ROBERTO REDAELLI*
CORPO, MONDO E TECNICA
UNA RIFLESSIONE A PARTIRE DALL’ANTROPOLOGIA PLESSNERIANA
Abstract: Body, World and Technology. Reflections on Plessner’s Philosophical Anthropology
The extent to which new technologies are changing our lifestyles and our concept of the human being
requires new thinking in order to explain the epochal transformations our world is undergoing. In this
direction, the anthropological reflections of Helmuth Plessner, although they do not constitute a
philosophy of technology, can still be useful today to rethink the relationship between human body,
world, and technology. This paper evaluates the significance of these reflections and intends to highlight,
on the basis of Plessner’s reflections, what can be defined as the artificial nature of the human being.
Keywords: Anthropogenesis,
Philosophy of Technology
Embodiment,
Helmuth
Plessner,
Philosophical
Anthropology,
1. Postumanesimo e nuovo umanesimo di fronte alle sfide della tecnica
Il pensiero di Helmuth Plessner è oggigiorno al centro di una crescente attenzione1, che ne
fa ormai un punto di riferimento stabile entro le coordinate culturali in cui si muove
l’indagine filosofica sull’uomo. La ricchezza del percorso teoretico tracciato dal Filosofo,
l’ampiezza d’orizzonti dischiusa dalla sua antropologia, l’armamentario concettuale da lui
elaborato hanno offerto e offrono tuttora degli utili strumenti per la comprensione di quel
radicale processo di ridefinizione che sta investendo l’uomo nell’epoca presente. La nostra
umanità è difatti oggi, forse ancor più che in passato, oggetto di profonde trasformazioni2
che mettono in discussione le tradizionali categorie filosofiche entro cui è stata finora
collocata. In modo particolare, le sollecitazioni derivanti dalle nuove tecnologie, e
soprattutto dalle biotecnologie, sembrano profilare nuove immagini dell’uomo promosse da
movimenti culturali quali il transumanesimo e il postumanesimo. Tali movimenti
auspicano la formazione di nuovi modelli d’umanità sempre più ibridi e performativi,
votati, in ultima istanza, a liberare il vivente umano dai suoi stessi limiti biologici
attraverso un progressivo processo di artificializzazione3.
In controtendenza rispetto a tali movimenti si sono levati numerosi appelli ad un nuovo
umanesimo4, il quale assume di volta in volta formulazioni differenti pur tuttavia
accumunate da una medesima propensione: esso si fa portavoce di una nozione di umanità
che, seppur radicata in una precisa tradizione culturale, è recentemente divenuta oggetto,
da parte dei suoi stessi sostenitori, di una progressiva operazione di ridefinizione al fine di
renderla più adatta ad affrontare le sfide del presente. Difatti, il richiamo alla nozione di
umanità assume nella nostra epoca una vocazione sempre più etico-giuridico-politica a
cui si legano i concetti di dignità e autonomia, sviluppati non più da una prospettiva
squisitamente individualistica ed eurocentrica, bensì a partire dal confronto serrato con
l’altro uomo e con l’altro dall’uomo, sia esso l’animale, l’ambiente o il robot. In questa
* Università degli Studi di Milano.
Sull’attualità del pensiero plessneriano è dedicato il recente Rasini (2021).
Sulle trasformazioni attuali che investono l’umano si veda, a titolo esemplificativo, Fadini (2021); Di
Martino, Redaelli, Russo (2020).
3 Sull’idea di tecnologizzazione del corpo rimandiamo al classico Haraway (1995) ed a Braidotti (2014).
4 Per una visione d’insieme sul nuovo umanesimo, nelle sue differenti declinazioni, si vedano Davies (2008);
Russo (2015); Nida Rümelin (2021).
1
2
Bollettino Filosofico 38 (2023): 288-295
ISSN 1593 - 7178
E-ISSN 2035 - 2670
DOI 10.6093/1593-7178/10400
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Corpo, mondo e tecnica
direzione si è giunti negli ultimi anni a parlare di un umanesimo relazionale5 che, benché
da una prospettiva opposta rispetto alle riflessioni postumaniste, si trova tuttavia ad
affrontarne gli stessi problemi.
Com’è già chiaro da questi brevi accenni, tra tali problemi occupa un posto di rilievo ciò
che Heidegger rubricò, a suo tempo, sotto il titolo di questione della tecnica e che oggi,
affrancata dall’aspetto destinale6 a cui l’aveva consegnata il Filosofo, assume i caratteri di
una questione eminentemente antropologica. Il processo di informatizzazione e
digitalizzazione del mondo della vita ormai trasformato in infosfera7, parallelamente al
cambiamento cui è sottoposto il nostro corpo nell’Antropocene8 sollevano sempre più
l’esigenza di una comprensione della relazione che lega indissolubilmente l’uomo alla
tecnica.
Ed è proprio in merito a tale relazione che l’antropologia plessneriana può fornire ancora
oggi dei validi strumenti. Infatti, benché non sia possibile riconoscere entro le diramazioni
di tale antropologia i tratti di una vera e propria Technikphilosophie – come quelle proposte
recentemente da Ihde9, Verbeek10 o da Irrgang11 – tuttavia si staglia dal magmatico
orizzonte del pensiero plessneriano una serie di riflessioni ancora attuali inerenti alla
relazione sussistente tra uomo, natura e tecnica. Mettere in luce l’attualità e la fecondità
di tali riflessioni è il compito che ci prefiggiamo nel presente contributo, il cui focus
principale è volto a ciò che potremmo definire – variando una celebre espressione
plessneriana – la natura tecnico-strumentale12 del vivente umano. Come vedremo nel
prossimo paragrafo, tale natura artificiale coinvolge primariamente il nostro corpo, la
nostra corporeità inestricabilmente connessa tanto al mondo culturale quanto all’ambiente
circostante.
2. Corporeità e scoperta
La dimensione corporea dell’umano rappresenta un luogo privilegiato di riflessione entro
la topografia filosofica delineata dalle ricerche plessneriane. Difatti, di contro alle filosofie
che tradizionalmente identificano la cifra dell’uomo nella sola ragione o nello spirito,
Plessner riconosce quale tratto caratteristico del vivente umano un’inaggirabile duplicità
d’aspetto, vale a dire il suo essere, al tempo stesso, un organismo vivente ed un essere
culturale. Tale duplicità giustifica la duplice direzione d’indagine inaugurata dal Filosofo,
che volge l’attenzione sia alla «relazione che l’uomo nel suo agire e subire ricerca con il
mondo» sia alla «posizione [dell’uomo] nel mondo come organismo nella categoria degli
organismi»13. Al crocevia tra queste due direzioni, che mettono capo rispettivamente ad
5 Sull’umanesimo relazionale emblematiche sono le riflessioni di Hobuß, per cui «l’umanismo classico può
infatti essere visto come un apparato semantico che riflette, giustifica e riproduce l’idea di un individuo
assolutamente libero. Tuttavia, nel corso dello sviluppo delle moderne società occidentali, questo concetto di
individuo assolutamente libero prende sempre più la forma di un’individualità isolata […] Dal momento che la
società da una parte rimane ancorata al concetto di individuo (altrimenti lo stato costituzionale, la democrazia
etc., si infrangerebbero) e d’altra parte un solipsistico o monadico individualismo dà corpo a tendenze
distruttive, si evidenza la necessità di una svolta relazionale ovvero di un umanismo di matrice relazionale, che
combini l’idea di un soggetto autonomo e indipendente con la prospettiva che esso vada immerso in un campo
di relazioni interpersonali» (Hobuß, 2020, p. 438).
6 Una lucida analisi dell’interpretazione destinale della tecnica sviluppata da Heidegger è offerta da Di
Martino (2019).
7 Sulla nozione di infosfera rimandiamo a Floridi (2020) e (2017).
8 Sulle modificazioni del corpo nell’epoca dell’Antropocene si veda l’interessante Cregan-Reid (2020).
9 Si vedano Ihde (1990) e (1993), quali lavori pioneristici nel campo della filosofia della tecnica.
10 Per quanto riguarda la filosofia della tecnica di Verbeek si rimanda ai suoi lavori principali What Things
Do – Philosophical Reflections on Technology, Agency, and Design (2005) e Moralizing Technology: Understanding
and Designing the Morality of Things (2011).
11 Per uno sguardo d’insieme sulla filosofia della tecnica di Irrgang si veda, in lingua italiana, Irrgang (2021).
12 Alla chiarificazione di tale natura tecnica dell’uomo hanno contribuito numerosi autori. Tra i pensieri più
affini a quelli plessneriani vi sono di certo quelli di Gehlen, la cui prospettiva tuttavia risente di un certo
riduzionismo biologico, a cui la prospettiva di Plessner non sembra cedere in virtù del riconoscimento della
duplicità d’aspetto dell’umano. Per questo punto rimandiamo alle puntuali osservazioni di Crispini (2004).
13 Plessner (2006), p. 56. Come ben osservato da Rasini questo secondo tipo di indagine sembra in Plessner
«pretendere un riconoscimento speciale e imporsi come fondativa» (Rasini, 2013, p. 10).
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un’estesiologia dei sensi e ad una bio-filosofia, si colloca il corpo del vivente umano
indissolubilmente legato attraverso una «doppia appartenenza»14 all’ambiente circostante
e al mondo culturale, intrecciati tra loro senza soluzione di continuità15.
Guardando a tale inestricabile intreccio tra adattamento naturale ed artificiale, Plessner
presenta un’originale tesi in merito al fare tecnico, di cui ci avvarremo al fine di ripensare
la relazione che, oggi ancora più di ieri, lega indissolubilmente tra loro corpo umano,
tecnicità e mondo-ambiente. Tale tesi è sostenuta dal Filosofo ad una precisa altezza delle
riflessioni sviluppate nella celebre opera I gradi dell’organico e l’uomo, con cui egli intende
individuare dapprima gli elementi comuni a tutto il regno dell’organico per poi indagare le
caratteristiche tipologiche proprie dell’animale-uomo. Come si sa, al termine di tale
trattazione, Plessner giunge ad enucleare tre leggi antropologiche, la prima delle quali è
significativamente nominata legge dell’artificialità naturale dell’uomo16. Secondo tale legge,
l’uomo a causa della sua posizione eccentrica, quale propria specifica condizione
ontologico-esistenziale, deve far fronte alla strutturale assenza di equilibrio che
contraddistingue la sua relazione all’ambiente. Egli, che è corpo ed ha corpo, che vive
questo essere in sé e fuori da sé come una frattura insanabile, contrasta l’instabilità, la
precarietà della propria esistenza mediante gli artefatti, gli strumenti e più in generale la
cultura. In questo senso, la cultura diviene la sua prima natura17, co-originaria
all’elemento biotico. Perciò Plessner parla conseguentemente di artificialità naturale
dell’uomo nel senso che l’essere umano ha bisogno, per natura, di un «completamento
innaturale»18 o, altrimenti detto, la culturalità è insita nella sua stessa natura.
Di tale legge ciò che interessa, per i nostri fini, è una dichiarazione plessneriana riguardo
all’agire tecnico dell’uomo. In opposizione alle teorie naturalistiche e intellettualistiche
relative alla genesi della sfera culturale, secondo le quali l’uomo «si è, per così dire,
inventato di sana pianta la cultura»19, Plessner afferma che «l’uomo non inventa niente che
non scopra»20. Secondo tale affermazione dall’andamento quasi aforistico, l’oggetto,
l’utensile, l’opera d’arte non sono meramente creati dall’uomo, o ancora meglio, essi non
sono una semplice produzione umana ex nihilo: i mezzi tecnici, così come le creazioni
artistiche, hanno un’oggettività che si distacca dall’agire umano e che in qualche modo,
come vedremo meglio in seguito, precede tale agire. Difatti, prima della creazione o in
concomitanza con essa, Plessner pone la scoperta (Entdeckung) intesa come prestazione
espressiva che si appoggia sul materiale offerto dalla natura. Pertanto, ciò che è scoperto,
ciò che è portato ad espressione dall’uomo è il mondo-ambiente, di cui l’uomo stesso è
parte in quanto organismo e dal quale può prendere distanza dando luogo alla tecnica e
alla cultura, quali forme, espressioni per l’appunto, attraverso cui si manifesta un
contenuto. Il peculiare incontro dell’uomo con l’esterno, con l’altro da sé, diviene dunque,
agli occhi del Filosofo, la condizione di emergenza della tecnica, degli artefatti materiali ed
immateriali, di cui il vivente umano si avvale per vivere. A tale incontro dobbiamo dunque
rivolgere la nostra attenzione al fine di comprendere la cifra della proposta teoretica
plessneriana che ravvisa nell’uomo un’artificialità naturale, ponendo in tal modo al centro
della sua riflessione sulla tecnica la peculiare dialettica che il corpo umano stabilisce con
l’esterno, l’ambiente, il mondo.
3. Corpo e mondo. Sensibilità e tecnica
Plessner riconosce nello schema corporeo proprio del vivente umano una peculiare via di
accesso al mondo-ambiente. Come già accennato e come approfondiremo ora, questa via
d’accesso è, agli occhi del Filosofo, la condizione di possibilità del fare tecnico, per cui
Rasini (2020), p. 16.
Plessner (2020), p. 33.
16 Plessner (2006), pp. 332-344.
17 Si veda Russo (2000), p. 375.
18 Plessner (2006), p. 334. Si confronti a proposito l’esposizione di Rasini (2013), p. 109 e ss. e Russo (2000),
pp. 374-375.
19 Plessner (2006), p. 336.
20 Ivi, p. 343.
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possiamo ben dire che senza l’avere ed essere un corpo l’uomo non potrebbe, a sua volta,
avere un mondo a portata di mano e di conseguenza non vi potrebbe essere alcuna tecnica.
Per tale ragione, un’indagine volta alla prassi tecnica, ma più in generale all’arte, al sapere
umano, al mondo della cultura è legittima – questo ci insegnerebbe oggi il Filosofo – solo
se condotta nell’alveo di una più ampia analisi della sensibilità e dei sensi, scandagliati
nella relazione strutturale che li lega indissolubilmente al mondo.
Un tale tipo di analisi è svolta da Plessner principalmente nelle due opere L’unità dei
sensi (1923) e l’Antropologia dei sensi (1970), che insieme danno forma ad un’estetica di
ispirazione fenomenologica21, con cui il Filosofo intese perfezionare la riflessione sulla
sensibilità svolta da Kant nella Critica della ragion pura. Difatti, Plessner sostiene, in
controtendenza rispetto ad ogni formalismo di matrice kantiana, che la sfera percettiva sia
disciplinata da norme a cui rispondono i contenuti intenzionali e che, allo stesso tempo,
tali percezioni abbiano il proprio fondamento nella relazione corporea, seppur instabile,
che l’umano istituisce con l’ambiente circostante. Dunque, il corpo vivente è già sempre
coinvolto nell’esperienza sensoriale, nella rivelazione di un mondo, in cui l’uomo, che è
corpo ed ha corpo, scopre, inventa ed agisce. Ed è proprio in seno a tale agire che si può
realizzare quel che il filosofo definisce nei significativi termini di «mistero della creatività»,
il quale «consiste nella mossa riuscita», in quell’«incontro tra l’uomo e le cose»22 che
coinvolge le dimensioni materiale e spirituale dell’uomo intrecciate l’un l’altra secondo
un’intima processualità.
Ora, indagando tale processualità, Plessner traccia i lineamenti di una estesiologia dei
sensi – quale studio dei modi in cui la materia e lo spirito interagiscono tra loro – alla
ricerca di quello che è stato nominato da E. Straus «il senso dei sensi»23. Ed è proprio
nell’alveo di un tale tipo di ricerca, che ha per oggetto tanto le arti quanto le tecniche
artigianali e le forme di sapere, che emerge la cifra del filosofare plessneriano, in virtù di
cui l’estetica della prima Critica è perfezionata attraverso il ricorso alla fenomenologia: alla
neutralità delle forme kantiane di spazio e tempo, il filosofo, difatti, sostituisce le modalità
sensoriali che rivelano, secondo il celebre appello husserliano, le cose stesse.
Con tale gesto che mira ad inaugurare una terza via tra kantismo e fenomenologia,
Plessner compie una duplice operazione: ripensare criticamente i sensi, oltrepassando, allo
stesso tempo, i limiti posti dal formalismo kantiano, il quale relega la sensibilità ad un
ruolo subalterno rispetto alle funzioni sintetiche dell’intelletto. Questa evasione dalle
pastoie kantiane e neokantiane entro cui è incatenata la sensibilità è realizzata dal Filosofo
grazie al riconoscimento di una correlazione tra percezione e percetto, che coinvolge l’intera
organizzazione sensibile dell’essere umano, ossia il suo corpo vivente. Con un solo gesto,
possiamo ancora dire, il Filosofo dà corpo al soggetto, offrendogli un mondo, che non è in
alcun modo ridotto a mero prodotto della soggettività, bensì esso stesso si offre al soggetto
per il tramite dei canali sensoriali, seguendo determinate direzioni. Plessner può così
scorgere una peculiare logica dei sensi situata a fondamento del fare – e più in particolare
del fare tecnico – al cui contraltare non è posto un materiale enclitico (bisognoso di una
forma che le regole della percezione le assegnerebbero) bensì un mondo già formato, di cui
i sensi rivelano la forma secondo determinate possibilità d’azione24. Perciò, per Plessner, la
pluralità della nostra esperienza si basa sulla costituzione sensibile plurale del nostro
essere umani, costituzione legata a doppio filo con l’ambiente circostante. Il mondo
naturale si offre, per l’appunto, al soggetto umano secondo un accordo, seppur provvisorio
e mai perfezionabile, tra natura umana e ambiente, nel quale «le qualità delle cose sono
per Plessner le modalità di relazione sensoriale tra la sfera soggettuale e la sfera oggettuale
e risiedono nelle proprietà reali, strutturali delle cose stesse»25.
21
22
23
24
25
Sul rapporto che lega Plessner alla fenomenologia si veda Rasini (2005).
Plessner (2006), p. 345.
Cfr. Straus (19562).
Plessner (2008), p. 74.
Ruco (2007), p. 16.
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Ora, l’introduzione nel discorso filosofico di quello che lo stesso Plessner definisce
l’apriori materiale fornisce la base per lo sviluppo di una filosofia della tecnica che
riconosca al corpo, vale a dire allo schema percettivo e motorio del vivente umano, il
peculiare statuto di strumento. In altri termini, al fondo di una filosofia della tecnica, che
faccia questione della relazione tra uomo, natura e tecnica, vi deve essere, seguendo
l’insegnamento plessneriano, una filosofia del corpo inteso come doppio: corpo vivente e
corpo proprio.
Di questa direzione di ricerca risultano particolarmente promettenti le indagini svolte
da Plessner nell’opera Conditio humana, laddove il Filosofo lumeggia quella che Crispini
definisce, a ragione, la funzione ermeneutica del corpo26, e che noi suggeriamo di rubricare
sotto il titolo di natura tecnica della corporeità. Tale natura, quale condizione d’emergenza
dei mezzi tecnici in senso stretto, si manifesta primariamente nella funzione strumentale
del corpo. Infatti, se da un lato la corporeità garantisce l’immediatezza del rapporto che il
vivente umano ha con l’esterno, dall’altro lato, essendo il corpo stesso una «guaina»27, un
rivestimento, esso stesso svolge una funzione di intermediazione tra l’uomo e l’ambiente.
Detto più precisamente, il corpo è per l’uomo lo strumento originario di manipolazione
dell’ambiente, ed è nell’esercizio di tale funzione che la corporeità rivela la sua più intima
essenza di intermezzo, di connessione tecnica tra l’uomo e l’ambiente. Difatti, la
coordinazione occhio-mano, guadagnata con l’acquisizione della stazione eretta,
suggerisce l’uso di ciò che è alla mano, e allo stesso tempo, riconosce nella mano stessa
l’utensile per eccellenza a disposizione dell’uomo. In questo modo l’uomo, che è corpo ed
ha corpo, e che sa del proprio corpo, utilizza la propria corporeità come mezzo, portando
allo scoperto, d’un sol colpo, le proprie potenzialità e quelle dell’ambiente che lo circonda.
La posizione eretta e l’estensione del campo visivo, che fa tutt’uno con la liberazione della
mano, contraddistinguono dunque il peculiare stare al mondo dell’uomo, che ha a
disposizione come medium, mezzo, strumento niente affatto neutrale quel corpo che egli
stesso è.
Occorre ora osservare che nelle riflessioni svolte in Conditio Humana, Plessner chiama
significativamente in causa, ancora una volta, una scoperta, sulla base della quale la mano
diviene strumento. Anche in queste riflessioni, come in quelle proposte nell’opera del 1928,
la scoperta, realizzata mediante la percezione, è la condizione di emergenza del mezzo
tecnico, poiché scoprire – possiamo precisare adesso alla luce di quanto emerso in
precedenza – significa mettere a distanza l’oggetto, stagliarlo dal resto dell’orizzonte e
riconoscerlo nella sua utilizzabilità. In questo preciso senso, ciò che è scoperto ha una sua
oggettività che, come abbiamo detto, precede il fare tecnico dell’uomo inteso come azione
di distanziamento, di espressione di un contenuto. Perciò Plessner può chiarire che
il controllo del proprio corpo, che è dato all’uomo con la stazione eretta, seppure in forma
piuttosto instabile, e che proprio per questa instabilità richiede il continuo mantenimento
dell’equilibrio, favorisce in lui la scoperta della sua propria emancipazione dal corpo
stesso e dall’ambiente che immediatamente lo circonda. Egli è perciò in grado di
distinguere il luogo in cui si trova, il “qui”, da un qualsiasi altro luogo, o “colà”, il quale
in senso inverso inganna i suoi sensi e da un “colà” diviene un “qui”. Poter dunque
distinguere dal luogo in cui si trova la propria mano o il grido appena emesso, come
oggetti che si trovino in un altro luogo costituisce il presupposto fondamentale per poterli
utilizzare come strumenti e imitare in immagini prefissate28.
A partire dalla prospettiva plessneriana sulla tecnica qui brevemente delineata, si
potrebbe osservare, con maggiore precisione, che lo schema corporeo, quale strumento
dell’uomo, permette di scoprire tanto gli utensili (che gli sono dati in seno alla complessa
trama intessuta con l’ambiente) quanto sé stesso. Difatti, la posizione eccentrica consente
26
27
28
Crispini (2004), p. 157.
Ibidem.
Plessner (1967), p. 60.
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Corpo, mondo e tecnica
all’uomo di decentrarsi, di stare fuori di sé, divenendo osservatore sia dell’ambiente sia di
sé stesso. Ma non solo. Ampliando le riflessioni fin qui svolte ed impiegando i risultati delle
indagini plessneriane – per cui l’uomo è per sua natura tecnico – è possibile cogliere non
solo il fare artigianale tipico della nostra specie, bensì anche il sorgere delle arti così come
di alcune forme di sapere. In quest’ultimo ambito la geometria occupa un posto privilegiato
entro le analisi estesiologiche del Filosofo. Per Plessner, infatti, il sorgere della geometria
porta alla luce in modo emblematico l’interrelazione tra spirito e materia: essa non è il
risultato esclusivo della nostra capacità astrattiva, bensì anche e soprattutto delle nostre
capacità senso-motorie, tra cui spiccano quella visiva e la capacità di orientamento nello
spazio. Come abbiamo visto, tali capacità coinvolgono tanto la stazione eretta quanto
quella mano che si libera dalla locomozione per afferrare ciò che dalla vista è portato allo
scoperto. Tutto attorno al nostro corpo ed in virtù di esso si dischiude, dunque, un mondo
fatto di possibilità ben determinate, di strutture che sono rese manifeste primariamente
dai nostri organi di senso; un mondo che non è il mero prodotto della nostra azione
manipolatoria, bensì di un peculiare incontro tra uomo e mondo in cui si rivela, ancora
una volta, la nostra natura originariamente tecnica.
4. La mano, la tecnica e la natura
Riannodando i fili del discorso fin qui svolto possiamo osservare che, secondo la
prospettiva inaugurata dall’estesiologia plessneriana, gli artefatti si legano al corpo come
possibilità che sono offerte all’uomo nel suo relazionarsi all’esterno; pertanto l’essere
umano «deve riconoscere che non è stato il loro creatore originario, bensì essi sono stati
realizzati solo come occasionati dal suo fare»29. Come abbiamo già avuto modo di notare, a
tale tesi, secondo cui gli utensili, il mondo artificiale della cultura non sono semplicemente
creati, bensì innanzitutto scoperti, Plessner può giungere affrancando il soggetto umano
dall’immagine del soggetto trascendentale, astratto e sovraindividuale assegnata ad esso
da Kant, sostituendovi nel contempo un modello di soggettività incarnata che interagisce
con l’ambiente.
Tale modello di soggettività è al centro oggigiorno di molteplici indagini multidisciplinari
ed interdisciplinari che ne mettono in luce diversi aspetti30. In modo particolare tali studi
rivolgono l’attenzione ai cosiddetti processi di incorporazione di senso, verso cui lo stesso
Plessner orientò il focus delle proprie ricerche, prefigurando, seppur entro certi limiti,
alcuni risultati ottenuti dalle più feconde riflessioni di stampo fenomenologico in tema di
embodiment31. Come abbiamo cercato di mostrare, tali risultati ottenuti da Plessner in
ambito antropologico esibiscono una indiscussa prolificità anche nel campo della filosofia
della tecnica. Difatti, una riflessione sistematica sul tipo di soggettività presentata dal
filosofo permette di comprendere tanto la natura tecnico-artificiale dell’uomo quanto la
prassi tecnica di cui l’uomo è sia attore che prodotto. Proprio su quest’ultima dinamica,
per cui nel fare tecnico dell’uomo vi è in gioco un continuo processo d’informazione, vale a
dire di messa in forma di sé stesso, in virtù del quale l’uomo rivela ancora una volta il suo
essere naturale-artificiale, vorremmo ora rivolgere l’attenzione al fine di mostrare la
fecondità delle analisi plessneriane.
Come emerso dalle riflessioni presentate dal Filosofo, l’uomo è creatore di utensili in
virtù della scoperta di sé stesso come strumento e del concomitante disvelamento
dell’ambiente quale luogo di possibilità d’azione. Di questa duplice dinamica risulta essere
emblematico il destino a cui incorre, ancora una volta, la nostra mano. In linea con quanto
scoperto da Plessner, i più recenti studi nel campo dell’antropologia evolutiva mettono in
luce come la mano dell’uomo, a differenza di quella di altri primati, non mostri nessun
peculiare adattamento all’ambiente32, e quanto invece l’uomo abbia iniziato a modificare
Plessner (2006), p. 334.
Per uno sguardo d’insieme su tali indagini rimandiamo a Zipoli Caiani (2016) e Fugali (2016), in
particolare pp. 198-207.
31 A questo proposito rimandiamo a Redaelli (2019).
32 Si veda Cregan-Reid (2020), cap. 10.
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30
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l’ambiente circostante, rendendo, al tempo stesso, la mano – secondo un peculiare effetto
di ritorno – lo strumento più efficace per interagire con esso. In questo senso la mano,
come insegna Plessner, svolge una funzione ermeneutica che ci permette di leggere il
mondo come un ente manipolabile o, altrimenti detto, la mano è quello strumento che ci
permette di cogliere, di afferrare gli oggetti come mezzi. In virtù di tale peculiare statuto
della mano si comprende ora anche la ragione per cui agli occhi di Plessner non è possibile
tracciare una netta linea di differenziazione tra ambientalità e mondanità antropologica33,
tra natura e cultura, tra adattamento all’ambiente ed apertura al mondo. Entrambi questi
poli sono già sempre implicati nell’agire del vivente umano che è organismo artificiale, vale
a dire natura a cui inerisce fin da subito la cultura, così come dimostra proprio il caso
della mano. La mano non è altro che natura posta a distanza da sé; natura trasformata, in
questa opera di distanziamento, in organo, strumento, inteso nell’originario senso greco
del termine. In virtù di tale dinamica, esemplificata dalla mano, che lega vicendevolmente
natura e cultura, ogni interpretazione dell’umano in direzione della sola spiritualità, della
sola artificialità o naturalità risulta in una certa misura deficitaria: solo una prospettiva
che indaghi la naturale artificialità o tecnicità dell’uomo, senza cedere alle lusinghe né di
un certo biologismo né di un certo intellettualismo, può rendere ragione della ricchezza del
vivente umano, che è allo stesso tempo organismo tra gli organismi ed essere culturale34.
Come abbiamo già accennato, a questa duplicità corrisponde una duplice appartenenza
tanto al mondo quanto all’ambiente35, che di tale apertura è la condizione. Difatti,
l’apertura al mondo dell’uomo, tutt’altro che illimitata, non lo affranca dal suo sostrato
biologico, bensì quest’ultimo rappresenta la condizione di possibilità di qualsiasi apertura
al mondo del vivente umano. Allo stesso tempo, il condizionamento all’ambiente esterno
non può in alcun modo saturare le possibilità dell’uomo, che per natura le eccede, data la
sua peculiare posizionalità. Nella posizione eccentrica si rivela dunque, ancora una volta,
la natura tecnica dell’uomo che è oggigiorno al centro di radicali trasformazioni, con cui è
necessario misurarsi a partire da una prospettiva, come quella plessneriana, che sappia
rendere ragione della poliedrica natura umana, sospesa tra ambiente e mondo, tra natura
e cultura, perennemente in divenire eppure sempre alla ricerca di equilibrio.
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33
34
35
Si veda Plessner (2020).
Per questo punto si veda Crispini (2004).
Su questa duplicità di appartenenza si veda Rasini (2020).
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