Ricerche sull’arte a Napoli
in età moderna saggi e documenti
2022-2023
annali della fondazione de vito
FONDAZIONE GIUSEPPE E MARGARET DE VITO
PER LA STORIA DELL’ARTE MODERNA A NAPOLI
Ricerche sull’arte a Napoli
in età moderna saggi e documenti
2022-2023
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musée Granet, Ville d’Aix-enProvence, pp. 22, 25-27
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conto dell’Università di Napoli
L’Orientale, pp. 76, 81, 82, 85
© Archivio fotografico della
Fondazione De Vito / foto Claudio
Giusti, copertina, p. 6
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Metropolitana, Bari, pp. 30, 32-34
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Nacional del Prado, Madrid, p. 45
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Blindarte, Napoli, pp. 86-88
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Camillo d’Errico / DVArt di
Davide Frangione, Palazzo San
Gervasio, pp. 120, 122-123, 125
Fototeca della Direzione regionale
Musei Campania, pp. 78-79
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-Università di Bologna, pp. 37, 80
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© Gallerie degli Uffizi, Gabinetto
dei Disegni e delle Stampe, Firenze
su concessione del MiC, p. 44
ICCD-Gabinetto fotografico,
Roma, p. 72 a destra
Claudio Giusti, Lastra a Signa (per
conto dell’Università di Napoli
L’Orientale), pp. 84, 89
Istituto centrale per la grafica, Roma,
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André Morin, p. 83
© Museo e Real Bosco di
Capodimonte, Napoli, p. 94
Giuseppe Panza, pp. 112, 114-117
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Magnin) / Thierry Le Mage, p. 16
© RMN-Grand Palais (musée
Magnin) / Stéphane Maréchalle),
p. 17
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Magnin) / Franck Raux, pp. 14, 19
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redazione
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art director
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Ricerche sull’arte a Napoli
in età moderna
Comitato di redazione
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Renato Ruotolo
grafica
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Fondazione Giuseppe e Margaret
De Vito per la Storia dell’Arte
moderna a Napoli
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50036 Vaglia (Firenze)
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Bernardo Cavallino
Santa Lucia
Vaglia (Firenze),
Fondazione De Vito
Comitato scientifico
Gabriele Finaldi
Mina Gregori
Renato Ruotolo
Erich Schleier
Sebastian Schütze
Sommario
7
Nadia Bastogi
“Naples pour passion. Chefs-d’oeuvre
de la collection De Vito”. Le ragioni di
una mostra in Francia
77
Giuseppe Porzio
Ampliamenti per il Maestro del Gesù
tra i dottori e un’ipotesi per la sua
identificazione
15
Sophie Harent
Naples à Dijon
93
Silvia Benassai
Un nuovo Tarquinio e Lucrezia di Luca
Giordano
23
Paméla Grimaud
Parthénopé à Aix : peintures napolitaines du
Seicento dans la collection du musée Granet
31
41
67
Clara Gelao
Il San Pietro martire di Giovanni Bellini
nella Pinacoteca di Bari: correzioni,
aggiunte e novità
Giuseppina Medugno
La Madonna del pesce di Raffaello dai Del
Doce al duca di Medina. Nuovi documenti
Lothar Sickel
Fuori dall’ombra di Giuseppe Cesari
d’Arpino: Mattia Merolle nel santuario di
Santa Maria a Parete a Liveri
101
Renato Ruotolo, Mario Panarello
L’inventario Colonna del 1796: brani
di storia di una collezione dall’eredità
Vandeneynden agli apporti settecenteschi
113
Antonello Ricco
Novità su Tito Angelini: il San Marciano
in argento nell’ex cattedrale di Frigento
121
Alessia Pignatelli
Il politico e il collezionista. Aggiunte alla
biografia di Camillo d’Errico
132
Indice dei nomi
a cura di Luigi Abetti
40
GIUSEPPINA MEDUGNO
Giuseppina Medugno
La Madonna del pesce di Raffaello dai Del Doce al duca di Medina.
Nuovi documenti
1. La famiglia e la cappella Del Doce nella chiesa di San Domenico Maggiore in Napoli
Antica e illustre famiglia, i Del Doce possono vantare una discreta bibliografia genealogica1. Nell’Historia napoletana, Francesco De’ Pietri fa risalire la casata ai “Duci della Republica Amalfitana”. Lo storico,
attraverso un ricco apparato di riferimenti a testi e documenti antichi, dimostra come i principali componenti della famiglia, sempre fedeli ai regnati nel corso dei secoli, si distinsero per le loro imprese, accumulando onorificenze, titoli e beni stabili2. Successivamente, nei Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Carlo De Lellis le dedica una nuova biografia ancora più densa di notizie, ricavate da fonti e documenti puntualmente segnalati, molti dei quali, però, oggi risultano irreperibili. L’autore, che tiene a precisare la corretta forma del cognome rispetto ad altre che pure ricorrono in letteratura (Duca,
Duce, Dolce), dedica diverse pagine a tracciare la discendenza, a partire da tale Giovanni, “barone assai
ricco”, che sarebbe vissuto ai tempi di Guglielmo II di Sicilia. De Lellis, studioso e assiduo frequentatore di archivi, prosegue affermando che l’iniziale discontinuità di dati diventa più regolare e “continua”
– senza però indicare riferimenti cronologici – a partire da Matteo, la cui madre apparteneva a un’estinta famiglia del seggio di Nido, nel cui territorio anche i Del Doce si stabilirono. Attraverso Paolo, loro figlio, si arriva a Carluccio che generò quattro fanciulli, Giovanni Paolo, Rinaldo, Covella e Silvia3. Come
vedremo, Giovanni Paolo ebbe una lunga discendenza, con figli e nipoti maschi, che portarono la casata nel XVII secolo; più breve, invece, quella di Rinaldo (fig. 2). In questo studio le seguiremo entrambe,
poiché ambedue i rami ottennero il diritto di patronato sulla seconda cappella a sinistra situata all’interno del cappellone del Crocifisso in San Domenico Maggiore (fig. 1).
L’interesse dei Del Doce verso il complesso domenicano è attestato almeno dalla seconda metà del XV
secolo. La scelta del luogo trova una spiegazione plausibile nella sua posizione. Esso, infatti, si trovava
nella sfera di influenza dei nobili del seggio di Nido, i quali, insieme alla corte aragonese, fecero sempre sentire la loro presenza, da una parte sostenendo la comunità domenicana con donazioni e scegliendo quel luogo per la loro sepoltura, dall’altra imponendo la loro ingerenza negli affari interni e propriamente religiosi. Il legame che si creò tra le famiglie gentilizie napoletane e il cenobio domenicano trova testimonianza nella decorazione delle cappelle, ma soprattutto nella gestione economica dell’istituto4.
Dall’esame dei documenti del loro archivio, nonostante le inevitabili perdite, ancora oggi è possibile
scorrere la storia dei rapporti del convento con la cittadinanza attraverso contratti di vendita, donazioni,
lasciti testamentari e altro ancora, a partire dal XIV secolo. Quindi, se da un lato i benefattori si garantivano la salvezza delle loro anime attraverso la promessa di messe da far celebrare in perpetuo dopo la
morte, dall’altra i frati potevano contare su entrate potenzialmente stabili, che avrebbero permesso loro
di sostenere almeno una parte dei costi di gestione del convento. Non stupisce, quindi, di trovare diversi volumi in cui, nel corso dei secoli, vennero trascritte più volte le parti principali di atti notarili stipulati con persone ormai defunte e in cui si tenne una puntuale contabilità delle annate riscosse e di quelle
ancora in credito con i discendenti, annotando anche eventuali contenziosi. Alcune famiglie, probabilmente le più facoltose e influenti, oltre a garantirsi la sepoltura e le messe di suffragio, ottennero anche
il diritto di patronato sulle cappelle. In questi casi, oltre a sintesi o trascrizioni non coeve di documenti più antichi, vennero redatte vere e proprie relazioni, nelle quali, ancora oggi, si trovano annotati i fatti giuridici e le questioni economiche salienti relativi alle cappelle stesse e ai relativi proprietari nel corso
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
41
a pagina 40
1. Cappella Del Doce
Napoli, chiesa di San
Domenico Maggiore
42
dei secoli. Ognuna delle citate tipologie di scrittura fornisce importanti indicazioni, che, in caso
di perdita dei documenti notarili più antichi, restano le uniche notizie superstiti5. Grazie al rinvenimento di alcuni di questi documenti, studiosi quali Jeroen Stumpel, Riccardo Naldi ed EvaBettina Krems, ognuno nei rispettivi ambiti di ricerca, hanno indagato anche sulle vicende legate
alla cappella Del Doce6. In questa sede, quindi,
non mi soffermerò sugli aspetti strettamente artistici, già ampliamente trattati dai citati studiosi, ma metterò a confronto, ove possibile, le relazioni dei frati con i documenti originali, aggiungendo nuove notizie e correggendo qualche imprecisione.
Torniamo, quindi, alla storia della famiglia Del
Doce in relazione al patronato sulla cappella e alla tavola di Raffaello Sanzio, raffigurante la Madonna con il Bambino in trono con san Raffaele arcangelo, Tobia e san Girolamo, più nota come Madonna del pesce7 (fig. 4).
Come anticipato, Carluccio ebbe quattro figli,
per due dei quali, Rinaldo e Covella, i documenti attestano un interesse verso il complesso di San
Domenico Maggiore a partire almeno dalla seconda metà del XV secolo8.
La prima data certa è quella del 26 maggio 1509,
quando, con istrumento del notaio Girolamo Gaffuro, il convento di San Domenico concesse una
cappella, posta all’interno del cappellone del Crocifisso9, a Girolamo Del Doce, figlio di Giovanni
Paolo, dal quale ereditò il titolo di signore di Cutrofiano. Il contratto prevedeva anche una dote di
20 ducati annui, ricavabili dai profitti su alcune
botteghe e case site alla Conciaria, per la celebrazione di messe a suffragio della sua anima10.
Successivamente (non è noto quando esattamente,
forse perché concessa per via ereditaria e, quindi,
senza la necessità di una nuova scrittura), la cappella passò a Giovanni Battista Del Doce, figlio
di Rinaldo (capitano della guardia di re Alfonso
V d’Aragona) e quindi cugino, per via paterna,
di Girolamo11. Giovanni Battista sposò Antonina
Tomacelli, dalla cui unione risulta un unico erede, una figlia femmina12. Il 22 febbraio 1518, con
atto pubblico, i padri domenicani gli revocarono
la concessione a causa di problemi legati al pagamento della quota annuale di 20 ducati13; tuttavia, nel 1519, ne risulta nuovamente proprietario.
GIUSEPPINA MEDUGNO
Nel suo ultimo testamento, infatti, Giovanni Battista dispose di essere sepolto nella “sua cappella,
posta dentro la cappella delo Crucifisso”, la quale
“gratiosamente” gli era stata concessa. Il testatore
assegnò anche una dote annuale di ducati 20 in
carlini d’argento fino al raggiungimento di ducati
400, che i frati avrebbero esatto dai suoi successori per l’acquisto di beni stabili a garanzia della
dote stessa. Chiese, inoltre, che non venisse realizzato alcun “cantaro”, salvo diverse disposizioni
dei suoi eredi, e ordinò che nella cappella fossero
seppelliti, oltre a sua moglie Antonina e alla loro
figlia Roberta, esclusivamente i discendenti maschi di casa Del Doce (riferendosi evidentemente all’altro ramo della famiglia). Infine, nominò
suoi eredi universali la detta Roberta e Bartolomeo Caracciolo, suo genero14. Giovanni Battista
morì il 27 settembre 1519; per onorarne la memoria, Antonina fece erigere un monumento funebre di fronte a quello del padre Rinaldo (oggi nel
transetto della chiesa), anche quest’ultimo commissionato da Tomacelli in memoria del “suocero suo optimo”15.
Alla morte di Giovanni Battista, nella cappella doveva essere già presente la pala d’altare realizzata da Raffaello. La prima attestazione della sua presenza risale al 1524, ovvero alla relazione sulla situazione artistica napoletana inviata da
Pietro Summonte al veneziano Marcantonio Michiel: “in la medesima ecclesia [sc. San Domenico Maggiore] dentro la cappella del signor Ioan
Baptista del Duce, è lo Angelo con Tobia, facto per man di Rafael di Urbino”16. A quella data,
però, Giovanni Battista era già defunto da cinque anni, quindi o il testo della missiva era stato scritto a più riprese (è noto che all’epoca Summonte aveva problemi di salute, che lo costrinsero a procrastinare l’impegno assunto col veneziano) o più semplicemente l’autore non era a conoscenza della sua morte. Il quadro è successivamente descritto nella biografia di Raffaello contenuta nelle Vite di Giorgio Vasari. Questi, omettendo qualsiasi riferimento ai proprietari, scrive
che il pittore “fece a Napoli una tavola, la quale
fu posta in san Domenico nella cappella dove è il
Crocifisso, che parlò a s. Tomaso d’Aquino: dentro vi è la Nostra Donna, s. Girolamo vestito da
cardinale, et uno angelo Raffaello, ch’accompagna Tobia”17. Diversamente, nella Descrittione dei
Genealogia della famiglia Del Doce
[?] Galeota
Carluccio
Rinaldo
Giovanni Paolo
Covella
Silvia
(1402 ca. - 1479)
Nicola
Berardino
Giovanni Battista
Antonina Tomacelli
(1457 ca. - 1519)
(? - 1548)
Lucrezia
Girolamo
Roberta
Bartolomeo Caracciolo
(? - post 1541)
(? - 1525)
[?] Sasso
[tredici figli tra cui:]
(? - post 1509)
Annibale
(prole: Paolo)
Giovanni Antonio
Laura
Laura Saracina
(? - post 1554)
Troiano
(prole: Flaminio, Livio, Silvia; nipote: Troiano J.)
Giulio
Giovanni Alfonso
Giulia Tomacelli
(? - 1590)
(? - 1603)
Girolamo
Ippolita
Giovanni Antonio
Laudomia Caracciolo
Roberta
2. Albero genealogico
della famiglia Del
Doce
Ricostruzione
eseguita sulla base di
C. De Lellis, Discorsi
delle famiglie nobili
del regno di Napoli,
3 voll., Napoli 16541671; con integrazioni
dagli appunti
manoscritti di Livio
Serra di Gerace
(ASNa, Serra di
Gerace, Manoscritti,
7 voll.) e dalle
ricerche archivistiche
condotte per questo
studio
Claudio
(? - 1605)
Andrea
Giovanni Paolo
(? - 1627)
(1572 - 1635)
Giulia
Laura
Marcello Filomarino
(? - 1616)
(1° matrim.: 1578; prole: Alfonso)
Decio Caracciolo
Cesare Sanfelice
(2° matrim.: 1585; prole: Maria)
duca di Rodi
Francesco Sanfelice
Giulio
Silvia Capece
(? - 1632)
(? - 1664; 2° matrim.: 1608)
Alfonso
Silvia Carafa
Antonio
(1609 - 1666)
(1° matrim.: 1636)
(ante 1632 - ?)
Laura Caracciolo
(2° matrim.: 1653)
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
43
3. Raffaello
Studio per la
Madonna del pesce
1512 circa
Firenze, Gallerie
degli Uffizi,
Gabinetto dei
Disegni e delle
Stampe
4. Raffaello
Madonna del pesce
1512-1513
Madrid, Museo
Nacional del Prado
44
luoghi sacri della città di Napoli, Pietro De Stefano si sofferma sugli epitaffi posti sui due monumenti funebri di Rinaldo e di Giovanni Battista e su quello a pavimento, senza accennare alla presenza del quadro di Raffaello18. Il termine ante quem che gli studiosi hanno individuato per la datazione della tavola (oggi, dopo un restauro ottocentesco, trasferita su tela) si basa su
una xilografia, che riprende il motivo della Vergine col Bambino della Madonna del pesce, databile tra il 1515 e 151719. Anche se non supportata
da fonti e documenti, ma fondata sulla prossimità della presunta data di esecuzione e sulla presenza del santo eponimo a destra nel dipinto, l’ipotesi formulata dagli studiosi è quella che la pala sia stata commissionata da Girolamo, tuttavia
– seguendo una suggestiva ipotesi di Eva-Bettina
Krems – credo si debba tenere in maggiore considerazione la possibilità di un coinvolgimento più
o meno importante della famiglia Tomacelli. Infatti, come si vedrà anche più avanti, i documenti mostrano un’evidente difficoltà da parte dei
componenti della famiglia Del Doce a rispettare, nel corso degli anni, gli oneri economici legati
GIUSEPPINA MEDUGNO
al diritto di patronato. Inoltre, come tramandano
le epigrafi che si trovano sui due monumenti funebri, a finanziare la decorazione scultorea della
cappella fu la moglie di Giovanni Battista, Antonina Tomacelli20. Quindi, si potrebbe ipotizzare
un suo coinvolgimento anche nella commissione
della pala d’altare (ad esempio in occasione delle
nozze) per onorare la memoria del primo titolare
del sacello. Anche se questa supposizione dovesse risultare troppo azzardata, sarebbe comunque
ragionevole cercare un collegamento tra la famiglia Tomacelli e la scelta del pittore che avrebbe
eseguito la pala d’altare.
I Tomacelli, illustre e antica famiglia napoletana
del seggio di Capuana, potrebbero quindi essere
stati il tramite per entrare il contatto con il pittore urbinate. Dal 1513, infatti, con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni de’ Medici, diverse famiglie che gravitavano intorno alla corte papale
riuscirono a commissionare quadri al maestro21.
Come ha proposto Krems, il rapporto di parentela tra Antonina e Marino Tomacelli, il quale nominò Giovanni Battista Del Doce tra gli esecutori del suo testamento22, potrebbe essere la chiave
per mettere in relazione i Del Doce con Raffaello. Marino Tomacelli (morto nel 1515) aveva ricoperto importanti ruoli amministrativi nel governo aragonese, per poi essere chiamato a rivestire la carica di ambasciatore, prima a Roma e
poi a Firenze. Era anche un colto umanista, nonché membro all’Accademia pontaniana. A Firenze, dove operò per tre decenni come oratore residente, strinse fondamentali relazioni politico-diplomatiche con la famiglia de’ Medici, in particolare con Lorenzo il Magnifico e, verosimilmente, anche con il figlio Giovanni, futuro papa Leone X23. Achim Gnann colloca la Madonna del pesce nell’ultimo anno di pontificato di Giulio II,
sottolineandone l’affinità con la Messa di Bolsena (1512), affresco dipinto sulla parete sud della Stanza delle udienze24. Subito dopo Raffaello
proseguì la decorazione della Stanza di Eliodoro con San Pietro liberato dal carcere (1512) e l’Incontro di Attila e Leone Magno (1513), eseguendo quest’ultimo nella fase di transizione da Giulio II al suo successore, Leone X. Il nuovo pontefice continuò a servirsi di Raffaello per la decorazione pittorica dei Palazzi vaticani, assegnandogli
anche altri prestigiosi incarichi come architetto e
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
45
prefetto alle antichità. A questa fase, quindi, potrebbe essere riconducibile la commissione del
quadro per la cappella Del Doce, testimoniata
dallo studio compositivo conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie degli
Uffizi (fig. 3), datato al 1512-1513 circa25. Pertanto, le osservazioni di carattere storico, che si basano sulla rete di relazioni della famiglia Del Doce, concordano con quelle stilistiche, che prendono in considerazione altre opere devozionali eseguite in quello stesso periodo e la datazione di incisioni e disegni noti, nonché con la successione
delle opere descritta da Giorgio Vasari26. Ciò detto, non è inutile ribadire che, in mancanza di fonti e documenti che attestino in modo più probante una relazione tra Del Doce e Raffaello, passando per la famiglia Tomacelli e Leone X, queste
restano esclusivamente delle ipotesi.
Ad ogni modo, l’arrivo della pala di Raffaello si
inserisce in un generale rinnovamento della cappella di famiglia. Infatti, sulla base delle ricerche
di Angelo Borzelli, nel 1522 e nel 1525 furono
stipulate due convenzioni per la realizzazione di
una “cappella di marmo”, prima con il maestro
Bernardino e poi con Girolamo Santacroce, Antonino De Marco “alias de Caccaviello” e Giovan Giacomo da Brescia27. Purtroppo, entrambi
gli atti sono perduti e quindi non è stato possibile verificare per quale motivo lo studioso avesse indicato Giovanni Battista Del Doce (“del Duca”), già defunto, come parte nell’istrumento del
1522; come non è possibile conoscere i dettagli
del secondo contratto, che probabilmente venne
formalizzato dalla moglie Antonina o dagli eredi di Giovanni Battista, i coniugi Bartolomeo Caracciolo e Roberta Del Doce. E anche se non si
conosce il prezzo pattuito, giudicato però “considerevole” da Borzelli, è possibile che esso comprendesse – come propone Fabio Speranza anche
sulla base di considerazioni stilistiche – sia la decorazione plastica della cappella, sia la realizzazione dei due monumenti funebri28.
Dunque, morto Giovanni Battista, anche la quota
dovuta al convento fu corrisposta dai suoi eredi,
i citati Bartolomeo Caracciolo e Roberta Del Doce; quest’ultima, dopo la morte del marito (1525),
continuò a versarla in prima persona, non senza
qualche difficoltà, come si evince da una relazione dei frati, in cui si fa riferimento a decreti del
46
GIUSEPPINA MEDUGNO
Sacro Regio Consiglio del 1534 e del 1535 in merito a una lite sorta con gli eredi di Giovanni Battista per il pagamento della citata quota29. Uno
dei motivi di discussione era il presunto obbligo
di celebrare messe per l’anima del defunto padre.
Tale vincolo venne smentito dai domenicani attraverso documenti più antichi conservati nel loro archivio. Secondo i religiosi, infatti, il peso delle messe era indicato nel contratto di concessione a favore di Girolamo, ma fu formalmente annullato dalla revoca del 1518. Dopodiché – stando alla documentazione che era in loro possesso –
il nuovo accordo, stipulato proprio con Giovanni
Battista prima della sua morte, non comprendeva le messe. Anche se oggi non si conosce il testo
del secondo atto, nel testamento di Giovanni Battista (pure evocato da Roberta a difesa delle proprie ragioni) esse non risultano presenti30. Forse
proprio per venire incontro alle difficoltà della figlia, Antonina Tomacelli intervenne acquistando
una rendita di 24 ducati annui in perpetuo, che
poi donò ai frati domenicani per dote della cappella di San Girolamo (“sub vocabulo Sancti Hieronymi”) e affinché si celebrassero due anniversari, l’uno nel giorno della morte del marito Giovanni Battista e l’altro nel giorno della di lei morte. Nello stesso documento, Antonina vietò l’alienazione della cappella e stabilì che, nell’eventualità che tale patto fosse sciolto, il denaro andasse
alla chiesa e ospedale della Casa Santa dell’Annunziata seguendo le stesse modalità31. Successivamente, anche Roberta cedé una quota dell’affitto di una taverna con alcuni ambienti a uso abitazione; mentre un’altra quota spettava a suor Benedetta Caracciolo, sua figlia, monaca nel monastero di Santa Maria Donnaromita32. Negli anni seguenti, la somma di 20 ducati, dovuta ai frati, fu
corrisposta dai figli di Roberta (fino al 1586); poi
dai nipoti Paolo (fino al 1601) e Livio Caracciolo
(fino al 1615), infine da Troiano Caracciolo iuniore, suo pronipote (fino al 1669)33.
Il 26 gennaio 1548 morì Antonina Tomancelli. In
una delle relazioni dei padri domenicani si legge
che nel libro dei defunti del convento ella risultava sepolta nella cappella “sub vocabulo Sancti
Hyeronimi, ac Arcangeli Raphaelis in sacello santissimi Crucifixi”34.
Anche se gli eredi di Roberta continuarono a
onorare le volontà della madre, dopo la morte di
Antonina, la cappella seguì la linea maschile della famiglia, tornando al ramo di Girolamo attraverso suo figlio Giovanni Antonio (nipote di Giovanni Battista). Questi, nel suo ultimo testamento, chiuso nel 1554, assegnò un censo enfiteutico perpetuo di 5 ducati annui per la celebrazione di 150 messe nella cappella dell’Angelo Raffaele (“sub vocabulo delo Angelo Rafaele”). L’istrumento, rogato il 25 gennaio 1554 dal notaio Giovanni Vincenzo Ferretti, non fu trascritto
in forma pubblica per l’avvenuto decesso del notaio stesso. Del testamento, però, si conserva una
trascrizione autentica su pergamena di Giovanni Battista Basso, datata 13 novembre 1568, nella quale si fa riferimento anche a un precedente
lascito trascritto nel 1541 da un notaio di Cutrofiano35. Erede di Giovanni Antonio fu suo figlio
Giovanni Alfonso, il quale sposò Giulia Tomacelli. Dal loro matrimonio nacquero Giovanni Antonio, Giulio, Claudio, Laura e Roberta36. Giovanni Alfonso morì nel 159037, seguito nel 1603 dalla moglie. Nel suo testamento, Giulia dispose di
essere sepolta nella “cappella de casa de lo Doce”
nella chiesa di San Domenico. Eredi del patrimonio di Alfonso e Giulia furono i figli maschi Giovanni Antonio, Claudio, Giulio, mentre alle figlie
Laura e Roberta spettarono mille ducati a testa.
Inoltre, Giulia Tomacelli lasciò 1200 ducati alla
chiesa e al convento di San Domenico Maggiore per la celebrazione di due messe al giorno in
perpetuo all’altare principale del cappellone del
Crocifisso, una per l’anima del defunto marito e
un’altra per l’anima della testatrice. A ciò aggiunse che ogni anno, nei giorni della ricorrenza delle rispettive date di morte, si eseguisse una messa cantata nella cappella di famiglia38. I suoi eredi, i citati Giovanni Antonio, Claudio e Giulio,
diedero seguito alle volontà testamentarie della
madre, attingendo da diversi crediti e secondo
le modalità concordate in due istrumenti39. Mentre di Claudio si perdono le notizie, sappiano che
dal matrimonio tra Giovanni Antonio e Laudomia Caracciolo nacquero Andrea, Giovanni Paolo e Giulia. Suo fratello Giulio, invece, si sposò
due volte, la prima con una Caracciolo, ma senza
avere figli, la seconda con Silvia Capece. Dal secondo matrimonio, celebrato nel 1608, nacquero
Alfonso (1609) e Antonio40. Di quest’ultimo sarebbe stato utile individuare la data di nascita,
poiché dalla sua età anagrafica dipende la corretta interpretazione di una inedita lettera del 1638
(di cui si tratterà approfonditamente più avanti).
Stando al manoscritto di Livio Serra di Gerace,
Antonio nacque nel 161141; questi, però, per motivi cronologici non può essere l’omonimo componente della famiglia considerato ancora minore nella citata missiva; dobbiamo quindi ritenere
che possa esserci stato un errore nella trascrizione della data di battesimo nel manoscritto genealogico oppure che si tratti di un figlio deceduto
prematuramente, il cui nome è stato riutilizzato
per il terzogenito.
Anche Laura, l’unica figlia femmina di Giovanni Alfonso e Giulia Tomacelli di cui si conosce
qualche dato biografico, dimostra di essere legata alla cappella di famiglia. Sposata con Marcello Filomarino (1578) e poi, in seconde nozze,
con Decio Caracciolo (1585), nel suo testamento
chiese di essere sepolta nella chiesa di San Domenico Maggiore, nella cappella dove si trovavano i suoi genitori. Dispose di impiegare 950 ducati per l’acquisto di un censo perpetuo, dal quale ricavare 40 ducati annui destinati al convento di San Domenico Maggiore per la celebrazione di una messa al giorno per la sua anima nella cappella di famiglia. Lasciò eredi Alfonso Filomarino e Maria Caracciolo, nati rispettivamente dal primo e dal secondo matrimonio. In successivi resoconti, i padri registrarono la mancata esecuzione delle volontà della testatrice e rivendicarono le quote annuali dovute per le messe
già celebrate42. Nel 1619, attraverso due atti notarili, Maria Caracciolo, marchesa di Mottagioiosa,
assegnò un censo annuo di 20 ducati al convento di San Domenico Maggiore per la celebrazione
di messe nella cappella della famiglia Del Doce.
La rendita era vincolata all’affitto di una casa alla
Zabatteria, ma, a partire dal 1648, i frati lamentarono di non riuscire a ricavarne denaro poiché
l’abitazione risultava in pessime condizioni o, forse, addirittura demolita (“caduta”)43.
Tornando alla linea maschile, Giovanni Antonio
Del Doce costituì erede il primogenito Andrea44,
il quale, nel 1605, investì diversi ducati provenienti
dal patrimonio della defunta Giulia Tomacelli, sua
nonna, impegnandosi a pagare col proprio denaro
una quota annua di 11 ducati e 8 grana, dovuta al
convento di San Domenico Maggiore dall’eredità
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
47
48
GIUSEPPINA MEDUGNO
dell’antenata. Dopo la morte di Andrea, il debito
sarebbe passato agli eredi. Altri 5 ducati, invece,
vennero corrisposti per messe a suffragio di Giovanni Antonio, suo defunto padre45. Intanto, in
una delle principali guide della città, la Napoli sacra di Cesare D’Engenio Caracciolo, la cappella è
così descritta: “nella cappella della famiglia dello
Dolce, o Doce, è una bellissima tavola in cui è la
Nostra Donna col Figliuolo nel seno, l’angelo Rafaello, ch’accompagna Tobia (vero ritratto di Pico
della Mirandola) e san Girolamo vestito cardinale di rara pittura, il tutt’è opera di Rafaelle Santio
della città d’Urbino eccellentissimo pittore, discepolo di Pietro Perugino, e fiorì nel 1512”. Seguono
le trascrizioni dei già citati epitaffi46.
Andrea Del Doce morì nel 1627; la notizia, ricavata dal citato manoscritto di Serra di Gerace, è
confermata da un atto notarile dell’anno successivo, dove suo fratello Giovanni Paolo risulta suo
erede universale47.
Pochi anni dopo, nel 1632, morì anche Giulio48,
fratello di Giovanni Antonio e zio di Andrea e
di Giovanni Paolo, lasciando due figli, Alfonso
e Antonio, quest’ultimo probabilmente nei suoi
primi anni di vita. Nello stesso anno, Alfonso e
la madre Silvia costituirono una società, spostando i loro interessi economici in terra d’Otranto49.
A breve distanza, nel 1635, venne a mancare anche Giovanni Paolo, il quale nominò erede proprio il cugino Alfonso. Il suo corpo non si trova
nella chiesa di San Domenico, anzi fu lui stesso a
disporre di essere sepolto nella sua cappella nella
chiesa di Santa Maria Donnaromita, per la quale nel 1629 aveva commissionato un altare50. Proprio in quegli anni, fu data alle stampe Dell’historia napoletana di Francesco De’ Pietri, che, descrivendo la storia della famiglia Del Doce, citò anche la “assai nobil cappella in S. Domenico
presso l’altare del Crocifisso ove si vede una tavola d’isquisita dipintura opera di Raffaello”51.
In poco tempo, Alfonso si trovò a ereditare i beni del padre Giulio e del cugino Giovanni Paolo.
Dal 1635, dopo la morte di Giovanni Paolo, Alfonso e il fratello minore Antonio erano gli unici maschi della famiglia Del Doce ancora in vita.
Nel 1636, Alfonso sposò Silvia Carafa della Stadera, figlia di Fabrizio, principe di Chiusano52.
Pochi mesi dopo, Filippo IV gli conferì il titolo
di duca di Cutrofiano53.
Intanto, nei libri contabili del convento di San
Domenico furono registrati versamenti a loro favore da parte di Alfonso Del Doce. Si tratta della
quota annuale di 11 ducati e 8 grana, stabilita dal
defunto cugino Andrea nel 1605 e che ora pesava su Alfonso, quale erede di Giovanni Paolo. Per
queste operazioni Alfonso si servì di un procuratore, Marco Antonio Giannotti, mentre sul suo
conto e su quello cointestato con la madre non si
rilevano altri movimenti interessanti54.
Quando Alfonso e Antonio divennero gli unici
proprietari della cappella di famiglia, il quadro
di Raffaello si trovava ancora sull’altare, ammirato da chiunque avesse accesso al luogo, tra questi
anche Ramiro Felipe Núñez de Guzmán, il quale si stabilì a Napoli quando ottenne la carica di
viceré nel novembre del 1637. È molto probabile,
infatti, che il duca di Medina de las Torres, grazie all’antico legame familiare della discendenza Guzmán con l’ordine domenicano attraverso
il suo fondatore e il patronato sulla cappella intitolata alla Madonna del Rosario, ottenuto tramite il vincolo matrimoniale con Anna Carafa, avesse un rapporto privilegiato con quel luogo55. Impegnato, inoltre, in una vorace attività di acquisizione di opere per la sua collezione, dovette bramare da subito la tavola di Raffaello, ottenendola
già nel 1638. Come si spiegherà meglio nel prossimo paragrafo, l’alienazione generò delle tensioni
tra Alfonso Del Doce e Silvia Capece, che intervenne nell’interesse del figlio minore, Antonio. Il
contrasto si risolse presto grazie a un generoso intervento del viceré, che quindi riuscì a portare il
dipinto nella sua quadreria.
Il fratello Antonio, di cui – come si ricorderà –
non si conosce la data di nascita, risulta ancora
“minore” e sotto la tutela della madre in un atto notarile del 1644. Solo due anni dopo potrà
rappresentare sé stesso ed essere definito “eques
neapolitano”56. Inoltre, potendo finalmente disporre dei beni ereditati, si preoccupò di chiarire
la sua posizione patrimoniale, anche in riferimento alla gestione tutoriale della madre e del fratello; purtroppo, il documento, a parte alcuni crediti e un breve elenco di argenti, fa solo genericamente riferimento all’alienazione da parte di Alfonso di “certi corpi hereditari”57. Terminano qui
le notizie biografiche rinvenute sulla famiglia Del
Doce, che probabilmente si estinse proprio con i
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
5. Copia da Raffaello
Madonna del pesce
prima metà del
XVII secolo
Napoli, chiesa di
San Paolo Maggiore
49
fratelli Alfonso (deceduto nel 1666) e Antonio58.
L’interesse per la tavola di Raffaello, però, si riaccese nel 1642, a causa di vicende politiche che
riguardarono il maestro generale dell’ordine dei
frati predicatori, padre Niccolò Ridolfi, già noto
agli storici dell’arte attraverso la pubblicazione di
una lettera dell’informatore fiorentino Vincenzo
de’ Medici, dove, per la prima volta, emerse un
suo coinvolgimento nella sottrazione del quadro
per conto del viceré59. Anche questo aspetto verrà approfondito nel prossimo paragrafo.
Nel 1644, il quadro venne spedito in Spagna dal
duca di Medina, che lo cedé a Filippo IV. Qualche anno dopo, Diego Velázquez lo descrisse nella sala del capitolo del monastero di San Lorenzo di El Escorial, ricordandone la provenienza da
Napoli60. Con poche variazioni, lo troviamo illustrato di nuovo anche da padre Francisco de los
Santos nella Descripción breve del monasterio de
S. Lorenzo el real del Escorial, edita nel 165761; invece a Napoli, inaspettatamente, Carlo De Lellis
nel suo Supplimento a Napoli sacra (1654) non registrò variazioni nella cappella Del Doce rispetto alla precedente guida di Cesare D’Engenio
Caracciolo, salvo poi riportare il trasferimento
del quadro nei citati Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli (1671)62. Addirittura, ancora nel nono decennio del XVII secolo nella Guida de’ forestieri, Pompeo Sarnelli, descrivendo la
cappella della famiglia Del Doce, citò la tavola
di Raffaello come ancora presente in sede. Evidentemente l’autore si basò anche lui sulla guida
di D’Engenio Caracciolo del 1623, senza ulteriori verifiche63.
Nelle Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli (1692), Carlo Celano dimostrò
di essere aggiornato sulla sostituzione del dipinto
con quello di Santa Rosa da Lima e sulla presenza di una “copia ben fatta” nella chiesa teatina di
San Paolo Maggiore (fig. 5): “si vede la cappella
della famiglia Del Duce, o Del Dolce, nobile del
seggio di Nilo, et in quel luogo dove oggi si vede
un quadro di Santa Rosa domenicana, vi era una
famosissima tavola, in cui si vedeva espressa l’immagine di Nostra Signora col suo Figliuolo nel
seno, l’angelo Rafaello che accompagnava Tobia,
il quale era il vero ritratto di Pico della Mirandola giovanetto, e san Girolamo vestito colla sua
porpora cardinalitia, che era il ritratto di Pietro
50
GIUSEPPINA MEDUGNO
Bembo: opera la più bella e più pretiosa ch’havesse mai fatto il pennello del gran Rafael d’Urbino. Et una copia di questa, ben fatta, si può vedere nella sacristia, come si disse, della chiesa di
San Paolo de’ padri teatini; hora, per nostra disaventura, è fuori del nostro Regno”64.
Un secolo dopo, la fama del dipinto doveva essere
ancora viva se, nel diario redatto durante il viaggio a Napoli, Tommaso Puccini, fine conoscitore e direttore della Galleria degli Uffizi dal 1793,
scrisse di aver visitato la chiesa di San Domenico
Maggiore, dove si “figurava di vedere almeno la
copia del bel quadro di Raffaello, dove è l’angelo
Tobia, già da questa chiesa trasportato in Spagna”,
ma di non averla trovata. Aggiungendo che “forse la copia non ci sarà mai stata”, uscì “mal soddisfatto” per non aver trovato quello che cercava. La
settimana successiva, però, pur visitando la sacrestia della chiesa di San Paolo Maggiore, non fece
alcun accenno alla presenza della replica che lui
stesso desiderava vedere e che in quegli anni – come si legge nella guida di Giuseppe Sigismondo –
si trovava nell’antisacrestia della chiesa teatina65.
2. La Madonna del pesce di Raffaello.
Da questione familiare a caso diplomatico
La presenza di un’opera di Raffaello Sanzio nella chiesa di San Domenico Maggiore è stata fin
dall’origine oggetto di attenzione: copiata più volte e riprodotta in incisioni, già a partire dal suo
modello preparatorio, l’immagine ha avuto una
notevole diffusione anche nei secoli successivi66,
così come il ricordo della sua originaria collocazione è stato protratto nel tempo dalla letteratura
periegetica e dalle altre fonti storiche, nonostante
la partenza per la Spagna67. Nel 1638, infatti, il viceré Ramiro Felípez Núñez de Guzmán riuscì a
ottenere la tavola che da oltre un secolo si trovava
sull’altare della cappella della famiglia Del Doce
e che probabilmente fu una delle prime opere che
andò ad arricchire la sua quadreria, a scapito del
patrimonio artistico locale68. Tuttavia, essa era già
destinata a ben altra collezione. Infatti, conclusosi il suo mandato (1644), il duca di Medina de las
Torres provvide a inviare questa e altre opere di
altrettanti prestigiosi maestri a Madrid. Qualche
anno dopo venne descritta nella sala del capitolo
del Real monastero di San Lorenzo di El Escorial,
nelle raccolte reali di Filippo IV69.
In questa sede si prova a dare un contributo per
ricostruire i fatti avvenuti nel quinquennio 16381642, i cui estremi segnano due punti nodali
nell’indagine sulla delicata questione del passaggio del capolavoro di Raffaello nella collezione del
viceré e sulla successiva risonanza internazionale.
In un contesto in cui, per la sua posizione egemone, la Spagna fu la principale destinataria di flussi di opere d’arte in quanto oggetti confacenti ai fini della diplomazia, il sistema di relazioni clientelari che la monarchia spagnola consolidò con le famiglie nobili della penisola, attraverso il riconoscimento di titoli e benefici, seguiva le stesse logiche dei frequenti scambi di doni diplomatici con
le corti italiane al fine di creare o consolidare alleanze70. Nelle dinamiche del rapporto clientelare,
quindi, l’omaggio poteva configurarsi come merce
di scambio per ottenere favori71; in alcuni casi, però, i documenti hanno rivelato anche circostanze
più complesse, in cui la donazione non fu un gesto
spontaneo del proprietario, ma piuttosto un atto di
obbedienza a un’autorità superiore72.
Nel reperimento di opere di artisti italiani per sé
e per la corona spagnola furono impegnati anche
i funzionari che si avvicendarono nel vicereame
napoletano, i quali, per soddisfare le richieste dei
sovrani, operarono non solo attraverso commissioni dirette e acquisti sul mercato, ma anche rastrellando capolavori da luoghi di devozione. Alcuni di questi episodi sono noti poiché suscitarono grande clamore e qualche protesta, tanto da
essere riportati nelle relazioni di corrispondenti
stranieri e avere eco nella letteratura coeva e nella storiografia annalistica ottocentesca73.
Per implementare le sue raccolte con le opere dei
principali maestri italiani e stranieri presenti nelle aree di influenza della monarchia spagnola, negli anni qui esaminati, Filippo IV d’Asburgo utilizzò una rete di agenti e diplomatici, che, nel caso in cui non fossero riusciti ad ottenerle in dono
o a scambiarle con altri benefici, potevano trattarne l’acquisto attingendo dal fondo reale dei gastos secretos74. I canali di pagamento dei manufatti artistici passavano ovviamente anche per i
banchi pubblici napoletani, attraverso i numerosi procuratori di cui i funzionari del re si servivano75. I principali artefici di questa politica di acquisizioni furono Manuel de Acevedo y Zúñiga
conte di Monterrey e Ramiro Felípez Núñez de
Guzmán duca di Medina de las Torres (figg. 6-7),
che ricoprirono la carica di viceré rispettivamente dal 1631 al 1637 e dal 1637 al 1644.
Quindi, sull’esempio del suo predecessore, anche
il duca di Medina si prodigò nella ricerca di opere dei principali artisti italiani del Cinquecento
con tale impegno che, dopo solo pochi mesi dal
suo giuramento nel duomo di Napoli, riuscì a ottenere la Madonna del pesce. Proprio tale rapidità,
però, dovrebbe indurre a considerare – con la necessaria prudenza – l’ipotesi che le trattative fossero iniziate qualche anno prima tra Alfonso Del
Doce e il conte di Monterrey e che avessero avuto
come preludio l’investitura a duca di Cutrofiano
concessa al primo nel 1636 da Filippo IV. Questo beneficio, infatti, potrebbe aver rappresentato una ricompensa per la cessione del dipinto. Tale consegna, però, potrebbe essere stata rallentata dall’insorgenza di contrasti all’interno del nucleo familiare per la tutela degli interessi di tutti gli eredi. Verosimilmente, a interrompere temporaneamente la negoziazione con gli altri aventi diritto potrebbe aver contribuito anche l’avvicendamento dei viceré. Infine, sulla base di nuovi
documenti, possiamo supporre che proprio a seguito dell’intervento del duca di Medina, determinato a portare a termine con successo la trattativa ipoteticamente cominciata dal suo predecessore, si fossero riaccese le tensioni che portarono
gli interessati a rivolgersi alle autorità pubbliche
per far valere il vincolo testamentario di inalienabilità. Questa ipotesi, che arretra di qualche anno l’inizio della trattativa per ottenere il dipinto,
giustificherebbe la citata investitura a duca dell’erede maggiore. Tale operazione trova un precedente documentato nelle trattative tra il conte di
Monterrey e il principe Niccolò Ludovisi per due
quadri di Tiziano in cambio della sub-investitura
del feudo di Piombino, per la quale Niccolò non
esitò a violare il fidecommesso del fratello Ludovico, che ne vietava l’alienazione. In questo caso,
però, a differenza di quello qui trattato, la ratifica ufficiale dell’investitura arrivò diversi anni più
tardi, dopo che anche altri capolavori entrarono
nelle collezioni reali76, ma è indubbio che il feudo
di Piombino avesse tutt’altro valore economico e
strategico rispetto alla terra di Cutrofiano.
Al di là del presunto precedente coinvolgimento del
conte di Monterrey, al momento non dimostrabile,
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
51
cui trattare del quadro con i frati. È probabile,
inoltre, che fosse presente all’evento anche Niccolò Ridolfi, che giunse a Napoli il passato luglio77.
Ad ogni modo, in quel periodo, un incontro tra
il maestro generale dell’ordine e il duca di Medina è attestato nella corrispondenza che andremo
ad analizzare nel dettaglio e dalla quale emerge
che, quando, nel 1638, il primo fece visita ai frati
del convento di San Domenico Maggiore, il duca
di Medina lo ricevé con “mille onori”. Fu questa
l’occasione per avanzare la richiesta di donazione della tavola di Raffaello, alla quale padre Ridolfi non si sarebbe opposto, invitando però il viceré a trattare direttamente con i proprietari. La
negoziazione coinvolse i frati, il legittimo proprietario e gli eredi a vario titolo. Essa generò anche
qualche ostilità ma, alla fine, accontentati evidentemente tutti coloro che ne avevano diritto, la tavola di Raffaello poté lasciare l’altare della cappella per trovare nuova, temporanea, collocazione
nella galleria del duca di Medina. Nel 1642, però,
si registrò un singolare interesse verso quell’episodio. In particolare, ad attrarre l’attenzione di alcuni osservatori di istituzioni estere fu la circolazione di voci che accusavano Ridolfi di aver rimosso indebitamente il quadro dalla chiesa. Questione che, attraverso la letteratura, è giunta invariata fino ai nostri giorni e che si cercherà di chiarire in questa sede.
3. La questione ereditaria nella testimonianza di
Niccolò Herrera
6. Manuel de
Acevedo y Zúñiga,
conte di Monterrey
incisione, in D.A.
Parrino, Teatro
eroico e politico dei
governi de’ viceré
del Regno di Napoli
Napoli 1692-1708
Società Napoletana
di Storia Patria
52
la trattativa condotta dal duca di Medina è invece
confermata da fonti e documenti.
Tornando, quindi, alle testimonianze in nostro
possesso, tra le occasioni in cui Ramiro Felípez
Núñez de Guzmán si recò al convento di San Domenico Maggiore, è documentata la partecipazione al banchetto organizzato per la ricorrenza del
fondatore dell’ordine in data 8 agosto 1638, che,
per la prossimità con gli eventi di seguito esposti, potrebbe essere stata una delle circostanze in
GIUSEPPINA MEDUGNO
Il primo problema che il duca di Medina si trovò ad affrontare furono i dissapori nati all’interno del nucleo familiare dei proprietari della cappella. I particolari della vicenda emergono da un
documento coevo: si tratta di una lettera a firma
del nunzio apostolico Niccolò Herrera, inviata da
Napoli il 28 settembre 1638 e indirizzata alla Segreteria di Stato pontificia78. Questi poteva giovarsi di testimonianze dirette, in una circostanza
prossima ai fatti.
La missiva aveva lo scopo di informare l’interlocutore romano di un’istanza mossa contro i frati del
convento napoletano, accusati di aver consegnato il
quadro di Raffaello al viceré senza averne diritto.
Anche se nella lettera non si fanno i nomi dei
protagonisti, la conoscenza acquisita sulle vicende ereditarie della famiglia Del Doce, consente
di individuarli senza errore. A chiedere l’intervento del nunzio apostolico, infatti, sarebbe stata
Silvia Capece (indicata nella lettera come madre e
tutrice del coerede minore), al fine di tutelare gli
interessi di uno dei suoi figli, cioè Antonio.
La lettera di Herrera svela particolari importanti
che vanno a integrare le notizie reperite dallo spoglio degli istrumenti notarili. Intanto conferma che
la cappella era ancora della famiglia Del Doce e
mette al corrente il suo interlocutore di una clausola testamentaria di inalienabilità che vigeva sul
dipinto, con annessa penale di 4000 ducati a carico degli eredi in caso di dispersione, da versare
eventualmente nelle casse della Casa della Santissima Annunziata di Napoli79. Stando al racconto del
nunzio, il duca di Medina si accordò direttamente
con Alfonso, che diede il suo consenso per iscritto
e che ne ricavò una somma di denaro o un altro beneficio (“ha aggiustato prima l’erede”); mentre con
l’istituto assistenziale si convenne per il versamento
di soli 800 ducati. Dall’intesa, quindi, restò escluso
Antonio. Per tale motivo, Silvia, opponendosi alla
decisione del figlio maggiore, presentò un’istanza
per chiedere l’intervento delle autorità.
Dell’appello della donna, Herrera scrive di aver
informato anche il padre generale dell’ordine,
che allora era Niccolò Ridolfi, ricevendo rassicurazioni sulla disponibilità del viceré a restituire
l’originale nel caso in cui la concessione fosse risultata illegittima. In tal caso, infatti, il duca di
Medina si sarebbe accontentato di una copia, che
nel frattempo avrebbe fatto dipingere; tuttavia, il
mittente esprime un dubbio comune (“li più ne
dubitano”) sulla restituzione, per la premura che
il funzionario spagnolo aveva di mandare quadri originali a sua maestà. La lettera termina con
una dichiarazione di astensione dall’agire a favore dell’una o dell’altra parte.
Non si conoscono le reali intenzioni di Silvia, ma
possiamo supporre o che fosse meno interessata alla restituzione del quadro quanto piuttosto ad assicurare un equo compenso anche per il secondogenito oppure che avesse un sincero trasporto verso il significato devozionale di quell’immagine, ma
che, costretta a piegarsi al potere vicereale, dovette cedere l’originale e forse accettare la copia. L’unica certezza è che la tavola di Raffaello uscì definitivamente dalla cappella, mentre sulla copia coeva al
momento si possono fare solo delle ipotesi.
Quindi, senza alcuna pretesa di individuare la
copia fatta dipingere dal duca di Medina, si propongono ad esempio due repliche seicentesche
che si trovano tuttora in Campania: quella conservata nella chiesa di San Paolo Maggiore in Napoli e quella presente nella cappella della famiglia Perrella nella chiesa di Santa Maria delle
Grazie a Sant’Agata sui due Golfi80.
Nel primo caso, le fonti e i documenti tacciono
sul nome del committente e sul motivo per cui
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
7. Ramiro Felípez
Núñez de Guzmán,
duca di Medina de
las Torres, incisione
in D.A. Parrino,
Teatro eroico e politico
dei governi de’ viceré
del Regno di Napoli,
Napoli 1692-1708
Società Napoletana
di Storia Patria
53
si trova nella principale chiesa teatina di Napoli, che, proprio nel corso del XVII secolo, in vista
della beatificazione di Andrea Avellino (1624) e di
Gaetano Thiene (1629), fu ampiamente arricchita
di nuovi dipinti81. Nessun riferimento alla presenza della replica nella parte dedicata alla descrizione della chiesa nel testo di Giovanni Antonio Cagiano (1627), che però nella sua opera si sofferma quasi esclusivamente sulle opere raffiguranti
la vita di Andrea Avellino82; mentre la prima notizia possiamo trovarla nella guida di Carlo Celano (1692), che la descrive nella “cappelletta” della sacrestia, luogo in cui si potevano ammirare “li
quadri dipinti da diversi valent’uomini” (da qui
risulta spostata nell’atrio della detta sacrestia già
nel 1724). Il canonico esprime un giudizio positivo sulla replica (“una copia ben fatta del quadro”),
specificando anche dove si trovava l’originale83.
Al momento non ci sono elementi per ipotizzare
che il dipinto in San Paolo Maggiore sia la replica
fatta eseguire nel 163884, tuttavia un collegamento tra i due istituti religiosi potrebbe essere cercato nella famiglia Carafa della Stadera, attraverso
due distinti indirizzi di indagine.
La prima ipotesi è che la replica sia rimasta nella
cappella della famiglia Del Doce per alcuni anni
e che, ad un certo punto, Silvia Carafa, moglie di
Alfonso, l'abbia donata ai chierici regolari teatini.
Silvia, figlia di Fabrizio principe di Chiusano, infatti, discendeva dal nobile Antonio Carafa detto
Malizia (sepolto in San Domenico Maggiore) e attraverso i suoi antenati poteva vantare un legame
di parentela con Paolo IV, al secolo Gian Pietro
Carafa, che poco più di un secolo prima fondò l’ordine dei teatini insieme a Gaetano Thiene. Questa
parentela potrebbe spiegare una particolare devozione verso quell’ordine e conseguentemente dare
una giustificazione alla presenza della copia.
L’altra ipotesi è che anche la replica potrebbe essere rimasta nelle disponibilità del duca di Medina,
che, ricompensati in altro modo entrambi gli eredi Del Doce, potrebbe aver fatto dono della copia alla moglie donn’Anna Carafa, principessa di
Stigliano85, anch’ella discendente dallo stesso capostipite e legata al convento teatino di San Paolo
Maggiore, dimostrandolo anche attraverso la scelta del suo confessore86. Anche in questo caso, il riferimento all’antica parentela e alla evidente devozione potrebbe portare alla risoluzione del quesito.
54
GIUSEPPINA MEDUGNO
La seconda copia mi è stata segnalata da Riccardo Naldi e Giuseppe Porzio nella cappella della famiglia Perrella, che contribuì alla fondazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie in
Sant’Agata sui due Golfi e che risulta proprietaria
della cappella di San Francesco d’Assisi dal 1596.
Nel 1623, Giuseppe Perrella fece eseguire lavori
che ne migliorarono l’aspetto estetico, arricchendola di rivestimenti marmorei87. La replica, quindi, potrebbe essere coeva a questa fase oppure essere stata aggiunta in un secondo momento. Essa,
infatti, non fa parte della composizione della pala d’altare ma si trova su una delle pareti laterali88. Diversamente dalla copia napoletana, in questo caso non ho trovato alcun collegamento tra le
famiglie o i due istituti religiosi.
Entrambe le repliche si trovano in cattivo stato di
conservazione, nel secondo caso già segnalato all’inizio del secolo scorso da Riccardo Filangieri89.
4. La svolta del 1642: le relazioni di Vincenzo de’
Medici e di François Du Val
Gli ostacoli, che avrebbero potuto frapporsi alla realizzazione del progetto del duca di Medina, furono quindi superati in breve tempo; tuttavia, essi riemersero con maggior vigore qualche
anno più tardi. Questa volta, però, furono il pretesto per giudicare l’operato del maestro generale
dell’ordine domenicano, al quale venne imputato un ruolo fondamentale nello spostamento del
quadro. Quindi, le accuse rivolte a Niccolò Ridolfi non vennero formulate al momento del fatto né
come conseguenza diretta di esso ma emersero
nel 1642, un anno significativo nella biografia del
frate. Per cui è necessaria una breve digressione.
Nella storiografia domenicana emerge chiaramente che nel XVII secolo il fenomeno del nepotismo
raggiunse livelli altissimi e che Spagna e Francia
si contendevano l’elezione del maestro generale
dell’ordine. In questo contesto, l’affaire Ridolfi occupa uno spazio preminente nella storia dell’ordine dei frati predicatori90. Niccolò Ridolfi, di nobile famiglia fiorentina, fu nominato prima vicario
generale dell’ordine domenicano da Urbano VIII
e poi, nel 1629 durante il Capitolo di Roma, eletto
all’unanimità maestro generale. Di orientamento
filospagnolo, non ebbe buoni rapporti con i francesi (“un grand Espagnol”, così veniva etichettato nella corrispondenza diplomatica). Nel periodo
del suo mandato sollecitò diverse riforme, non
sempre ben accolte e che fecero aumentare il numero dei suoi oppositori, soprattutto in Francia
(dove sarebbe stata ben vista l’elezione di Michele Mazzarino, vicino al cardinale Armand-Jean du
Plessis duca di Richelieu) e nell’Italia meridionale
(dove i beni materiali dei frati furono colpiti dalle sue scelte politiche)91. Ma il suo principale oppositore divenne proprio il papa, che non gli perdonò l’ingerenza nei suoi affari di famiglia, attribuendogli un ruolo decisivo nell’aver fatto sfumare un potenziale accordo matrimoniale tra Barberini e Aldobrandini, avendo, al contrario, contribuito fattivamente a quello tra Paolo Borghese e Olimpia, ultima discendente della famiglia di
Clemente VIII (Aldobrandini di padre e Ludovisi da parte materna). Infatti, quando il 19 luglio
1638 morì il cardinale Ippolito Aldobrandini, che
invece aveva chiesto la complicità di Ridolfi per
favorire le trattative con Paolo, si rese necessario
accelerare le nozze della giovane Olimpia (già orfana e senza fratelli) con il rampollo della famiglia Borghese. L’unione venne celebrata segretamente il 25 luglio successivo, proprio grazie all’intervento del frate92. È a partire da questa data che
i rapporti tra il domenicano e il papa si incrinarono. Tuttavia, il pretesto per eliminarlo dalla scena arrivò solo nel 1642 (era il 19 aprile, sabato santo), quando uno dei suoi oppositori più influenti si rivolse direttamente a Urbano VIII per accusare il frate di abuso di potere. Favorevole il periodo pasquale, il martedì successivo, con un breve papale, arrivò l’ordine di prelevare nottetempo padre Ridolfi dalla sede di Santa Maria sopra
Minerva e di confinarlo in San Sisto Vecchio. La
mattina successiva venne avviato un processo sotto la direzione del cardinale Antonio Barberini,
che tra l’altro, durante il periodo di sospensione
di Ridolfi dalla sua carica, ottenne anche tutti i
poteri del maestro generale dell’ordine domenicano. Ciò però non era ancora sufficiente e, quindi, si lavorò tenacemente alla sua deposizione, che
doveva avvenire prima di ottobre, per impedirgli
di sovrintendere all’imminente Capitolo di Genova. A tal scopo e per velocizzare il processo, il papa invitò chiunque avesse avuto motivo di lamentarsi dell’operato di Ridolfi a presentare le proprie
segnalazioni a una commissione costituita ad hoc.
In poco tempo arrivarono diverse testimonianze
con aneddoti accaduti anche a Napoli. Secondo
una successiva relazione, redatta al tempo di papa
Innocenzo X, a muovere accuse contro di lui furono numerosi personaggi di malafede giunti dalle province del regno, mossi da personali motivi di rancore o da garanzie di ricompense. A queste beghe locali, si devono aggiungere più alte manovre politiche, come l’interesse del cardinale Richelieu a sostenere la candidatura a maestro generale dell’ordine di Michele Mazzarino, fedele alla corte di Francia. Tutte queste pressioni valsero
a Ridolfi una sospensione temporanea, per poi essere successivamente riabilitato per mancanza di
prove concrete solo nel 1643 dallo stesso Urbano VIII93.
È evidente che padre Ridolfi fu vittima di una
campagna diffamatoria, che ebbe la sua acme nel
1642, e, pertanto, non stupisce che anche le testimonianze che denunciano un suo colpevole
coinvolgimento nel caso dell’alienazione del dipinto di Raffaello emersero con vigore proprio
nell’anno del processo. È quindi lecito pensare
che, se nel 1642 non ci fosse stata un’esigenza faziosa a indagare sull’operato del maestro generale dell’ordine, di tutta questa storia sarebbe rimasta probabilmente solo una questione ereditaria,
peraltro risolta in breve tempo attraverso accordi.
Essa, invece, trovò la sua cassa di risonanza nel
processo Ridolfi, diventando un caso internazionale in un affare politico più grande, come emerge anche dall’interesse suscitato in alcune corrispondenze diplomatiche.
A poche settimane dall’inizio del Capitolo di Genova, in una relazione del 7 ottobre 1642, l’agente
fiorentino Vincenzo de’ Medici, già noto per essere anche corrispondente del principe Leopoldo94, fornì la sua versione degli eventi. Nella lettera, nota fino ad oggi attraverso la sintesi elaborata da Francesco Palermo, risalta per la prima volta (stando ai documenti fin’ora editi) il ruolo centrale di padre Ridolfi come esecutore della sottrazione del quadro di Raffaello95.
Subito dopo il racconto di una lite tra due cavalieri avvenuta durante la rappresentazione di una
commedia, Vincenzo de’ Medici passa a descrivere quanto accaduto il giovedì precedente, quando padre Giovanni Battista Parascannolo, priore
del convento di San Domenico Maggiore, sarebbe stato convocato da Antonio Pérez Navarrete,
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
55
uditore generale dell’esercito, e dal reggente Diego Bernardo Zufia (presidente del Sacro Regio
Consiglio dal 1640) per la notifica di una comunicazione del viceré96. Stando al racconto, nel viglietto si ordinava al priore di allontanarsi immediatamente dal regno, come effettivamente sarebbe avvenuto il giorno stesso, accompagnato fino al confine da cinquanta soldati. Il motivo del
provvedimento stava nell’aver spedito a Roma diversi documenti sottratti al priore del convento
domenicano di San Pietro Martire e da quest’ultimo tenuti nascosti perché denigratori dell’operato dei padri Niccolò Ridolfi e Ignazio Cianti.
Non solo, Parascannolo aveva anche ignorato la
richiesta di far tornare quelle scritture a Napoli,
asserendo di essere tenuto a obbedire unicamente agli ordini dei suoi superiori. Tra i capi d’accusa contenuti in quelle lettere, il corrispondente fiorentino si soffermò esclusivamente su quello relativo all’indebita donazione al viceré di un
quadro di Raffaello “da molto valore” che era in
San Domenico. Ad alterare ulteriormente il duca di Medina, fu la notizia dell’arrivo di un commissario papale, tale padre Imola, con il compito di ottenere altre informazioni contro Ridolfi
e di punire il priore di San Pietro Martire per
aver avvisato il viceré dell’operato di Parascannolo. Infine, il duca di Medina, in un braccio di ferro con la Santa Sede, ordinò al nunzio apostolico
Lorenzo Tramallo97 di comunicare a Imola che
non avrebbe avuto l’exequatur regio, impedendogli in pratica di poter eseguire gli ordini del papa.
Il racconto si conclude facendo supporre che il
commissario avrebbe fatto tacitamente ritorno a
Roma, ma come vedremo non andò esattamente
in questo modo. Questa versione, infatti, è ulteriormente chiarita da un’altra corrispondenza diplomatica, che conferma il crescente risentimento che nel 1642 si andava affermando nei confronti di padre Ridolfi.
A scrivere questa volta è François du Val, marchese di Fontenay-Mareuil, che rivestì la carica
di ambasciatore francese a Roma nel quinto decennio del XVII secolo. I suoi interlocutori principali erano Giulio Mazzarino, fratello di Michele, e, verosimilmente attraverso di lui, il cardinale Richelieu, che – come anticipato – cospiravano contro Niccolò Ridolfi. In questo contesto,
la relazione del diplomatico francese, puntuale
56
GIUSEPPINA MEDUGNO
e circostanziale, a difesa dell’estraneità del maestro generale rispetto all’accusa di aver sottratto
il quadro di Raffaello dalla chiesa napoletana per
consegnarlo al viceré, acquisisce – a parere della scrivente – un maggiore valore di obiettività rispetto ai fatti narrati.
In un lungo dispaccio, datato il 1° novembre 1642
(contestualmente allo svolgimento del capitolo di
Genova, che si tenne l’ultima settimana di ottobre), dove sono trattati diversi argomenti coevi, perlopiù di natura politica, a un certo punto
François du Val ripercorre cosa accadde nel 1638,
quando padre Ridolfi si recò in visita al convento napoletano di San Domenico. Giunto nella capitale del Viceregno, il maestro generale dell’ordine sarebbe stato accolto dal duca di Medina,
che aveva premura di farsi regalare il quadro di
Raffaello. Al che Ridolfi avrebbe risposto di non
avere alcun potere sulle opere custodite nel convento, consigliandogli di rivolgersi direttamente
ai proprietari. Appagato da questa risposta, il viceré avrebbe inviato suoi uomini di fiducia a trattare con i frati, che acconsentirono, ricevendo in
cambio 200 scudi per la sacrestia e una copia del
quadro (del valore di 150 scudi), mentre la Casa Santa dell’Annunziata ne ricevé 500 a soddisfazione del vincolo testamentario. Purtroppo, il
marchese di Fontenay-Mareuil tacque sulla famiglia Del Doce.
Come lui stesso scrive, la digressione è giustificata dalla volontà di far chiarezza sulle voci che i
“maligni” stavano diffondendo in quel momento,
ovvero che, pochi anni prima, padre Ridolfi avesse donato il quadro di Raffaello al duca di Medina “di sua propria autorità”. Quindi nel 1642,
per indagare sulla vicenda – continua François
du Val – il pontefice inviò a Napoli padre Imola (qui identificato come vicario dell’Inquisizione
di Perugia), accompagnato da un notaio. Di tale ingerenza, il viceré si risentì e convocò il nunzio apostolico Lorenzo Tramallo, il quale avrebbe giurato di non essere a conoscenza delle intenzioni del pontefice e, forse proprio a dimostrazione della sua buona fede, ordinò al priore del
convento di San Domenico, padre Giovanni Battista Parascannolo, di non ricevere i commissari ma di mandarli subito fuori dal Regno. Tuttavia, quando i due giunsero a Napoli, il frate li
accolse con l’inganno in altro luogo, suscitando
ulteriormente le ire del duca di Medina, il quale, quindi, dispose l’arresto di Parascannolo e di
Imola (mentre il notaio venne portato su una galea). Per tutti furono firmate lettere di espulsione
dal regno. A tale oltraggio, Urbano VIII avrebbe voluto rispondere chiedendo l’intervento del
Santo Uffizio contro il viceré di Napoli, ma, dissuaso dai suoi consiglieri, fece interrogare solo
padre Ridolfi, che si dichiarò estraneo ai fatti dei
quali era accusato. La lettera continua riferendo
delle trame dei cardinali romani per influenzare
le sorti del Capitolo di Genova98.
Oltre a consentire di contestualizzare ulteriormente gli eventi, quest’ultimo documento fornisce preziose informazioni sull’effettiva e contemporanea esecuzione di una copia del dipinto.
Inoltre, la cifra indicata – se veritiera – deve farci pensare a una replica di altissima qualità, eseguita da un pittore con alte quotazioni di mercato. Infatti, l’importo espresso in scudi equivale a
240 ducati, una somma paragonabile a quella di
opere originali su tela eseguite nello stesso periodo da pittori come Jusepe de Ribera e Massimo
Stanzione99. E benché Giulio Mancini metta in
guardia sulla circostanza che “non essendo cosa
necessaria ma di diletto […], la pittura in sé non
puol haver prezzo determinato”100, non è possibile non notare la notevole differenza con altre repliche di dipinti di Raffaello, il cui costo, in quegli stessi anni, si aggirava tra i 20 e i 30 scudi circa o poco più, come nel caso di una copia destinata al conte di Lemos valutata 60 ducati101. Questi dati mi portano a ipotizzare che la copia fatta eseguire dal duca di Medina fosse stata dipinta da uno dei più “eccellenti” maestri presenti a
corte e che – secondo il comune sentire dell’epoca – fosse stata realizzata per poter rivaleggiare
con l’originale o addirittura superarlo102.
Nell’economia del presente lavoro, quindi, acquista ancor maggior significato il caso della grande pala che si trovava nella chiesa di Santa Maria delle Grazie alla Pescheria. Come rivelano i
documenti, il duca di Medina, questa volta con
l’aiuto dell’Eletto del Popolo, si fece consegnare due tavole del dipinto di Polidoro da Caravaggio. Tuttavia, in questa occasione, le proteste dei
confratelli (“havendo strepitato assai”) costrinsero il viceré a restituirle, “facendone far le copie”
dal suo pittore di fiducia, Jusepe de Ribera103. Le
analogie riscontrabili con la vicenda oggetto di
questo studio sono: la scelta di un’opera esposta
in un luogo di devozione, la ricerca della mediazione e della complicità di una personalità autorevole, quindi le proteste dei legittimi proprietari
(o di una parte di essi) e, infine, l’eventuale disponibilità di sostituire il desiderio dell’originale con
il possesso di “copie de’ più famosi quadri che sono in queste chiese”. Le due storie, però, hanno
avuto epiloghi diversi.
Infine, a ulteriore prova di quanto la versione del
coinvolgimento colpevole di padre Ridolfi si fosse radicata nei contemporanei, si aggiunga la testimonianza di Francesco Capecelatro, che – in
un’opera composta negli anni di governo del duca di Medina, ma rivisitata nel 1661 – accusò
anch’egli il funzionario di aver sottratto il famoso
dipinto di Raffaello dalla cappella Del Doce con
la complicità del maestro generale dei domenicani. In questo caso, però, l’episodio fu utilizzato
per contestare l’operato del viceré104.
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
57
Appendice. Documenti
1. Archivio di Stato di Napoli, Corporazioni
religiose soppresse, busta 593, Notamenti d’istrumenti dall’anno 1507 fin all’anno 1537, c.
5r-v, Napoli, 26 maggio 1509, XII indizione.
[nel margine sinistro:] Heronymus de Dulci |
casa e poteche | ala piaza dela Conciaria | non
ci è.
Ieronimo del Dulce
Die 26° mensis maii 12a inditione 1509. Factum fuit [aggiunta: instrumentum] dotaccionis
cuiusdam cappelle de domo de Duce, qua sita
intus cappellam crucifixi positam intus ecclesiam Sancti Dominici per magnificum Iheronimum de Duce. Pro dopte cuius cappelle dictus
Iheronimus facultatem et liberam licentiam
dedit fratribus dicti conventi exigendi singulis annis in perpetuum ducatos viginti super
quadam domo cum apotecis ipsius Iheronimi
posita in platea Concerie post mortem ipsius
Ieronimi cum condiccione quod fratres dicte
ecclesie post eius mortem debeant celebrare
missas in dicta cappella pro ipsis 20 ducatis
cum pacto quod liceat dicto Ieronimo et suis
heredibus dare in excambium dictorum ductorum viginti tanta bona stabilia quam ascendant
ad dicta summas vel ducatos quadringentos de
carlenis de quibus debeant emere censum et
stabilia pro dictis ducatorum 20 et instrumentum factum est in curia notarii Cesaris Amalfitani per manus notarii Iheronimi Gaffuri.
2. Ivi, c. 15r, Napoli, 22 febbraio 1518.
[nel margine sinistro:] Ioan Baptista de lo
Duce | revocatio capelle | in capella Crucifixi |
alias eidem concessa ut in bergamina | n.° 157.
Eodem die [XXII de febraro 1518] ei facto un
altro contracto, de la revocatione de la concessione de la cappella existenti intro la cappella
de Crucifixo concessa al signor Ioan Baptista
delo Doce, per mano de dicto notario [Nubiliis] Francisco [aggiunta di altra mano:], et al
presente non è più soa.
3. Archivio Apostolico Vaticano, Segreteria di
Stato, Napoli, busta 33, cc. 579r-580v, lettera
di Nicolò Herrera, inviata da Napoli, 28 settembre 1638.
Eminentissimo reverendissimo signor padron
colendissimo
58
Nella cappella del santo Crocifisso, che parlò à
San Tomaso d’Aquino nella chiesa di San Domenico v’è un’altra capella di patronato di casa
di Doci nella cui ancona stava un quadro di
Rafaello grande di una Madonna, e dell’Angelo Rafaele, e Tobia di gran nominata, per la cui
conservatione il primo testatore impose pena
a’ gl’heredi di 4 mila ducati da darsi alla Casa
della Santissima Anuntiata in caso di alienazione; essendone venuto desiderio al signor
vicere hà agiustato prima l’herede, che hà prestato il consenso suo per lettera, e con la Casa
dell’Annuntiata si è composto con dargli 800
ducati e poi si è fatto consignar il quadro da
padri; hora è ricorsa da me la madre dell’herede, che hà consentito, e come tutrice del coherede minore hà fatto instanza contro li padri,
che l’hanno consegnato, feci subito consapevole il padre generale dell’istanza, dal quale
hebbi informatione del fatto, e concluse che
il signor vicere non userebbe violenza essendo rimasti seco che restituirebbe l’originale se
fosse giudicato che la concessione dell’herede
fosse invalida, e che in tanto ne’ farebbe cavar
una copia per se, al che la signora consente, e
si contenta soprasedere purche ritorni il quadro, ma li più ne’ dubitano per la premura che
hà Sua Eccellenza di mandar questi originali à
Sua Maestà da chi vengano chiesti, e desiderati con grand’ansia. Io non mi sono interposto
fin’hora né giudizialmente, né à parlarne à Sua
Eccellenza perche ambe le parti mi hanno pregato à soprasedere essendomi offerto all’una, e
l’altra quando lo stimassero à proposito. Et a
Vostra Eminenza humilissimamente m’inchino. Napoli 28 7bre 1638.
Di Vostra Eminenza
Humilissimo devotissimo e obligatissimo servitore
[firmato:] Nuntio Nicolò Herrera
[Annotazione nel retro:]
1638, 28 settembre
Napoli
Monsignor Nuntio
Circa un quadro preso dal signor viceré di
mano di Raffaello nella chiesa di San Domenico di cui era prohibita l’alienatione dal fondatore della cappella, ove si trovava.
GIUSEPPINA MEDUGNO
4. Archivio di Stato di Firenze, Archivio Mediceo del Principato, busta 4112, cc. 298r-301r, lettera di Vincenzo de’Medici, inviata da Napoli, 7
ottobre 1642 (si trascrive esclusivamente la parte che interessa la vicenda trattata, cc. 298r-v).
[…]
Giovedì mattina il signor vicerè fece chiamare
il padre frate Giovanni Battisca Parascannolo priore di San Domenico, e gli ordinò, che
fusse dal signor Navarretta, auditore generale
dell’essercito, e dal signor reggente Sofia, dove
si aprì un viglietto nel quale Sua Eccellenza
ordinava al detto priore, che con ogni celerità fusse uscito da questo Regno, come fece il
medesimo giorno in una lettiga, accompagnato
sino à confini da 50 soldati à cavallo. La causa
di ciò si dice sia per haver detto priore mandato in Roma molte scritture, che il padre priore
di San Pietro Martire teneva conservate in due
stanze ne le haveva volute consegnare ad alcuno, per essere contro il generale Ridolfi, et il
padre Cianti, et avendo il signor vice rè fatto
ordinare al detto padre priore di San Domenico, che havesse fatto ritornare à Napoli le
dette scritture tra 15 giorni, fece poco conto di
ciò, con dire, che non era tenuto obbedire altri
ordini che quelli de suoi superiori. Tra gl’altri
capi, che dicono essere nelle dette scritture
mandate à Roma è, che quando il padre generale Ridolfi fu quà, donasse al signor vicerè un
quadro di Raffael da Urbino da molto valore,
che era in San Domenico.
Alterò anco non poco il signor vicerè per muoverlo alla detta resoluzione la venuta quà del
padre maestro Imola spedito da Roma per
commissario apostolico sopra la religione dominicana et per pigliare informazione contro il
detto padre generale; che in arrivare privò della cavea il priore di San Pietro Martire, perché
haveva dato notizia à Sua Eccellenza della missione di dette scritture in Roma, onde il signor
viceré mandò ordine al priore di San Pietro
Martire, che non havesse obbedito il suddetto
commissario, et al nunzio mandò à dire, che
l’avesse fatto partire dal regno, perché non
intendeva dargli l’esequatur regio. Et non vedendosi detto padre commissario, si dice, che
tacitamente se ne sia ritornato à Roma.
[…]
5. Ministère des Affaires étrangères, Correspondances politiques, Rome, vol. 79, cc. 288r292v, lettera di François Du Val, inviata da
Roma, 1° novembre 1642 (si trascrive esclusivamente la parte che interessa la vicenda trattata, cc. 289v-290r)
[…]
Quando il padre Ridolfi fu in Napoli, et che
ricevette mille honori dal viceré; l’Eccellenza
Sua con gran premura lo pregò di donarli un
quadro di Raffaele, che stava ad’un altare della sua chiesa. Il generale rispose che in niuna
maniera ci haveva che fare; perché s’era del
convento toccava alli padri figlioli del medesimo di concederlo, se poi l’altare era de i secolari, era necessario di trattare con loro.
Medina appagatosi delle dette raggioni, fece
negoziare con li padri, che diedero il loro consenso per quello che spettava a loro, et hebbero 200 scudi per la sacristia, et una copia del
quadro, che valse 150 scudi.
Et perché l’Annonciata di Napoli era rimasta
herede dei padroni dell’altare, donò 500 scudi
alla detta Annonciata, e riportò il beneplacito
in forma da i ministri del sudetto luogo pio.
E supponendosi qua dalli maligni, che il padre Ridolfi di sua propria auttorità havesse
donato al viceré il quadro, et che l’avesse tolto
alla chiesa, si voleva mettere in chiaro questo
delitto, come anche che havesse speso 1200
scudi in banchettare una sera il duca per guadagnarsi sempre più la sua grazia.
Per arrivare a questo segno furono inviati tre
settimane sono a Napoli padre Imola dominicano, ch’è il vicario dell’inquisitore di Perugia insieme con un notaro e li fu dato un breve, che conteneva le commissioni necessarie
sopra li due punti accennati di sopra, et che in
tre luoghi nominava il viceré.
Di tutto fu avvertito Medina da persone amorevoli del generale, onde sdegnatosi fortemente fece chiamare il noncio; li disse quello che
haveva peritiato, che restava grandemenente
maravigliato, che pensasse a’ mandare commissarii contro di lui, et che li dava parola di
far’impiccar’ subito il padre Imola, et il notaro, se ardivano entrare in Napoli.
Tramaglia giurò di non saper cosa alcuna, e
tornato a casa ordinò al priore del convento
de i Dominicani, che non ricevesse il padre
Imola, et che lo mandasse subito fuori della
città, e del Regno.
Ne tardò molto a comparire il sudeto padre
col suo compagno; onde il priore per proveder’ meglio fece vestire l’uno, e l’altro da prete
e li condusse in una casa apartata per ordinare
il loro ritorno a Roma con saputa del noncio.
Intanto le spie lavorarono et il viceré hebbe
nuova del tutto. Però fece prendere il padre
Imola, il notaro, et il priore. Quello di mezzo
fu portato in galea, dove si trova ancora, gli
altri due furono posti in carcere, e dopo che
Sua Eccellenza hebbe in suo potere il breve, e
le scritture li hà fatto dare il sfratto dal Regno,
e sono tre giorni che arrivarono in Roma.
Il corriere che 15 giorni fà spedì il noncio fù
per questa causa, e non può dirsi quanto alterasse Sua Beatitudine.
Voleva ch’il Sant’Uffizio s’interessasse, e che
si procedesse con rigore contro Medina.
Mà i cardinali, l’assessore et il commissario
mostrarono alla Santità Sua che l’Inquisizione
non haveva che fare nella materia della quale
si trattava, perché il padre Imola è [aggiunta
sovrascritta: vicario dell’] inquisitore di Perugia, et non hà giurisdizione in Napoli, et
perché i capi, sopra i quali doveva formare il
processo sono lontanissimi al Tribunale Sacrosanto da loro essere.
Considerarono di vantaggio che trovandosi in
collera il Duca non stimarebbe gl’ordini della
congregazione, et ch’era un esporsi à pericolo
eccedente di render’ ilusoria la loro auttorità,
ch’essercitata con fondamenti legitimi, era rispettata dalle corone maggiori.
Piacquero a Sua Beatitudine le raggioni, et ha
dissimulato l’affronto senza farne altra demostrazione contro il viceré ne li suoi ministri.
Dubitando ad ognie modo che il padre Ridolfi
havesse commosso Medina con le sue lettere,
e con li suoi stuzzicamenti, lo fece condurre al
Santo Uffizio una sera, et essendo stato interrogato strettamente sopra quanto era occorso
in Napoli, Sua Paternità illustrissima mostrò
che tutto le arrivasse nuovo, et di non haverne
notizia alcuna, et però la mattina fu ricondotto al monastero di San Pietro in Vincola.
[…]
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
59
* Sono grata ad Augustin Laffay e
Fabio Simonelli, rispettivamente
archivista e bibliotecario dell’Institutum Historicum Ordinis Praedicatorum in Roma, e a padre
Gerardo Imbriano, responsabile
della biblioteca del complesso di
San Domenico Maggiore in Napoli, per aver orientato la mia ricerca con consigli bibliografici nei
settori di loro competenza. Sono
altrettanto riconoscente verso gli
archivisti dell’Archivio Apostolico Vaticano, quelli dell’Archivo General de Simancas e quelli
della sede parigina degli Archives
Nationales; nonché verso Grégoire Eldin, conservatore dell’Archives du Ministère des Affaires
étrangères (La Courneuve), Paola
Milone, responsabile della biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria, ed Eduardo Nappi,
già direttore dell’Archivio storico della Fondazione Banco di
Napoli. Ringrazio inoltre padre
Carmine Mazza, preposto della
basilica di San Paolo Maggiore
in Napoli per la disponibilità. A
questo elenco aggiungo Marije
Osnabrugge, Saskia Cohen, Maria Aresin, Itay Sapir, Luciano e
Marco Pedicini. Ognuna delle
persone citate ha contribuito e
agevolato il reperimento di fonti, testi, documenti o immagini
utilizzati in questo studio anche
durante le restrizioni dovute alla
pandemia di Covid 19. Infine, un
sentito ringraziamento a Giuseppe Porzio e Riccardo Naldi per gli
stimolanti confronti e per i suggerimenti e a Sonia Mustaro, amica
e collega dell’Archivio di Stato di
Napoli, per i consigli paleografici.
F. De’ Pietri, Dell’historia napoletana, Napoli 1634, pp. 149-152;
C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli,
III, Napoli 1671, pp. 95-104; V.
Donnorso, Memorie istoriche della fedelissima ed antica città di Sorrento, Napoli 1740, pp. 175-176;
C. Padiglione, Del Doce o Dolci
(di Napoli), in U. Diligenti, Storia
delle famiglie illustri italiane, V,
Firenze [1873], s.n.p.; B. Candida
Gonzaga, Memorie delle famiglie
nobili delle province meridionali
d’Italia, I, Napoli 1875, pp. 208-
1
60
210. Per la ricostruzione della
discendenza è stato utilizzato il
citato testo di Carlo De Lellis del
1671. Ove non reperite attraverso
documenti ufficiali, per le date di
nascite, di morte e di matrimonio
si è fatto riferimento alle tavole
genealogiche delle famiglie nobili
napoletane di Livio Serra di Gerace, conservate nell’Archivio di
Stato di Napoli, Serra di Gerace,
Manoscritti, 7 voll. (d’ora in poi:
ASNa, Ms SdG).
2
F. De’ Pietri, Dell’historia napoletana, cit., pp. 149-152.
3
C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili, cit., pp. 96-101.
4
M. Miele, Ricerche su San Domenico Maggiore. II. I rapporti col
seggo di Nido, in “Napoli nobilissima”, V s., VII, 2006, pp. 95-108;
Id., I domenicani di San Domenico
Maggiore nel corso dei secoli. Cifre
e ruoli, in La fabbrica di San Domenico Maggiore a Napoli. Storia
e restauro, Napoli 2016, pp. 185186. Si veda anche A. Zezza, Da
mercanti genovesi a baroni napoletani: i Pinelli e la loro cappella nella chiesa di San Domenico
Maggiore, in G. Muto, A. Terrasa
Lozano, Estrategias culturales y
circulación de la nueva nobleza en
Europa (1570-1707), Madrid 2015,
pp. 95-110.
5
A seguito delle soppressioni
religiose, l’archivio dei Domenicani di San Domenico Maggiore
di Napoli è confluito nel fondo
Corporazioni religiose soppresse
custodito nell’Archivio di Stato
di Napoli (d’ora in poi: ASNa,
CRS), dalla busta 425 a 692bis.
Dal 1882, invece, le pergamene si
trovano presso la Società Napoletana di Storia Patria, Pergamene
di San Domenico Maggiore (d’ora
in poi: SNSP, PSDM; inventario in S. Palmieri, Le pergamene
della Società napoletana di Storia
patria, Napoli 2010, pp. 84-105).
Una notevole quantità di schede
di notai antichi, spostate a San
Paolo Belsito durante la Seconda
guerra mondiale, andò distrutta
nell’incendio nel 1943 (S. Palmieri, Napoli, settembre 1943, in Id.,
Degli archivi napoletani, Bologna
2002, pp. 265-266; M. Tarallo,
Tra distruzione, dispersione e speranza: appunti sulla vicenda di San
GIUSEPPINA MEDUGNO
Paolo Belsito e sulle opere d’arte
del Museo Filangieri perdute nella Seconda guerra mondiale, alla
luce di nuove indagini e di nuovi
documenti, in Museo civico Gaetano Filangieri, a cura di I. Valente,
I, Roma-Napoli 2021, pp. 166191). L’elenco dei notai conservati
nell’Archivio di Stato prima della
guerra è disponibile in Sala inventari: ex inventario n. 171, al quale
si rinvia per conoscere il periodo
di attività e l’antica segnatura dei
protocolli distrutti citati nel presente saggio. Nonostante l’inestimabile perdita, in questo e in
altri casi, è ancora possibile ricostruire frammenti di storia delle
famiglie napoletane nelle trascrizioni ancora inedite di Gaetano
Filangieri, conservate nell’archivio dell’omonimo museo (d’ora in
poi: AMF), e solo in parte pubblicate in G. Filangieri, Documenti
per la storia, le arti e le industrie
delle provincie napoletane, Napoli
1883-1891. Alcuni dei documenti
sono consultabili nell’Open Archive dell’Università L’Orientale di Napoli (d’ora in poi: Opar
UNIOR), grazie a un progetto di
Riccardo Naldi e Andrea Zezza.
6
J. Stumpel, A Raphael by Raphael. The story of the Madonna of
Fish, in Id., The province of painting. Theories of Italian Renaissance art, Utrecht 1990, pp. 26-58,
262-269; R. Naldi, Girolamo Santacroce. Orafo e scultore napoletano del Cinquecento, Napoli 1997,
pp. 57-59; E.-B. Krems, Raffaels
römische Altarbilder. Kontext,
Ikonographie, Erzählkonzept. Die
Madonna del Pesce und Lo Spasimo di Sicilia, München 2002,
pp. 49-169.
7
In Spagna questa denominazione è già in uso nel XVIII secolo.
Compare, ad esempio, in calce a
un’incisione del 1782 di Fernando Selma (cfr. Universidad Complutense de Madrid, BH GRA
48). Nel 1811 viene utilizzata
nell’inventario del Palazzo Reale di Madrid: B. Bassegoda, El
Escorial como museo. La decoración pictórica mueble en el monasterio de El Escorial desde Diego
Velàzquez hasta Frédéric Quilliet
(1809), Barcelona, 2002, p. 141.
In Francia è così denominata in
A.C. Quatremère de Quincy,
Histoire de la vie et des ouvrages
de Raphaël, Paris 1824, p. 146, e
nell’intitolazione dell’opuscolo di
P.V. Belloc, La Vierge au poisson
de Raphaël, explication nouvelle
de ce tableau, Paris-Lyon 1833.
8
Si tratta di documenti che
non fanno ancora riferimento a
una cappella di famiglia: SNSP,
PSDM, I, 89, instrumentum donationis, Napoli, 16 gennaio 1490
(ringrazio Martina Magliacano,
funzionaria dell’Archivio di Stato
di Napoli, per la segnalazione);
ASNa, CRS, 434, cc. 250r; ivi, 447,
cc. 37r-41v; ivi, 449, c. 268r-v).
9
La cappella Del Doce fa parte di
un ambiente più ampio, il cosiddetto cappellone del Crocifisso,
che godeva di una propria amministrazione: M. Miele, Ricerche su
San Domenico Maggiore. Schede
e materiali, in “Napoli nobilissima”, V s., IV, 2003, p. 164.
10
Appendice, doc. 1. L’istrumento originale, rogato da Girolamo
Gaffuro, in curia del notaio Cesare Amalfitano, in data 26 maggio 1509, XII indizione, non si
conserva poiché i suoi protocolli
sono stati distrutti nel citato incendio del 1943 (anche l’archivio
di Amalfitano o Malfitano, forma
aferetica, non si conserva per lo
stesso motivo: ASNa, ex inventario n. 171, rispettivamente nn.
69 e 26). Tuttavia, del documento
esistono una breve registrazione
coeva nel volume dei Notamenti
d’istrumenti dall’anno 1507 fin
all’anno 1537 (ASNa, CRS, 593,
c. 5r-v; citato anche in J. Stumpel,
A Raphael by Raphael, cit., pp.
37-38; E.-B. Krems, Raffaels römische Altarbilder, cit., pp. 72-73) e
diversi riferimenti in altri volumi,
come in quello denominato Stizzi
della platea (ASNa, CRS, 449, cc.
115r; già trascritto in R. Naldi,
Girolamo Santacroce, cit., p. 106,
nota 60). Prima dei citati ritrovamenti, l’acquisto della cappella
era attribuito a Giovanni Battista
De Doce sulla base della lettera
di Pietro Summonte (cfr. F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di P. Summonte
a M.A. Michiel, Napoli 1925, p.
257). Probabilmente la pergamena in possesso del convento era
già irreperibile nel secolo successivo. Infatti, nel margine sinistro
del documento, con scrittura di
altra mano, si legge: “non ci è”.
Presumibilmente proprio per
questo motivo, in alcune relazioni successive si rimanda al “libro
degli istrumenti”: ASNa, CRS,
425, p. 121; ivi, 429, c. 26r; ivi,
443, c. 419v; ivi, 449, c. 115r; ivi,
595, c. 724r (mentre in altri casi
simili, l’archiviario del convento
rinviava direttamente al documento membranaceo, indicando
con precisione anche la posizione
negli antichi armadi).
11
In ASNa, CRS, 449, c. 115r-v, è
riportato: “si crede che del detto signor Geronimo fusse rimasto erede il signor Giovanni Battista dello
Doce, quale fusse secondo nella
padronanza di detta cappella”.
12
C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili, cit., p. 104.
13
Appendice, doc. 2. L’istrumento
originale, rogato dal notaio Francesco De Nubilis, in curia del
notaio Vincenzo Montella, non si
conserva (ASNa, ex inventario n.
171, n. 61); tuttavia, anche di questo esiste una breve annotazione
coeva nel citato volume manoscritto (ASNa, CRS, 593, c. 15r). Ho
riportato la data del contratto così
come trascritta dai frati, poiché,
dall’osservazione della cronologia
degli altri documenti dello stesso volume, ritengo che non ci sia
alcun motivo per datarlo al 1519,
come invece suggerito da Stumpel.
Inoltre, in appendice, propongo
una trascrizione diversa della frase: “contracto, de la revocatione
et [mia lettura: “de”, anziché “et”]
la concessione de la cappella”, per
cui lo studioso ha ritenuto che la
cappella fosse stata revocata e concessa di nuovo ai Del Doce nello
stesso giorno e attraverso lo stesso
istrumento (J. Stumpel, A Raphael
by Raphael, cit., pp. 37-39).
14
Del testamento, rogato dal notaio Cesare Amalfitano si conserva il documento membranaceo:
SNSP, PSDM, II, 58, instrumentum testamenti, Napoli, 22 settembre 1519, VII indizione (si noti
che nelle successive relazioni dei
frati domenicani, si fa riferimento
al notaio Giovanni Palomba, che
invece nella pergamena compare
nel ruolo di giudice ai contratti,
cfr. ASNa, CRS, 434, c. 229r; ad
ogni modo l’archivio del primo
non si conserva mentre quello del
secondo comincia nel 1525).
15
La citazione si riferisce all’epigrafe sulla tomba di Rinaldo (dalla
quale si può ricavare anche l’anno
di nascita: 1402 circa): P. De Stefano, Descrittione dei luoghi sacri
della città di Napoli, Napoli 1560,
c. 114v. Rinaldo muore nel 1479,
come si apprende da una trascrizione di Riccardo Filangieri dal
perduto archivio del citato notaio
Amalfitano: si tratta dell’inventario dei beni mobili del defunto
Rinaldo, fatto eseguire su istanza
di Caterina Brancaccio, sua seconda moglie (AMF, 46, VII, 1;
consultabile in Opar UNIOR). La
data di morte di Giovanni Battista, invece, è incisa sull’epigrafe
(anche in questo caso si può ricavare l'anno di nascita: 1457 circa)
e riportata anche in ASNa, CRS,
429, c. 26r (che rimanda a un perduto libro dei defunti).
16
Michiel aveva soggiornato a
Napoli nel 1519 e si era affidato a
Pietro Summonte per una descrizione delle “cose spectanti alla
pittura, scalptura, architectura e
monumenti”, sollecitandolo più
volte negli anni seguenti: F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento, cit., pp. 158, 164, 257-260.
17
G. Vasari, Vite de gli architettori, pittori et scultori, Firenze 1550,
p. 655.
18
P. De Stefano, Descrittione dei
luoghi sacri, cit., Napoli 1560, cc.
114v-115v.
19
J. Stumpel, A Raphael by Raphael, cit., pp. 39-40; A. WestonLewis, in Raphael. The pursuit of
perfection, catalogo della mostra
(Edinburgo, National Gallery of Scotland, 5 maggio-10 luglio 1994), a cura di T. Clifford,
Edinburgh 1994, pp. 80-81, nn.
32-33; E.-B. Krems, Raffaels römische Altarbilder, cit., p. 75; El último Rafael, catalogo della mostra
(Madrid, Museo Nacional del
Prado, 12 giugno-16 settembre
2012; Paris, musée du Louvre, 8
ottobre 2012-14 gennaio 2013), a
cura di T. Henry e P. Joannides,
Madrid 2012, pp. 90, fig. 53, e
93; R. Aliventi, in Rinascimen-
to visto da Sud. Matera, l’Italia
meridionale e il Mediterraneo tra
’400 e ’500, catalogo della mostra
(Matera, Palazzo Lanfranchi, 19
aprile-19 agosto 2019), a cura di
D. Catalano et alii, Napoli 2019,
p. 447, n. 8.6.; A. Zezza, scheda n.
35, in Otro Renacimiento. Artistas
españoles en Nápoles a comienzos
del Cinquecento, catalogo della
mostra (Madrid, Museo Nacional
del Prado, 18 ottobre 2022-29 gennaio 2023), a cura di A. Zezza, R.
Naldi, Madrid 2022, pp. 231-234.
20
La famiglia Tomacelli aveva la
propria cappella nella navata sinistra della chiesa, che ospitava
le tombe di Nicola e Leonardo.
Sui due monumenti funebri dei
Del Doce, in collegamento con
quello di Leonardo Tomacelli, si
veda F. Abbate, Su Giovanni da
Nola e Giovan Tommaso Malvito, in “Prospettiva”, VIII, 1977,
pp. 49-51; E.-B. Krems, Raffaels
römische Altarbilder, cit., p. 160.
Si consiglia anche: R. Naldi, Tra
Pontano e Sannazaro: parola e
immagine nell’iconografia funeraria del primo Cinquecento, in Les
académies dans l’Europe humaniste. Idéaux et pratiques, atti del
convegno internazionale (Paris,
Institut Universitaire de France,
Université de Paris-Sorbonne,
10-13 giugno 2003), a cura di M.
Deramaix et alii, Genève 2008,
pp. 249-271. Il testo delle epigrafi
è riportato nelle principali antiche guide della città: P. De Stefano, Descrittione dei luoghi sacri,
cit., pp. 114v-115v; C. D’Engenio
Caracciolo, Napoli sacra, Napoli
1623, pp. 277-278; F. De’ Pietri,
Dell’historia napoletana, cit., pp.
151-152; C. De Lellis, Discorsi
delle famiglie nobili, cit., p. 103.
21
M. Falomir, Dono italiano e
“gusto spagnolo” (1530-1610), in
L’arte del dono. Scambi artistici
e diplomazia tra Italia e Spagna,
1550-1650, giornata internazionale di studi (Roma, Bibliotheca
Hertziana, Istituto Planck per la
Storia dell’Arte, 14-15 gennaio
2008), a cura di M. von Bernstorff e S. Kubersky-Piredda,
Cinisello Balsamo 2013, p. 181;
A. Gnann, L’attività di Raffaello
sotto papa Giulio II, in Raffaello
1520-1483, catalogo della mostra
(Roma, Scuderie del Quirinale, 5
marzo-2 giugno 2020), a cura di
M. Faietti e M. Lanfranconi, Milano 2020, pp. 359-377.
22
E.-B. Krems, Raffaels römische
Altarbilder, cit., p. 84.
23
F. Patroni Griffi, Il testamento
di Marino Tomacelli ambasciatore
aragonese a Firenze, in “Napoli
nobilissima”, III s., XXIV, 1985,
pp. 120-127; E. Catone, voce Tomacelli, Marino, in Dizionario biografico degli italiani, XCVI, 2019,
pp. 560-562.
24
A. Gnann, L’attività di Raffaello, cit., pp. 371-373.
25
R. Aliventi, in Raffaello 15201483, catalogo della mostra (Roma,
Scuderie del Quirinale, 5 marzo-2
giugno 2020), a cura di M. Faietti,
M. Lanfranconi, Milano 2020, pp.
418-419, scheda IX.23.
26
O. Fischel, Raphaels Zeichnungen, VIII, Berlin 1941, p. 382, n.
371; E.-B. Krems, Raffaels römische Altarbilder, cit., pp. 79-81; J.
Meyer zur Capellen, Raphael. A
critical catalogue of his paintings,
II, The roman religious paintings,
ca. 1508-1520, Landshut 2005,
pp. 117, 121; El último Rafael, cit.,
pp. 88-93, nn. 1-3; M. Falomir,
Dono italiano, cit., pp. 181-184.
27
A. Borzelli, Gerolamo Santacroce. Scultore napolitano del Cinquecento, Napoli 1924, p. 15. Purtroppo, Borzelli non ha trascritto
gli strumenti redatti dai notai
Giovanni Battista Romano e Nardo Andrea Parascandalo, i cui
archivi sono andati distrutti (cfr.
ASNa, ex inventario n. 171, nn.
79, 114). Si vedano anche F. Speranza, Nella cerchia napoletana di
Bartolomé Ordóñez: considerazioni su Giovan Giacomo da Brescia,
in “Studi di storia dell’arte”, VII,
1996, pp. 101, 112-114; R. Naldi,
Girolamo Santacroce, cit., pp. 5759; E.-B. Krems, Raffaels römische Altarbilder, cit., pp. 55-60.
28
F. Speranza, Nella cerchia napoletana, cit., p. 113.
29
ASNa, CRS, 425, p. 121; mentre i citati decreti del Sacro Regio
Consiglio non sono stati rinvenuti.
30
Cfr. ASNa, CRS 449, 116r;
SNSP, PSDM, II, 58, instrumentum testamenti, Napoli, 22 settembre 1519.
31
Il 5 settembre 1535, Antonina
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
61
Tomacelli acquistò una rendita
di ducati 24 annui (al prezzo di
300 ducati) da un censo enfiteutico perpetuo di complessivi 55
ducati derivanti da affitti di case
di proprietà della famiglia Della
Gatta-Sciabbica. Detto reddito
doveva essere corrisposto ad Antonina e, successivamente, ai suoi
eredi in perpetuo. Il secondo documento, con il quale Antonina
cedé tale entrata al monastero di
San Domenico, è datato 3 settembre 1537: SNSP, PSDM, III, 7.A,
instrumentum emptionis, Napoli,
22 settembre 1535; ivi, III, 7.B,
instrumentum donationis, Napoli, 3 settembre 1537 (cfr. infra,
nota 79). Si veda anche: ASNa,
CRS, 425, p. 643; ivi, 429, c. 26r;
ivi, 595, c. 565r-v. Il notaio è Pietro Basso, di cui non si conserva
l’archivio (ASNa, ex inventario n.
171, n. 140).
32
SNSP, PSDM, III, 21, instrumentum submissionis, Napoli, 17
novembre 1541, rogato dal notaio
Pietro Basso; ASNa, CRS, 425, p.
121; ivi, 434, c. 229r; ivi, 448, c.
79r; ivi, 449, allegato non numerato tra le cc. 116v-117r; ivi, 452,
lettera “R”, cc.n.nn.
33
ASNa, CRS, 425, p. 122; ivi,
434, c. 229r; ivi, 443, c. 419v; ivi,
449, c. 117r-v; ivi; 595, c. 724r.
34
La platea settecentesca fa riferimento a un precedente libro
dei defunti non rinvenuto: ASNa,
CRS, 429, c. 26r.
35
SNSP, PSDM, V, 65, instrumentum transumpti, Napoli, 13
novembre 1568; mentre non è
presente nel corrispondente protocollo che si conserva in ASNa,
Archivi dei notai del XVI secolo,
Giovanni Battista Basso (o Bassi
nella forma al genitivo, scheda
222. Cfr. ASNa, CRS, 425, p. 659;
ivi, 429, c. 26r; ivi, 434, c. 228r;
ivi, 442, c. 105r; ivi, 449, cc. 121r124v; ivi, 519, p. 8; ivi, 520, n. d’ordine 26; ivi, 596, c. 22v-23r (da cui
è tratta la trascrizione pubblicata
in G. Filangieri, Nuovi documenti
intorno alla famiglia, le case, e le
vicende di Lucrezia d’Alagno, in
“Archivio Storico per le province
napoletane”, XI, 1886, pp. 78-79,
nota 1); ivi, 670 (parte intitolata:
“S. Domenico Maggiore | Diversi
obblighi di messe e cappelle gen-
62
tilizie”), c. 8r (cartulazione a lapis).
L’archivio del notaio G.V. Ferretti
non si conserva (ASNa, ex inventario n. 171, n. 223); mentre quello
di Giovanni Pietro Apatricco (o
Apatrichi) di Cutrofiano non è
stato rinvenuto nell’inventario dei
notai conservati nell’Archivio di
Stato di Lecce.
36
C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili, cit., p. 101.
37
22 luglio 1590 (ASNa, Ms SdG,
V, p. 1732).
38
Giulia Tomacelli morì il 4 gennaio 1603: ASNa, Archivi dei
notai del XVI secolo, Giovanni
Girolamo Censone, scheda 321,
prot. 36, Volume di testamenti, 1°
agosto 1602, cc. 350r-351v; ASNa,
CRS, 425, pp. 747-749; ivi, 428, cc.
75v-76v, n. d’ordine 47; ivi, 434,
cc. 230r-231r; ivi, 670, n. d’ordine
26 (s.n.c.).
39
ASNa, Archivi dei notai del
XVI secolo, Giovanni Battista
Verlezza, scheda 539, prot. 7, 10
aprile 1603, cc. 306r-309v e 25 ottobre 1603, cc. 455r-458v; ASNa,
CRS, 448, cc. 184v-186r; ivi, 597,
cc. 304r-311r; ivi, 670, parte intitolata “Prima lettura delli legati
e donationi, che li detti padri di
detto monastero hanno esatto et
esiggono per intiero”, s.n.c.
40
C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili, cit., p. 101; Il matrimonio tra Giulio e Silvia Capece si celebrò il 17 gennaio 1608
(ASNa, Ms SdG, V, p. 1732).
41
ASNa, Ms SdG, V, p. 1732. In
questo, come in altri casi, le ricerche condotte nell’Archivio storico
diocesano di Napoli (d’ora in poi
ASDNa) e negli archivi conservati
nelle parrocchie del centro storico non hanno restituito riscontri.
È, quindi, possibile che l’archivio
della chiesa dove venne battezzato Antonio sia andato perduto.
42
ASNa, Archivi dei notai del
XVI secolo, Giovanni Simone
Della Monica, scheda 488, prot.
40, testamento n. 135, 25 marzo 1616 (aperto il successivo 27
marzo); ASNa, CRS, 425, pp.
805-806; ivi 427, p. 2199; 448, cc.
211v-214r; ivi, 597, cc. 525r-528r;
ivi, 670, s.n.c. Su Laura e Decio
Caracciolo si veda anche M. Borrelli, Il largo dei Girolamini, Napoli 1962, pp. 101-105.
GIUSEPPINA MEDUGNO
ASNa, Archivi dei notai del
XVI secolo, Giovanni Antonio
Montefuscolo (anche nella forma
in genitivo, “Montefuscoli”, o in
quella tronca, “Montefusco”),
scheda 289, prot. 67, 30 luglio
1619, cc. 191v-193r e 5 agosto
1619, cc. 195r-199r; ASNa, CRS,
427, p. 2199.
44
ASNa, CRS, 448, c. 188r; ivi,
597, c. 333r-338v.
45
ASNa, Archivi dei notai del
XVI secolo, Giovanni Battista Basso, scheda 222, prot. 35,
5 gennaio 1605, cc. 282r-286r;
ASNa, CRS, 425, p. 748; ivi, 428,
cc. 172r-173r; ivi, 434, c. 231r; ivi,
441, c. 161r; 442, c. 105r; ivi, 594,
cc. 239r-240r.
46
C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra, cit., p. 277.
47
10 novembre 1627 è la data di
morte riportata in ASNa, Ms SdG,
V, p. 1732. Cfr. ASNa, Archivi dei
notai del XVII secolo, Cesare De
Puteo, scheda 197, prot. 6, 17 febbraio 1628, cc. 48r-66r, “Adhitio
hereditatis pro Ioanne Paolo De
Duce”.
48
ASNa, Archivi dei notai del
XVII secolo, Cesare De Puteo,
scheda 197, prot. 10, 24 luglio
1632, cc. 284v-293v, “Adhitio hereditatis pro Alfonso et Antonio
De Duce”.
49
Ivi, prot. 14, 25 gennaio 1636,
cc. 40v-44v.
50
Ivi, prot. 36, Testamenti, 10
agosto 1635, cc. 40r-46v (aperto il
13 agosto); ivi, prot. 07, cc. 249v251v.
51
F. De’ Pietri, Dell’historia napoletana, cit., pp. 150-151.
52
B. Aldimari, Historia genealogica della famiglia Carafa, Napoli
1691, II, p. 498; III, pp. 465-467.
Il 27 gennaio 1636 Alfonso sposò
Silvia Carafa (figlia di Fabrizio e
Caterina Gesualdo); successivamente il 30 aprile 1653 sposò in
seconde nozze Laura Caracciolo
(ASNa, Ms SdG, V, p. 1732).
53
Il 25 luglio 1636, ad Alfonso
Del Doce, già signore di Cutrofiano, venne conferito il titolo di
duca: Archivio General de Simancas (d’ora in poi AGS), Libro
registro de privilegios, gracias y
mercedes hechas por el rey don Felipe IV del 8 de julio de 1633 al 8
de octubre de 1636, SSP, LIB, 195,
43
c. 265v. Si veda anche Magdaleno
1980, p. 203.
54
ASNa, CRS, 594, c. 239v; ivi,
471, Introitus, c. 5v; ASBNa, Banco di Sant’Eligio, Giornale di Cassa, matr. 201, 3 luglio 1638.
55
F. Viceconte, Il duca de Medina de las Torres (1600-1668) tra
Napoli e Madrid: mecenatismo
artistico e decadenza della monarchia, tesi di dottorato, Università
degli Studi di Napoli Federico
II-Universitat de Barcelona, a.a.
2011-2012, tutor P. D’Alconzo e
J.L. Palos Peñarroya, p. 68.
56
ASNa, Archivi dei notai del
XVII secolo, Cesare De Puteo,
scheda 197, prot. 24, 13 agosto
1646, cc. 345v-346r, “Procuratio
pro domino Antonio De Duce”.
57
Ivi, 27 agosto 1646, cc. 384v388r, “Ratificatio”.
58
ASNa, Ms SdG, V, p. 1732.
Silvia Capece morì il 18 febbraio 1664 (Archivio storico della
parrocchia di Santa Sofia di Napoli, Libro dei defunti, 1664, c.
91r). Alfonso Del Doce morì il 2
marzo 1666 (ASDNa, Archivio
della parrocchia di Santa Maria
Assunta, Libro dei defunti, vol.
86, c. 244r); non si conosce invece
la data di morte di Antonio. La
famiglia è dichiarata estinte in B.
Candida Gonzaga, Memorie delle
famiglie nobili, cit., I, p. 210.
59
F. Palermo, Narrazioni e documenti sulla storia del Regno di
Napoli dall’anno 1522 al 1667, in
Archivio storico italiano ossia raccolta di opere e documenti finora
inediti o divenuti rarissimi riguardanti la storia d’Italia, IX, Firenze
1846, p. 325.
60
“Desta pintura haze memoria
Giorgio Vasari, en la vida de Rafael, dize la pintó para Nápoles,
y que està en la capilla del Santo
Christo que habló a s. Thomás;
transportola de aquí a la peña el
duque, y con otras excelentes la
dió a su Magestad”: B. Bassegoda, Velázquez y la “Memoria de
las pinturas” de El Escorial. Propuesta de edición crítica, in En torno a Santa Rufina. Velázquez de
lo íntimo a lo cortesano, atti del
simposio internazionale (Siviglia,
10-12 marzo 2008), a cura di B.
Navarrete Prieto, Sevilla 2008,
pp. 175-176.
F. de los Santos, Descripción
breve del monasterio de S. Lorenzo el real del Escorial, Madrid
1657, p. 71.
62
C. De Lellis, Supplimento a
Napoli sacra, Napoli 1654; Biblioteca Nazionale di Napoli, ms.
X.B.21, Id., Aggiunta alla Napoli
sacra [Napoli entro il 1689], II.
Diversamente in Id., Discorsi delle famiglie nobili, cit., p. 103.
63
P. Sarnelli, Guida de’ forestieri,
Napoli 1685, pp. 182-183 (la tavola risulta ancora presente in chiesa anche nell’ed. del 1801).
64
C. Celano, Notitie del bello,
dell’antico e del curioso della città
di Napoli, Napoli 1692, II, p. 175,
III, pp. 126-127.
65
Pistoia, Biblioteca comunale
Forteguerriana, Relazioni epistolari di un viaggio da Roma a Napoli e di altri viaggi in Italia scritte
dal sig.re cav.re Tommaso Puccini
Direttore dell’Imp.le Galleria, aggiunte alla raccolta Puccini, ms.
C. 238, T. Puccini, [Diario napoletano], [1783], 27 settembre e 4
novembre 1783. Su di lui: E. Spalletti, R. Viale, Tommaso Puccini
(1749-1811). Conoscitore delle arti
e direttore degli Uffizi, Firenze
2014. Cfr. G. Sigismondo, Descrizione della città di Napoli e i suoi
borghi, I, Napoli 1788, p. 219.
66
Per un elenco: J. Meyer zur Capellen, Raphael, cit., p. 122. Invece
per la fortuna si vedano: P. Giusti,
P. Leone De Castris, Pittura del
Cinquecento a Napoli 1510-1540
forastieri e regnicoli, Napoli 1988,
p. 62; P. Leone De Castris, La
“maniera moderna” a Napoli e nel
Viceregno, in Rinascimento visto da
Sud, cit., pp. 157-160; S. De Mieri,
in Rinascimento visto da Sud, cit.,
p. 448, n. 8.7; A. Zezza, Raffaello a
Napoli, in Raffaello a Capodimonte. L’officina dell’artista, catalogo
della mostra (Napoli, Museo e
Real Bosco di Capodimonte, 10
giugno-13 settembre 2021), RomaNapoli 2021, p. 13; A. Zezza, Raffaello da Napoli alla Spagna, copie
e originali, in Las copias de obras
maestras de la pintura en las colecciones de los Austrias y el Museo
del Prado, atti del convegno internazionale (Madrid, Museo Nacional del Prado, 2017), a cura di D.
García Cueto, Madrid 2021, p. 56.
61
F. Capecelatro, Degli annali
della città di Napoli, [circa 1661];
pubblicato postumo: Napoli 1849,
p. 139; C. De Lellis, Discorsi delle
famiglie nobili, cit., p. 103; C. Celano, Notitie del bello, cit., II, p.
175, III, pp. 126-127 (cfr. anche le
successive ristampe nell’ed. a cura
di G. Greco, Napoli 2018); V.M.
Perrotta, Descrizione storica della
chiesa e del monistero di S. Domenico Maggiore di Napoli in cui si dà
conto di tutti gli oggetti di belle arti
che vi esistono, Napoli 1828, p. 50;
F. Palermo, Narrazioni e documenti, cit., p. 325; S. Volpicella, Principali edifici della città di Napoli,
in Storia dei monumenti del Reame delle Due Sicilie, II/1, Napoli
1847, p. 250; G.A. Galante, Guida
sacra della città di Napoli, Napoli
1872, p. 236; C. Padiglione, Del
Doce o Dolci, cit., s.n.p.
68
La biografia e il mecenatismo
artistico del duca di Medina sono
stati ampiamente trattati in F. Viceconte, Il duca de Medina, cit. Si
veda anche E. Sánchez García,
Il viceré Medina de las Torres a
Napoli: decoro del lignaggio e
avanguardia culturale, in P. Belli,
Palazzo Donn’Anna. Storia, arte e
natura, Torino 2017, pp. 39-69.
69
F.J. Bouza Álvarez, De Rafael
a Ribera y de Nápoles a Madrid.
Nuevos inventarios de la colección
Medina de las Torres-Stigliano
(1641 - 1656), in “Boletín del
Museo del Prado”, XXVII, 45,
2009, p. 62; F. de los Santos, Descripción breve, cit., p. 71; B. Bassegoda, El Escorial, cit., pp. 140141; B. Bassegoda, Velázquez, cit.,
pp. 175-176).
70
Sull’argomento: L’arte del dono.
Scambi artistici e diplomazia tra
Italia e Spagna, 1550-1650, giornata internazionale di studi (Roma,
Bibliotheca Hertziana, Istituto
Planck per la Storia dell’Arte,
14-15 gennaio 2008), a cura di
M. von Bernstorff e S. Kubersky-Piredda, Cinisello Balsamo
2013 (per la citazione si veda
l’introduzione, p. 7); D. CarrióInvernizzi, Gift and diplomacy in
seventeenth-century Spanish Italy,
in “The Historical Journal”, LI,
4, 2008, pp. 881-899; D. García
Cueto, Presentes de Nápoles. Los
virreyes y el envío de obras de
67
arte y objetos suntuarios para la
Corona durante el siglo XVII, in
España y Nápoles. Coleccionismo
y mecenazgo virreinales en el siglo
XVII, a cura di J.L. Colomer, Madrid 2009, pp. 293-321.
71
Ad esempio, Mario Farnese
donò l’Annunciazione di Beato Angelico per ottenere in cambio due
uffici nel governo napoletano: M.
Falomir, Dono italiano, cit., p. 23.
72
Ivi, p. 14.
73
Oltre alla bibliografia già segnalata, si aggiunga A.E. Denunzio,
Alcune note inedite per Ribera e il
collezionismo del duca di Medina
de las Torres, viceré di Napoli, in
J. Martínez Millán, M. Rivero Rodríguez, Centros de poder italianos
en la monarquía hispánica (siglos
XV-XVIII), III, Madrid 2010, pp.
1993-1995; A.E. Denunzio, Copie
per i viceré. Doni diplomatici e collezionismo tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento, in Las copias de obras maestras de la pintura
en las colecciones de los Austrias y
el Museo del Prado, atti del convegno internazionale (Madrid,
Museo Nacional del Prado, 26-27
giugno 2017), a cura di D. García
Cueto, Madrid 2021, pp. 177-187.
74
F. Viceconte, Il duca de Medina, cit., p. 78; F. Viceconte, “Desiderando di haver le copie de’ più
famosi quadri che sono in queste
chiese”. Il viceré Medina de las
Torres committente di una copia
pittorica, a cura di D. García Cueto e A. Zezza, Roma 2018, p. 127.
75
Cfr. F. Viceconte, Il duca de Medina, cit., pp. 49-55, 66, 74.
76
A. Anselmi, Tiziano, Correggio,
Raffaello, l’investitura di Piombino e notizie su agenti spagnoli
a Roma, in The diplomacy of art.
Artistic creation and politics in
Seicento Italy, a cura di E. Cropper, Bologna 2000, pp. 101-110;
K. Zimmermann, “Al fin resolve e
trata de i Bacanali far quel re contento ...”. The viceroy Monterrey,
the Ludovisi and the princedom
of Piombino, in L’arte del dono.
Scambi artistici e diplomazia tra
Italia e Spagna, 1550-1650, giornata internazionale di studi (Roma,
Bibliotheca Hertziana, Istituto
Planck per la storia dell’arte, 1415 gennaio 2008), a cura di M.
von Bernstorff e S. Kubersky-
Piredda, Cinisello Balsamo 2013,
pp. 247-248. Sul mecenatismo del
duca di Monterrey: K. Zimmermann, Il viceré VI conte di Monterrey. Mecenate e committente a
Napoli (1631-1637), in España y
Nápoles. Coleccionismo y mecenazgo virreinales en el siglo XVII,
a cura di J.L. Colomer, Madrid
2009, pp. 277-292.
77
ASNa, CRS, 471, Esiti: “Exitus
mensis iulii 1638 […] Deducis ducati vinte per le feluche che hanno portato il padre generale dà
Gaeta in Napoli”, c. 8r; “Exitus
mensis augusti 1638 […] Deducis
ducati settantacinque tarì uno
e grana due e mezzo per tutto il
pesce preso nella festa di S. Domenico nella quale venne à mangiare al refettorio l’eccellenza del
viceré duca di Medina”, ivi, c. 12r.
78
Appendice, doc. 3. Herrera
ricoprì la carica di nunzio apostolico a Napoli dal 1630 al 1639.
Su di lui: M. Bray, voce Herrera,
Niccolò, in Dizionario biografico
degli italiani, LXI, Roma 2003,
pp. 702-703.
79
L’unico documento rinvenuto
dove si allude a un vincolo di inalienabilità, riferito però all’intera
cappella, è un atto stipulato da
Antonina Tomacelli: “Et voluit
prefata domina Antonina quod
fratres ipsi nullo modo nec pro
quavis causa et urgentissima possint nec valeant consentire nec
assentire cuicumque venditioni
et alienationi seu distractioni forsitan faciende per illos de domo
de duce patronos eiusdem cappelle de eadem cappella. Et ubi
consentirent vel assentirent quocumque modo in casu ipso presens donatio sit resoluta et cassata
et de ea habeatur ratio illa ac si
facta non fuisset et ea nunc pro
tunc et ei contra in casu predicto
voluit prefata domina Antonina
quod donatio ipsa intelligatur et
sit facta modo ut supra dicte ecclesiae et hospitali Sancte Marie
Nuntiate cum omnibus oneribus
predictis et non aliter nec alio
modo” (SNSP, PSDM, III, 7.B,
instrumentum donationis, Napoli, 3 settembre 1537, da rigo 27 a
29). Non è chiaro, quindi, se nella
lettera si fa riferimento a un altro
documento, al momento scono-
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
63
sciuto. Anche la consultazione degli inventari del fondo della Santa
Casa dell’Annunziata, conservato
presso l’Archivio storico municipale del Comune di Napoli, non
ha dato esito positivo (cfr. G.B.
D’Addosio, Sommario delle pergamene conservate nell’Archivio
della Real Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, Napoli 1889; Id.,
Sommario dei testamenti e legati a
favore della S. Casa dell’Annunziata di Napoli dal 1466 al 1680 che
si conservano nell’archivio del pio
luogo, Napoli 1895).
80
Circolavano anche altre copie:
M. Sáez González, La colección
de pintura italiana del Virrey Lemos, don Pedro Fernández de Castro, en la Comarca de Monforte,
in Ricerche sul ’600 napoletano.
Saggi e documenti 2008, Napoli
2009, p. 118; A. Zezza, Raffaello
da Napoli, cit., p. 61.
81
Fondamentale il contributo di
D.A. D’Alessandro, G. Porzio,
Quadri e cappelle di San Paolo
Maggiore tra Cinque e Ottocento.
Un riesame, in Sant’Andrea Avellino e i Teatini nella Napoli del Viceregno spagnolo. Arte, religione,
società, a cura di D.A. D’Alessandro, II, Napoli 2012, pp. 181-238.
82
G.A. Cagiano, Successi meravigliosi della venerazione del b.
Andrea Avellino chierico regolare.
Patrone e protettore della città di
Napoli, di Palermo e d’altre molte,
Napoli 1627, pp. 211-233.
83
C. Celano, Notitie del bello, cit.,
II, p. 175, III, pp. 126-127.
84
Datata nella prima metà del
XVII secolo: ICCD, n. di Catalogo generale 15|189556 (M.A.
Nardone).
85
Il 15 maggio 1636, il duca di
Medina de la Torres sposò Anna,
figlia di Antonio Carafa principe
di Stigliano, e di Elena Aldobrandini, nipote di papa Clemente
VIII, divenendo feudatario del
Regno. Su Anna Carafa: V. Fiorelli, Una viceregina della Napoli
spagnola: Anna Carafa, in Donne
di potere nel Rinascimento, a cura
di L. Arcangeli e S. Peyronel,
Roma 2008, pp. 445-462; A.E.
Denunzio, Anna Carafa, in Alla
corte napoletana. Donne e potere
dall’età aragonese al viceregno austriaco (1442-1734), a cura di M.
64
Mafrici, Napoli 2012, pp. 189-211.
F. Capecelatro, Degli annali,
cit., pp. 104, 123.
87
R. Filangieri di Candida, Storia
di Massa Lubrense, Napoli 1910,
pp. 458-459, 571-572; N. De Maria, Chiesa parrocchiale di Sant’Agata sui due Golfi, Massalubrense
1989, pp. 7, 24.
88
ICCD, n. di Catalogo generale
n. 15|65494 (E. Ianulardo).
89
R. Filangieri di Candida, Storia
di Massa Lubrense, cit., Napoli
1910, p. 572.
90
Su Niccolò Ridolfi: T. Masetti, Monumenta et antiquitates
veteris disciplinae Ordinis Praedicatorum, II, Roma 1864, pp.
99-172; D.A. Mortier, Histoire des
Maitres généraux de l’Ordre des
Frères prècheurs, VI, Paris 1913,
pp. 282-492; N. Maillard, Droit,
réforme et organisation nationale
d’un ordre religieux en France: le
cas de l’Ordre des Frères Prêcheurs
(1629-1660), tesi di dottorato,
Université des Sciences sociales
de Toulouse I, 2005, consultabile
online all’indirizzo http://publications.ut-capitole.fr/691/1/ThNMaillard.pdf.
91
D.A. Mortier, Histoire des Maitres généraux, cit., VI, pp. 405442. Su M. Mazzarino, anche per
il rapporto con padre Ridolfi: O.
Poncet, voce Mazzarino, Michele, in Dizionario biografico degli
italiani, LXXII, Roma 2009, pp.
533-535.
92
G. Gigli, Diarii del secolo XVII,
Firenze 1877, pp. 116-117; D.A.
Mortier, Histoire des Maitres
généraux, cit., VI, pp. 447-449; N.
Maillard, Droit, réforme, cit., p. 50.
Il cardinale Aldobrandini fu artefice anche del matrimonio tra il
duca di Medina e Anna Carafa. Fu
a Napoli nel marzo del 1638, pochi
mesi prima di morire: A.E. Denunzio, Anna Carafa, cit., p. 195.
93
Niccolò Ridolfi fu sospeso il
23 aprile 1642. Il Capitolo di Genova, quindi, fu presieduto da
Michele Mazzarino, che, nella
sessione del 25 ottobre, depose
Ridolfi, facendosi eleggere lui
stesso maestro generale dai suoi
sostenitori; tuttavia un’altra parte dei partecipanti si oppose ed
elesse un altro maestro. Riconvocato a Roma nel 1644, il Capitolo
86
GIUSEPPINA MEDUGNO
di Genova venne dichiarato nullo. Per approfondire: A. Vigna, Il
capitolo generale dei domenicani
celebrato in Genova e Cornigliano Ligure nel 1642, Genova 1897;
C. Gilardi, Ut studerent et predicarent et conventum facerent.
La fondazione dei conventi e dei
vicariati dei Frati predicatori in
Liguria (1220-1928), in “Atti della Società ligure di Storia patria”,
CXXI (n.s., XLVII), 2007, p. 21,
nota 66.
94
Vincenzo de’ Medici risulta presente a Napoli dal 1638 al 1656
(Archivio di Stato di Firenze,
Archivio Mediceo del Principato.
Inventario sommario, Roma 1966,
p. 136). Fu agente del principe
Leopoldo (cardinale dal 1667), informandolo sul mercato artistico
napoletano e mediando negli acquisti: M. Fileti Mazza, Rapporti
con il mercato di Siena, Pisa, Firenze, Genova, Milano, Napoli e altri
centri minori, in Archivio del collezionismo mediceo. Il cardinal Leopoldo, IV, Milano-Napoli 2000,
pp. 120-121.
95
Appendice, doc. 4; cfr. la trascrizione in F. Palermo, Narrazioni e documenti, cit., p. 325. Si
veda: A.E. Denunzio, Alcune
note inedite, cit., p. 1995, nota 39.
96
Per un profilo biografico di A.
Pérez Navarrete: E. Papagna, “…
facendo la sua casa Perez domicilio in Napoli di cento e più anni”.
Success story di famiglia nel XVII
secolo, in G. Muto, A. Terrasa Lozano, Estrategias culturales, cit.,
pp. 269-297; per quello di D.B.
Zufia si rimanda al sito internet
della Real Academia de la Historia: J. Barrientos Grandon, Zufia,
Diego Bernardo (http://dbe.rah.
es/biografias/113133/diego-bernardo-zufia). Si veda anche: G.
Intorcia, Magistrature del Regno
di Napoli. Analisi prosopografica.
Secoli XVI-XVII, Napoli 1987,
pp. 251, 349, 397.
97
Su di lui: M. Catto, voce Tramallo, Lorenzo, in Dizionario biografico degli italiani, XCVI, Roma
2019, pp. 564-565.
98
Appendice, doc. 5 (il documento fa parte della Recueil Mazarin).
Il contenuto della lettera è in parte
già noto alla letteratura domenicana: D.A. Mortier, Histoire des Mai-
tres généraux, cit., VI, pp. 466-467,
dove, per una errata lettura del
documento, il nome di padre Imola è stato modificato in Sonola.
99
Cfr. C.R. Marshall, Naples, in
R.E. Spear, P. Sohm, Painting
for profit. The economic lives of
seventeenth-century Italian painters, New Haven-London 2010,
pp. 121-122; C.R. Marshall, Baroque Naples and the industry of
painting, New Haven and London 2016, p. 275. Il corrispettivo
in ducati è stato calcolato con
riferimento al corso dei cambi
tra Napoli e Roma nel settembre
del 1638 (100 scudi equivalevano
a circa 160 ducati): L. De Rosa, I
cambi esteri del Regno di Napoli
dal 1591 al 1707, Napoli 1955, p.
99. Purtroppo, l’indagine condotta in ASBNa non ha fatto emergere movimenti di denaro riferibili
alla vicenda.
100
G. Mancini, Considerazioni sulla pittura [circa 1620], ed. a cura di
A. Marucchi, Roma 1956, p. 139.
101
Si vedano alcuni esempi in: A.
Anselmi, Tiziano, Correggio, cit., p.
109, nota 41; M. Sáez González, La
colección de pintura italiana, cit., p.
118; R.E. Spear, Rome. Setting the
stage, in R.E. Spear, P. Sohm, Painting for profit, cit., p. 49; R.E. Spear, Dipingere per profitto. Le vite
economiche dei pittori nella Roma
del Seicento, Roma 2016, pp. 47-48.
Per il cambio da ducati a scudi e
viceversa si veda supra.
102
V. Giustiniani, Lettera sulla
pittura [1617-1618], ed. consultata: Discorsi sulle arti. Architettura,
pittura, scultura, a cura di L. Magnani, Novi Ligure 2006, p. 45. Si
aggiunga anche il parere di Federico Borromeo sull’“exemplarium
utilitas”: F. Borromeo, Musaeum,
Milano 1625, ed. a cura di G. Ravasi, Milano 1997, pp. 18-21. Infine, si veda il caso della copia della Trasfigurazione di Raffaello: A.
Zezza, Il fenomeno della copia pittorica in Italia meridionale: qualche considerazione preliminare, in
La copia pittorica a Napoli tra ’500
e ’600. Produzione, collezionismo,
esportazione, a cura di D. García
Cueto e A. Zezza, Roma 2018, pp.
33-34; A. Zezza, Raffaello da Napoli, cit., p. 58.
103
Avviso del 26 ottobre 1639 in
ASF, Mediceo del Principato, filza 4111, edito in A.E. Denunzio,
Alcune note inedite, cit., pp. 19931995; F. Viceconte, “Desiderando,
cit., pp. 130-132; A.E. Denunzio,
Copie per i viceré, cit., p. 186. Sul
dipinto (del quale era già iniziato
lo smembramento nel terzo decennio del XVII secolo): P. Leone De Castris, Polidoro da Caravaggio. L’opera completa, Napoli
2001, pp. 290-299.
104
Capecelatro (1595-1670 circa)
fu uno dei principali esponenti
dell’opposizione aristocratica alle
politiche economiche del conte di
Monterrey e del duca di Medina
de Las Torres, accusandoli di malgoverno. Su di lui: S. Volpicella,
Della vita e delle opere di Francesco
Capecelatro, Napoli 1846; C. Russo, voce Capecelatro, Francesco, in
Dizionario biografico degli italiani,
XVIII, Roma 1975, pp. 442-445.
In un’opera rimasta a lungo inedita, scrisse che il duca di Medina
“cupido anch’egli di farsi nobili
abbigliamenti, secondo che fatto
avea il conte di Monterrey, cominciò da varie parti a radunar quadri, per ornare una galleria; per lo
qual suo intendimento adempiere
tolse, per opera del padre Ridolfi general de’ domenicani, dalla
chiesa di esso santo due quadri,
di somma stima, l’uno il famoso
Tobia di mano di Raffaello, che
stava alla cappella della famiglia
Del Doce, ed un altro non meno
degno di mano di Luca di Olanda” (F. Capecelatro, Degli annali,
cit., pp. 139, 227). Si veda anche:
S. Volpicella, Principali edifici, cit.,
pp. 250 e 414, nota 433.
LA MADONNA DEL PESCE DI RAFFAELLO DAI DEL DOCE AL DUCA DI MEDINA
65
finito di stampare
nel luglio 2023
per conto di artem srl
stampa e allestimento
officine grafiche
francesco giannini & figli spa,
napoli
Nadia Bastogi, “Naples pour passion.
Chefs-d’oeuvre de la collection De Vito”.
Le ragioni di una mostra in Francia
Giuseppe Porzio, Ampliamenti per il Maestro
del Gesù tra i dottori e un’ipotesi per la sua
identificazione
Sophie Harent, Naples à Dijon
Silvia Benassai, Un nuovo Tarquinio e Lucrezia
di Luca Giordano
Paméla Grimaud, Parthénopé à Aix : peintures
napolitaines du Seicento dans la collection du
musée Granet
Clara Gelao, Il San Pietro martire di Giovanni
Bellini nella Pinacoteca di Bari: correzioni,
aggiunte e novità
Giuseppina Medugno, La Madonna del pesce
di Raffaello dai Del Doce al duca di Medina.
Nuovi documenti
Renato Ruotolo, Mario Panarello, L’inventario
Colonna del 1796: brani di storia di una
collezione dall’eredità Vandeneynden agli apporti
settecenteschi
Antonello Ricco, Novità su Tito Angelini: il San
Marciano in argento nell’ex cattedrale di Frigento
Alessia Pignatelli, Il politico e il collezionista.
Aggiunte alla biografia di Camillo d’Errico
€ 30,00
Lothar Sickel, Fuori dall’ombra di Giuseppe Cesari
d’Arpino: Mattia Merolle nel santuario di Santa
Maria a Parete a Liveri