L’Église dans la mondialisation
L’apport des Communautés nouvelles
Colloque de Rome
Sous la responsabilité
d’Hervé CATTA
Avec la participation de :
Mgr Stanislaw RYLKO, Mgr Olivier DE BERRANGER,
Mgr André VINGT-TROIS, Marc TIMMERMANS,
Andrea RICCARDI, Denis BIJU-DUVAL,
Giorgio FELICIANI, Libero GEROSA,
Dominique VERMERSCH
Éditions de l’Emmanuel
L’inserimento ecclesiale delle Nuove Comunità:
un contributo in più o carismi nuovi per situazioni nuove?
Non voglio fare un trattato teologico, ma condividere con voi qualche riflessione che
l’argomento proposto mi ha suggerito.
Con l’incompetenza che facilita il compito a chi non è uno storico, il mio primo
pensiero è stato quello di ricordare la fondazione degli Ordini mendicanti nel Medio Evo. Ma
potrei anche rifarmi ai movimenti sorti nel periodo chiamato della Riforma cattolica, dopo il
Concilio di Trento. In ambedue i casi, siamo davanti a periodi caratterizzati da un sentimento
di crisi, di affievolimento della fede, di fronte a cui si è manifestata una chiamata più decisa
ad una vita conforme alla perfezione evangelica. La congiunzione di un sentimento di crisi
con l’assopimento della fede, diffuso nel corpo ecclesiale, e il contemporaneo sorgere di una
chiamata alla perfezione evangelica mi hanno fatto pensare che non si trattava probabilmente
di periodi davvero sterili, di situazioni assolutamente vuote. Quei periodi o situazioni in cui
sembrava non ci fosse niente, potevano essere proprio i momenti in cui i progetti si
formavano. E la concordanza tra la valutazione di un certo torpore o sterilità e il sorgere di
progetti nuovi mi è sembrata interessante per cercare di comprendere che cosa stiamo vivendo
oggi.
I carismi non sgorgano mai dal niente. È un’illusione credere che esista una specie di
sorgente di carismi senza radici e senza alcun legame con la vita della Chiesa, come se lo
Spirito Santo funzionasse con un doppio sistema: da una parte come animatore della vita
ecclesiale e dall’altra suscitando dei movimenti quasi «accanto» alla Chiesa. Se ci mettiamo
nella logica della fede cattolica, non vi è che un solo Spirito, e non due. C’è una sola meta,
non due. E se c’è una diversità di mezzi e di strade, non dobbiamo avere l’impressione di
essere davanti ad un dualismo istituzionale. O si è nello Spirito di Cristo, come la Chiesa lo
riceve e cerca di viverne, o si è in un altro sistema; ma non si può appellarsi allo Spirito come
si manifesta nella trama ecclesiale del Corpo di Cristo e nello stesso tempo considerarsi
«accanto». La giustapposizione di cui ho parlato poco fa (una diagnosi di crisi insieme al
sorgere di progetti nuovi) ci aiuta a comprendere che la stessa realtà che fa diventare insipido
l’ideale cristiano nel corpo ecclesiale è anche l’origine e la fonte di una provocazione interna
per arrivare a modi nuovi di mettere in pratica del Vangelo. E questo è vero in particolare
durante i grandi periodi di grande riforma spirituale.
Il Concilio Vaticano II è stato una grande riforma spirituale, e ha suscitato un
rinnovamento della vita cristiana. Dato che oggi è la festa di San Vincenzo de Paoli,
analogamente si potrebbe dire che, in seguito al Concilio di Trento, un certo numero di
uomini e di donne sono stati particolarmente attenti all’appello del Vangelo nell’ambiente
umano e sociale in cui si trovavano. Essi originarono grandi fondazioni sorte semplicemente
dalla potenza della fede, dalla vitalità dello Spirito, dalla forza inventiva della carità di fronte
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a situazioni nuove o anche antiche ma riscoperte con occhi nuovi. Mi sembra significativo il
fatto che il Concilio Vaticano II, assumendo delle correnti che avevano avuto delle premesse
durante i secoli e dando loro una dimensione nuova, abbia avviato un vasto movimento di
riforma spirituale nella Chiesa e che contemporaneamente siano apparsi dei nuovi carismi e
dei nuovi movimenti.
In seguito vorrei riflettere sui carismi nella missione della Chiesa. Sappiamo dalle
Sacre Scritture, e in particolare dalla Prima Lettera ai Corinti, che non ci mancano i mezzi per
poter discernere i carismi. Tutti voi avete senz’altro presenti i capitoli 12 e 13 della Prima
Lettera ai Corinti: il discernimento dei carismi si esercita primariamente con la carità e la
comunione. Un modo per verificare l’autenticità cristiana e la possibile fecondità di un nuovo
carisma, è osservare come e fino a che punto contribuisce a far crescere la carità tra i membri
della Chiesa e la carità della Chiesa nei confronti del mondo. Ugualmente, il criterio della
comunione deve aiutare a discernere l’autenticità dei carismi. Ma questo discernimento,
basato sulla carità e sulla comunione, deve essere articolato, messo in sintonia con il
discernimento della crescita della missione della Chiesa. Non si tratta semplicemente di dire:
«Se noi siamo animati dallo Spirito Santo, faremo una bella comunità, e tutti diranno: come
sono fortunati !». Si tratta di vedere come la crescita della comunione nella Chiesa, l’apertura
della carità cristiana all’universalità dell’umanità, contribuiscano al compimento della
missione della Chiesa, aprendo la comunità dei cristiani a nuovi e diversi campi di esperienza.
Bisogna infatti, attraverso i nuovi carismi, non solo spingere ad un rinnovamento della vita
cristiana all’interno delle comunità, ma anche provocare l’apertura di nuove vie di
evangelizzazione.
Grazie al dinamismo della carità, l’apertura del suo cuore al servizio dei poveri, la
convinzione della necessità di una formazione solida per i sacerdoti, san Vincenzo de Paoli ha
aperto delle nuove strade di evangelizzazione, che si concretizzarono nel servizio dei più
disgraziati, estremamente numerosi a quell’epoca, –ma lo sono ancora oggi–, nell’annuncio
della Buona Novella in tutto il mondo, nella qualità della vita sacerdotale. Questo vuol dire
che i carismi devono anche essere interpretati in funzione del loro effetto, dei loro frutti nella
missione della Chiesa.
Ora, la missione della Chiesa ha delle caratteristiche precise. Non si tratta
semplicemente di un movimento indefinito, ma è fondamentalmente una missione apostolica,
cioè è definita e garantita dal ministero apostolico. Non sono dei gruppi particolari che si
instaurano attori della missione della Chiesa, ma è la missione apostolica che costituisce la
missione della Chiesa: così come è il dono dello Spirito fatto a Pentecoste a costituire gli
apostoli, così come Cristo stesso è inviato dal Padre per compiere la sua missione di
Salvatore. Siamo dentro un sistema missionario che si realizza attraverso persone inviate in
missione. Questo significa che tra un progetto missionario o d’azione di qualunque tipo e il
ministero apostolico vi è un legame vitale.
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Mi sembra illusorio cercare come possano articolarsi ministero apostolico e missione,
come se si trattasse di due realtà autonome che devono trovare la strada per incontrarsi. Non
devono trovarla: semplicemente sono una stessa ed unica realtà. Non esiste un ministero
apostolico che non sia costituito in vista della missione, e non esiste missione, nel senso
cattolico del termine, che non sia l’espressione del dinamismo del ministero apostolico.
Concretamente questo vuol dire che, nel normale funzionamento, il legame col
vescovo non è semplicemente un legame con un’autorità amministrativa che deve dare
l’autorizzazione per stabilirsi in un posto o in un altro, ma è un legame che deve autentificare
o suscitare le iniziative. E dato che anche suscitare iniziative fa parte del ministero apostolico,
e non solo verificarne l’autenticità, il vescovo non deve contentarsi di essere un esperto a cui
si sottomettono dei progetti già preparati, chiedendogli di non analizzarli troppo, fidandosi di
chi glieli presenta dicendo: «Monsignore, senza di lei noi non possiamo fare niente. Quindi, ci
dia la sua benedizione !». Non è proprio così che funziona il ministero apostolico. Esso non è
solo una verificazione globale e generosa, o peggio passiva; è anche un ministero d’iniziativa,
cioè di ‘domanda’. So bene che nelle condizioni pratiche non è sempre facile esprimere
questa ‘domanda’ né coglierla, e che qualche volta si ha piuttosto l’impressione che i vescovi
siano unicamente una «autorità di riferimento», come si dice.
Quando si parla troppo delle autorità di riferimento, questo vuol dire che non lo sono!
Quando leggo di progetti che sono «in riferimento ai valori evangelici», mi trovo come in una
nebbia. Ho come l’impressione di essere di fronte a persone che si rifugiano in un discorso
astratto fatto apposta per evitare le questioni concrete. Voglio dire che la verificazione
dell’autenticità non è semplicemente una sorta di benedizione esterna, generale e indefinita,
ma è un vero lavoro, cioè un dialogo, uno scambio, dei suggerimenti, delle domande, un
modo di mettersi in causa.
Quando io dico «il vescovo», non si tratta naturalmente della sola persona del
vescovo, perché sarebbe davvero troppo facile, tenuto conto della ricca diversità del nostro
corpo episcopale, di trovare qualche vescovo compiacente disposto a dare la sua benedizione.
Ma bisogna che questi vescovi pronti a benedire siano effettivamente i pastori del corpo che
comunica a questa benedizione. Non si tratta semplicemente di ottenere, come la cosa più
normale del mondo, l’approvazione dei vescovi, ma bisogna anche che questa approvazione
sia incarnata in una relazione positiva col corpo ecclesiale. Quando dico che deve esserci il
riferimento al vescovo e l’esame con il vescovo del contenuto delle iniziative, voglio dire
anche che bisogna che questa relazione di autentificazione, d’integrazione ecclesiale, si
compia con la struttura gerarchica della Chiesa, che non si riduce alla persona del vescovo. Il
vescovo è il pastore ordinario di una chiesa particolare, ma il suo ministero si diversifica nel
presbiterio; non è un essere solitario che decide solo e contrariamente al corpo di cui è il
pastore. Il suo è un ministero di comunione, non un ministero di divisione. Dunque deve
sforzarsi di sottomettere anche il suo discernimento al criterio della carità e della comunione
perché possa far progredire e non regredire la comunione del corpo.
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Dunque il vescovo deve far avanzare l’intero corpo, e aiutarlo in modo che gli apporti
nuovi, le esperienze originali e particolari trovino il loro posto nella comunione e non metterle
in una situazione tale che restino ai margini. Non è mai difficile per un vescovo di trovare, in
una diocesi abbastanza estesa, una zona di campagna, un paesino isolato ai confini della
diocesi, dove può insediare chiunque. Nessuno se ne preoccuperà! E così queste nuove
esperienze potranno prosperare, ma tranquillamente, senza far del male a nessuno, soprattutto
non andranno a vendemmiare nelle vigne degli altri o a raccogliere nei campi altrui. Se
restano nel loro piccolo giro, tutti saranno contenti; si potranno anche inviare delle persone a
visitarli come dei turisti: «Ci sono delle cose curiose da noi: andate a vedere quella comunità
che si trova in quel certo posto.» E la gente dirà: «Sì, è proprio una cosa originale.
Benissimo !». E dopo ripartono, e tutto finisce lì. Ma questo non fa progredire l’insieme del
corpo.
Ciò che veramente fa progredire tutto l’insieme del corpo, e che non solo siano
promosse delle iniziative, ma che queste abbiano un effetto di rinnovamento per l’insieme del
tessuto ecclesiale. Questo passaggio da una iniziativa imprevedibile, da un nuovo carisma, al
progresso generale del corpo, suppone una forte mediazione, un forte lavoro, vorrei dire un
lavoro di «naturalizzazione». In un certo modo, bisogna aiutare il corpo nel suo insieme ad
accettare che ci siano dei nuovi modi di fare. È molto difficile per un corpo ecclesiale che
invecchia, e oltretutto reso insicuro da questo invecchiamento, accettare positivamente dei
nuovi modi di fare che rischiano di destabilizzare la sua pratica. È però importantissimo per la
missione e per la riuscita stessa dei progetti che si mettono in moto che questi non vengano
considerati come completamente ai margini, che servono soltanto allo spirito esotico del
vescovo. Ogni vescovo ha diritto ad avere un qualche aspetto un po’ esotico, ma questo non è
un procedimento di governo: non si governa contrapponendo delle esperienze esotiche; si
governa facendo progredire un intero corpo. Allora, di tanto in tanto, un nuovo contributo,
una certa dose di sorpresa, un aspetto destabilizzante, possono aiutare a progredire, a
condizione che siano assimilati. Se non è digerito, resta emarginato, e in un certo modo viene
rinnegato. Si dice: «Oh ! Sì, voi fate così, ma perché siete voi. Non è per la Chiesa, è per voi.
Per noi, la Chiesa, è come abbiamo sempre fatto».
Questo vuol dire che nel ministero episcopale vi è l’obiettivo di sviluppare la
comunione tra tutti gli attori della Chiesa: non dimenticare e mettere ai margini da un lato i
vecchi servitori che hanno sudato sette camicie per decine di anni per far esistere la Chiesa e,
inversamente, vegliare che quelli che apportano qualcosa di nuovo, ed hanno delle istanze più
adatte ai tempi in cui viviamo, e comunque motivate da una vocazione che hanno sentito, non
siano emarginati come delle bestie rare da mettere in un angolo.
Se cerco di interpretare tutto ciò in pratica -cosa non tanto facile-, la prima cosa che
vorrei dire è che mi sforzo di non soffocare i doni dello Spirito -consiglio importantissimo
dato da san Paolo-, ma di discernere i migliori.
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Ammetto che questa formula, che non è propriamente scritturistica, anche se la si può
ritrovare a seconda della traduzione utilizzata, è molto soggettiva. Ma quelli tra di voi che
hanno una certa esperienza degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio sanno che non si tratta
affatto di una novità. Infatti, quando si tratta di discernere tra la consolazione e la desolazione,
sant’Ignazio dice: «Se siete nella gioia quando va di male in peggio, non siete guidati dallo
Spirito di Dio; ma se siete nella gioia quando va di meglio in meglio, questo vuol dire che
siete guidati dallo Spirito di Dio». Ma quando si medita questo, ci si chiede: che cos’è andare
di male in peggio, o di meglio in meglio? C’è comunque un criterio di valutazione che resta
relativamente soggettivo. Non c’è nessun strumento di misura, se non in rapporto al peccato.
Supponiamo però di essere arrivati a sfuggire almeno in parte ai peccati più gravi, andare di
meglio in meglio, cosa vuol dire? Oppure quando dice: «Gli Esercizi sono fatti per chi vuol
fare di più»: «di più» è relativo. Ebbene, io dico: «Discernete i migliori». È relativo, è vero. «I
migliori» non è un valore assoluto; è un valore relativo, soggetto ad una valutazione, a un
giudizio particolare che mi fa dire: ecco, mi pare di essere davanti ad una proposizione, ad
una iniziativa che mi sembra meglio adatta per far crescere la Chiesa. E non arrossisco, non
solo del ministero che ho ricevuto, ma della pretesa di credere che in questo ministero il dono
dello Spirito mi è stato dato per esercitare questo discernimento e, alla fine, essere quello che
deve valutare cosa sia meglio per la sua Chiesa. Non mi vergogno di dire questo.
E come cerco di esercitare questo giudizio? Bene, secondo dei criteri assai elementari
che tutti conosciamo. Il primo è evidentemente di supporre che la realtà da giudicare non
persegua un fine cattivo. In questo caso il discernimento è molto semplice: questo non si può
fare! Ma quando siamo nell’ambito delle cose buone, allora bisogna scegliere, perché non si
può fare tutto. Bisogna scegliere, e scegliere quello che è meglio. Nel Vangelo, Cristo ci dice
che si giudica l’albero dai suoi frutti, cioè che ci vuole del tempo. Non posso dare un giudizio
astratto definitivo a priori su qualcosa di cui non conosco che il progetto vago. Potrò dare un
giudizio progressivo che si confermerà nel tempo, in funzione dei frutti dell’azione, in
funzione di cosa produrrà quello che è stato deciso. Penso, ad esempio, a delle fondazioni: si
può dire che si sta creando qualcosa da qualche parte. Per esempio -dato che conosco un po’
la diocesi di Tour-, conosco almeno tre fondazioni, di cui posso parlare liberamente perché
sono assolutamente innocente: è stato fatto tutto prima del mio arrivo. Arrivando, ho ricevuto
il pacchetto preparato dai miei predecessori, tra cui tre fondazioni abbastanza originali nella
diocesi di Tour. C’è un centro di formazione per i giovani, confidato ai Fratelli della
Congrégation Saint-Jean; la fondazione dell’Emmanuel a L’Ile-Bouchard con il centro
Marigny e una fondazione della Comunità Saint Martin che è un gruppo di preti chiamati,
ordinati e raggruppati in una comunità.
In questi tre casi, ci sono state delle condizioni differenti al momento della
fondazione. Ma quando arrivo io, quello che mi interessa non è sapere se hanno la tessera del
partito, se sono vaccinati secondo le regole, se si sono presi gli impegni che dovevano
prendere, ecc. Io guardo, e dico: «Che cosa fanno e questo che frutti dà e quanto sono pronti a
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far crescere il corpo della Chiesa?» Uno dei primi vicariati dove sono andato nella diocesi di
Tour, era proprio quello di L’Ile-Bouchard. Mi sono trovato a tavola con una decina di preti
del vicariato. All’epoca non c’era nessuno della comunità dell’Emmanuel, salvo il parroco,
che era postulante alla comunità dell’Emmanuel da un certo tempo e che attendeva
avidamente che il nuovo arcivescovo finalmente gli dicesse: «Sì, puoi andare!» Si può dire
cioè che si era nel cuore di un progetto dell’Emmanuel ma, stranamente, non c’era nessuno
dell’Emmanuel. Mi trovavo con preti di tutt’altro genere, e abbiamo parlato. Mi sono accorto
che il progetto dell’Emmanuel, che riguardava L’Ile-Bouchard, aveva un certo ruolo di
trascinamento per tutto l’insieme del vicariato. Non soltanto rendeva dei servizi pratici, ma la
sua disponibilità, e forse il fatto di avere delle energie più nuove, più giovani, faceva sì che
avesse degli effetti di associazioni con altri. Come per caso, il mese seguente, la
Confirmazione dei giovani fu fatta a L’Ile-Bouchard; questi giovani erano quelli di tutto il
vicariato. Poi è arrivato un prete dell’Emmanuel nominato lì, e gli è stata affidata una
parrocchia vicina. Le persone della parrocchia hanno subito aperto l’ombrello per proteggersi,
dicendosi: «Saremo divorati in un boccone; ci faranno cantare, battere le mani, ecc.» Molto
dolcemente, è stato dato l’avvio a tutto, ed ecco che la cosa funziona. Naturalmente, il parroco
che è a dieci chilometri di lì dice: «Ma insomma, non si rende conto, mette due giovani preti
in quella parrocchia che non ha che cinquemila abitanti; io ne ho diecimila. Non hanno che
venticinque matrimoni; io ce n’ho quarantadue. Non è possibile. È un’ingiustizia flagrante,
ecc.».
Riguardo a questo, per me è evidente che eravamo davanti alla tentazione
dell’utilitarismo, tentazione che non si rivolgeva soltanto sulla Comunità dell’Emmanuel, ma
sull’insieme della diocesi. È evidente che (questo per darvi qualche indicazione concreta che
può aiutarvi a capire) su centoquarantacinque preti in attività, secondo i miei calcoli che non
sono originali, nell’anno 2000 ce ne sarà quaranta con meno di sessant’anni. Dunque ce ne
saranno cento con più di sessant’anni, e probabilmente settanta o ottanta ne avranno più di
settanta. È evidente quindi il motivo della tentazione dell’utilitarismo se, come nella
situazione attuale, si ha la grazia di avere sette nuovi sacerdoti in due anni: bisognerebbe
allora distribuirli un po’ dappertutto così tutti sarebbero contenti. Ma lo sappiamo che questo
non serve a niente. Per resistere alla tentazione, bisogna dire: «No, non sono per voi!» e fare
invece dei piccoli «poli» che non si danno importanza. In un posto ce ne sono due, in un altro
anche... E allora, come in quel caso, si arriva ad avere quattro, cinque punti nella diocesi dove
c’è abbastanza lavoro e sostanza perché vi siano diversi preti. Si fa una piccola équipe che dà
un’immagine diversa, cioè non si distribuiscono le persone secondo i richiami di soccorso che
arrivano da tutte le parti, ma in funzione di alcune priorità di ordine missionario e che sono
inerenti alla qualità del ministero sacerdotale. Questo vuol dire che bisogna resistere, e questo
fa parte della mia responsabilità, per cercare di far progredire da una parte la capacità
missionaria del corpo presbiteriale e dall’altra la comunione al suo interno. È evidente che io
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devo favorire la comunione dei quaranta preti che avranno meno di sessant’anni nell’anno
2000.
Riguardo a ciò, naturalmente ci sono delle tentazioni, è logico. La prima è quella
dell’originalità. È inevitabile, è perfino scabroso, perché cosa c’è di originale? Dire che si
vuole condurre una vita comunitaria? Benissimo: ce ne sono altre. Vogliamo che ci sia una
certa collaborazione, un modo di muoversi articolato tra i vari stati di vita? Benissimo: è il
fine della Chiesa. Che gli stati di vita si arricchiscano reciprocamente, è una questione di
mezzi e di come sono utilizzati. Si vuole sviluppare una intensa vita di preghiera: io spero e
mi auguro che questo serva agli altri, che sia un fattore di trascinamento anche per gli altri.
Quindi, io non vorrei che tutto ciò fosse qualcosa di originale. Non vorrei che si dicesse:
«Nella vostra diocesi, ci sono dei posti dove si deve pregare, ed altri dove se ne può fare a
meno», ma vorrei al contrario sentir dire: «Dato che ci sono dei posti dove si può pregare, si
può pregare dappertutto». Quindi bisogna allenarsi perché questo sia il bene di tutti. Le realtà
che i carismi sviluppano in una comunità non sono fattori perché essa si distingua dal resto
della Chiesa, ma sono ricchezze che la comunità deve dividere con la Chiesa intera. Senza
dubbio la tentazione più forte è quella di possedere la missione, di esserne proprietari. E qui
vi rimando a quello che vi ho detto all’inizio.
C’è un’altra tentazione, molto naturale: «Noi siami i migliori! ». Questo fa un po’
parte del bagaglio culturale cattolico, latente attraverso i secoli. Ha le sue radici molto
lontane, nella tradizione ebraico-cristiana, perché noi siamo stati scelti. Inevitabilmente,
sentirsi eletti spinge a pensare che si ha un po’ meritato di essere stati scelti, anche se Dio ci
dice sempre il contrario. Si dice: «Se ci ha scelto, come minimo non si è sbagliato. Ha fatto
proprio bene a sceglierci; siamo almeno meglio di... Eh sì! se sapesse che donna è quella, non
si fiderebbe, e guarderebbe di più verso di me che sono migliore...» Vi ricordate Gesù a casa
di Simone il Fariseo? Se si ha la sensazione di essere i migliori, è una sensazione da
combattere! San Paolo ci dice che dobbiamo sempre vedere gli altri superiori a noi. E bisogna
combattere col criterio della comunione: cioè avere sempre la preoccupazione di non
distinguerci dagli altri.
Un’ultima domanda: qual’è il punto di riferimento del discernimento, cioè: chi
possiede la visione globale? Chi può dire: «Ecco, da questo punto valuto tutto il resto?» Una
comunità religiosa del tutto rispettabile spiega ciò che fa. Essa desidera essere a disposizione
in senso generale, per servire la diocesi, ecc. «E se vi domandassi questo? » Mi rispondono:
«Ah, no! Questo non fa parte del nostro carisma. «E allora quest’altro? » «Ma lei capisce...
non ne abbiamo il tempo, perché la domenica siamo occupati in altre cose». Per applicare
Mutuae relationes, bisogna che ci si metta d’accordo sul punto di riferimento a partire del
quale si ha il discernimento. Se si dice che questo punto di riferimento è il carisma della
famiglia religiosa, allora io sono solo un cliente che va a chiedere dei servizi a degli
specialisti. Allora, a seconda dei casi, mi dicono: «Possiamo fare quelle che ci chiede»,
oppure «No, non possiamo farlo», e si resta dei buoni amici. Ma in questo caso io non sono
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più il punto di riferimento della missione della Chiesa, ma un utilizzatore in rapporto con
qualcuno staccato da me. Bisogna avere un altro tipo di relazioni. Come ho detto all’inizio, il
punto di riferimento è la missione apostolica: io domando in nome di questa missione
apostolica. Si può discutere se questo è possibile, impossibile, se corrisponde al carisma, se
corrisponde all’intuizione del fondatore... Tutto ciò è legittimo, ma almeno che non si dica a
priori: «No, lei è fuori dal nostro disegno, perché non ha il nostro carisma».
In Europa occidentale si ha una certa immagine della vita e del carisma benedettino:
delle comunità contemplative, monastiche, riunite in un monastero, ecc. Sappiamo bene tutto
questo e non andiamo a chiedere ai benedettini di diventare parroci di tutta la campagna
intorno. Ma se andiamo negli Stati Uniti, si vede che ci sono dei benedettini che sono
benedettini proprio come i benedettini francesi, ma ci si accorge che, in una abbazia, trenta
benedettini sono presenti e settanta assenti. Se si chiede dove sono questi ultimi, vi
rispondono: «Uno è parroco lì, l’altro là». Eppure non sono meno benedettini degli altri. E
allora, cos’è il carisma? Si è tutti della stessa famiglia. Io tendo a pensare che il punto di
riferimento non sia sempre considerato nel modo giusto. Secondo me, il problema è: come la
Missione della Chiesa (con la M e la C maiuscole) può e deve necessariamente sfuggire agli
interessi particolari dei gruppi e delle comunità che compongono la Chiesa? Altrimenti siamo
in un sistema in cui la Chiesa non è che una federazione interconfessionale, per usare
un’immagine anglosassone. Allora, ogni gruppo ha il suo carisma, la sua ispirazione, fonda
un’istituzione che entra in dialogo con le altre, e può farlo bene, positivamente. Ma in questo
caso siamo di fronte ad un sistema intercomunitario. Io preferisco una prospettiva unificatrice
dell’esperienza ecclesiale che non sia un compromesso permanente tra degli interessi
particolari, ma che sia una comunione sacramentale che associa delle imprese, delle iniziative,
dei modi di agire differenti. Ma per definizione, dato che si tratta di una comunione
sacramentale, essa si costituisce sacramentalmente nel ministero apostolico.
Un elemento importante nel discernimento dei carismi è proprio quello di vedere
come i nuovi movimenti e le nuove comunità assumono la chiamata al ministero. Cioè se
queste comunità tendono a un processo di strutturazione ecclesiale in cui i sacerdoti vengono
sostituti con delle persone generose e riempite di Spirito Santo. In altri termini, vedere in che
misura l’articolazione tra la vocazione dei laici, battezzati, cresimati e costituiti come
testimoni di Cristo e il ministero ordinato dei vescovi, sacerdoti e diaconi sia vissuta in un
modo equilibrato.
Il segno di questo equilibrio è che la vitalità di una comunità si manifesta per la sua
capacità a impegnare i suoi membri nel ministero ordinato accettando che si tratti di un vero
ministero ordinato, cioè dentro la struttura gerarchica della Chiesa, con la libertà che questa
ordinazione comporta rispetto ad ogni comunità particolare. In altri termini, l’ordinazione non
avviene in funzione di una comunità particolare. Questo è vero per le comunità come per le
parrocchie. Se vado in una parrocchia e il «capo», il «canonico laico», che rappresenta la
comunità locale, mi dice: «Ma come, monsignore, non ci invia dei preti, quando noi ne
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abbiamo donati tanti alla Chiesa? », io rispondo: «Proprio così. Dato che voi ce li avete
donati, non li avete più. Se li aveste dati perché vi fossero resi, non si tratterebbe di un dono,
ma solo di un prestito». Nel ministero apostolico non ci sono prestiti. Si dà per il ministero
della Chiesa e si prega Dio perché ci sia un ritorno. Ma il ritorno è condizionato dal vescovo,
è inevitabile. È una questione di autenticità del ministero. Sennò, vorrebbe dire
semplicemente che si domanda al vescovo di fare l’imposizione delle mani a dei membri della
nostra comunità, in modo che siano in mezzo a noi gli inviati di Dio. Io credo che dobbiamo
accettare che ci sia questo «transfert», il trasporto di un tipo di presenza in una comunità
tipico dei laici ad un altro, quello del ministero ordinato, che passa per una oggettivazione e
una perdita di possesso.
Cardinale André VINGT-TROIS
Arcivescovo emerito di Parigi
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