisa per Expo
20153”, data la ricchezza linguistica italiana, Sharing Economy può essere tradotto con due termini
diversi, che ne indicano le manifestazioni principali:
1. COLLABORAZIONE, una forma intermedia tra reciprocità e scambio: più persone si mettono in
rete con l’obiettivo di realizzare un progetto da cui ognuno trarrà un beneficio anche individuale;
è un concetto che lavora su logiche di rete.
2. CONDIVISIONE, una forma intermedia tra reciprocità e redistribuzione: un gruppo di persone
mette in comune le risorse per la produzione di beni o servizi utili a tutta la loro comunità; è un
concetto che lavora più su logiche di comunità.
Molti autori hanno offerto una loro definizione del fenomeno. Benita Matofska, founder del movimento
globale The People Who Share4, lo descrive come un nuovo modello che si fonda sulla condivisione di
risorse materiali e immateriali, di tutto ciò che non è utilizzato dal proprietario – beni, servizi, dati e
abilità – con un fine monetario o non monetario. Un sistema socio-economico che presuppone quindi
l’ottimizzazione delle risorse (accesso versus proprietà, riuso versus acquisto), una relazione P2P (tra
pari, l’intermediazione viene meno e non c’è più distinzione tra finanziatore, produttore, consumatore e
cittadino attivo) e la presenza di una piattaforma tecnologica a supporto delle relazioni digitali, capace
di veicolare la fiducia attraverso forme di reputazione digitale.
Michel Bauwens, fondatore della P2P Foundation5 utilizza l’espressione Sharing Economy come
sinonimo di Consumo Collaborativo. In particolare, ritiene che: “ci stiamo muovendo da un’economia di
scala, adatta ad un periodo storico in cui abbondavano l’energia e le materie prime, ad un’economia di
scopo, basata sul principio della condivisione delle conoscenze. […] Questa economia si fonda sulla
diffusione delle pratiche open source nei domini della cultura, dell’informatica (il software libero), del
design (le automobili basate su progetti open source, oggetti basati su schede madri Arduino). Le
pratiche di consumo collaborativo – più comunemente note come Sharing Economy – consistono nella
condivisione di infrastrutture, beni e strumenti (per esempio piattaforme online per la condivisione peerto-peer di spazi di lavoro, attrezzi, automobili, e così via)”.
In Italia, Collaboriamo.org6 definisce l’economia collaborativa “un mondo molto ampio di cui fanno parte
le piattaforme digitali che mettono direttamente in contatto le persone ma anche il cohousing, il
coworking, l’open source, le Social Street, fenomeni che al loro interno mostrano sfaccettature molto
diverse pur promuovendo, tutte, forme di collaborazione fra pari”. Tale definizione tiene conto solo di
una fenomenologia della Sharing Economy, quella relativa alle piattaforme digitali che mettono
direttamente in contatto le persone per scambiare, condividere, vendere usato. Secondo questa
definizione l’economia della collaborazione è “un nuova forma di economia che promuove lo
valorizzazione delle risorse grazie a tutte quelle piattaforme digitali che abilitano le persone a
scambiare e condividere beni, tempo, denaro, spazio e competenze; promuovendo nuovi stili di vita che
prediligono il risparmio o la ridistribuzione del denaro e la socializzazione7”. Gli scenari possibili sono
quattro:
1. Accedere a una risorsa temporaneamente e senza transazioni in denaro (come Timerepublik);
3
http://www.sharexpo.it/il-documento/
http://www.thepeoplewhoshare.com/blog/what-is-the-sharing-economy/
5
http://p2pfoundation.net/PART_ONE:_THEORETICAL_FRAMEWORK
6
www.collaboriamo.org Collaboriamo si occupa di sharing economy offrendo contenuti, studi, formazione e
consulenza a start up, aziende e amministrazioni pubbliche che vogliano conoscere e approfondire le opportunità
offerte dall e o o ia della olla orazio e, progettare u uo o ser izio o s iluppare partnership con le piattaforme
esistenti.
7
http://www.collaboriamo.org/le-5-caratteristiche-delleconomia-collaborativa-e-cosa-distingue-airbnb-da-car2go/
4
4
2. Accedere a una risorsa temporaneamente attraverso una transazione monetaria (Airbnb, o
servizi di cessione temporanea di competenze come Tabbid o Gnammo);
3. Barattare una risorsa in cambio di un’altra senza intermediazione di denaro (Baratto Facile,
Zerorelativo), o attraverso monete alternative, come il tempo o dei crediti (Timerepublik,
Reoose, Sardex);
4. Cedere in maniera permanente un oggetto usato (Sharoola, Subito.it, ma anche eBay all’inizio).
La stessa Commissione Europea8, in un recente rapporto dell’Osservatorio sulla Business Innovation,
ha proposto una sua definizione di Sharing Economy, restringendo il campo a “quelle imprese che
sviluppano dei modelli di business basati sull’accessibilità per i mercati peer-to-peer e le loro comunità
di utenti”. Ossia imprese “la cui proposta di valore consista nella creazione di un match tra un peer che
possiede una determinata risorsa (beni o competenze) ed un peer che ha bisogno di quella risorsa, nei
tempi richiesti e a fronte di costi di transazione ragionevoli”.
E ancora, Anne-Sophie Novel, giornalista francese e pioniera nella ricerca sulla Sharing Economy parla
di economia collaborativa come “tendenza alla condivisione in rete delle risorse possedute”,
individuandone 5 “principi di funzionamento”: fiducia, semplicità, molteplicità, localizzazione, spirito
comunitario.
April Rinne, Chief Strategy Officer presso Collaborative Lab e una delle maggiori esperte a livello
internazionale della Sharing Economy, sottolinea che i diversi termini utilizzati fanno tutti riferimento,
seppur in modo diverso, allo stesso fenomeno: la reinvenzione di tradizionali comportamenti di
mercato, come il prestito, lo scambio, il baratto, il dono, che vengono riformulati grazie alle tecnologie in
modi nuovi e a una scala impensabile prima. Le tecnologie consentono infatti di sbloccare le “idling
capacities” (le risorse inutilizzate/sottoutilizzate), rimettendole in circolo e rendendole nuovamente
utilizzabili e fruibili. Secondo Rinne, condividere le risorse anziché possederle è più efficiente,
sostenibile e aiuta a costruire comunità.
Un tentativo di fare ordine tra le diverse definizioni è stato fatto da Rachel Botsman, autrice insieme a
Roo Rogers, di “What’s mine is yours” e oggi considerata un’esperta internazionale in materia di
Sharing Economy. L’autrice ha evidenziato che esistono quattro diverse prassi normalmente ed
erroneamente definite tutte Sharing Economy.
COLLABORATIVE ECONOMY, il contenitore generale entro cui ricadono le altre pratiche:
“un’economia basata su reti distribuite e a loro volta formate da comunità e individui interconnessi, in
opposizione ad istituzioni centralizzate, che trasforma le modalità con cui produciamo, consumiamo,
finanziamo ed impariamo”.
La produzione (collaborative production) avviene tra gruppi o network di persone che collaborano nella
progettazione (design collaborativo) di un prodotto o di un servizio (es. Quirky), nella produzione,
contribuendo alla creazione di un progetto/prodotto (OpenStreetMap) e nella distribuzione attraverso
reti di collaborazione (es. Nimber);
Il consumo (collaborative consumption) riguarda il massimo utilizzo delle risorse attraverso modelli di
redistribuzione efficienti e di accesso condiviso (si veda più sotto);
La finanza (collaborative finance) fa riferimento ai servizi di finanziamento, di prestito e di investimento
offerti al di fuori delle istituzioni finanziarie tradizionali. Si vedano ad esempio: il crowdfunding grazie al
quale gruppi di persone contribuiscono direttamente al finanziamento di uno specifico progetto
(Crowdfunder, Schoolraising); il prestito peer-to-peer: persone con denaro da investire si connettono
direttamente con persone che stanno cercando fondi in prestito (Zopa); le monete complementari, ossia
alternative a quelle in corso legale e gestite dallo stato che consentono un modo alternativo di misurare
e riconoscere valore (Economy of Hours, TimeRepublik); e le assicurazioni collaborative create da
gruppi di persone che si uniscono per creare il proprio team assicurativo (Bought by Many). In generale
8
http://ec.europa.eu/growth/industry/innovation/business-innovation-observatory/files/case-studies/12-sheaccessibility-based-business-models-for-peer-to-peer-markets_en.pdf
5
si tratta di forme di peer-to-peer banking e di nuovi modelli di investimento guidati dalle persone (crowd)
e capaci di decentralizzare la finanza stessa;
L’istruzione (collaborative learning) fa riferimento ai nuovi modelli di open education e apprendimento
peer-to-peer che rendono l’istruzione più democratica, consentendo a tutti di accedere e condividere
conoscenza per imparare insieme. Si distinguono in: open courses e materiali didattici gratuiti
(FuturLearn); condivisione di competenze (skillsharing) offerte da chi le detiene (Skilio, Coursera) e
crowd-sources knowledge, come nel caso di Wikipedia, in cui le persone aggregano pubblicamente le
proprie conoscenze per la risoluzione collettiva di quesiti.
SHARING ECONOMY è un sottoinsieme specifico dell’economia collaborativa, in cui le risorse
sottoutilizzate, le c.d idling capacity, che vanno dagli spazi fisici, agli oggetti fino alle competenze
professionali, vengono condivise da alcuni utenti per un beneficio monetario o simbolico,
consentendone un utilizzo più efficiente. Un esempio: Lyft, una piattaforma di ride-sharing “on demand”
che fa incontrare autisti non professionisti (studenti, pensionati…) con chi ha bisogno di un passaggio,
consentendo piccoli guadagni.
PEER-ECONOMY, l’economia tra pari, individua mercati person-to-person basati sulla fiducia reciproca
(fra pari appunto), che facilitano la condivisione e lo scambio diretto di beni o servizi. È la parte Peer-toPeer (P2P) pura della Sharing Economy, ma comprende anche i mercati artigianali (come Etsy) che
fanno incontrare direttamente i produttori di beni con gli acquirenti e quindi include anche una fetta del
settore relativo alla Collaborative Production (mercati virtuali dedicati al fai-da-te). Siamo nell’ambito
della produzione orizzontale, come è stata definita da Benkler9, un nuovo modello economico di
produzione nel quale l’energia creativa di un gran numero di persone (reti di sconosciuti), è coordinata,
grazie ad Internet e alle piattaforme digitali, senza la tradizionale organizzazione gerarchica, ma intorno
a modelli di business alla pari.
COLLABORATIVE CONSUMPTION. Il consumo collaborativo è uno dei 4 componenti chiave
dell’economia collaborativa e può essere definito come “un modello economico basato sulla
condivisione, lo scambio, il commercio o l’affitto di beni o servizi che privilegia l’accesso rispetto alla
proprietà” e che sta ridefinendo non solo cosa consumiamo ma anche il modo in cui lo facciamo. Una
sorta di reinvenzione dei vecchi comportamenti di mercato (noleggio, prestito, scambio, baratto, dono)
attraverso la tecnologia, che ne amplifica il potenziale. Comprende tre sistemi distinti: i prodotti a
noleggio, i mercati di redistribuzione e nuovi stili di vita collaborativi.
1. Prodotti a noleggio (Product Service System – PSS): implica una predisposizione mentale al
concetto di accesso in sostituzione a quello di possesso, infatti le persone pagano per ottenere
il beneficio di un prodotto senza possedere quel prodotto. Un buon esempio è il ride-sharing, in
cui le persone condividono i posti sulla propria auto con chi ha bisogno di quel servizio per la
propria mobilità. Questo sistema allunga il ciclo di vita del prodotto e ha al contempo un impatto
ambientale positivo in quanto un prodotto posseduto individualmente (con un uso spesso
limitato) viene sostituito con un servizio condiviso massimizzandone l’utilità. Anche gli utenti ne
beneficiano risparmiando sui costi di acquisto e manutenzione.
2. La creazione di nuovi mercati di redistribuzione (Redistribution Market – RM) per beni
inutilizzati o sottoutilizzati, da dove non sono più necessari a qualsiasi luogo o persona che ne
abbia bisogno. Lo scambio può avvenire gratuitamente (Freecycle, Kashless, Around Again, in
Italia Barattopoli, E-Barty, Permute), attraverso punti (UISwap, Barterquest, in Italia Reoose,
PersoPerPerso, CoseInutili), in cambio di denaro (eBay, Flippid, in Italia LocLoc) o il mercato è
un mix di vari sistemi (Gumtree, Craig list). Le merci possono essere di qualsiasi genere
(accessori, libri, vestiti, giochi, ecc.) e si possono scambiare con oggetti simili (BigWardrobe,
SwapStyle) o di valore simile (Swap, SwapSimple, SwapCycle, ReadItSwapIt). Spesso gli
scambi avvengono tra perfetti sconosciuti, altre volte in mercati in cui le persone si conoscono
reciprocamente (Share Some Sugar, NeighborGoods). In generale un mercato di
9
http://omniacommunia.org/2007/05/11/intervista-a-yochai-benkler/
6
redistribuzione incoraggia il riciclo/riuso e la rivendita di articoli vecchi che non vengono buttati
ma rimessi sul mercato, riducendo sprechi e consumi. La redistribuzione, secondo Botsman,
rappresenta la quinta ‘R’ – reduce, recycle, reuse, repair and redistribute – ed è considerata
sempre di più una forma di commercio sostenibile.
3. L’affermarsi di stili di vita collaborativi (Collaborative Lyfestyles): non prodotti, ma risorse
intangibili, come spazio, tempo, competenze, capacità e denaro che vengono scambiati in
modo nuovo. Gli scambi avvengono per lo più a livello locale e includono sistemi condivisi per
gli spazi di lavoro (The Cube London, Lemon Studios, in Italia Cowo), per i prodotti (Ecomodo,
ThingLoop), i libri (Green Books Club in Italia), tempo e commissioni (Camden Share,
Southwark Circle), giardini (Landshare, Edinburg Garden Share), capacità (Brookling Skillshare,
Coursera), cibo (Neighborhood Fruit, Lourish) e persino spazi per i parcheggi (Park-UK, in Italia
www.parksharing.org). Grazie ad Internet gli stili di vita collaborativi si stanno diffondendo
anche a livello globale. Il focus degli scambi non sono prodotti ma interazioni tra persone,
pertanto è richiesto un alto livello di fiducia con la conseguenza di generare una miriade di
relazioni e una forte connettività sociale.
Come emerge dalle proposte definitorie le forme della condivisione sono diverse (bartering, swapping,
crowding…) e si possono condividere dai beni fisici, agli oggetti digitali passando per gli spazi, fino al
denaro, il tempo e le competenze. La condivisione può essere sincrona (insieme alla persona che
utilizza il mio bene) o asincrona (lasciando il bene alla persona il tempo necessario) e la proprietà del
bene scambiato può rimanere al proprietario, cambiare proprietario o essere di una terza parte rispetto
alla rete di pari (come nel bikesharing comunale). Infine il valore può essere determinato in denaro, in
monete complementari o pari a zero se il bene viene ceduto gratuitamente. Ci sono però elementi
sempre ricorrenti, come:
-
Una forte propensione alla condivisione
La presenza di un buon numero di utenti (massa critica)
L’impiego di capacità inutilizzate/sotto utilizzate che vengono rimesse in circolo
La fiducia tra sconosciuti
Nessun principio è più importante degli altri, in alcuni casi uno in particolare rende possibile il sistema
stesso, mentre in altri casi ha minor valore. La questione della fiducia è però di notevole importanza
tanto che Rachel Botsman la reputa addirittura “la valuta di scambio nella nuova economia”. È infatti la
fiducia che ci spinge a condividere un passaggio in auto con uno sconosciuto, o a dormire a casa sua…
ed è al contempo anche una delle maggiori preoccupazioni nell’utilizzare i servizi di economia
condivisa, come dimostrano le principali ricerche10. Secondo il Pew Research Center solo il 19% dei
Millenials (i nati tra il 1980 e il 2000) ritiene di potersi fidare della maggior parte delle persone, mentre la
percentuale sale al 31% per la generazione X (1960-1979) e al 40% per i nati tra il 1946 e il 1959.
Tuttavia, se il modello economico della Sharing Economy intende espandersi è necessario individuare
metodi sempre più innovativi e affidabili per verificare l’identità dei pari. Le imprese stanno iniziando a
comprendere l’importanza della fiducia, e stanno inserendo nelle proprie piattaforme dei meccanismi di
maggiore trasparenza per la verifica dell’identità degli utenti, che consente di accrescere la fiducia e a
ciascuno di costruirsi la propria reputazione online. Degli algoritmi reputazionali calcolano la
reputazione degli utenti, all'interno di una comunità o di un portale, raccogliendo le opinioni e i feedback
che i soggetti della community esprimono (dopo aver usufruito di un servizio rispetto al servizio stesso
e alla persona che l’ha fornito). In questo modo a ciascun utente viene associato un rating che serve
per dare una misura approssimativa della fiducia che la comunità ripone in quell'utente. Si sta quindi
diffondendo un’economia digitale della reputazione basata sui feedback nella quale le forme di “capitale
Pe
‘esear h
Ce ter,
Mille ials
i
Adulthood ,
o sulta ile
o li e
all i dirizzo:
http://www.pewsocialtrends.org/2014/03/07/millennials-in-adulthood/; Do a Duepu tozero, “hari g E o o
da
oda a odello , http://
.sharital . o /spee hes/sharital
-capeci-ricerca.pdf
10
7
simbolico”, alla Pierre Bourdieu, vengono convertite in capitale economico, perché ricevere una buona
reputazione implicherà un maggior flusso di guadagni o un maggior risparmio.
Le varie definizioni consentono di inquadrare il fenomeno e le sue principali caratteristiche, ma al di là
delle sfumature definitorie proposte è comunque bene ricordare che si tratta di un processo in corso e
in continua evoluzione, non è quindi possibile, né necessario, imbrigliare il fenomeno in una definizione
rigida e univoca, che rischia di far perdere di vista la sua varietà.
Perché SI CONDIVIDE?
Cosa ha determinato la diffusione del fenomeno e quali motivazioni spingono le persone alla
condivisione.
È già stato anticipato che la diffusione delle nuove tecnologie e del Web 2.0 (social,
geolocalizzazione, mobile) ha giocato un ruolo rilevante nell’espansione delle nuove pratiche di
condivisione, consumo e produzione, consentendo alla Sharing Economy di diventare un fenomeno
globale. Le tecnologie sono i veri abilitatori che hanno reso possibile l’emersione di questo nuovo
sistema basato sull’uso condiviso di servizi e di beni inutilizzati o in eccesso. L’Internet delle Cose e i
miliardi di sensori che collegano tra loro persone, oggetti e dati, grazie alla diffusione delle piattaforme
e all’accesso costante alla rete, permettono di utilizzare ciò che serve solo per il tempo che serve.
Anche l’attenzione all’ambiente e il desiderio di ridurre il proprio impatto ambientale sono segnalate
come una delle motivazioni che stanno spingendo le persone verso le pratiche di condivisione,
collaborazione e riuso. Il modello di consumo capitalista ha portato il sistema al collasso con evidenti
impatti negativi sull’ambiente; evidenze che hanno rafforzato la sensibilità rispetto al tema della
sostenibilità ambientale e dello sviluppo sostenibile trovando convergenza nei principi della
condivisione e della collaborazione (maggior efficienza, minori consumi e sprechi).
Inoltre l’avvento della crisi economica globale a partire dal 2008 ha messo in discussione i tradizionali
postulati di crescita economica e sociale e l’intero sistema capitalistico, spingendo le persone a
domandarsi di cosa avessero realmente bisogno e come estrarre valore dalle cose/capacità possedute.
Il successo della Sharing Economy è in parte legato proprio alle possibilità che questo nuovo approccio
offre in termini di riduzione dei consumi e opportunità di guadagno. Chiunque può ottenere un piccolo
profitto semplicemente condividendo i propri beni e può accedere, a costi contenuti, ad una serie di
beni e servizi che altrimenti gli rimarrebbero preclusi. Ogni proprietà può trasformarsi in un potenziale
profitto, ogni persona in un potenziale imprenditore.
Infine, l’indebolimento dei legami sociali e l’erosione della solidarietà causati dall’urbanizzazione
massiccia e dall’industrializzazione hanno generato individualismo ed esclusione sociale (si veda
l’ultimo lavoro di Piketty11 che denuncia gli enormi livelli di disuguaglianza attualmente raggiunti dalle
società occidentali, Usa in testa). La condivisione delle risorse consente di ricostruire le comunità e
ricreare senso di appartenenza sia online che offline. È forte la necessità di unirsi per far fronte alla
crisi, sia economica che relazionale, e grazie alle nuove tecnologie dell’informazione, ai social network
e alle piattaforme digitali si creano nuove reti e relazioni, si ricostruisce la fiducia, anche tra sconosciuti,
e si ricompongono i legami di comunità, in un processo che partendo dal web si riversa nella vita reale.
Sembra dunque che il nuovo modello di produzione e consumo che la Sharing Economy veicola abbia
in sé il potenziale di accrescere i risparmi e rendere i consumatori protagonisti attivi del ciclo
economico, rispondere al bisogno di ridurre l’impatto ambientale e far accedere a forme di socialità
altrimenti inaccessibili. Non si sceglie quindi la via della condivisione solo ed esclusivamente mossi da
motivazioni monetarie, anche se questa resta una delle principali leve, ma anche per l’interesse verso
le novità e l’innovazione e per motivazioni più di tipo valoriale legate alla cura e al rispetto
dell’ambiente, all’etica implicita nella condivisione e per un rinnovato bisogno di socialità. Ipotesi
11
“i eda il testo Il Capitale nel XXI secolo
he sta fa e do parlare esperti di tutto il
8
o do.
confermate dai risultati dell’indagine commissionata da AirBnb e BlablaCar a Ipsos e pubblicata a luglio
201412. Ipsos individua diverse tipologie di soggetti spinti alla condivisione da motivazioni diverse: i
“pragmatici” che ricercano la stabilità e, insieme agli “anonimi”, prediligono l’esperienza delle cose
rispetto al possesso per motivazioni principalmente economiche e di risparmio; gli “avventurieri” che
amano le sfide e la scoperta delle novità, e i “sociali” che mirano ad una crescita a livello sociale; gli
“educatori” e i “valoriali” che, mossi dagli ideali, aspirano ad un percorso che implichi responsabilità
sociale e sostenibilità ambientale. I profili seguono una sorta di linea evolutiva della crescita personale
che va dal focus individuale a quello interpersonale per arrivare infine a quello collettivo. Secondo il
38% degli intervistati gli elementi chiave che descrivono la Sharing Economy sono la convenienza e il
risparmio, per il 26% la sostenibilità ambientale mentre per il 22% l’innovazione.
Non per tutti le motivazioni alla condivisione sono così varie, c’è chi sostiene che la Sharing Economy
sia una conseguenza dell’hypercapitalismo e della crisi economica, come il Los Angeles Times in un
articolo di Giugno 2014, in cui ritiene la Sharing Economy un puro effetto di quello che Susie Cagle13
definisce il Capitalismo del Disastro, per cui la spinta alla condivisione è frutto della necessità sopra
qualsiasi altra motivazione14.
CHI CONDIVIDE?
In un modello nel quale l’intermediazione viene meno e gli utenti finali si trasformano in soggetti attivi e
partecipativi, cambiano anche le modalità di erogazione e distribuzione di beni e servizi e gli agenti del
commercio. Nesta e Collaborative Lab15 hanno individuato quattro sistemi:
Il primo è il già incontrato Peer-to-Peer (P2P), che prevede relazioni alla pari tra persone nello
scambio/vendita di prodotti e servizi e che può essere considerato il modello più comune di
condivisione nell’economia collaborativa. Si veda ad esempio BlaBlaCar. Il primo modello di mercato
P2P è stato introdotto addirittura negli anni ’90 da Ebay, Craiglist e Napster e consentiva alle persone
di condividere, vendere o dare via i propri beni direttamente ad altre persone senza intermediari.
Un altro approccio è quello del Business-to-Consumer (B2C). L’interazione avviene tra le aziende e il
consumatore finale in modo diretto attraverso piattaforme online sulle quali le aziende rendono
disponibili i propri prodotti ai membri di quello specifico servizio. Car sharing e bike sharing ne sono
esempi significativi: l’azienda gestore mette a disposizione il proprio parco auto/bici ai membri iscritti a
quel servizio, così pur non possedendo una auto/bici è possibile accedervi in caso di necessità,
sgravandosi dei costi di acquisto e manutenzione.
Il modello Business-to-Business (B2B) fa riferimento al commercio interaziendale e consente ad
un’azienda di fornire un servizio ad un’altra azienda. La fornitura del servizio avviene unicamente on
line e mette le imprese nella condizione di condividere qualsiasi informazione, ad esempio il proprio
inventario. Si veda United Rentals, iniziative di condivisione di attrezzature industriali.
Infine, l’approccio Consumer-to-Business (C2B), consente alle imprese di estrarre valore dai
consumatori e viceversa. Sono i consumatori stessi ad offrire un determinato bene/servizio da loro
prodotto (gratuitamente o ad un prezzo concordato) alle imprese, attraverso appositi siti intermediari,
blog o forum. Ne sono un esempio eBay, AirBnB, Uber.
Un altro soggetto che accede alle pratiche di condivisione di cui tenere conto è la Pubblica
Amministrazione. Normalmente interagisce con i cittadini, le imprese e altre amministrazioni e, nella
Sharing Economy, può rappresentare un player di eccezione, particolarmente influente e di valore. Può
12
http://www.slideshare.net/nandopagnoncelli/ipsos-la-sharing-economy-in-italia?ref=http://www.ipsos.it/node/360
https://medium.com/the-nib/the-case-against-sharing-9ea5ba3d216d
14
www.resetricerca.org
15
La charity Nesta rappresenta la principale organizzazione ad occuparsi di social innovation nel Regno Unito.
Collaborative Lab è una rete globale di esperti di economia collaborativa che sviluppano analisi e ricerche sul tema,
offrendo anche la propria consulenza a aziende e governi.
13
9
essere un soggetto abilitante capace di promuovere le opportunità offerte dai servizi collaborativi,
creare maggiore consapevolezza nei cittadini sulle pratiche di condivisione e facilitare i processi del
nuovo modello economico, regolamentando senza però frenare il fenomeno. Esempi interessanti di
Pubbliche amministrazioni sensibili al tema li troviamo a Bologna, con il primo Regolamento per la
Gestione dei Beni Comuni che offre regole pratiche per superare gli ostacoli burocratici alla
realizzazione di servizi collaborativi e alla sperimentazione di nuove forme di gestione condivisa della
città, a Mantova con il progetto Co-Mantova e a Milano con l’esperienza che si sta portando avanti con
SharExpo e le pratiche di policy making collaborativo. Guardando all’estero un caso emblematico è
Seoul con il progetto “Sharing City Seoul”: nato nel 2012 come parte del Seoul Innovation Bureau’s
plan per gestire in modo efficiente le risorse dell’amministrazione e migliorare la qualità della vita dei
cittadini, l’iniziativa prevede finanziamenti ad hoc per lo sviluppo di imprese di Sharing Economy e
punta a mettere in contatto i cittadini nella creazione di reti di autoaiuto per rinforzare i legami sociali e
ricostruire il senso di comunità. Altro esempio è Amsterdam che sta elaborando un protocollo sulla
Sharing Economy coinvolgendo istituzioni e cittadini. Di sicuro per la Pubblica Amministrazione quella
della Sharing Economy è una sfida interessante e ad alto potenziale.
Viste le categorie di soggetti che si muovono nelle transazioni sharing vediamo chi sono gli sharers e
quali caratteristiche hanno, oltre alle già viste motivazioni. Guardando all’Italia, sia dai dati Ipsos sia
dalla ricerca realizzata da Collaboriamo.org16 e PHD Media17, e presentata nel corso della seconda
edizione di Sharitaly del 1° Dicembre 2014, si registrano risultati in linea con gli studi internazionali18. A
condividere sono sia uomini che donne, soprattutto residenti in contesti urbani e con titolo di studio in
prevalenza medio alto. L’età oscilla tra i 18 e i 34 anni, ma c’è una grossa fetta di partecipazione anche
tra i 35 e i 54 anni. Si tratta in generale di persone fortemente orientate al cambiamento e alle
innovazioni, curiose e con un profilo simile a chi naviga in Internet. Uomini e donne che utilizzano i
servizi di sharing non solo per risparmiare e ridurre i consumi, ma anche per ottenere un piccolo introito
occasionale che va a completare il proprio reddito personale. La propensione alla condivisione è alta: il
Rapporto Coop Consumi e Distribuzione 2014 evidenzia che il 55% degli italiani è pronto a condividere
(ha già usato o ben predisposto a usare i nuovi servizi), una percentuale più alta dei cugini europei:
53% per gli spagnoli, 46% per i tedeschi, 29% per inglesi e francesi. Una propensione non solo alta ma
anche in crescita: secondo la ricerca condotta da Doxa Duepuntozero nel 2014 6 milioni e mezzo di
persone hanno utilizzato servizi di sharing su piattaforme online (offrendo o “consumando”), ossia il
69% in più rispetto all’anno precedente, pari a 3 milioni di individui. Secondo la ricerca gli italiani sono
ormai al tipping point, ossia si è creata la necessaria massa critica che porterà a un reale cambio di
paradigma nel giro di qualche anno. Ovviamente ci sono delle barriere sulle quali i ricercatori
sottolineano occorrerà lavorare: molte persone hanno ancora paura delle truffe e non si dicono
completamente sicuri, serviranno quindi delle specifiche tutele e garanzie; inoltre l’atto dell’acquisto
dovrà essere sostituito da un’esperienza emotiva che sia gratificante tanto quanto quella in real; infine,
il funzionamento e le dinamiche nei servizi dovranno essere il più chiare possibili per non lasciare dubbi
sull’utilizzo.
In Italia, come emerge dalla ricerca, ci sono anche molti imprenditori che stanno puntando all’economia
della condivisione in un’ottica di business. A Sharitaly 2014 è stata presentata una mappatura delle
piattaforme italiane19 per capire quante esperienze ci sono, che struttura hanno, quanti utenti attivi e
dove sono collocate. Dai risultati l’Italia conta oggi 138 piattaforme, di cui 41 fornitrici di servizi di
Collaboriamo.org, “hari g E o o : la appatura delle piattafor e Italia e
, Dicembre 2014.
PHD è u age zia edia e di o u i azio e ota a li ello mondiale per la sua capacità di innovare nel planning e nel
buying portando avanti strategie di comunicazione fortemente differenzianti.
18
Nesta, Maki g sese of the UK olla orati e e o o
, “ette re
; Vision Critical-Cro d Co pa ies, “hari g
is the e u i g ,
.
19
Ricerca condotta da Collaboriamo.org e PHD Media.
16
17
10
crowdfunding20. Si tratta comunque di un fenomeno in crescita, pertanto le stime sono passibili di
modifiche, peraltro veloci, e il numero delle piattaforme è sicuramente già aumentato rispetto alla data
di presentazione della ricerca. Delle 97 piattaforme attive (escludendo quindi i 41 servizi di
crowdfunding) nell’81% dei casi si tratta di aziende italiane, l’11% è costituito da aziende straniere
senza uffici in Italia, il 6% da aziende straniere con sedi in Italia e il 2% da esperimenti promossi da enti
o istituzioni. Le piattaforme sono divise in 11 diversi ambiti tra i quali i più interessanti sono il
crowdfunding (con il 30% delle piattaforme), i beni di consumo (20%) i trasporti (12%), il turismo (10%),
il mondo del lavoro (9%). Non si registrano piattaforme nell’ambito culturale anche se è prevedibile che
presto si lanceranno servizi in questo settore, che in fondo è sempre stato particolarmente sensibile alla
sperimentazione di modelli di sviluppo collaborativi: si pensi a Wikipedia, o al file sharing musicale.
Alcune di queste piattaforme hanno già un buon numero di utenti, ma la maggior parte sono giovani e
con una certa difficoltà a raggiungere la massa critica; si tratta di realtà che nascono prevalentemente
nei grandi centri urbani, anche se alcune sono dislocate nelle isole e al centro, mentre il sud al
momento è il meno coperto. Il ciclo di vita di queste piattaforme appare spesso breve e anche se sono
molte le iniziative che nascono, sono meno quelle che riescono a sopravvivere.
COSA SI CONDIVIDE?
Come anticipato, con la Sharing Economy si aprono diverse opportunità di condivisione, di beni tangibili
e intangibili e di svariati servizi. Oltre alla già citata proposta di Botsman e Rogers, che distinguono in
mercati di redistribuzione, prodotti a noleggio e stili di vita collaborativi, includendo in ciascun
sistema diversi oggetti della condivisione, altri autori hanno cercato di categorizzare le tipologie di beni
condivisi.
Jeremiah Owyang, noto guru del social business e fondatore di Crowd Companies21, nel 2014 ha
presentato il suo Collaborative Economy Honeycomb22, uno strumento a nido d’ape in cui l’economia
collaborativa è organizzata in 6 famiglie (beni, servizi, spazi, trasporti, soldi e alimentazione), 14
sottoclassi (beni su misura, servizi alla persona, area di lavoro, ecc.…) e in decine di esempi di società
(AirBnb, Uber, Shapeways, ecc.). L’approccio di Owyang è una rappresentazione visuale di come
l’economia collaborativa sia in grado di abilitare le persone all’accesso efficiente, alla condivisione e
alla crescita di risorse all’interno di un gruppo comune. L’autore sta lavorando ad una versione evoluta
del modello in cui includere salute, utilities, istruzione.
Agyeman, Mclaren & Schaefer-Borrego (2013) nel documento “Briefing on Sharing Cities” propongono
uno Sharing Spectrum che divide le opzioni di condivisione dagli asset più tangibili a quelli più
intangibili e ulteriormente in 5 categorie: 1. Materiali (più tangibili), integra concetti come riciclo e
recupero (carta, vetro…); 2. Prodotto, fa riferimento ai mercati di Redistribuzione (mercatini delle pulci,
banchi di beneficienza…); 3. Servizio, rimanda essenzialmente ai Product Service System e quindi ai
prodotti a noleggio (Zipcar, Netflix…); 4. Benessere, si lega al concetto di Stili di Vita Collaborativi,
come ad esempio i viaggi peer-to-peer (AirBnb); 5. Efficienza, (meno tangibile), riguarda i beni comuni,
da Internet alle politiche partecipative.
Infine, Lamberton e Rose (2012) propongono una tipologia di condivisione che distingue sulla base di
due variabili, la rivalità e l’esclusività. Nel primo caso il consumo di un bene da parte di una persona
esclude gli altri dal consumo dello stesso bene, nel secondo l’uso del bene è limitato ad un particolare
gruppo (Agyeman et al. 2013). Solo per fare un esempio: il bikesharing ricade nel terzo quadrante
avendo una bassa esclusività (basso costo di partecipazione) ma un alta rivalità in quanto l’accesso
Le piattafor e di ro dfu di g so o state appate el la oro di Castraro D. e Pais I. A alisi delle piattafor e
italia e di Cro dfu di g , ICN, aggio
.
21
http://crowdcompanies.com/ Cro d Co pa ies è u a piattafor a he ha l o ietti o di Bring Empowered People &
Resilient Brands together to collaborate for Shared Value .
22
L Ho e o
Fra e ork è reperi ile all i dirizzo: http://www.web-strategist.com/blog/2014/05/05/frameworkcollaborative-economy-honeycomb-osfest14/
20
11
alla bici condivisa da parte di un utente dipende anche dalle condizioni in cui il precedente utilizzatore
ha lasciato la bici.
Bassa rivalità
Alta rivalità
Bassa esclusività
Quadrante 1
Alta esclusività
Quadrante 2
Beni pubblici (parchi pubblici,
software open source…)
Beni di club (country
comunità esclusive…)
Quadrante 3
Quadrante 4
Noleggio e riuso (car sharing,
freecycle…)
“Commerciale chiuso” (frequent
flyer mile sharing schemes…)
clubs,
SOLO BENEFICI?
Questo nuovo modello di servizio, capace di estrarre valore da ciò che abbiamo e di attivare, attraverso
la tecnologia e la forza delle community, dei nuovi processi economici, più solidali e partecipativi e
anche meno impattanti sull’ambiente, pare che non sia esente da critiche e da dubbi.
Un primo dubbio riguarda la questione normativa. Mancano ad oggi delle direttive chiare sulla
tassazione, così come assicurazioni adeguate a forme nuove di uso condiviso di beni e manca una
regolamentazione sullo scambio diretto di servizi e prodotti tra privati (cosa è legale e cosa no). Le
vecchie regolamentazioni spesso male si adattano a soluzioni e servizi nuovi, e il rischio è di limitare lo
sviluppo di sistemi innovativi ed utili. È necessario intervenire con delle regolamentazioni che non
soffochino per dare spazio alle sperimentazioni che si stanno diffondendo. Il tema della seconda
edizione di Sharitaly è stato appunto “Regolare senza soffocare. Politica e istituzioni per una via italiana
alla Sharing Economy” e in generale il dibattito è acceso perché, spesso, i nuovi servizi operano in
zone grigie dal punto di vista normativo e fiscale e aumenta la preoccupazione per la sicurezza dei
cittadini e per il rischio di evasione. April Rinne crede che Governi e servizi collaborativi debbano
lavorare assieme per formulare una normativa appropriata, non troppo restrittiva per non soffocare
l’innovazione ma nemmeno così “de-regolamentata” da scoraggiare gli investimenti nel settore.
Un’altra critica riguarda la tendenza ad attivare processi di gentrification nelle città, ad opera in special
modo di AirBnb. Se aumenta il rendimento di un immobile grazie agli affitti a breve termine di AirBnb ne
aumenta anche il valore. Questo può determinare un aumento generale dei prezzi del mercato
immobiliare, accelerando il processo di gentrification. Un altro esempio è il quartiere Shoreditch di
Londra, nato come hub per l’innovazione tecnologica si è trasformato in un prolungamento del
complesso finanziario londinese dominato da Google, Cisco, McKinsey e Intel. Gli artisti, i designer e gli
startupper che avevano avviato il processo di rigenerazione del quartiere sono stati “sfollati” per
l’innescarsi di un forte processo di gentrificazione commerciale23.
Inoltre, da un punto di vista fenomenologico, ma non solo, come sottolinea Giorgios Kallis24, chiamare
Sharing Economy attività cha hanno solo apparentemente la condivisione come tratto comune è un
grosso errore. Si tratta di realtà che sono più che altro rental economies, economie basate sul noleggio
di beni e servizi attraverso piattaforme tecnologiche proprietarie e commerciali, lontane dall’originario
significato di condivisione. AirBnb ne è un chiaro esempio, una vera e proprio società capitalista,
valutata 10 miliardi di dollari e con un valore di crescita stimato intorno al miliardo all’anno. Gran parte
delle sue transazioni sono puro noleggio basato su denaro. Qualcosa di molto diverso rispetto alle
banche del tempo, ai giardini urbani collettivi e agli scambi tra pari privi di intermediazione monetaria e
profitto. La questione del profitto è un punto su cui molti hanno discusso ritenendo che sharing debbano
23
http://time.com/author/julia-agyeman-and-duncan-mclaren/
Giorgos Kallis è Research Professor all Istituto di “ ie ze e Te i he A ie tali dell U i ersità Auto o a di
Barcellona, http://www.thepressproject.net/article/68073/AirBnb-is-a-rental-economy-not-a-sharing-economy
24
12
essere considerate solo quelle realtà che appunto non prevedono un passaggio monetario, né
intermediazione di alcun tipo. Inoltre, Kallis aggiunge che società come AirBnb dovrebbero essere
regolate e tassate, trattandosi di affitto, e visto che, di fatto, operano esattamente come venture
capitalist e non sono affatto privi di intermediazione. “Una cosa è ospitare qualcuno a casa tua con la
prospettiva un giorno di essere a tua volta ospitato, come nel caso di Couchsurfing.org, o scambiare la
propria casa come in HomeExchange (in entrambi i casi senza la mediazione di denaro), un altro
affittare o pagare per affittare”. E di fatto il tema della sua regolamentazione è sull’agenda di tutte le
principali città americane ed europee. Trebor Scholz25, autore del libro “Digital Labor: the Internet as
Playground and Factory”, afferma nel suo blog che “c’è una differenza tra le pratiche non orientate al
mercato come Craiglist e Fairnopoly da un lato e imprese come Uber e AirBnb dall’altro, che generano
profitti dalle intermediazioni peer-to-peer”. Invita a non confondere progetti di reale condivisione con
altri che invece “sfruttano i lavoratori per estrarre profitti”. Lo stesso Bauwens sottolinea la differenza tra
forme di sharing estrattive e sfruttatrici, da lui definite “netarchical capitalism” e forme cooperative in cui
le tecnologie sono al servizio di comunità locali resilienti. Spesso l’efficienza dei servizi di sharing e i
benefici che portano con sé fanno perdere di vista la differenza che esiste tra diverse forme di
economia collaborativa.
Anche il tema dello sfruttamento del lavoro è un punto critico. Come sottolinea un articolo del New York
Times26, i lavoratori nella Sharing Economy “trovano sia la libertà che l’incertezza”, perché se è vero
che ciascuno può mettere a disposizione il proprio tempo, competenze e proprietà, in realtà, nell’essere
piccoli imprenditori di se stessi per le nuove piattaforme rampanti di Sharing Economy, il rischio è di
non avere potere di controllo se dall’alto vengono cambiate tariffe e procedure. È nuovamente il caso di
Uber e AirBnb che, come sottolinea Bonini27 nel suo articolo “C’è Sharing e Sharing”, “sono al momento
un paradiso per viaggiatori e cercatori di passaggi e un inferno per chi è costretto ad affittare se stesso
e tutto quello che ha senza alcun diritto né garanzia. È il sogno realizzato del neoliberismo, finalmente
capace di esternalizzare tutti i rischi d’impresa sul corpo dell’individuo, senza alcun dovere di
compensazione.” Detto ciò, questa parte della Sharing Economy appare perfettamente in linea con lo
sviluppo economico neoliberale: alimenta un mercato del lavoro precario e non protetto in cui gli schemi
di accesso privilegiato per alcuni e di deprivazione per altri continuano a replicarsi. Illuminanti le
dichiarazioni raccolte da alcuni autisti di Uber, costretti a dirsi felici della propria condizione lavorativa
coi clienti, ma in realtà profondamente affranti per la precarietà in cui si trovano, una situazione in cui la
piattaforma trattiene il 20% dei guadagni, abbassa i prezzi quando crede e può “disattivare” (ossia
licenziare) i lavoratori quando vuole28. Altre imprese cercano di ricavare profitti dal lavoro non
qualificato dei propri affiliati/partener/microimprenditori, come usano chiamarli, e Tilman Baumgärte29
parla della diffusione di un’“economia ombra” che si allontana sempre di più dallo scopo originario della
Sharing Economy. Il fenomeno è particolarmente evidente negli Stati Uniti dove “si sta affermando un
settore in cui le aziende guadagnano grazie alle paghe basse dei propri lavoratori, ipersfruttati e in più
costretti a farsi carico del rischio d’impresa. Tra l’altro, dovendo sgobbare ognuno per conto proprio per
tirar su qualche soldo, questi lavoratori non hanno la possibilità di organizzarsi e lottare insieme contro
queste ingiustizie”30. L’autore parla anche di tendenza alla mercificazione dei rapporti: le persone sono
Tre or “ holz è professore asso iate di Media e Cultura presso l Euge e La g College, The Ne “ hool for Li eral
Arts, New York, http://collectivate.net/journalisms/2014/5/19/the-politics-of-the-sharing-economy.html
26
http://www.nytimes.com/2014/08/17/technology/in-the-sharing-economy-workers-find-both-freedom-anduncertainty.html?_r=1; http://quaderni.sanprecario.info/2014/10/contro-lo-sharing-di-avi-asher-schapiro/
27
Tiziano Bonini è ri er atore i
edia studies all U i ersità Iul di Mila o.
28
“i
eda i
erito l i teressa te arti olo di A i-Asher Schapiro
Co tro lo “hari g ,
http://quaderni.sanprecario.info/2014/10/contro-lo-sharing-di-avi-asher-schapiro/
29
Scrittore indipendente a Berlino dal 1995 ed editore del quotidiano Berliner Zeitung dove cura dal 1999 una rubrica
dedicata ai nuovi media.
30
http://contropiano.org/articoli/item/28095 Va comunque sottolineato che di recente negli Stati Uniti gli autisti di
Uber si stanno autorganizzando in similsindacati per avanzare congiuntamente le proprie rivendicazioni, pur essendo
di fatto i o orre za l u o o l altro.
25
13
incoraggiate a considerare la propria vita come un capitale e a sperimentarsi piccoli imprenditori, dando
valore solo a ciò da cui si può trarre profitto, relazioni interpersonali incluse. Il risultato è l’esatto
contrario dell’altruismo originario della condivisione e dello scambio. Meno valore alle relazioni, meno
valore agli ideali: è il caso di Couchsurfing.org, nato dall’iniziativa volontaria di alcuni programmatori
che curavano gratuitamente il sito, ha avuto una grossa sovvenzione dal fondatore di eBay, Pierre M.
Omidyar, che è così riuscito a trasformare un hobby in un’impresa a scopo di lucro e degli ideali in puri
utili. Infine, Baumgärte sottolinea che è solo chi possiede (beni, competenze, ecc.) ad avere la
possibilità di guadagnare qualcosa e più si possiedono beni di valore o di lusso, come appartamenti
chic in città attraenti, più sarà alta la probabilità di avere un ritorno economico importante e sicuro. Il
risultato è, da un lato la nascita di una nuova classe di persone ricche che trasformano i propri vantaggi
economici in ulteriore fonte di guadagno, e dall’altro un’esasperazione totale della figura del self made
man e del neoliberalismo che porta alla nascita di un esercito di nuovi precari con alte responsabilità e
nessuna forma di protezione.
Secondo il sociologo bielorusso Evgeny Morozov la Sharing Economy è una forma di “liberismo sotto
steroidi”, che si appropria del linguaggio della solidarietà e della condivisione nascondendo in realtà le
stesse logiche dei mercati neoliberisti: “si dà ai fruitori dell’economia della condivisione l’esaltante
sensazione di una giovinezza protratta, emancipata dalle solite trappole dell’esistenza borghese: non
c’è bisogno di stabilirsi in un posto, possedere una casa, comprare una macchina, accumulare
ingombranti elettrodomestici. E chi ha la fortuna di possedere qualcosa, può guadagnare qualche soldo
affittandola! Allo stesso tempo, scomparirebbero le inefficienze del vecchio sistema”. Morozov ritiene
che senza la crisi economica tutto l’impianto della Sharing Economy non avrebbe funzionato, invece la
crisi c’è e dietro alla promessa di un sistema di scambio economico alternativo, più democratico e
solidale, si nasconde un aumento crescente di disparità economiche che i consumatori anestetizzati
non vedono. Il problema che intravede è l’azione sulle conseguenze della crisi senza un ragionamento
a monte per affrontare le cause che l’hanno determinata.
CONCLUDENDO…
È vero: grazie alla Sharing Economy le risorse vengono sfruttate al massimo del loro potenziale, quindi
risultano più produttive ed essendoci un’ampia offerta i prezzi sono più bassi; alcuni servizi legati alla
mobilità consentono di ridurre il traffico e quindi l’impatto ambientale; altri, stimolando le relazioni,
hanno un impatto sociale forte e rafforzano il senso di comunità; le occasioni imprenditoriali si aprono
per chiunque e nascono nuove start-up, senza contare che le imprese tradizionali possono cogliere le
opportunità veicolate dalla Sharing Economy rinnovandosi e migliorando la propria immagine; le risorse
sono disponibili in modo immediato, risparmiando in tempo e denaro, e tutti vi possono accedere in
modo personalizzato e personalizzabile; chiunque può trovare fonti di risparmio e di guadagno.
Ma nonostante gli enormi benefici e le molte opportunità che la Sharing Economy apre, è importante
tenere in considerazione anche gli aspetti critici appena visti. Perché nell’ampio contenitore della
Sharing Economy, di cui si fatica a trovare una definizione unica e omologante, proprio perché così
varia e in corso, si trovano forme diverse di espressione che è bene riconoscere. Siamo difronte ad un
continuum di esperienze dalle molte sfaccettature e dai molti gradi sharing per così dire. Da un lato
proliferano esperienze di reale scambio e condivisione, alimentate dal desiderio delle persone di
trovare soluzioni collettive, insieme anche alle istituzioni che da sole oggi non possono farcela, per
fronteggiare un periodo economico difficile in modo resiliente e comunitario, partecipativo e propositivo.
Ci sono realtà che offrono soluzioni attente più al bene comune che al profitto, e puntano a vivere la
transizione nel proprio interesse di cittadinanza, con il coinvolgimento di ciascuno, il dialogo e la
partecipazione. Dall’altro crescono le grandi venture capitalist che sfruttano la bandiera della
condivisione per trarre profitto dal lavoro delle persone, alimentando così un’onda di precariato. Nel
mezzo tantissime realtà: dagli open source in cui la condivisione di dati in modo smart consente di
apportare significativi miglioramenti nella qualità della vita delle persone agli orti urbani, passando per
14
le banche del tempo, le Social Street, le piattaforme di condivisione di conoscenze, o di vestiti o di
oggetti, il crowdfunding e il crowdsourcing, il co-housing e il ride-sharing…insomma esperienze diverse
che vanno a coprire tutto lo spettro di necessità delle persone e ogni settore merceologico. Esperienze
che, grazie alle community che sviluppano, creano senso di comunità e appartenenza, aggregando le
persone e avvicinandole nel loro desiderio di socialità, consentono di risparmiare guadagnando e di
vivere l’ambiente in modo più attento, sensibile e sostenibile.
E anche se, secondo Marta Mainieri, non esiste una sharing “buona” e una “cattiva”, in quanto “il
profitto non può essere demonizzato, un modello di business è necessario, altrimenti queste start up
non vanno avanti”, è importante non confondere la Sharing Economy trasformazionale da quella
transazionale. La distinzione è suggerita da Neal Gorenglo, fondatore di Shareable31, in una recente
intervista durante la sua partecipazione alla prima Sharing School italiana32. Utilizzando la metafora di
Matrix della pillola blu e rossa, Gorenflo parla di due possibili scelte: l’accettazione passiva di una realtà
già confezionata, la Matrix, o la scelta di una realtà frutto di una battaglia collettiva; la convenienza della
Sharing Economy transazionale, pillola blu, versus il duro lavoro trasformativo, pillola rossa. La prima
va a rafforzare le sperequazioni esistenti allineandosi con il mercato neoliberista e i suoi processi. Le
imprese di questo tipo sono vere e proprie commodity gestite da pochi con l’obiettivo di ottenere il
massimo rendimento possibile, in cui gli utenti sono solo un mezzo per vendere l’impresa e l’accesso al
servizio offerto è possibile con il solo click di un tasto. La seconda vede invece la costruzione di legami
sociali solidi e duraturi basati sul supporto reciproco. Nelle imprese la gestione delle risorse o
dell’impresa stessa è collettiva e comunitaria e l’obiettivo è produrre benefici per la collettività intera. A
differenza del caso precedente gli utenti sono la reason why dell’azienda che esiste per rispondere ai
loro bisogni. Nelle aziende trasformative i cittadini sono chiamati a lavorare insieme in modo
cooperativistico, non è così semplice e immediato come il click di un tasto ma consente di creare
effettivamente una realtà migliore.
È quindi bene saper riconoscere di quale forma di condivisione si parla e scegliere quale delle strade
percorrere. I casi di eccellenza stanno crescendo, anche in Italia, con esperienze virtuose che vanno
nella direzione della pillola rossa, con interessanti sperimentazioni che coinvolgono le amministrazioni
garantendo un processo di sviluppo meno incline alla strada della pillola blu. Staremo a vedere.
Shareable è il pri o agazi e dedi ato i tera e te all e o o ia olla orati a.
http://www.collaboriamo.org/la-sharing-economy-transazionale-e-trasformazionale-intervista-con-neal-gorenflo-alritorno-dalla-sharing-school/
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