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Etica nella tassazione: giustizia sociale ed uguaglianza tributaria

La tesi affronta il problema della giustizia nella tassazione e della legittimità del tributo dal punto di vista dell’apparato statale. Proprio dall’ottica dello stato viene analizzata la giustificazione del tributo che si è proposta nel corso dei secoli per rispondere ad esigenze di eticità ed equità del sistema tributario. Viene quindi proposta nel primo capitolo una ricostruzione storica dell’origine dei primi fenomeni di tassazione e le loro rispettive rationes per poi descrivere le ideologie liberali, frutto di riflessioni ideologiche e filosofiche, che alimentavano e alimentano tutt’ora le politiche degli stati moderni. In tale contesto, la trattazione si concentra successivamente sul profilo interno analizzando i principi costituzionali e le due autorevoli correnti riguardo all’interpretazione dell’art.53 della Costituzione. Nel secondo capitolo verranno esposte le due tesi contrapposte in un panorama dialettico che muove dallo scenario nazionale a quello mondiale ragionando, quindi, sulle evoluzioni delle politiche economiche e del mercato. Come già anticipato, realizzare l’uguaglianza e la giustizia in campo fiscale suscita un dibattito acceso nella dottrina e giurisprudenza italiana e pone inevitabilmente una riflessione intorno alle relazioni fra diritti sociali e diritti di proprietà. In ragione di ciò nell’ultimo capitolo verranno trattate le conseguenze della diversa interpretazione dell’articolo della Costituzione prima citato intorno alla presenza di una tutela costituzionale del c.d. minimo vitale, di un limite massimo alla tassazione oltre il quale il legislatore non può esigere con il prelievo fiscale e della portata giuridica ed economica del principio della progressività.

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETA’ Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100 - 10153 Torino - Tel. 011-6702606 – Fax 011-6702612 Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’amministrazione e consulenza del lavoro Prova finale ETICA NELLA TASSAZIONE: GIUSTIZIA SOCIALE ED UGUAGLIANZA TRIBUTARIA Candidato Relatore FEDERICO ZELFERINO FRANCO GABOARDI Matricola 748549 A. A. 2014/2015 INDICE INTRODUZIONE ..................................................................................................................4 CAPITOLO I L’origine della tassazione: evoluzione del concetto di tributo nel corso dei secoli e teorie filosofiche annesse in una prospettiva di indagine riferita ai parametri costituzionali nazionali 1. 2. 2.1 2.2 2.3 BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA TASSAZIONE… .6 RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE FILOSOFICHE RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO……………………………………… .. .11 L’ideologia liberale .........................................................................................................11 Il “revival” neoliberista ..................................................................................................15 Le teorie filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste ......................19 CAPITOLO II La prospettiva interna: giustificazione costituzionale del tributo attraverso l’analisi del principio di capacità contributiva 1. 2. 3. LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA: CONFIGURAZIONE “DEMOCRATICA” E ”COMUNITARIA” DELLA FISCALITÀ……………… .....…25 IL DOPPIO CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: VINCOLO RELATIVO O VINCOLO ASSOLUTO………………………………………………………...... ...29 FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: IL BILANCIAMENTO TRA GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E “INTERESSE FISCALE”……………………………………………………………... 36 CAPITOLO III Il rapporto fra diritto di proprietà e diritti sociali: il minimo vitale, il limite massimo ed il canone della progressività 1. 2. IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO .......................................................40 IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’.....................................................................51 CONCLUSIONI ...................................................................................................................58 BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................65 INTRODUZIONE La “questione fiscale” ha sempre avuto un rilievo sociale e politico rilevante nella vita e nell’azione degli Stati, essendo, infatti, un argomento che rinvia alla stessa concezione di società, di Stato e di democrazia. Il problema della giustizia nell’imposta è stato protagonista di feroci sedizioni e cruente rivolte, scoppiate nei secoli andati in ogni Paese d’Europa come reazione all’ingiustizia tributaria, ed ha dato il via a molteplici spinte propulsive del costituzionalismo nell’età moderna. Le proteste fiscali hanno segnato l’inizio di numerose rivoluzioni e insurrezioni che hanno caratterizzato la storia degli Stati: dal I secolo a.C., quando degli zeloti residenti in Giudea si rifiutarono di pagare le tasse imposte dall'Impero romano - come testimoniato dalla stessa Bibbia - passando per le rivoluzioni americana e francese ed arrivando all’indipendenza dell’India. La campagna del Mahatma Gandhi per l'indipendenza dell'India fu un importante esempio di reazione all’ingiustizia tributaria ed ebbe uno dei suoi punti chiave in una protesta fiscale nei confronti degli occupanti britannici. Ne nacque così una resistenza fiscale che ebbe il suo culmine nel 1930, con la famosa e trionfale marcia attraverso l'India di Gandhi, il cui pensiero, a proposito, era proprio quello di “rifiutarsi di pagare le tasse” poiché esso rappresenta “uno dei metodi più rapidi per sconfiggere un governo”. Tuttavia, il problema della giustizia in campo tributario nelle moderne democrazie è stato oggetto di scontro anche sul piano dialettico ed ideologico. Il diritto tributario, nell’accezione moderna, ha un solido fondamento costituzionale che affonda le radici negli orientamenti filosofici e politici che, a partire dal diciannovesimo secolo, hanno caratterizzato il dibattito scientifico ed influenzato profondamente le politiche economiche degli Stati. Tali orientamenti, pur nati in seno alla medesima ideologia liberale, a sua volta figlia delle istanze illuministiche, hanno finito per contrapporsi, soprattutto in riferimento alla funzione che debba essere attribuita al tributo nell'ambito del sistema Stato. L’analisi che segue muove da queste considerazioni descrivendo inizialmente le premesse filosofiche e storiche che hanno portato alla nascita del pensiero moderno riguardo al sistema tributario e successivamente, con riguardo alla prospettiva interna, come queste premesse abbiano influenzato la storia del diritto tributario italiano: dalla nascita della Costituzione ai giorni nostri. Nell’ultimo capitolo vengono esaminate le interrelazioni tra il fisco, i diritti sociali e i diritti proprietari nella Costituzione italiana; queste, difatti, rappresentano un terreno fertilissimo per una riflessione scientifica sulla funzione che il tributo assume nel nostro sistema statale. La funzione che l'imposizione tributaria possa e debba svolgere nel contesto delle democrazie pluraliste del mondo occidentale contemporaneo è infatti un tema sul quale si sono vivacemente confrontati, negli anni, autorevoli studiosi del diritto tributario. CAPITOLO I L’ORIGINE DELLA TASSAZIONE: EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI TRIBUTO NEL CORSO DEI SECOLI E TEORIE FILOSOFICHE ANNESSE IN UNA PROSPETTIVA DI INDAGINE RIFERITA AI PARAMETRI COSTITUZIONALI NAZIONALI SOMMARIO: 1. Breve introduzione ed evoluzione storica della tassazione – 2. Ricostruzione storica e ideologica delle premesse filosofiche riguardo alla nozione di tributo – 2.1. L’ideologia liberale – 2.2. Il “revival” neoliberista – 2.3. Le teorie filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste 1. BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA TASSAZIONE Le origini delle prime forme di tassazione risalgono a diversi secoli fa, i reperti archeologi1 attestano che già in epoca molto antica - a partire dalla civiltà dei Sumeri esistesse un sistema di tassazione primordiale, attraverso il quale i membri di una tribù contribuivano alle spese comuni del gruppo: dal mantenimento del capo alle necessità in caso di guerra2. Tuttavia, sicuramente, i tributi più onerosi erano quelli che venivano imposti ai popoli vinti; a ragione di ciò, l’origine etimologica sia del termine tributo3 che imposta sembra che trovino la propria origine proprio in ciò che veniva richiesto dal “vincitore” al popolo vinto come segno della sua resa e sottomissione. Con la preparazione storica raggiunta oggi si può affermare che la tassa nella storia veniva intesa come una prestazione d'opera, tale da potersi appunto sostituire al denaro (che infatti ancora non esisteva); nell'antica Mesopotamia, per esempio, si iniziò presto a “tassare” i raccolti della terra e quel che veniva prodotto dal bestiame. A. Charles, For God and Evil. L'influsso della tassazione sulla storia dell'umanità, Liberilibri, 2008, analizza quale sia stata l'influenza della tassazione sull'economia, sulla politica e sulla civiltà. L'autore ripercorre le vicende più significative della politica tributaria dei governi, a partire dalle grandi civiltà del mondo antico, come Egitto, Grecia classica e Roma, fino ai nostri giorni. 2 Per approfondire tale trattazione la pubblicistica prevede il volume di G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, Piemme, Alessandria, 1995, il quale compie una ricostruzione antropologica della nascita dello Stato al fine di individuare i principi etici che governano, o dovrebbero governare, i sistemi fiscali odierni. 3 Il termine tributum nacque nell’antica Roma, in seguito alla riforma della precedente organizzazione gentilizia ad opera di Servio Tullio. L’etimo si rinviene nelle tribù, ossia circoscrizioni territoriali in cui venivano divise città e contado, alle quali venivano imposte prestazioni pecuniarie forzose, secondo i bisogni dello Stato. 1 A partire dalle prime forme di collettività organizzata, queste, raggiunto un certo livello di organizzazione “statale”, necessitavano di reperire risorse fondamentali per il loro funzionamento e conseguentemente di fissare criteri di riparto del relativo onere tra i membri della comunità. La fiscalità, sostanziandosi in quel “potere essenziale per la concreta attuazione delle funzioni derivanti dalla sovranità, ossia per realizzare gli obiettivi di governo prefissati dal titolare del potere sovrano”4, si presenta strettamente collegata al concetto di Stato affermatosi nei diversi contesti storici. Condividendo tale argomentazione, il teologo Gino Concetti tiene a precisare soprattutto che “non si comprenderà pienamente e rettamente il dovere fiscale se non lo si inquadra e illustra nel concetto stesso dello Stato”5. La giustificazione dell’imposizione tributaria, è, pertanto, caratterizzata da una relatività temporale e spaziale, non potendosi ricercare un fondamento del fenomeno tributario unico e universalmente condiviso. Fu, comunque, soprattutto nella Res Publica e poi nell’Impero Romano che la legislazione fiscale - composta, perlopiù, dal Codice Teodosiano e dalla codificazione di Giustiniano (Istituzione, Codice e Digesto) - conobbe un enorme sviluppo, la quale, grazie ad un continuo affinamento e ad un sistema fiscale ben strutturato, poté sopravvivere per quasi mille anni alla caduta dell’impero romano d’occidente. Tale “caduta”, sottolinea il teologo Giovanni Cereti, “aveva travolto anche il sistema fiscale romano”6. L’antichità e il medioevo erano contraddistinti da una incontrastata supremazia del potere esercitato dal sovrano e dall’assenza di un rapporto tra valori individuali e statali. La posizione dei contribuenti era quindi di soggezione assoluta e come si espresse Ezio Vanoni a riguardo “è estraneo alla concezione che il cittadino dell’antichità ha dei suoi doveri verso lo Stato, il pensiero di dovere sopportare una contribuzione ordinaria per fare fronte ai bisogni normali dello Stato”7. P. Boria, L’anti-sovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Giappichelli, Torino, 2004, p. 53. 5 G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 9. 6 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, Cittadella Editrice, Assisi, 2010, p. 14. 7 E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, Cedam, Milano, 1932, in F. Forte, C. Longobardi (a cura di), Opere giuridiche, I, Milano, 1961, p. 7, il quale osserva inoltre che “il cittadino non poteva vedere nei versamenti fatti al fisco un sacrificio sopportato per il bene dello Stato, ma soltanto un prelevamento operato dall’imperatore, in virtù del suo potere discrezionale”. G. Vigna, Ezio Vanoni. Il sogno della giustizia fiscale, Rusconi, Milano, 1992, ha realizzato una importante biografia su E. Vanoni affermando che “la storia ha ingessato Ezio Vanoni come il ministro della riforma 4 Pertanto l’imposta, in una situazione in cui il potere impositivo poteva essere esercitato dal sovrano senza alcuna limitazione, veniva considerata, utilizzando un’espressione di Bartolo da Sassoferrato, uno dei più insigni giuristi dell'Europa continentale del XIV secolo, un “munus quod necessario subimus lege vel mero imperio eius qui habet potestatem”, ovvero un sacrificio economico fondato solo e sempre su un rapporto di potere incondizionato e incontrollabile fra il suo sovrano e ciascun suddito8. La qualificazione del tributo quale strumento di partecipazione del singolo ai carichi pubblici si affermerà solamente quando, con i processi rivoluzionari di matrice illuministica che determinarono la nascita degli stati nazionali, ci fu lo spostamento della sovranità sul “popolo”. La necessità di superare la concezione di imposizione come attributo della sovranità e la volontà di perseguire un’equa distribuzione dell’onere fiscale, abbandonando quella suddivisione in classi venutasi a realizzare fin dall’alto medioevo9, furono fattori determinanti per il cambiamento nella concezione di imposta. La petizione di una ripartizione dei pesi fiscali secondo universalità ed uguaglianza, sfociata in seguito alla reazione all’ingiustizia tributaria, è stata una delle vie più vigorose fra le molteplici spinte propulsive del costituzionalismo nell’età moderna tanto da essere richiamata negli articoli 13 e 14 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 178910 e successivamente delle tributaria, anzi, più sbrigativamente e anche con un po’ di involontaria malignità, come il ministro delle tasse e come il primo impositore in Italia dell’esigenza di una programmazione economica”. Tuttavia, nonostante il ricordo affievolito dello statista, è celebre lo stralcio di articolo che il “New York Times” scrisse all’indomani della sua morte:” Vanoni era, in maggior misura di qualsiasi altro uomo politico italiano, vicino ad essere indispensabile e insostituibile”. 8 E’ doveroso notare che la definizione dell’imposta enunciata da molta dottrina contemporanea non differisce da quella formulata dal giureconsulto Bartolo di Sassoferrato nel secolo quattordicesimo. A sua volta, molto vicino a questa concezione, A.D Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Utet, Torino, 1958, p. 58, fornisce una visione dell’imposta, molto vicina a quella di Bartolo, che influenzò parte della cultura tributaristica italiana del ventesimo secolo: l’imposta è “la prestazione pecuniaria che lo Stato, o altro ente pubblico, ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà di impero, originaria o delegata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge allo scopo di conseguire un’entrata”. 9 Sottolinea A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2005, p. 11, che “la suddivisione in classi e la diversa attribuzione dell’onere fiscale, concentrato essenzialmente sul “terzo stato”, corrispondeva ad un assetto socio-economico, venutosi a realizzare fin dall’alto medioevo, ove a ciascuna classe si attribuivano specifiche “funzioni”, per la nobiltà e il clero apprezzate come direttamene attuative di interessi generali, quindi surrogatorie della partecipazione ai carichi pubblici; dopo l’avvento dello Stato assoluto e l’affermarsi di un’economia più moderna tale assetto si rivela però inadeguato”. 10 L’Art. 13 recitava: ”Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in ragione delle loro sostanze.”; l’art. 14: ”Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o Costituzioni francesi del 1946 e 1958, fungendo poi da esempio per le costituzioni di tanti Stati d’Europa. Superando l’idea di un rapporto bilaterale tra sovrano e suddito, il tributo iniziò quindi ad essere concepito come “contribuzione”, cioè come obbligazione di riparto fra più soggetti alla comune spesa, poiché “nello Stato moderno, di fronte alla concezione che tutti abbiamo della società e del dovere primo del cittadino di dare la sua solidarietà all’ordinato svolgersi della vita civile, l'imposta non è, come scriveva anni or sono uno dei migliori economisti italiani, il Pantaleoni, una taglia estorta dai briganti; l’imposta non può essere intesa che come l’espressione del dovere morale e civico che grava su ognuno di noi, di concorrere al bene della società”11. Alla luce di questo processo evolutivo che portò ad una nuova configurazione di imposta, caratterizzata da una funzione di riparto, volta alla costituzione di una serie coordinata di rapporti tra i contribuenti, nacque il problema della giustizia tributaria. Si passò quindi da una concezione di tributo “autoritaria” ad una “democratica”, abbandonando così quella configurazione atomistica dei rapporti d’imposta che aveva impedito di cogliere la dimensione “comunitaria”12 dell’imposizione: solo “la miriade di rapporti non atomisticamente intesi e non concepibili come isolate monadi, attuano la funzione di giustizia nella ripartizione di un certo ammontare di spesa pubblica componendo e regolando con perequazione il potenziale conflitto di interessi tra platea dei soggetti passivi e l’ente pubblico.”13 In Italia, tale rinnovamento è stato codificato attraverso un primo riconoscimento di un diritto di giustizia fiscale negli artt. 24, 25, 30 dello Statuto Albertino14, nonostante parte della dottrina, sostenitrice del modello “organicistico” in contrapposizione a quello “giusnaturalistico”15, condividesse ancora la definizione di mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l'impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione e la durata.” 11 Così si espresse E. Vanoni nella seduta di discussione del Disegno di legge “Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario” del 27 luglio 1950, in www.senato.it. 12 Denomina appropriatamente “comunitaria” la funzione fiscale M.T Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, Giuffrè, 2007, p. 126. 13 G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 24. 14 L’art. 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”; l’art. 25: “essi [i regnicoli] contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”; l’art. 30: “nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re”. 15 Molto brevemente, il modello organicistico è frutto dell’idea per la quale il potere politico, imperium, procede dall’alto verso il basso e non viceversa poiché lo Stato è anteriore e al di sopra delle imposta come prelevamento coattivo imposto a tutti coloro che soddisfano determinati requisiti previsti dalla legge, e rifiutasse, perciò, di attribuire rilevanza giuridica al problema della ripartizione ottimale dei carichi pubblici. Tale dottrina ebbe la stessa reazione di rigetto, nei primi anni successivi all’emanazione della Costituzione, in relazione al significato del disposto “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, contenuto nell’art. 53 della nuova Carta fondamentale16. L’espressione “capacità contributiva”, afferma il giurista Franco Gaboardi, è “un’espressione che contiene concetti anche di ordine filosofico-sociologico” e, proprio per tale motivo, “la dottrina ha tentato di definire il suo ambito di applicazione e i suoi contenuti” 17. Alcuni autori espressero, infatti, opinioni “svalutative” in merito al concetto di capacità contributiva, a cui veniva attribuita scarsa rilevanza, tanto da essere definito “scatola vuota”18, “capace di essere riempita dei significati più vari”19. Tali orientamenti rimasero tuttavia minoritari, prevalendo in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale20, una valorizzazione del principio di capacità contributiva quale principio fondante l’imposizione, all’idoneità, profondamente connesso concreta ed effettiva, dell’individuo a concorrere alle spese pubbliche. sue parti. Riguardo al fenomeno tributario questa concezione ritiene che, quindi, il potere dello Stato in materia di prelevamento è senza limiti e, coerentemente a ciò, il contribuente occupa una posizione di soggezione poiché è lo Stato il titolare della sovranità finanziaria. Il pensiero giusnaturalista, invece, ritiene che il cittadino è un associato e che deve l’imposta a titolo di contribuzione, unitamente a tutti gli altri associati, membri del medesimo consorzio politico. 16 Per una approfondita analisi delle origini dell’art. 53 della Costituzione si rimanda a G. Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, pp. 97 e ss. L’Art. 53 così recita:“ Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.” 17 F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p. 105. 18 L. Einaudi, Prefazione a L.V. Berliri, La giusta imposta, Giuffrè, Roma, 1945; B. Griziotti e parte della dottrina, rimasta però minoritaria, giungeva inoltre ad identificare la capacità contributiva con il godimento dei pubblici servizi, in funzione dei quali si dovrebbe determinare il concorso dei privati alle pubbliche spese. Tale concezione, che giustifica il prelievo secondo le regole del mercato, è stata tuttavia oggetto di critiche in relazione alla necessaria valutazione della compatibilità con altri valori insiti nella Costituzione, derivandone l’impossibilità di individuare criteri di distribuzione dei carichi pubblici dipendenti dall’utilità arrecata a ciascuno dall’erogazione dei servizi pubblici. 19 F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 105. 20 Si deve osservare come nel tempo i giudici costituzionali abbiano assunto posizioni contrastanti e come spesso gli stessi preferiscano non esporsi sulla portata effettiva del principio, rifugiandosi in escamotages formalistici. Per una visione d’insieme dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di capacità contributiva: G. Marongiu, Il principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Dir. prat. trib., 1985, pp. 233 e ss. La rinascita dell’indirizzo “svalutativo” verificatasi a partire dalla fine degli anni ottanta, o meglio “neo-svalutativo” poiché muove argomentazioni più analitiche e sofisticate di quelle che supportavano in origine il primo orientamento svalutativo, impone la necessità di soffermare l’attenzione, nel secondo capitolo, sull’analisi delle due opposte concezioni di capacità contributiva, analizzando, così, la base del contrasto dialettico in atto tra le diverse posizioni dottrinali. 2. RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE FILOSOFICHE RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO 2.1 L’ideologia liberale Nella successione storica il tributo, inteso come istituto giuridico, trova diverse giustificazioni legate perlopiù alle politiche economiche degli stati a seconda che esse siano improntate all’uno o all’altro dei due tradizionali e più importanti filoni dell’ideologia liberale. In merito ciò, Franco Gallo, trentaseiesimo Presidente della Corte Costituzionale della Repubblica, afferma che l’ideologia liberale si suddivide in due indirizzi contrapposti: “quello, liberista classico, più incline a privilegiare i diritti proprietari a fronte dell’interesse pubblico al prelievo e a svalutare l’interesse statale, regolatore e di mediazione e quello, all’opposto, egualitario e welfaristico, repulsivo del modello dello “stato minimo”21 e rivalutativo delle regole fiscali distributive rispetto ai diritti proprietari medesimi.”22 Il primo orientamento, sulla spinta dell’individualismo possessivo lockeano, è stato seguito dagli stati liberali italiani pre-unitari dell’Ottocento quando era dominante la teoria e la pratica del laissez faire e del laissez passer23. Questa “forma di Si parla di stato minimo per sottolineare la caratteristica propria dello Stato liberale di porsi come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, al contrario dello Stato sociale, quello liberale predilige il rispetto e la salvaguardia dell'iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di dirigismo statale. Il compito fondamentale non è quello di perseguire forme di eguaglianza sostanziale, ma di limitarsi unicamente a quelle di eguaglianza formale. Ne consegue l'idea di un apparato "alleggerito", incentrato sulla tutela di pochi diritti essenziali ed in grado di lasciare la massima libertà all'iniziativa dei singoli. Lo Stato minimo dovrebbe, quindi, garantire i servizi relativi alla giustizia, al diritto e alla protezione. 22 F. Gallo, Etica e giustizia nella tassazione, in Riv. dir. int., 2007, pp. 12 e ss. 23 Massima, attribuita all’economista J.de Gournay, che nel diciottesimo secolo costituì una sorta di slogan per i fisiocrati e i liberisti nella loro campagna rivolta a ottenere l’abolizione di ogni vincolo 21 liberalismo”, scrive Cereti, “riteneva che lo sviluppo economico esigesse che le imposte fossero ridotte al massimo, e che fossero giustificate soltanto per assicurare allo stato i mezzi per garantire la sicurezza del cittadino e la difesa della sua proprietà”24. Secondo tale orientamento, non ammettendo incisive intrusioni dello stato nella società civile, si identificava la persona con i diritti proprietari e il patrimonio dell’individuo aveva una propria, naturale legittimazione morale. Pertanto, si considerava ingiusta ogni forma di “prestazione imposta” che non fosse ispirata al criterio del beneficio 25: non costituisse cioè, in un ottica contrattualistica, remunerazione del godimento di pubblici servizi resi ai privati; dunque, il tributo, ha assunto, nella sostanza e in termini economicistici, soprattutto, la forma e la sostanza del corrispettivo. L’inevitabilità di questa conclusione è dettata dal fatto che “a quell’epoca la divaricazione fra pubblico e privato, fra stato e società borghese e la tutela assoluta della libertà individuale, da una parte, imponevano allo stato di limitarsi a correggere gli estremi dello stato di natura26 e a tutelare la sicurezza pubblica e la proprietà individuale; dall’altra, gli vietavano sul piano economico-finanziario sia di acquistare e conservare capitali, sia di controllare i conti dei privati, sia di gestire industrie o commerci”27. Per quanto riguarda la legittimazione dell’imposta legata alla volontà popolare, espressa attraverso i rappresentanti della categoria di appartenenza, lo slogan “no taxation without representation” era normalmente meglio percepito dai contribuenti non come uno strumento di democrazia atto a dar la voce in politica, ma essenzialmente nel senso negativo che “le tasse imposte senza consenso erano un tipo di confisca che distruggeva i diritti proprietari”28. La mancanza di compenetrazione fra stato e società, motivata dall’organizzazione politica della civiltà liberale dell’epoca, e questa protezione “piena” imposto dallo stato all’attività economica, e divenuta quindi simbolo del liberismo economico; la sua origine più remota va ricollegata alla risposta Laisseznous faire, data dal mercante Legendre al ministro J.B. Colbert che chiedeva cosa si poteva fare per aiutare il commercio. 24 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., pp. 14 e ss. 25 Per approfondire , vedi F. Gaboardi, nel già citato Riflessioni intorno alla finanza pubblica, p. 73, ne da una definizione chiara affermando che “la regola del beneficio” è “basata sul principio del quid pro quo o del do ut des: al beneficio economico del cittadino, corrisponde subito, od in un momento successivo, il beneficio economico dello Stato(o viceversa) ”. 26 J. Locke, The second Treatise on Civil Government, London, 1690, cap 5 (trad. it. Due trattati sul governo, Torino, 1948, p .335). 27 F. Gallo in, Etica, fisco e diritti di proprietà, in Rass. trib., 2008, pp. 11 e ss. 28 J.W .Ely jr, The Guardian of Every Other Right, New York-Oxford, 1998, p. 27. della persona e dei diritti proprietari hanno prodotto correlati sistemi normativi basati sulla proporzionalità (piuttosto che ispirati alla progressività), con schemi attuativi della norma tributaria che non contemplavano in punto di fatto ispezioni, accessi e sopralluoghi presso il domicilio o presso il luogo in cui il contribuente svolgeva la sua attività. La storia dei rapporti fra proprietà e tributo muta verso la fine dell’Ottocento, quando con il sorgere dei movimenti socialisti, comincia timidamente ad emergere quell’importante filone del pensiero liberale che riconosce allo Stato un qualche ruolo di mediatore e distributore. Il secondo importante filone del pensiero liberale e cioè il pensiero rivalutativo del ruolo sociale dello stato e della sua funzione di riparto e redistribuzione ha infatti trovato poi la sua definitiva affermazione dopo la seconda guerra mondiale. Con l’abbandono delle teorie contrattualistiche e l’avvento dello stato di diritto (democratico), infatti, ha preso via via piede l’idea di uno stato meno neutrale e più articolato, che riconosca nella proprietà privata una funzione sociale e che cerchi di attuare anche una maggiore giustizia sociale all’interno delle singole società. “La dottrina liberale dominante per tutto l’Ottocento”, scrive il presbitero genovese Giovanni Cereti, che “considerava la libera iniziativa e il diritto di proprietà privata come un assoluto intangibile di cui non si intravedeva ancora la funzione sociale“ - difesi per salvaguardare “la dignità ed i diritti della persona umana contro le intromissioni e gli abusi degli apparati statali” - viene progressivamente sostituita, o perlomeno affiancata, da “una nuova visione che impose di riconoscere la funzione sociale della proprietà. Essa non è legata solo al fatto che siamo chiamati a condividere i beni della Terra con gli abitanti del pianeta, ma soprattutto alla convinzione che la proprietà è data anche per metterci in grado di rendere un servizio concreto al prossimo. In questa nuova concezione la produzione di un reddito non può essere destinata solo al bene del singolo e dei suoi famigliari ma deve andare a vantaggio di tutta la collettività.”29 Tuttavia in un primo momento e fino all’avvento del fascismo lo stato si presenta ancora come garante delle situazioni giuridiche soggettive della persona e ha, perciò, fra le sue funzioni più importanti quella di far rispettare i diritti proprietari, senza darsi eccessivo carico di quelli sociali. La caratteristica di tale momento storico è data dal fatto che lo stato “pur continuando ad avere la funzione di assicurare il rispetto 29 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 71. di tali diritti, nella sua autorità di stato titolare a sua volta di un diritto naturale di imposizione è tuttavia abilitato a condizionarli e a limitarli, a condizione che ciò avvenga con il consenso dei cittadini incarnato nella legge”30. Dopo la parentesi autoritaria e la seconda guerra mondiale, con l’aumentare delle esigenze sociali, si verifica una ulteriore evoluzione istituzionale31, che porta a estendere la funzione di garanzia dello stato ai diritti positivi di libertà e a fare, perciò, emergere con chiarezza il suo ruolo distributore e redistributore dei carichi pubblici (anche) a mezzo della tassazione. In un regime democratico, infatti, la tassazione ha lo scopo di assicurare allo stato il flusso di denaro da impiegare in tutte quelle operazioni e iniziative che sono vantaggiose per i cittadini, che promuovono, pertanto, il bene comune. Si impone cioè il modello dello stato sociale dove i tributi trovano la loro giustificazione in un’ottica distributiva e non corrispettiva ed hanno fondamento, in una prima fase, nella sovranità (fiscale) dello Stato e, più avanti nel tempo - in regime di suffragio universale e di democrazia costituzionale - nel dovere contributivo inteso come dovere di solidarietà, a fronte del quale si pone l’esercizio, a fini fi riparto, di una potestà legislativa di imposizione collegata alla manifestazione di una specifica capacità contributiva. Come sottolinea Cereti: “non si pagano le tasse perché lo stato lo impone e non soltanto perché ci si ripromette di ricevere dallo stato servizi in contraccambio”, bensì “la motivazione profonda è che si pagano le tasse perché si è e si vuol essere solidali tutti con uno e uno con tutti, e perché nella società armonicamente organizzata si raggiunge il massimo dello sviluppo e del benessere individuale e comunitario.”32 Ciò ha segnato l’inizio di quella che Sergio Steve ha chiamato l’era della “finanza della riforma sociale”33, di quella finanza, cioè, che affida all’imposizione sia la funzione di riparto dei carichi pubblici, compresa quella redistributiva, sia la funzione compensativa dei cicli economici sfavorevoli; in cui il sistema fiscale deve proporsi come, almeno potenziale, fattore di equità e di giustizia sociale. F. Gallo, La funzione del tributo ovvero l’etica delle tasse, Giuffrè, Torino, 2009. In merito a ciò, G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 70, ritiene che proprio “questo progressivo allargamento dei compiti riconosciuti allo stato nella società contemporanea è stato reso possibile anche da un cambiamento intervenuto nel concetto di proprietà”. 32 Ivi, p. 101. 33 S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1976, p. 8. 30 31 2.2 Il “revival” neoliberista Nonostante l’evoluzione del quadro normativo verso sistemi fiscali con funzione nettamente distributiva e redistributiva dei carichi pubblici, soprattutto nell’ultimo ventennio si sono riproposti con grande forza in Italia - a livello sia scientifico che di polemica politica - contrari orientamenti liberisti; i quali hanno trovato un favorevole humus nella generale riprovazione delle politiche assistenziali eccessivamente dispendiose degli anni settanta e ottanta e nella forte richiesta di minore pressione fiscale, di più mercato e di superamento della crisi fiscale dello Stato attraverso la forte riduzione delle spese sociali, necessarie per il sostegno del contestato welfare state34. Prende le distanze da queste teorie Giovanni Cereti, il quale, ritiene che “la critica allo stato sociale, al welfare state” è “troppo spesso legata all’affermazione egoistica del privato e della sua inefficienza”. Egli, tuttavia, ammette che tale critica “ha delle ragioni nella denuncia di difetti appartenenti alla sfera pubblica, dagli sprechi, agli eccessi di burocratizzazione, al sistema delle tangenti a favore dei politici”, ma ritiene che debbano essere necessariamente corretti “dal modello di stato di forte ispirazione etica e solidaristica”35 quale è lo “stato sociale” così ispirato. Ritornando alla visione neoliberista, il tributo, in essa, viene considerato come un fattore di alterazione del diritto fondamentale di proprietà, a sua volta base ed Nel prima citato F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, possiamo individuare alcune definizioni di welfare state esposte da autorevoli studiosi come Briggs, Wilensky, Alber e Ferrera. Briggs ha proposto la seguente: “Il welfare state è uno Stato in cui il potere organizzato è usato deliberatamente (attraverso la politica e l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato in almeno tre direzioni: primo, garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato della loro proprietà secondo, restringendo la misura dell’insicurezza mettendo individui e famiglie in condizione di fronteggiare certe «contingenze sociali» (per esempio, malattia, vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a crisi individuali e familiari terzo, assicurando ad ogni cittadino senza distinzione di classe o status i migliori standard disponibili in relazione a una gamma concordata di servizi sociali”. Un’altra definizione molto citata in letteratura è quella di Wilensky, per il quale “l'essenza del welfare state risiede nella protezione da parte dello stato di standard minimi di reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abitazione, garantiti ad ogni cittadino come diritto politico, non come carità”. Una più recente si deve a Alber per il quale: “Il termine welfare state designa un insieme di risposte di policy al processo di modernizzazione, consistenti in interventi politici nel funzionamento dell’economia e nella distribuzione societaria delle chances di vita; tali interventi mirano a promuovere la sicurezza e l’eguaglianza dei cittadini al fine di accrescere l’integrazione sociale di società industriali fortemente mobilitate”. M. Ferrera nel saggio Modelli di solidarietà, partendo dall’etichetta formulata da Alber e alla luce delle considerazioni svolte sulla stessa, ne integra e semplifica il significato, proponendo la seguente: “Il welfare state è un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l’altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria”. 35 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 93. 34 espressione della persona e della sua libertà individuale e limite, solo eccezionalmente valicabile, alla tassazione. Pertanto, pur non potendo giungere, per evidenti ragioni sia storiche che economiche e politiche, a riportare l’imposizione allo schema ottocentesco di prelievo-controprestazione, viene sminuita la funzione distributiva dell’imposizione, per apprezzare il criterio del beneficio e della proporzionalità. In questo contesto si afferma ”il diritto naturale e originario dell’individuo all’intangibilità della sua proprietà e alla conservazione della maggior parte dei frutti del suo lavoro”, pertanto viene concesso “all’ente pubblico (stato, regioni ed enti locali) di prelevare, attraverso lo strumento del tributo, solo quando è strettamente necessario per finanziare il costo della tutela della proprietà stessa e l’offerta di beni pubblici classici(servizi giudiziari, polizia, difesa) e poco altro ancora”36 e, in genere, per il finanziamento delle cosiddette libertà negative37 escludendo dal finanziamento tramite imposte la gran parte dei fondamentali diritti positivi, sociali e civili. La visione riduttiva del ruolo del tributo e della funzione accertatrice trova indirettamente un ulteriore sostegno nel processo di globalizzazione, il quale processo, esautorando lo stato di una parte rilevante delle sue prerogative a vantaggio del “privato”, imporrebbe di riservare a esso solo la imprescindibile garanzia dell’ordine pubblico e di porre, conseguentemente, a suo carico solo il finanziamento della relativa spesa. Riguardo agli “effetti pluridirezionali” della globalizzazione interviene l’avvocato ed ex deputato Vittorio Emanuele Falsitta affermando che in un contesto “globalizzato”, quale è il nostro, “i regimi fiscali appartenenti a paesi diversi entrano in concorrenza e cercano di ridurre il livello di pressione tributaria sui fatti reddituali e di consumo” cosicché “le imprese” si spostino 36 25 e ss. F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. Con l'espressione libertà negativa si indica uno dei principi base del pensiero liberale. In uno stato liberale, infatti, l'individuo è libero dai vincoli che un soggetto può imporgli, ed è garantita l'iniziativa personale, come, ad esempio, scrivere liberamente su un giornale, oltrepassare senza impedimenti i confini nazionali, oppure avviare un'attività commerciale senza essere soggetto a costrizioni o ostacoli. La libertà negativa è intesa come non-interferenza del potere statale sulle azioni individuali: l'individuo è tanto più libero quanto più lo stato omette di regolarne la vita. La scarsità di vincoli è dunque inversamente proporzionale all'esercizio della libertà negativa. La distinzione teorica, sulle orme di Kant, tra libertà "di" (positiva) e libertà "da" (negativa) è stata introdotta per la prima volta dal filosofo liberale Isaiah Berlin, professore di teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British Academy. Il concetto di libertà negativa venne espresso in modo completo per la prima volta dal filosofo Hobbes e ripresa dall' inglese John Locke, nell'opera Due trattati sul governo, per merito del quale, con la fondazione del pensiero liberale, furono enunciati per la prima volta i diritti umani basilari. Complementare ad essa in uno stato socialista è la libertà "di", o libertà positiva. Il concetto di libertà negativa si comprende infatti anche nel confronto con quello di libertà positiva, ascrivibile a Rousseau e al recente comunitarismo, che valuta la libertà nell'ottica della partecipazione degli individui alla produzione delle leggi che essi stessi devono rispettare, quindi in senso positivo. 37 “geograficamente” diventando “contribuenti dove le imposte sul reddito sono più attenuate”38. L’adesione al neoliberismo ha portato a considerare – quanto meno sul piano dell’enunciazione politica - sia posizioni di capitalismo protezionista, sia all’estremo, per quanto riguarda specificatamente la politica fiscale, posizioni di esasperata deregulation, di lotta all’imposizione in sé. A ragione di ciò si tollera (addirittura) una relazione stabile fra il fenomeno evasivo e la pressione fiscale in cui si dimostra una quasi “comprensione politica” per il primo in ragione dell’alto livello della seconda.39 Storicamente, queste teorie hanno anche ascendenti più prossimi, rispetto a Locke40, radicati nell’individualismo giusnaturalista ottocentesco e più specificatamente, nell’ordoliberalismo tedesco e nel costituzionalismo liberale hayekiano, che vedono il mercato come un “ordine spontaneo” che riesce ad armonizzare in maniera, appunto, spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”41 - cioè la moderna società complessa - che sfugge a ogni pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza. Tali correnti di pensiero considerano, di conseguenza, i diritti proprietari come libertà naturali, pre-politiche e pre-istituzionali, che si traducono sul piano giuridico in una “sorta di pretesa ostile verso terzi” da parte del soggetto che ne è titolare e in un certo qual modo indipendenti dal loro riconoscimento costituzionale.42 V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, Università Bocconi Editore, Milano, 2006, p. 33. Silvio Berlusconi, 17 Febbraio 2004, conferenza stampa Palazzo Chigi: ”Se si chiede una pressione del 50% ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere” […] “c’è una norma del diritto naturale per la quale, se si chiede di pagare il doppio delle imposte, questo è qualcosa che può essere ritenuto ingiusto e che può indurre qualcuno a sentirsi autorizzato a non pagare le tasse ”. 40 J. Locke, The Second Treatise, cit., cap.5. La difesa da parte di Locke dei diritti individuali di proprietà aveva, però, allora come apprezzabile obiettivo- poi realizzato con la rivoluzione francese- la liberazione dell’individuo dal “potere feudale e da quello arbitrario del sovrano”. Per l’individualismo possessivo di Locke, in particolare, la proprietà dei beni terreni, trasmissibile attraverso l’istituto dell’eredità, è diretta a escludere a vantaggio del proprietario e del suo spirito di autoconservazione ed è perciò, distinta dalla sovranità, la quale ha sì per fine la conservazione del diritto e della proprietà, ma non costituisce un bene privato del sovrano. 41 F. von Hayek, La via della schiavitù, trad. di Dario Antiseri e Raffaele De Mucci, Rusconi, Milano, 1995. 42 F. Gallo, Giustizia e Riforma Fiscale, in Oss. it., 2003, pp. 847 e ss. 38 39 Questi assunti sulla originalità e naturalità del diritto proprietario e sul drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico distributivo hanno trovato forse la migliore espressione, nel 1974, nella teoria del c.d. “titolo valido” coniata da Robert Nozick43. Per tale pensatore i diritti proprietari sono un elemento strutturale del diritto di libertà individuale44: ad ogni individuo verrebbero attribuiti, al momento della nascita, i diritti fondamentali ed intangibili, alla disponibilità quasi esclusiva dei frutti del suo lavoro. Secondo la sua teoria deontologica nessuna redistribuzione di ricchezza sarebbe ammissibile da parte dello stato attraverso l’imposizione, neanche col consenso unanime dei cittadini, perché essa interferirebbe con la dinamica del mercato e quindi, nella sostanza, con il principio di libertà. Tale scuola di pensiero va collegata ed è in parte conseguente, sul piano delle dottrine economiche, alla reazione alle teorie keynesiane e roosveletiane dominanti nel secondo dopoguerra. Fra i maggiori esponenti troviamo Ronald Coase e Milton Friedman, i quali, sulla scia anche del pensiero da Friedrich Von Hayek, hanno contribuito alle teorie liberiste, rilanciando le c.d. ”politiche dal lato dell’offerta” 45 ovvero quelle politiche che prescrivono il taglio delle tasse come rimedio ad ogni male economico e come ricetta infallibile per la ripresa e sottolineando, nel contempo, l’inefficienza della grande spesa pubblica, i limiti e le prodigalità delle politiche statali di piena occupazione e l’inidoneità dei governi a risolvere i problemi della società. Seguendo questa logica di pensiero, si è giunti addirittura a sostenere che “abolizione del settore pubblico significa che tutti i pezzi di terra, tutte le aree territoriali, incluse strade e vie di comunicazione, siano possedute privatamente da individui, imprese, cooperative, o qualsiasi altro raggruppamento volontario di individui e capitali […]. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è ri-orientare il nostro pensiero sino a prendere in considerazione un mondo in cui il territorio sia posseduto privatamente”46. Sul fronte prettamente fiscale, il descritto “revival” neoliberista ha prodotto prese di Il pensiero di Nozick, contraddistinto da una visione fortemente minimalista dell’intervento pubblico redistributivo, diverge da quelle teorie aventi come referente storico il consequenzialista Hume, le quali, pur non disconoscendo l’importanza dei fondamentali diritti proprietari, li considera tuttavia una mera conseguenza di leggi, regolamenti e norme, anche informali, che hanno come fine la tutela di altri rilevanti valori sociali ed economici, espressione del “nuovo Welfare State”. 44 Libertà che può definirsi negativa e cioè libertà come assenza di impedimento alle azioni e al possesso di un individuo da parte di altri individui e dello stato. 45 L’economista statunitense e vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1970, Paul Samuelson, definisce ironicamente tali politiche “voodoo economics”. 46 M.M. Rothbard, For a new liberty, Chicago,1973, pp. 220-221. 43 posizione piuttosto forti, tali da mettere in discussione la giustificazione morale e solidaristica del principio stesso di tassazione. E in modo esplicito Richard Epstein47quasi dimenticando la ricordata faticosa evoluzione della nozione di tributo in termini distributivi - ha affermato che il potere di imposizione non è altro che una forma di “espropriazione senza indennizzo” e una confisca “senza causa”, aggiungendo che ”la tassazione è prima face una requisizione della proprietà privata”. 2.3 Le teorie filosofiche consequenzialiste, ralwsiane e quelle egualitariste Alla rediviva visione minimalista dell’intervento pubblico si sono contrapposte le teorie liberali consequenzialiste, riconducibili storicamente soprattutto al pensiero di Hume48. Queste teorie, afferma Gallo, “riconoscono l’importanza dei diritti proprietari quali garanzia delle libertà individuali, ma li sganciano tuttavia dalla persona considerandoli una mera conseguenza di leggi, anche fiscali, che hanno come fine anche la tutela di altri rilevanti valori sociali ed economici”49. Da ciò, deriva un’idea di proprietà come istituto fondato sul criterio dell’appartenenza, ma nello stesso tempo legato ad un sistema complesso di obbligazioni sociali e rispondente al principio di giustizia distributiva. Senza essere necessariamente consequenzialista, un moderno pensatore come Rawls - che è stato nel Novecento uno dei maggiori teorici del principio di giustizia e delle opportunità sociali - valorizza, con la libertà dell’individuo, il ruolo della responsabilità collettiva e della giustizia come equità distributiva e richiama la necessità di dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei più svantaggiati rispetto a quelle dei più ricchi (secondo il noto principio del “maximin”). Tale ordine di idee che presuppone “la necessaria condivisione” dei redditi con “le fasce più disagiate della popolazione”, secondo Concetti, “tende a sottolineare” così sia “la solidarietà che deve esistere fra le persone all’interno delle comunità” sia “il dovere dello stato di intervenire per favore una maggiore eguaglianza fra tutti i cittadini”50. Il che, secondo la R. Epstein, Takings, Cambridge, 1985, p. 100. D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. it., in Opere filosofiche, vol. I, Roma-Bari, 1992. 49 F. Gallo, Etica e giustizia nella “nuova” riforma tributaria, Politica del diritto, n.4, 2003, pp. 47 48 3 e ss. G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 18. Contrariamente a questo indirizzo, Concetti, definisce lo schieramento del pensiero neoliberista come quello che continua a 50 teoria rawlsiana del “disinteresse reciproco”, in sintonia su questo punto con le teorie consequenzialiste e in netta contrapposizione alle teorie liberiste, presuppone la divaricazione tra ciò che alla persona appartiene e ciò che è la persona in quanto individuo sociale titolare di diritti e doveri. Anche altri pensatori post-consequenzialisti, come Amartya Sen51, arrivano alle stesse conclusioni del neocontrattualista Rawls sul punto della giustizia distributiva e, soprattutto della considerazione della persona (“divaricata” dalla proprietà) quale individuo sociale. Alla base del pensiero di Sen c’è l’opinione, comune alle costituzioni dei paesi europei, che è dello stato la responsabilità ultima sia nell’individuazione e rimozione delle cause di ingiustizia distributiva, sia nell’elargizione pubblica diretta di servizi, sia infine nel reperimento - con imposta progressiva - delle entrate necessarie a finanziare detti servizi e a garantire, comunque, una soglia minima di benessere nella dignità. Il quale stato, nel perseguire un ragionevole equilibrio fra i principi di libertà, di eguaglianza e di solidarietà, deve altresì preoccuparsi che l’utilizzazione dei suddetti beni e servizi e la fruizione di tali benefici siano consentiti e garantiti a chiunque non certo in modo uniforme bensì adeguandoli alla “capacità” differenziata e al progetto di vita che l’individuo vuole seguire (human functioning)52. In merito al pensiero di tale corrente storica-ideologica, il giurista Franco Gallo offre una mirabile sintesi affermando che: “in questo contesto di “uguaglianza di capacità” e di “equa differenziazione “ il tributo, quasi paradossalmente, limita la libertà, i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell’individuo, e in ciò sta indubbiamente un sacrificio53 individuale”, ma congeniato “per aumentare la libertà “privilegiare la proprietà privata e i suoi diritti, oltre che la libertà dell’individuo di agire anche in campo economico senza troppi vincoli o balzelli”. 51 A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, trad. it., Milano,2000. 52 E’ questa la visione tendenzialmente egualitaria della welfare community che viene definita dello “sviluppo umano”, sulla quale A. Sen, insieme a B. Williams, si è soffermato in Utilitarismo e oltre, trad. it., Milano, 1984. 53 A proposito di sacrificio, F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., pp. 80 e ss, elenca le tre possibili tipologie di sacrificio. Seguendo il concetto di sacrificio uguale si deve prelevare a ciascun soggetto un’uguale quantità di utilità soggettiva, cioè non la stessa somma, ma la parte di utilità uguale di cui vengono privati tutti gli altri soggetti; delineato da J.S. Mill, porterebbe all’imposta proporzionale, nel caso che le utilità fossero misurabili dal fisco. Il sacrificio proporzionale, invece, prende in considerazione gli averi (redditi e beni) di cui ciascuno è provvisto. L’uguaglianza dinanzi all’imposta si ha quando l’imposta determina sacrifici proporzionalmente uguali all’utilità totale degli averi che ciascuna persona possiede. È quindi misurato ancora in termini di utilità decrescente, ma la ripartizione del carico d’imposta è equa soltanto se viene prelevato ai più ricchi quote in numero proporzionalmente più forti che ai meno ricchi (questo concetto apre la strada all’imposta progressiva, stessa nell’ottica dell’equo riparto (e, quindi, anche distributiva)”. Pertanto, se “si ritiene che la libertà si espande in senso positivo nella società solo se la si associa a obiettivi di uguaglianza” il tributo, legittimato dal consenso dei consociati espresso dalle leggi, è “lo strumento idoneo per perseguire concretamente questa associazione.”54 Nella visione del prima citato Sen, e soprattutto in quella di altri egualitaristi di estrazione giuridica come Dworkin55, è dunque proprio sull’uguaglianza che si fonda, in ultima analisi, la legittimità etica dello stato sociale impositore e la sua funzione mediatrice e distributiva. Se, infatti, per uguaglianza si intende l’eguale interesse che lo stato deve provare per ogni cittadino da cui pretende il rispetto delle leggi, va da sé che, attraverso le leggi medesime, esso garantisce per la sorte e le libertà di ciascuno dei suoi cittadini e, di conseguenza, dal suo trattarli come eguali e con uguale rispetto. E per fare ciò esso è autorizzato a porre una serie di “costrizioni” legali alla proprietà, alla distribuzione della ricchezza nazionale e alla fruizione, in regime concorrenziale, dei diritti patrimoniali; costrizioni che trovano un limite solo in altri diritti e principi fondamentali inviolabili, primi fra tutti, fra i principi - corollari di quello di uguaglianza - di razionalità, coerenza e congruità. I diritti proprietari vanno, perciò, riconosciuti e tutelati come essenziali strumenti dell’autonomia privata, ma nel contempo anche sganciati dalla persona medesima e bilanciati, conformati e intrecciati con regole e leggi disegnate dallo stato per garantire altri diritti, altri valori e altre forme di ricchezza. Ciò significa che lo stato non si limita più a tutelare e promuovere la libertà d’impresa proteggendo la proprietà privata ma vuole che i consociati raggiungano una condizione di sempre maggiore dignità e benessere realizzando in tal modo una democrazia che cerca di vivere in fondo quella richiamata dall’art 53 Cost). Infine, il sacrificio minimo collettivo prevede che ciascuno deve contribuire in misura tale che il sacrificio della collettività di cui fa parte, sia il minore possibile. La persona è considerata, perciò, sia per quanto possiede, ma anche perché facente parte di una collettività, in modo tale che il sacrificio imposto sia il minore possibile (sempre tenendo conto dell’utilità decrescente del reddito o della ricchezza di ciascuno). In sostanza si ritiene che è, dunque, la collettività che deve soffrire il meno possibile a causa del prelievo, tuttavia se applicato rigidamente questo principio ha il problema di “seccare la fonte” poiché livellerebbe le ricchezze andando a colpire maggiormente le persone con maggiori possedimenti (il principio afferma così l’uguaglianza dell’utilità marginale del reddito fra tutti i contribuenti dopo l’imposta). L’Autore si sofferma sulla possibile applicazione concreta dei tre principi giungendo alla conclusione che è in molti casi difficile, se non impossibile, e iniqua la rigida concretizzazione di ciascuno dei sacrifici prima espressi teorizzando, di conseguenza, l’approccio parziale, ovvero una soluzione mediata in cui si ha una combinazione di principi tenendo in considerazione, tuttavia, che, anche le imposte, hanno spesso fini extra-fiscali sempre più marcati. 54 F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 27. 55 R. Dworkin, Virtù sovrana, teoria dell’uguaglianza, trad. it., Milano,2002. non solo il principio di libertà, ma anche quelli dell’uguaglianza solidale ed economica. A ragione di ciò, incidere la proprietà è, consentito, ma è giustificato e ha un senso solo se si rispettano i principi fondamentali di uguaglianza e solidarietà e solo perché, tramite il sacrificio di alcune quote di proprietà, possono perseguirsi qualificati, inscindibili interessi pubblici e possono rinnovarsi e trasformarsi i contenuti dei diritti sociali che ogni stato deve garantire. Giustamente è stato sottolineato al riguardo che “scindere il nesso fra diritti proprietari e diritti sociali e negare che essi vadano di pari passo […] una posizione alquanto pericolosa, compatibile, certo, con l’assolutizzazione teorica dei diritti sociali contro la proprietà, ma anche viceversa della proprietà contro i diritti sociali”56. I fautori delle teorie egualitarie, insieme ai consequenzialisti ritengono altresì che nelle democrazie moderne l’intervento pubblico sarà a volte paternalistico, ma è pur sempre frutto della funzione conformatrice del diritto e, perciò, del fondamentale principio del consenso popolare incarnato nella legge. Ed è indispensabile tanto per attuare, attraverso lo strumento fiscale, il riparto dei carichi pubblici (secondo il principio di equità distributiva, per superare gli eccessivi egoismi del libero mercato e le disuguaglianze che ne conseguono), quanto per adottare politiche concrete ai fini della promozione dello sviluppo e di garanzia del benessere sociale oltre che dei diritti di libertà. Fa notare Cereti che “la gravissima depressione” del 1929 “impose un intervento dello stato nella vita economica e sociale”, ebbene, questo“ ha trovato nelle imposte non solo la fonte di finanziamento per l’intervento dello stato a favore delle categorie più disagiate e per una distribuzione entro certi limiti della ricchezza fra i propri cittadini” ma anche “il modo di regolare attraverso la loro maggiore o minore pressione la ripresa dell’economia e soprattutto dare incremento allo sviluppo economico attraverso consistenti investimenti statali (Keynes)”57. G. Palombella, L’autorità dei diritti: i diritti fondamentali fra istituzioni e norme, Laterza, Roma, 2004, p. 50. Rendono bene al riguardo l’idea del tipo di collegamento fra i due diritti Holmes e Sunstein là dove mettono in evidenza che “sia il diritto di proprietà sia i diritti sociali rappresentano il tentativo di integrare cittadini che si trovano in condizioni diverse in una vita sociale comune: per questo motivo i titolari del diritto di proprietà, ben lungi dal rifuggire ogni contatto con lo stato, sono partner indispensabili nel moderno stato liberale. Stabilmente istituiti […], i diritti sociali […] sono solo alcuni fra i tanti strumenti volti a far sì che anche coloro che sono svantaggiati si sentano coinvolti nello sforzo collettivo della nazione intera. Dal momento che tutte le parti ne beneficiano, una simile combinazione fra diritto di proprietà e diritti sociali si regge autonomamente e resta stabile nel tempo ”. 57 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 74. 56 Riguardo alla materia dei rapporti fra stato e imposizione, più specificatamente sul punto della funzione redistributrice dello stato sociale, trovano una chiara rispondenza i pensieri di Sen, Rawls in alcune recenti autorevoli interpretazioni della dottrina sociale della chiesa cattolica. Tra di esse la più indicativa di una visione del fisco come bene pubblico e come strumento di distribuzione è forse quella che si coglie nell’intervento della commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Milano, presieduta dal cardinale Carlo Maria Martini. In un contributo presentato dallo stesso cardinale si legge, infatti, che il fisco è ”equo quando, da una parte, fa sì che individui e gruppi identici o simili vengano trattati in maniera la più possibile uguale o analoga e, dall’altra, che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio più elevato contribuisca in proporzione, secondo criteri ragionevolmente progressivi, a ciò che è richiesto dal bene comune dell’intera collettività […]. Il cittadino contribuente e i gruppi sociali o territoriali di cittadini-contribuenti sono consapevoli che, se pagano più di quanto ricevono, altri individui e gruppi ne traggono – in modo trasparente e il più possibile conforme all’equità e alla solidarietà – un beneficio da ciò che è Stato pagato”58. Il contributo diocesano vaglia lo stato sociale impositore, il quale “da antagonista quale era nei confronti della democrazia tende a fondersi nell’era moderna con la democrazia stessa”. Questo processo di identificazione dello stato-comunità con la democrazia, collegato alla essenzialità del fattore fiscale per la sussistenza dello stato medesimo, fa sì che “la crisi fiscale di esso può gettare assai pericolosamente la sua ombra sul funzionamento e sul grado di legittimazione di un regime democratico” e che gli eventuali “giudizi negativi sul fisco si riversano sullo stato medesimo” e, perciò, sulla democrazia che esso impersona. Arrivati a questo punto, il problema che si pone è quello - essenzialmente politico ed etico - del bilanciamento di valori (diritti sociali e diritti proprietari), ambedue presenti nella tradizione social-liberale europea. Avendo riguardo sia della Costituzione - l’art.53 con riferimento ai tributi e al loro riparto, e gli artt. 42 e 4359 Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, Milano, 2000, pp. 18-19. L’Art. 42 così recita: ”La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” Art. 43.“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti 58 59 con riferimento alle altre forme di limitazione della proprietà e all’espropriazione - sia avendo riguardo delle altre regole stabilite con legge ordinaria dalle maggioranze politiche, ai fini o di giustizia sociale e distributiva o di interesse generale o di pubblica utilità60. In questa specifica ottica soggettiva di riparto, il problema della rilevanza dei diritti proprietari si pone soprattutto con riferimento alla (e in sede di) individuazione di ragionevoli indici distributivi dei carichi pubblici da parte dello stesso legislatore ordinario. Tale problema si riduce, in ultima analisi, a stabilire se il criterio soggettivo di appartenenza proprietaria debba essere assunto sempre con legittimazione e, insieme, come limite della tassazione (e, quindi, la ricchezza personale patrimoniale del contribuente debba essere sempre l’oggetto indeclinabile di ogni legittima tassazione), ovvero se questa possa avvenire indipendentemente dall’applicazione di tale principio e riguardare anche posizioni, situazioni e valori privi di contenuto patrimoniale, solo socialmente rilevanti ed esprimenti comunque una potenzialità economica. pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.” 60 Dice al riguardo, forse un po’ troppo drasticamente, J. Bentham che “la proprietà privata e il diritto nascono insieme e muoiono insieme. Prima che la legge la riconoscesse, la proprietà non esisteva; togli le leggi e ogni tipo di proprietà cessa di esistere”. CAPITOLO II LA PROSPETTIVA INTERNA: GIUSTIFICAZIONE COSTITUZIONALE DEL TRIBUTO ATTRAVERSO L’ANALISI DEL PRINCIPIO DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA SOMMARIO: 1. La giustificazione etica del tributo in Italia: configurazione “democratica” e ”comunitaria” della fiscalità – 2. Il doppio concetto di capacità contributiva: vincolo relativo o vincolo assoluto – 3. La funzione garantista e solidaristica del principio di capacità contributiva nel bilanciamento fra giustizia distributiva e “interesse fiscale” 1. LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA: CONFIGURAZIONE “DEMOCRATICA” E “COMUNITARIA” DELLA FISCALITA’ E’ nel descritto contesto storico e istituzionale e fra le indicate luci ed ombre che va ricercata l’attuale concezione del tributo nella nostra Costituzione. Si può affermare che l’aggrovigliarsi indissolubile del regime legale delle tasse con quello di un welfare ragionevole e con quello della proprietà per definire gli ambiti dello stato distributore, e redistributore, sono valori ben presenti nella nostra cultura e nel nostro ordinamento ed hanno rappresentato lo sfondo etico e il background culturale della Costituzione italiana e ne costituiscono oggi la componente economica e sociale. Come la stessa Costituzione italiana mette bene in evidenza sul piano dei principi giuridici, l’imposta diventa “la prestazione obbligatoria di una quota degli averi di ciascuno per soddisfare i crediti degli enti pubblici nascenti dalla necessità della ripartizione dei carichi comuni”61. Si prendono così le distanze dalla concezione atomistica dei rapporti di imposta, come quella esposta da Giannini62 basata sul concetto di “potestà di impero” e G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 56. A.D Giannini, Istituzioni di diritto tributario, cit. Egli riconduce tout court il fondamento giuridico dell’imposta alla soggezione del cittadino alla potestà finanziaria dello Stato, relegando nel campo della 61 62 sull’onnipotenza del legislatore, in cui si riduce il rapporto di imposta ad una normale obbligazione fra il contribuente e lo Stato non cogliendo l’aspetto “comunitario” della fiscalità e non percependo il “sottile” legame di interferenza e di conflitto di interessi che corre nell’ambito di uno stesso organismo sociale, fra l’insieme dei rapporti di una stessa imposta. Avvallando questo criterio, Griziotti sottolinea che “il rapporto tributario” si concretizza in “uno stato assoluto di soggezione del contribuente” in cui “diminuisce la personalità dell’individuo” e di conseguenza “affievolisce la sua indipendenza e libertà”63. Diversamente, nelle società liberaldemocratiche, “la persona non si identifica più con l’homo oeconomicus64- e perciò solo con i suoi diritti proprietari e, in genere, con ogni titolo legittimo di possesso - ma va considerata nella sua complessità di essere politico, sociale e morale, inserito come individuo in un contesto istituzionale e astrattamente idoneo a concorrere alle pubbliche spese per il solo fatto di porre in essere un presupposto espressivo di una posizione di vantaggio economicamente valutabile”65. Da ciò si deduce che, i tributi non possono essere più valutati sul piano morale avendo solo ed esclusivamente riguardo al criterio soggettivo di appartenenza, e cioè al loro impatto sulla proprietà privata, concepita quest’ultima come qualcosa che ha un’esistenza originaria e una validità propria, indipendente dalla legge. In questa ottica la tassazione, pur traducendosi in un sacrificio economico individuale, tende - se equamente distribuita - ad “arricchire” indirettamente la persona quale componente della società. È, infatti, uno degli strumenti che ha l’operatore pubblico non solo per garantire e difendere il patrimonio di ogni consociato ma anche per realizzare il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di eguaglianza sostanziale, per perseguire nella giustizia politiche sociali redistributive, allocative e stabilizzatrici e per promuovere la crescita culturale e lo sviluppo economico nella stabilità66. politica tributaria tanto il problema delle finalità che lo Stato debba perseguire quanto quello della eventuale iniquità o antieconomicità del tributo. 63 B. Griziotti, Principi di politica, diritto e scienza delle finanze, Padova, 1929, p. 175. 64 Astratta semplificazione della complessa realtà umana, enunciata per la prima volta da J.S. Mill, che pone come soggetto dell’attività economica un individuo astratto, del cui agire nella complessa realtà sociale si colgono solo le motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza. 65 F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Editoriale scientifica, 2012, p. 19. 66 Ivi, pp.20-21, afferma che: “le politiche distributive statali, anche quado non producono l’aumento della pressione tributaria, limitano nel breve termine le risorse di alcuni a beneficio di altri. Ma se questa redistribuzione ha come effetto di medio e lungo periodo di migliorare la salute del paese, di ridurre le Sotto un profilo funzionale il tributo è soprattutto lo strumento di giustizia distributiva che, secondo le diverse opzioni politiche, lo stato ha a disposizione insieme agli strumenti di politica economica67- per travalicare le opportunità del mercato e per correggerne le distonie e le imperfezioni a favore delle libertà individuali e collettive e a tutela dei diritti sociali. Pertanto, la spesa pubblica occorrente per finanziare e garantire ciò, dovrebbe essere prelevata con metodi conformi alla “più perfetta giustizia distributiva” tenendo bene in considerazione, come afferma Falsitta, che “l’imposta espropriatrice dell’oggetto tassato o l’imposta tirannica”[…]”sono reliquati concezioni della proprietà e della fiscalità, che la costituzione non riconosce”68. Ribadisce, in tal senso, l’importanza della destinazione, Vanoni, là dove afferma che “un peso imposto ai cittadini per qualsiasi abuso della forza pubblica, e che non serva per fini di utilità collettiva, ma sia disperso in vantaggi di singoli, sarà taglia, livello, spoglio, ma mai tributo”69. Si delinea così nella c.d. costituzione economica, cioè in quella parte della Costituzione italiana che disciplina i rapporti economici, una volontà di governo pubblico dell’economia poiché come afferma Galgano, “la constatata incapacità del mercato” da un lato, e “l’economia capitalistica, storicamente dimostratasi incapace di autogovernarsi” dall’altro, sono inidonee a garantire, da sole, “uno sviluppo economico equilibrato e coordinato con il progresso civile e sociale”. Di qui, prosegue Galgano, “l’universale riconoscimento” che spetta allo Stato il compito di assicurare il tensioni sociali, di incrementare l’accesso di tutti ai servizi fino a quel momento riservati a pochi, non può negarsi che lo stato sociale che ha raggiunto questi obiettivi è sicuramente più benestante e garantisce ai propri cittadini più equità, più sicurezza sociale e, quindi, più uguaglianza e maggiore rispetto di sé. E in questa ottica egualitaria e teleologica, propria dei sistemi improntati al moderno costituzionalismo partecipativo, non può dubitarsi che il prelievo tributario, se associato ad accorte politiche della spesa, è uno degli strumenti più appropriati per superare le sempre e più gravi disuguaglianze derivanti dalle maggiori o minori disponibilità dei beni della vita (sia patrimoniali che non), realizzare i valori solidaristici e promuovere anche la crescita culturale e lo sviluppo economico”. 67 Gli interventi di politica economica possono riguardare l’economia nel suo complesso (macroeconomia) oppure essere mirati e coinvolgere solo uno o più settori produttivi (microeconomia). La politica macroeconomica può essere suddivisa in politica fiscale e politica monetaria. La prima riguarda gli interventi realizzati dallo Stato attraverso variazioni della spesa pubblica o delle entrate: l’aumento delle tasse, la riduzione della spesa pubblica, l’incremento dei trasferimenti di risorse alle famiglie, la variazione delle pensioni sono esempi di interventi di natura fiscale. La politica monetaria riguarda, invece, le decisioni prese dalle autorità competenti – di solito la Banca centrale – per difendere il valore della moneta. La Banca centrale in particolare può, se vuole stimolare l’economia, aumentare la quantità di moneta in circolazione nel mercato, oppure incentivare le banche a detenere poche riserve monetarie e a dare in prestito una maggior quota del denaro ricevuto in deposito alle imprese produttrici, contribuendo in questo modo ad aumentare la produzione. 68 G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 82 69 E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., p. 101. “funzionamento e lo sviluppo del sistema economico”, insieme all’ulteriore compito particolarmente accentuato dalle Carta Costituzionale - di coordinare le esigenze dello “sviluppo economico con quelle della giustizia sociale e del pieno sviluppo della persona”70. Razionalmente a tale prospettiva, già negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso Ezio Vanoni sottolineava l’inadeguatezza del “mercato concorrenziale” tanto ad affrontare i problemi dell’accumulazione e dello sviluppo equilibrato, quanto a produrre una redistribuzione della ricchezza eticamente accettabile. E da questo doppio grado di inadeguatezza faceva derivare quella che a suo avviso doveva considerarsi una delle indicazioni fondamentali, d’ordine anche morale, in tema di politica economica e fiscale: un ordinamento tributario che corregge gli esiti del mercato pur nel rispetto della concorrenza e delle libertà economiche, che attribuisce al tributo una funzione di giustizia sociale e che disciplina il dovere di concorrere alle spese pubbliche come dovere di solidarietà71. Queste considerazioni del cattolico Vanoni sono riprese e sviluppate successivamente, nel 2000, da un interprete fra i più sensibili della dottrina sociale della chiesa: la già citata diocesi di Milano. Attraverso la sua commissione “Giustizia e Pace” questa arriva, infatti, a definire sul piano etico la contribuzione fiscale come “un gesto fondamentale per la creazione delle condizioni di un benessere condiviso”. Il tributo, in particolare, è inteso nel senso, autenticamente vanoniano, di “concorso attivo al processo di redistribuzione delle risorse, grazie alle quali promuovere i beni e i servizi della convivenza civile. In quanto parte della società - e, conseguentemente, in nome della propria responsabilità per il bene comune - , ogni soggetto contribuente è, quindi, chiamato a dare l’apporto da lui dovuto insieme con gli altri contribuenti, facendosi carico delle ragioni dei bisogni dell’intera collettività e dei mezzi con cui soddisfarli. Al sospetto, all’isolamento e all’ostilità possono e debbono, perciò, subentrare l’intesa e la cooperazione. E questo non soltanto in omaggio alla continua ripetizione di imperativi morali pur validi in sé, ma anche sulla base sperimentabile di una convivenza legata F. Galgano, L’imprenditore, III ed., Bologna, 1980, pp. 108-115 Vedi E. Vanoni, La finanza e la giustizia sociale, in Id., Scritti di finanza pubblica e di politica economica, a cura di A. Tramontana, Padova, 1976, pp. 103-121, dove si legge che: “La finanza può intervenire in una politica tendente al fine di attuare una maggiore giustizia sociale, indirizzando la propria azione redistributiva nel senso di ridurre le disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza, di dare stabilità al risparmio, di favorire il determinarsi delle migliori condizioni per l’occupazione e per l’incremento dei salari”. 70 71 all’ottenimento di vantaggi maggiori e più duraturi di quelli che potrebbero derivare da comportamenti chiusi nel breve raggio dell’interesse individualistico”72. È da notare che anche il pensiero laico converge sul punto con quello cattolico, infatti, filosofi, economisti e giuristi già richiamati in precedenza come Rawls, Sen e Dworkin concordano seppur per vie diverse, sulla centralità in materia fiscale della giustizia distributiva, giungendo alla conclusione che, come già esposto precedentemente, il sacrificio imposto con la tassazione rileva al fine di un aumento della libertà e del godimento dei diritti. Tale convergenza si può ancora meglio notare nelle parole del teologo francescano Gino Concetti quando, nel descrivere la giustizia “contributiva”, afferma che questa “sottolinea il valore d’obbligo” da parte dei cittadini, in quanto membri della società, di contribuire allo stato perché essa – la giustizia contributiva - “risponda il più efficacemente possibile” alle ”istanze personali e comunitarie dei soggetti”, ma anche perché “possa svolgere con fedeltà e tempestività i compiti, le funzioni per cui è stata costituita”73. Concetti, quindi, esalta il “momento positivo e dinamico” dell’imposizione fiscale ovvero quando “da quella quota messa in comune” derivano ai cittadini “ampi benefici” che non si esauriscono “nella fruizione dei servizi essenziali” ma che sono “comprensivi di tutti quei beni che solo uno stato moderno”, efficacemente organizzato, “è in grado di assicurare”74. 2. IL DOPPIO CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: VINCOLO RELATIVO O VINCOLO ASSOLUTO Come si è accennato, il fondamento del dovere tributario, inteso come dovere dei consociati alla contribuzione alle pubbliche spese per la sussistenza della collettività organizzata, si ritrova, nella Costituzione italiana, nell’art. 53. Tale articolo deve essere poi letto anche alla luce di altre norme costituzionali, ugualmente espressive di doveri inderogabili di solidarietà, ed in particolare alla luce dell’art. 2 Cost., nel quale, dopo aver riconosciuto i diritti inviolabili della persona, viene espresso a livello generale un dovere inderogabile “di solidarietà economica, politica e sociale”. Come ha affermato la Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, cit., p. 52. G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 50. 74 Ivi, p.102. 72 73 Corte Costituzionale75, tale norma pone in rilevo il criterio solidaristico del principio di capacità contributiva, dove il dovere tributario diviene espressione dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale al cui adempimento è volta la suddetta previsione costituzionale, emergendone così una disposizione finalizzata alla ripartizione dell’onere dei servizi pubblici fra tutti i contribuenti. Il carattere doveroso del concorso, che si sostanzia nell’espressione “sono tenuti”, si evince nella necessaria sussistenza di una pluralità di prestazioni tributarie dovute da “tutti” i consociati; prestazioni che non trovano tuttavia fondamento nel potere di imperio dello Stato, ma bensì in un dovere generale di contribuire all’interesse comune. Infatti l’art. 53 Cost. testimonia, in maniera definitiva, che il tributo non è più solo “espressione della sovranità” e non basta più “l’esistenza di un pubblico potere” a giustificarlo: “il potere tributario è funzionalizzato al finanziamento della spesa pubblica, in correlazione con la capacità contributiva”76. Attraverso l’espresso riferimento alla generalità del concorso viene pertanto riaffermato il principio di uguaglianza quale divieto di derivazione del dovere di solidarietà tributaria dalla semplice appartenenza a determinate categorie o classi, ma diversamente, “il canone dell’uguaglianza giuridica in campo tributario”, ribadisce Gaboardi, è da specificare nel senso che “l’uguaglianza sia rapportabile alla capacità contributiva di ciascuno”. Tale rapporto, afferma l’autore, “è sostenuto da altre norme Costituzionali”, in particolar modo, dall’art. 4 Cost. in cui vi sono “le premesse alla capacità contributiva e costituzionalizza, in un certo senso, la distinzione fra reddito e reddito ai fini fiscali” ed inoltre dall’art. 31 Cost. in cui vi è una “legittimazione alle detrazioni fiscali per carichi famigliari e le agevolazioni alle famiglie numerose”77. Tale lettura dell’art. 53 Cost., come espressione del principio di uguaglianza, rappresenta il punto di partenza condiviso dalla dottrina tributaria78, da cui tuttavia si diramano due opposte visioni che divergono principalmente nella valorizzazione della Sentenze n.212 del 1986 e n.51 del 1992. G. Marongiu, A. Marcheselli, Lezioni di diritto tributario, Giappichelli, 2009, p. 12. 77 F. Gaboardi , Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69. 78 Si ritiene tuttavia opportuno sottolineare come, anche tale punto di partenza, non sia privo di visioni divergenti che riflettono sostanzialmente le diverse prese di posizione in merito al concetto di capacità contributiva. Da un lato i sostenitori dell’approccio “relativo”, considerando il principio di capacità contributiva privo di una valenza autonoma, di fatto lo assorbono e annullano all’interno del principio di uguaglianza; dall’altro la dottrina appartenente all’indirizzo “assoluto”, rifiutandosi di ridurre il principio di capacità contributiva a mera espressione di un principio di razionalità e coerenza ed attribuendo ad esso un proprio significato, si limita a considerare il principio di uguaglianza come presupposto dello stesso principio di capacità contributiva. 75 76 funzione della capacità quale limite “assoluto”, o al contrario “relativo” alla legittimità costituzionale delle norme tributarie, e quindi nella diversa discrezionalità concessa al legislatore nella scelta dei criteri di riparto. Infatti, nell’individuare gli indici di capacità contributiva espressivi di “potenzialità economica” - corrispondenti a fatti economicamente rilevanti - i due orientamenti giungono a riconoscere limiti diversi al potere legislativo attraverso l’art. 53 Cost. I sostenitori dell’indirizzo “assoluto” affermano la necessità che i presupposti dei tributi si sostanzino in componenti patrimoniali di cui i soggetti passivi possano disporre; mentre gli assertori dell’approccio “relativo” ritengono che “l’indice prescelto può anche non essere misurato in termini di scambiabilità sul mercato, purché esso sia comunque equo, coerente e ragionevole”79. Di conseguenza, secondo l’indirizzo svalutativo80, che rappresenta una corrente minoritaria, la capacità contributiva è intesa come vincolo relativo, ossia mera espressione di “un’esigenza di congruità funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”81. L’art. 53, primo comma, Cost., secondo Fedele, “non esprimerebbe dunque un valore da tutelare in via assoluta”, ma piuttosto “una funzione” consistente nella “razionale ripartizione fra i consociati dei carichi pubblici”82. Il legislatore, in tal modo, potrà optare per qualsiasi indice valutabile economicamente, indipendentemente dalla consistenza patrimoniale dei “fatti indice” che possono rivelarsi anche “capacitazioni” (nel linguaggio di Amartya Sen) “socialmente rilevanti” a condizione che siano ”espressivi, in termini di vantaggio, di una capacità differenziata economicamente S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib., 2004, pp. 823 e ss. 80 Tale indirizzo risale a A.D. Giannini, I rapporti tributari, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana (diretto da P. Calamandrei e A. Levi.), Firenze, 1950, I, p. 281. L’autore, sostenendo che il legislatore, nella scelta dei presupposti di imposta, goda di ampia discrezionalità, afferma che lo stesso legislatore possa individuare quali criteri di riparto “prevalentemente”, ma non necessariamente, fatti economicamente rilevanti. Questi, pur apparendo “meglio indicati a costituire il fondamento dell’imposizione”, secondo l’autore non devono, tuttavia, essere obbligatoriamente scelti. Nella dottrina italiana, la tesi della capacità contributiva come limite relativo per il legislatore è stata sviluppata, in particolare, da A. Berliri, G. Ingrosso, A. Fedele, F. Gallo, S.F. Cociani. 81 Così A. Fedele., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., p. 21, l’autore sottolinea inoltre come la considerazione, in termini relativi, del principio di capacità contributiva non determini tuttavia lo svuotamento dell’art. 53 Cost. di ogni autonomo significato, riducendolo a mera applicazione dell’art. 3, primo comma, Cost. La diversità viene individuata infatti proprio nella funzione fiscale di riparto dei carichi pubblici, elemento caratterizzante lo stesso principio di capacità contributiva e alla cui attuazione “razionale” deve essere orientata la scelta dei criteri per determinare la partecipazione alle pubbliche spese. 82 In questo senso, Id, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 30. 79 valutabile”83. Più specificatamente, sottolinea Cociani, l’indice prescelto “può essere fondato sul ruolo del singolo all’interno della collettività medesima”, poiché “in assetti sociali ed economici complessi, la posizione dell’individuo dipende non tanto dai suoi diritti proprietari ma, almeno in buona parte, (anche) dal ruolo che egli riveste all’interno della società”. L’autore prosegue ribadendo che per questa ragione “i criteri di riparto ben possono tener conto sia di tali strutture intermedie, sia del ruolo che il contribuente svolge all’interno della società e delle organizzazioni intermedie” purché “l’indicatore prescelto risulti rispettoso nel principio di uguaglianza contributiva - che a sua volta - trova consacrazione, anzitutto, nell’art. 3 Cost.”84 Franco Gallo, sostenitore della tesi svalutativa, giustifica la sua opinione facendosi forte di un’interpretazione letterale dell’art. 53 Cost., il quale, non facendo specifici riferimenti a “singole manifestazioni tipizzate di capacità contributiva (reddito, patrimonio, consumo, eccetera)”, “presuppone nel riferimento al sistema tributario, una gamma indeterminata di possibili tributi e pertanto di indici di capacità contributiva”85. La discrezionalità del legislatore assume quindi un ruolo preminente nell’individuazione di quelle posizioni differenziate dei singoli contribuenti idonee ad diventare presupposti impositivi dei tributi: “se alla razionale attuazione della funzione di riparto si deve avere riguardo, i criteri per determinare, nell’an e nel quantum, la partecipazione di ciascun consociato alle pubbliche spese si identificano necessariamente con facoltà di scelta nella soddisfazione dei propri bisogni ed interessi, usufruendo direttamente delle utilità fornite da beni, ovvero più frequentemente, tramite comportamenti di altri soggetti. La misura, in denaro, di tali facoltà esprime diversificate posizioni di vantaggio nel contesto sociale, che giustificano la diversa partecipazione di ciascuno ai carichi pubblici”86. Gli assertori dell’approccio minoritario evidenziano, inoltre, come, solo una nozione di capacità contributiva quale limite relativo, legittimi norme tributarie finalizzate alla soddisfazione di particolari esigenze tutelate dall’ordinamento attraverso F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 86-87. Si riporta la “dura” critica che G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 222, muove a Gallo sull’utilizzo del sillogismo “capacitazioni” come fatti indice alludendo al carattere vago della parola tale da non sapere se “si voglia alludere a qualità della persona come la fama”[…]”l’età, la bellezza” 84 S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib., 2004, pp. 823 e ss. 85 A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., p. 21. 86 Ibidem 83 l’incentivazione o disincentivazione di determinati comportamenti (è il caso, ad esempio, dei c.d. tributi extrafiscali87), ovvero attraverso la previsione di esenzioni o agevolazioni fiscali che comportano l’esclusione o la riduzione del concorso in dipendenza di situazioni non necessariamente collegate alla capacità contributiva88. “Significa”, afferma Falsitta (Vittorio Emanuele e non Gaspare), “che il concetto di capacità contributiva potrebbe tollerare la costituzionalità dell’imposizione anche di fatti economici complessi per i quali la manifestazione di ricchezza tradizionale è meno rilevante delle esternalità negative che produce”. In sostanza si ha un prevalere “dell’esigenza solidaristica del tributo” rispetto “all’effettiva ricchezza imponibile” e dunque, prosegue il noto tributarista, “devono prevalere gli artt. 2 e 3 Cost, piuttosto che l’art. 53”89. Una tale lettura dell’art. 53 Cost. comporterebbe, quindi, a parere di tali autori, che il principio di capacità contributiva non risulti “necessariamente violato da quelle norme che delimitano o estendono l’ambito di applicazione di determinati tributi individuando gli indici di potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori rispetto alla valutazione della mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi”90. G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, in Jus, 1957, pp. 35-36, contrariamente a Gallo, a proposito dei tributi extrafiscali “sottolinea che la “specifica funzione di garanzia del principio di attitudine alla contribuzione” è non solo compatibile con gli eventuali obiettivi extrafiscali dei tributi, “ma addirittura necessario perché, se il presupposto del tributo extrafiscale non fosse una concreta manifestazione di ricchezza, verrebbe meno lo stesso oggetto che si vuole diversamente distribuire, perché [...] tale tributo scisso dalla realtà economica diverrebbe uno strumento inutilmente vessatorio [...]. La capacità contributiva [...] costituisce per il suo stesso contenuto una condizione il cui rispetto è indispensabile perché ogni tributo, anche quello politicamente destinato ad attuare fini sociali, possa giudicarsi costituzionalmente legittimo”. 88 F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25, rileva che “questi tipi di prelievo non sono estranei né agli ordinamenti tributari dell’area occidentale né a quello italiano”. Infatti, sostiene, che “già da tempo esistono tributi che hanno come presupposto beni, situazioni e attività che esprimono in termini di capacità contributiva situazioni di vantaggio economicamente valutabili, senza necessariamente identificarsi con il reddito o il patrimonio o il consumo e cioè con entità che pongono il contribuente in condizione di versare la somma dovuta a titolo di concorso spese”. A ragione dimostrativa, l’autore, elenca una serie di esempi, quali: “i tributi ambientali in senso stretto, come quelli gravano su chi utilizza beni ambientali scarsi o emette gas inquinanti deteriorando l’ambiente, e cioè colpiscono entità non reddituali, non patrimoniali, prive comunque di un diretto valore patrimoniale e insuscettibili di essere scambiate sul mercato contro denaro”; le imposte sul valore aggiunto economico come in Italia l’IRAP che “colpiscono la capacità organizzativa dell’operatore o del produttore o, comunque, altre entità non omologabili interamente né al reddito né al patrimonio”. Così come “le accise che gravano sulla produzione organizzata di beni”, in cui il fatto dell’immissione al consumo dei beni stessi - assunto dal legislatore quale presupposto legittimante l’imposizione - “non contiene in sé la disponibilità della provvista per pagare il tributo”. Appartengono, inoltre, a questo elenco anche “tutti quei tributi che hanno come presupposto indici di capacità contributiva che non garantiscono la disponibilità di un saldo patrimoniale attivo sufficiente ad adempiere all’obbligazione tributaria” come i prelievi sui redditi derivanti dalla destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio di impresa o i “prelievi sui c.d. fringe benefits, costituiti dall’uso di un’abitazione o di un auto”. 89 V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, cit., p. 119. 90 A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 31. 87 La dottrina maggioritaria condivide invece la nozione “assoluta” di capacità contributiva, interpretando l’art. 53 Cost. non solo come criterio di “concorso alle spese pubbliche”, ma anche come limite all’imposizione tributaria: “criterio vincolante di giustizia distributiva” nella individuazione degli indici di riparto dei carichi pubblici e freno rispetto alla “discrezionalità del legislatore nella scelta dei presupposti dell’imposta”91. Sebbene venga riconosciuto il valore del giudizio di coerenza e razionalità della disciplina tributaria, è necessario che la contribuzione richiesta ai singoli sia commisurata alla capacità contributiva intesa come capacità economica da questi posseduta. Non esiste, infatti, per Gaspare Falsitta, uno dei principali espositori della nozione maggioritaria, una distinzione fra capacità contributiva e capacità economica, ed è proprio questa - una o l’altra è, per l’appunto, indifferente - “il metro misuratore della uguaglianza tributaria”, ovvero “unico principio distributivo rispondente alle necessità dello Stato di diritto “sociale”92. A sostegno di tale interpretazione maggioritaria vengono addotte dalla dottrina diverse motivazioni tra le quali il significato letterale e originario del termine “capacità contributiva” così come risultante dai lavori preparatori alla Costituzione. Emerge, infatti, che la Corte propose che fosse inserito nella Costituzione, in aggiunta al limite formale rappresentato dalla riserva di legge, un limite sostanziale al potere impositivo. Ad avviso della Corte, il riferimento alla “capacità contributiva” rappresentava una formula idonea a garantire la fondamentale esigenza del contribuente di non essere gravato da un prelievo che pregiudichi “la possibilità di vita della sua economia individuale” 93. Pertanto nella ricerca ed individuazione degli indici di riparto, il legislatore è obbligato ad assumere, “a fatto generatore di qualsivoglia contribuzione intenda introdurre o inventare” soltanto fattori espressivi di capacità economica a pagare l’imposta e, dunque, “fatti consistenti o in denaro o in ricchezze non monetarie (beni) ma agevolmente trasformabili, dal dispositore, in denaro attraverso appropriati atti di scambio sul mercato”94. “Non esiste dunque il solo limite generalissimo del divieto di illogicità, incoerenza, di arbitrio”, scrive F. Moschetti, ma “ancora prima, esiste il limite Appartengono a tale indirizzo: Giardina E., Manzoni I., Gaffuri G., Perrone L., Moschetti F., Falsitta G., Marongiu G., Fantozzi A. 92 Si veda G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 73-74. 93 Le risposte al Questionario del Ministero per la Costituente fornite dalla Corte di Cassazione sono reperibili in www.senato.it. 94 G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 14. 91 del principio di capacità contributiva, cioè non un limite implicito, ovvio, interno ad ogni norma, ma un limite esterno, di soggezione ad una norma superiore”95. Nella qualificazione della capacità contributiva come forza economica si possono individuare due presupposti assoluti: in primo luogo il fatto generatore dell’imposta deve essere individuato in un “indice rivelatore di ricchezza ossia una disponibilità di mezzi economici potenzialmente scambiabili sul mercato”96; in secondo luogo la forza economica non dovrà essere solo reale, ma anche esprimere una “idoneità soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente”97. L’equa ripartizione, secondo tale dottrina, non potrà rapportarsi solo al rispetto del principio di universalità della partecipazione al concorso e del principio di uguaglianza; “negligere il principio di universalità”, ad opinione di Falsitta, creando classi o singoli privilegiati con agevolazioni, attenuazioni, esclusioni ecc. ecc. “significa colpire al cuore l’idea di giustizia fiscale” intesa “come distribuzione dei carichi” fra i membri dello ”Stato-comunità”, e cioè fra i “possessori dello specifico indice di riparto eretto a presupposto di ogni specifico tributo dalla legge” 98. Dunque, “se è vero che non può parlarsi di attitudine alla contribuzione se non in presenza e nei limiti dei mezzi economici idonei a fronteggiare il prelievo fiscale, ne discende ovviamente che a presupposto di tributo possano essere assunti solo fatti o situazioni di fatto che di capacità economica siano appunto indizio o manifestazione”99. Chiarito il fatto che è il legislatore, secondo questo ordine di idee, delegato ad imputare l’indice di forza economica rinvenuto e modellato al soggetto che ne è possessore, Falsitta ribadisce che “è solo la presenza di questo elemento ( il possesso in senso tributario e non meramente civilistico) a tramutare l’indice di ricchezza colpito, su cui si modella il riparto, e che nella sua nuda e cruda oggettività è fatto neutrale, in indice di idoneità soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente e incluso nella platea dei contribuenti di una stessa imposta”. Infatti, divergendo dalla visione minoritaria, gli autori della tesi assoluta ritengono sia sbagliato credere che si possa chiamare alla contribuzione un qualsiasi soggetto in forza di un indice di forza 95 p. 9. Così F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, cit., p. 889 e ss. Id, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., p. 152. 98 Id, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15. 99 I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 123 96 97 economica reale e oggettivo ma che è scompagnato dal “legame soggettivo del possesso” 100. 3. LA FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA NEL BILANCIAMENTO TRA GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E “INTERESSE FISCALE” Il punto di partenza per comprendere la diversità di vedute fra le due dicotomie è rappresentato dal collegamento tra art. 53 e art. 2 Cost., collegamento riconosciuto da entrambi gli orientamenti dottrinali, ma da taluni valorizzato solamente in una prospettiva unilaterale. L’art. 2 Cost., infatti, richiama “la similitudine della medaglia poiché, “al pari della medaglia, anch’esso ha il suo retto e il suo verso”: inizia riconoscendo e garantendo “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e conclude proclamando” i doveri inderogabili di solidarietà”101. Pertanto, una lettura, in tal senso orientata, dell’art. 53 Cost., dovrebbe presupporre che, da un lato, si ha una funzione solidaristica, laddove ogni soggetto viene chiamato a concorrere alla spesa pubblica necessaria per l’esistenza e lo sviluppo della comunità, dall’altro una garantistica, laddove viene imposto tale dovere di concorso solamente in capo a chi abbia una effettiva capacità di contribuzione, nella misura e nei limiti della stessa. Si scorge, quindi, nella capacità contributiva, “un diritto inviolabile” […] ”che la Costituzione ha eretto nei confronti del legislatore ordinario a salvaguardia della “giusta imposta” per proteggerlo da abusi e tirannie” 102. Non esiste, secondo tali autori e Falsitta in particolare, una preminenza dell’“interesse fiscale” che possa portare al finanziamento dei diritti sociali sia per il fatto che una cospicua parte del gettito fiscale viene “fagocitata dalla voragine di spese improduttive che affliggono il Paese”, e di conseguenza che “nulla hanno a che spartire coi diritti sociali”, sia perché si ritiene insensato sacrificare l’idea della “giustizia nella ripartizione fra i cittadini dei relativi costi” per il finanziamento dei “diritti sociali”103. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15. Ivi, p. 83. 102 Ivi, p. 75. 103 Ivi., pp. XX-XXI. 100 101 Infatti, adottando la visione di giustizia di Garin104, dove “giustizia significa il trattamento proporzionale alla condizione di ciascuno”, si stabilisce che, nella distribuzione dei ”pesi fiscali”, il principio di proporzionalità alla condizione economica di ciascuno “non si può e non si deve calpestare”. Viene pertanto affermata la necessità che il legislatore operi un bilanciamento tra i due interessi, trovando soluzioni che non sacrifichino l’uno (la giustizia tributaria) per tutelare l’altro (l’interesse fiscale), senza prevalenze e con reciproca necessità di contemperamento. Al contrario, gli assertori dell’indirizzo “svalutativo” propendono per una lettura, affetta da “strabismo statocentrico”105 secondo Falsitta, sbilanciata verso i doveri, in nome di un preminente interesse della comunità alla “trasformazione sociale”, il c.d. “interesse fiscale”106, che consentirebbe la compressione di interessi privati, (comunque tutelati a livello costituzionale). Attraverso l’affermazione, sostenuta da Gallo, dell’esigenza di perseguire una “giustizia sociale” anche a scapito della “giustizia fiscale”107, viene negata la qualificazione, quale diritto fondamentale, del principio di giustizia nella ripartizione delle spese pubbliche. Infatti, egli è consapevole del fatto che “il dovere contributivo ben si inquadra tra i doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione”, ma, tuttavia, ritiene che “ciò non significa che si debba instaurare, nel contempo, una relazione necessaria e funzionale tra esso e i diritti individuali e inviolabili” 108. La correlazione fra prelievo tributario e spese pubbliche e sociali, istituita dall’art. 53 Cost, fa emergere in tal modo la giustizia sociale come “il valore che guida la politica fiscale nell’ottica solidaristica ed egualitaria richiamata dagli artt. 2 e 3 Cost.”, in cui i tributi, “se sono inseriti in un sistema coerente e ragionevole e perciò rispondono al principio di uguaglianza sostanziale, concorrono a integrare un giusto ordine sociale”. Mentre, continua Gallo, sono “i fini economici, politici e sociali perseguiti in sede di riparto a soddisfare gli obiettivi di solidarietà e redistributivi, a deviare la produzione e il consumo dagli indirizzi impressi dal mercato e a calibrare”, di conseguenza, “i diritti proprietari”(qui intesi come dati convenzionali, essendo essi in larga misura “il prodotto anche di politiche fiscali da valutare secondo lo E. Garin, La giustizia, Rizzoli, Napoli, 1968, p. 51. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 83. 106 P. Boria, L’interesse fiscale, Giappichelli, Torino, 2002, p. 116. 107 F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione europea, cit., p. 104 105 12. F. Gallo, Ordinamento comunitario e principi costituzionali tributari, in Rass. trib., 2006, II, pp. 407 e ss. 108 standard costituzionale della giustizia sociale distributiva”), “potenziandoli o intaccandoli”109. Ed è per questi motivi che la capacità contributiva, di cui all’art. 53 Cost., comma 1, si risolve in un “criterio distributivo dei carichi pubblici fra i consociati” che ben si presta a realizzare la giustizia distributiva, nell’accezione della visione minoritaria, e cioè ad attuare politiche perequative ubbidendo alle regole dell’equità e della ragionevolezza. “Da ciò”, sottolinea Gallo, “non può non conseguire l’esclusione della componente solidaristica quale elemento strutturale della capacità contributiva stessa”, nel senso che, la capacità contributiva, in quanto mero criterio di riparto, non può definirsi come “capacità economica solidaristica”110. La solidarietà, così, pur restando fuori dalla nozione strutturale di capacità contributiva viene valorizzata in quanto rileva ai fini estrinseci della qualificazione funzionale del dovere contributivo. Intorno a questa concezione si denota una certa somiglianza con il pensiero del costituente Vanoni, il quale afferma che “chi possiede può giustificare il proprio possesso solamente se fa interamente il proprio dovere di solidarietà sociale rispetto al corpo sociale nel quale opera.” Ed inoltre sottolinea che “ l’imposta è proprio l’espressione migliore di questa solidarietà sociale perché è espressione regolata dalla legge, è l’espressione in un sistema bene ordinato di uno stato che funziona; è in sostanza la stessa giustizia sociale che opera e agisce attraverso norme che devono dare a tutti il limite di quello che è lecito e di quello che non è lecito fare, nell’ambito dell’azione economica e dell’azione sociale” 111. Tale visione dell’imposta al servizio della giustizia sociale è stata criticata osservando come lo stesso concetto di solidarietà sia “sintesi di socialità e libertà”112: l’espressione “giustizia sociale” altro non significherebbe se non riconoscimento e, contemporaneamente, garanzia, da parte dello Stato, dei “diritti sociali (lavoro, istruzione, salute, previdenza, ecc.)”. Il cui finanziamento, osserva Falsitta, può avvenire solo con metodi “conformi alla più perfetta giustizia distributiva”, in quanto “la spesa pubblica va sempre ripartita in modo rigorosamente perequato quale che sia la sua destinazione, sia quella occorrente per finanziare e garantire i diritti sociali, sia che 109 2014. F. Gallo, Ancora in tema di uguaglianza, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2013. E. Vanoni, La riforma tributaria, in Quaderni Valtellinesi, 1951/2. 112 F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 110 111 20. F. Gallo, Ripensare il sistema fiscale in termini di maggiore equità distributiva, in Pol. soc., serva a finanziare gli istituti di sicurezza sociale o del benessere sociale, sia che serva a finanziare gli strumenti di sicurezza tout court o del malessere sociale (polizia, carabinieri, vigili del fuoco, ecc.)”113. Da un lato, quindi, i singoli hanno una specifica responsabilità in termini di utilità sociale, dall’altro, tuttavia, anche lo Stato deve rispettare e tutelare le capacità dei singoli proprio in virtù del fatto che tale capacità ha non solo valenza individuale, ma anche collettiva poiché proprio “il fine solidaristico delle attitudini individuali” è tale da meritare “un interesse pubblico”114. Di parere opposto, quindi, ai sostenitori della corrente relativa, i quali, nel confronto tra ragioni di efficienza e di massimizzazione degli obiettivi generali della collettività e ragioni di equità e tutela dei valori individuali, il bilanciamento propende verso “gli interessi della collettività piuttosto che in direzione della tutela individuale”115. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 80, nota 62, osserva inoltre che “l’equazione spesa pubblica come sinonimo di giustizia sociale sia una lettura inaccettabile se non azzardata dell’art. 53 Cost. in una fase storica come l’attuale contrassegnata da forti critiche contro la spesa pubblica dissipatrice di risorse ad esclusivo vantaggio di élites”. A sostegno della sua tesi, l’autore rinvia al volume di S. Rizzo, G.A Stella, La casta, Milano, Rizzoli, in cui viene tracciato “un quadro impietoso dei vizi, anomalie, sprechi e malefatte della classe politica”, affermando così che in tale clima ”è difficile continuare ad insistere nella favola della democrazia necessariamente costosa in cui ogni soldo di spesa pubblica è speso per la libertà e per i diritti sociali.” 114 F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 20, 115 In tal senso P. Boria, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di L. Perrone. e C. Berliri), Napoli, 2006. 113 CAPITOLO III IL RAPPORTO FRA DIRITTO DI PROPRIETA’ E DIRITTI SOCIALI: IL MINIMO VITALE, IL LIMITE MASSIMO ED IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’ SOMMARIO: 1. Il minimo vitale ed il limite massimo – 2. Il canone della progressività 1. IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO La tutela del c.d. minimo vitale riguarda quelle manifestazioni economiche minime non indicative di capacità contributiva, ossia espressive di una capacità economica non idonea a concorrere alle spese pubbliche perché funzionale alla copertura dei bisogni essenziali116. Anche se i sostenitori delle due diverse concezioni di capacità contributiva concordano sull’esistenza di una tutela costituzionale del “minimo vitale” (per quanto G. Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, cit., pp. 97 e ss. La derivazione, dal principio di capacità contributiva, dell’esclusione da imposizione del minimo vitale è confermata dagli stessi lavori preparatori dell’art. 53 Cost. L’on.le Scoca, infatti, dopo l’accettazione dell’emendamento dell’on.le Castelli che prevedeva l’inserimento del concetto di capacità contributiva, dichiarò superflua la sua proposta di articolo aggiuntivo contenente l’affermazione dell’esonero del minimo vitale in quanto la formula della subordinazione del dovere fiscale al possesso della capacità contributiva racchiudeva in sé la tutela del minimo vitale. Lo stesso Presidente della Commissione per la Costituzione Ruini, affermò che lo stesso concetto di capacità contributiva “implica le esenzioni per chi non ha capacità contributiva; ed in tali condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere”. Seguendo questa logica vi è un riconoscimento, anche, di un limite massimo: il concorso alle spese pubbliche, dovendo avvenire “in ragione” della capacità contributiva, non può esaurire la capacità stessa. Laddove venisse imposto un prelievo superiore alla capacità contributiva del soggetto, si colpirebbe in sostanza una capacità contributiva inesistente, venendo meno la necessaria correlazione tra obbligo e capacità di contribuzione. La stessa Corte costituzionale afferma che la capacità contributiva “condiziona la misura massima del tributo nel senso che questo non può essere fissato ad un livello superiore alla capacità dimostrata dall’atto o dal fatto economico ma non esclude, purché tale limite sia rispettato, che gli stessi atti o fatti possano in tempi diversi dar luogo a prelievi tributari di diversa entità, secondo gli obiettivi di politica fiscale di volta in volta perseguiti dal legislatore. È ovvio che tali variazioni non possano e non debbano essere arbitrarie, perché in tal caso verrebbe ad essere compromesso il principio di eguaglianza” (Corte costituzionale, sentenza del 6 luglio 1966). 116 divergano dalla derivazione della tutela117), gli stessi, per il diverso bilanciamento tra interesse fiscale e capacità contributiva (in merito alle interrelazioni tra diritti proprietari e diritti sociali), hanno visioni diametralmente opposte riguardo al riconoscimento di limiti superiori al prelievo derivanti dalle norme costituzionali che tutelano la libertà economica e la proprietà (Art. 41 e Art. 42 Cost.). La dottrina di minoranza, se da un lato riconosce la sussistenza di un limite minimo di reddito da tutelare attraverso l’esenzione del minimo vitale, personale e familiare, dall’altro nega fermamente l’esistenza di un limite massimo al potere normativo di imposizione derivante da principi costituzionali inerenti a rapporti economici. Tali autori ritengono che i redditi minimi siano privi di quei presupposti per cui possa operare il dovere tributario, inteso come dovere inderogabile di solidarietà, non essendo “logicamente possibile addossare i costi della solidarietà a quei soggetti che ne devono essere beneficiati”118. Quanto all’ammontare del prelievo, è invece affermata l’inesistenza di limiti costituzionali alla pressione fiscale rispetto al singolo contribuente e ai tributi che lo colpiscono, in una prospettiva “svalutativa” della funzione di garanzia dei diritti di proprietà e di libertà di iniziativa economica. “E’ il pubblico che, almeno nel campo fiscale, deve prevalere sul privato”, sostiene Gallo, poiché, qualora, venisse previsto un limite superiore e predeterminato alla pressione fiscale, tale previsione si risolverebbe nel riconoscimento della prevalenza della dimensione privata rispetto alla funzione tributaria, dimenticando che “la scelta dei presupposti è frutto di valutazioni politiche”, effettuate “ai fini dell’equo riparto e non la mera omologazione legislativa dei modelli e delle regole private del mercato” 119 .A sostegno di ciò Bizioli osserva che anche nell’orientamento della Corte costituzionale non si rinvengono conferme di una diretta influenza delle garanzie costituzionali della proprietà e dell’iniziativa economica sulla definizione dei limiti del carico fiscale: la legittimità costituzionale dei tributi, pertanto, non potrà che essere valutata solo Se da una parte la dottrina maggioritaria ritiene che la tutela costituzionale del minimo vitale risieda nel concetto di capacità contributiva, ex art 53, quella minoritaria ,invece, ritiene che l’esenzione del minimo vitale risieda in altri principi costituzionali invalicabili, quale è l’art 3 Cost. ad esempio. E’ doveroso notare che anche la Corte Costituzionale accoglie per certi versi la tesi minoritaria, nella sentenza n.97/1968 infatti si tutela il minimo vitale con l’art 3 Cost.: ”l’esenzione dei redditi minimi costituisce attuazione del fondamentale principio di uguaglianza sostanziale al quale lo Stato deve ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale” 118 L. Antonini, La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 867. 119 F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25. 117 chiamando in causa gli artt. 3, 23 e 53 Cost. “Il dovere di solidarietà tributaria”, pertanto, richiede una “unitaria considerazione” solo ed esclusivamente dei “diritti inviolabili della persona”, fra i quali non rientrano quelli economici; realizzando così, attraverso la Carta costituzionale, “il definitivo superamento delle tradizioni giuridiche liberali ottocentesche che concepivano i diritti economici, e il diritto di proprietà in particolare, quali limite naturale al dovere tributario”120. Di conseguenza, i diritti proprietari, non vengono considerati come dotati di una tutela assoluta, né come un “attributo necessario e indissolubile della persona” poiché è “la legge che li riconosce, li qualifica e ne determina i contenuti e la portata ai fini sociali, oltre che di interesse generale e di pubblica utilità: avendo come fine quello di garantire una ragionevole tutela di tali diritti e, nel contempo, rendere governabile e compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale giusto” 121. Questa idea è ben resa da L. Mengoni, quando afferma, in particolare, che “la funzione sociale deve essere pensata insieme con il concetto di proprietà come elemento qualificante della posizione di proprietario. […] Nella visuale del pensiero funzionale il rapporto tra libertà della proprietà e funzione sociale si presenta non come un’antinomia, che può risolversi in una compressione della libertà fino ad annullarla, ma come rapporto tra due funzioni concorrenti all’interno di un medesimo ambito operazionale: la funzione di partecipazione del singolo al sistema delle decisioni economiche e la funzione di omogeneizzazione dell’interesse individuale con l’interesse generale. Scopo della riserva di legge statuita dall’art. 42 è la composizione delle due funzioni in una organica unità istituzionale operante quale strumento di integrazione sociale». In questo contesto, prosegue l’autore, “l’art. 42 garantisce la proprietà privata non più come diritto fondamentale della persona delimitante una sfera privata libera da intromissioni del potere politico, bensì come diritto di partecipazione alla organizzazione e allo sviluppo della vita economica. […] Tale articolo non garantisce la proprietà per sé sola, come spazio riservato alla libertà individuale fine a se stessa, bensì in funzione della libertà politica, come un elemento dell’emancipazione politica”122. G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, p. 98, 121 F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11. 122 L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv., 1988, p. 455. 120 La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana conferma e presuppone questa interpretazione poiché da una parte, infatti, non dubita che vi sia una garanzia costituzionale di esistenza del diritto di proprietà privata quale diritto soggettivo, dall’altra, però, accetta una compressione del contenuto di tale diritto in relazione al ragionevole bilanciamento compiuto dal legislatore tra il diritto medesimo e gli interessi ad esso contrapposti123. “Nel disegno costituzionale italiano”, sostiene Gallo, “i diritti proprietari” possono, perciò, essere “compressi” in via legislativa sia dal “limite interno della funzione sociale che da quello esterno dell’interesse generale”. Tuttavia, il noto giurista, ravvisa che nei casi “di espropriazione previo indennizzo di cui all’art. 42 Cost.”, di limitazione senza indennizzo della proprietà di intere categorie di “beni privati di interesse pubblico”124 ed, infine, in quello di espropriazione di imprese di cui al successivo art. 43 Cost., la “compressione” è disciplinata da questi stessi articoli ”affinché si raggiunga lo scopo, bilanciato e costituzionalmente garantito, di interesse generale e di pubblica utilità”125. Anche qualora vi fossero tributi esercitanti una pressione fiscale tale da comportare la necessità di liquidare in tutto o in parte il patrimonio del contribuente, questi non potrebbero essere dichiarati incostituzionali ai sensi dell’art. 42 Cost. Tuttavia, osserva Fedele, “ciò non toglie, naturalmente, che un Esprime questa impostazione la sentenza n. 252 del 1983, laddove afferma che l’art. 42, secondo comma, Cost. “non ha, come pure si è sostenuto da una parte della dottrina, trasformato la proprietà privata in una funzione pubblica. Ciò inequivocabilmente risulta dal suo preciso tenore: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. La Costituzione dunque ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale. Indubbiamente detta funzione, con il solenne riconoscimento avuto dalla Carta fondamentale, non può più essere considerata, come per il passato, quale mera sintesi dei limiti già esistenti nell’ordinamento positivo in base a singole disposizioni; essa rappresenta, invece, l’indirizzo generale a cui dovrà ispirarsi la futura legislazione”. 124 A questa categoria di beni fa riferimento la Corte costituzionale nelle sentenze n. 20 e 62 del 1967 e n. 55 del 1968 per giustificare, in relazione alla clausola della funzione sociale contenuta nell’art. 42 Cost., la limitazione del diritto proprietario senza obbligo di indennizzo. In particolare, la sent. n. 55 è chiara nell’affermare che “senza dubbio […] secondo i concetti, sempre più progrediti, di solidarietà sociale resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto, nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione”. Solo con riguardo alle imposizioni a titolo particolare la Corte esclude che esse possano avvenire senza indennizzo. Afferma, infatti, al riguardo che dette imposizioni “non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico”. 125 F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss. 123 tributo palesemente ordinato a costringere i contribuenti ad alienare determinati beni per l’eccessivo gravame fiscale connesso alla loro disponibilità possa risultare iniquo e, al limite della totale irrazionalità dell’intervento, dichiarato incostituzionale”126. A parere di tale dottrina, la netta separazione tra garanzie proprietarie e tributi consente, in tal modo, di superare l’errore dell’opposto orientamento, insito nell’affermazione per cui il tributo non deve risolversi in espropriazione senza indennizzo. Gli artt. 53 e 42, terzo comma, Cost., disciplinano infatti istituti separati e la distinzione fra tributo ed espropriazione si presenta netta sia dal punto di vista funzionale che strutturale, fermo restando che, sottolinea Fedele nell’affermazione “il tributo non deve risolversi in espropriazione senza indennizzo” si riscontra un significato eccedente l’ovvia considerazione “dell'irrazionalità di un sistema fiscale che porta i contribuenti alla rovina economica”127. Ciò detto, nel caso, invece, dell’imposizione fiscale, la “compressione” che deriva dal tributo avviene per un diverso scopo: quello di attuare l’art. 53 Cost, ossia di realizzare “il riparto solidaristico dei carichi pubblici a titolo di concorso alle spese pubbliche e sociali”128, avendo come limite invalicabile solo il rispetto del principio di uguaglianza quale base e fondamento del principio di capacità contributiva. Da questo punto di vista, si ritiene, che “in via astratta e generale il riparto dei carichi fiscali risponde al principio di giustizia distributiva, senza che la garanzia costituzionale della proprietà di cui all’art. 42 Cost. possa esplicare, in termini di limiti intrinseci, alcuna diretta influenza sull’individuazione dei parametri di legittimità delle scelte legislative effettuate ex artt. 53 e 3 Cost”129. La dottrina di maggioranza, quindi, si pone su una posizione nettamente opposta, difatti, secondo i sostenitori di tale orientamento, il prelievo tributario non può che essere illegittimo laddove superi un livello massimo tale da pregiudicare la permanenza di un’economia privata. L’asserita non sussistenza di un contrasto tra funzione garantistica e solidaristica dell’art. 53 Cost. (solidarietà intesa come “ponte tra il privato e il pubblico”130) e la conseguente considerazione della dimensione privata quale presupposto per la realizzazione di quella sociale, comportano la necessità del A. Fedele, Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella costituzione italiana, cit., p. 984;Id., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 27. 127 Id, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, p. 77. 128 F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 74-75. 129 F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss. 130 F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 51. 126 mantenimento e della garanzia dell’autonomia privata. In quanto questa, l’autonomia privata, si considera esplicante anche di effetti sociali: senza ricchezza privata, diversamente distribuita tra i cittadini contribuenti, non ha senso ragionare di prelievo fiscale. Manzoni, ribadendo la concezione di capacità contributiva come capacità economica (vale a dire come attitudine a contribuire manifestata da fatti espressivi di forza economica), rileva che “l'imposizione fiscale, comportando una sottrazione di ricchezza al contribuente, ovviamente la presuppone”131. Evidenziando il problema del rispetto dei diritti economici, costituzionalmente garantiti, Manzoni sottolinea che, in assenza di disposizioni costituzionali a garanzia dei singoli (in specie, gli artt. 41 e 42 Cost.), lo Stato potrebbe incidere in modo indiscriminato sulla proprietà e sull'iniziativa economica privata, allo scopo di realizzare le più disparate finalità sociali. Le disposizioni costituzionali che proteggono i diritti economici dei singoli esprimono invece “quella certezza dei limiti al potere di pubblico intervento, senza della quale la stessa affermazione del principio dello “Stato di diritto” verrebbe svuotata di ogni concreto contenuto”132. Analogamente Moschetti, ritiene che le imposte “debbono rispettare non solo i limiti spettanti specificamente alla potestà fiscale (rispetto della capacità contributiva che significa conformità alla capacità economica e all'interesse collettivo ricavabile dai principi costituzionali), ma anche quelli riguardanti i campi materiali da esse indirettamente influenzati. In particolare debbono essere rispettati i diritti fondamentali relativi alla libertà di iniziativa economica ed alla proprietà privata”133. L'imposizione fiscale, pertanto, pur espressione del dovere inderogabile di solidarietà, e delle esigenze “sociali” dell'ordinamento, deve quindi rispettare i diritti dei singoli contribuenti: i doveri fiscali ed i diritti economici dei contribuenti devono essere tra loro in equilibrio. I sostenitori di questa corrente ritengono così che l'imposizione fiscale, intesa come strumento coercitivo capace di sottrarre ricchezza ai singoli contribuenti per ridistribuirla (o, più precisamente, per finanziare il complesso dei diritti garantiti ai cittadini), presuppone un sistema economico che riconosce e tutela l'iniziativa economica privata ed il diritto di proprietà. Affermare che l’economia privata deve I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., pp. 67-68. 132 Ivi, p. 71. 133 F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 253. 131 essere tutelata da eccessi di imposizione tributaria, tuttavia, sottolinea Gaffuri, “non significa individuare un primato della funzione garantista, bensì riconoscere l’esistenza di una dialettica fra due opposte esigenze, da una lato, quelle della finanza pubblica e, dall’altro quelle dell’economia privata”134. La finalità solidaristica dell’imposta non potrà pertanto intaccare gli altri principi costituzionalmente garantiti e, in particolare, non potrà alterare le “libertà economiche, di iniziativa economica e proprietà privata”135 tutelate dalla Costituzione: il prelievo fiscale dovrà essere articolato in modo tale da rispettare anche l’iniziativa privata. L’affermazione della preminenza dei diritti sociali porterebbe, infatti, alla cancellazione del diritto di giustizia tributaria realizzando fenomeni di “tirannia fiscale (Griziotti)” o “imposizione espropriatrice (Micheli)”136. E’ per questo che il limite superiore all’imposizione fiscale viene individuato nella proprietà privata, diritto certamente correlato con il dovere fiscale, ma che non può essere legittimamente sacrificato in nome di esso. Secondo tale dottrina l’invocazione dell’art. 53 Cost., quale strumento idoneo a proibire prelievi sostanzialmente espropriativi, deriverebbe dal perseguimento nella stessa Carta fondamentale di un costante bilanciamento tra la costruzione di uno Stato sociale e la difesa del privato e della sua indipendenza economica, proprio in quanto “strumentale alla realizzazione del concorso alle spese pubbliche”137. Sarebbe in contrasto con il concetto di capacità contributiva, inteso come idoneità a contribuire ai carichi pubblici, un prelievo tale da comportare una progressiva sottrazione dei beni del contribuente, minacciando l’economia privata. Un'imposizione fiscale di questo tipo, osserva Gaffuri, non sarebbe compatibile con il nostro ordinamento costituzionale, che “garantisce la coesistenza di entrambi i sistemi, escludendo che l'economia dei privati possa essere sacrificata (...) al fabbisogno dello Stato”138. Il prelievo fiscale, anche se G. Gaffuri, Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34. 135 F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 46. Tale tesi è stata accolta anche dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n.384/2007 si afferma che: ”il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà ”. 136 Così G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, conclude che “è’ certamente vero che senza imposta non esiste lo Stato e senza lo Stato non esiste il diritto di proprietà”, tuttavia, prosegue l’autore, “tutto ciò non significa però che l’imposta serva a distruggere la proprietà o debba essere prelevata a scapito della giustizia”. 137 In tal senso G. Gaffuri., Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34, 138 G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, cit., p. 95, che richiama soprattutto, al riguardo, gli artt. 41 e 42 Cost., e la conseguente tutela dell'iniziativa economica privata e della proprietà privata. 134 non lede il contenuto sostanziale del diritto di proprietà, incide infatti sensibilmente “sull'economia dei privati stessi”139. E' quindi indispensabile “salvaguardare l'organizzazione e l'attività economiche private” da una pressione tributaria eccessiva ed illimitata, “che può pregiudicarle e comprimerle”140. Ciò non significa che l'economia privata goda di una particolare preferenza rispetto a quella pubblica, ma che tra i due sistemi economici debba esistere un equilibrio capace di garantire la coesistenza di entrambi. “Avendo di mira l'armonica coesione tra interesse privato al possesso ed al godimento dei beni economici (...) e l'interesse pubblico a procacciare mezzi per il soddisfacimento delle esigenze collettive (...), si dovrà dunque determinare, nell'ambito dei fatti economici, il limite fra quelli cui si può imporre un peso tributario e quelli che non lo tollerano”141. La sua ricerca e fissazione implica, invece, l'esercizio di un “potere discrezionale per stabilire, di volta in volta, se la misura del tributo ecceda il limite di equità, ovverossia non provochi sovvertimenti tali da pregiudicare l'esistenza dell'economia privata o da impedirne la continuazione”142. Gaffuri sostiene così che l’'indeterminatezza del limite massimo non è, comunque, di ostacolo per la Corte costituzionale, che può servirsene per valutare il rispetto dell'art. 53 da parte del legislatore ordinario. La facoltà della Corte “di stabilire se un determinato prelievo fiscale sia tanto alto da contrastare con il rispetto del principio dell'economia privata, non si differenzia infatti dal potere, alla stessa attribuito, di valutare l'eventuale disparità di trattamento di situazione simili, alla luce del principio di uguaglianza”143. È proprio riguardo al limite massimo che la dottrina di minoranza viene in particolar modo criticata, infatti, nell’ammettere l’esistenza di un limite minimo, non intaccabile dal prelievo, nega invece il limite massimo, cadendo in contraddizione. Qualora si riconosca che il “minimo vitale” sia espressivo di capacità contributiva, non si può non affermare che non manifesti capacità contributiva neanche “quella ricchezza, G. Gaffuri ritiene che l'imposizione vada tenuta distinta dall'espropriazione, non risolvendosi in un “trasferimento della proprietà medesima a vantaggio dell'Ente pubblico”. Il limite al prelievo non potrebbe dunque essere rinvenuto nell'art. 42 Cost. che tutela il privato dagli indiscriminati prelievi coattivi di ricchezza in favore della Pubblica amministrazione (G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, cit., pp. 97-99). 140 Ivi, p, 99. 141 Ivi, p. 103. 142 Ivi, p. 107. 143 Così Ivi, p. 119, peraltro avverte che l'utilizzo a tal fine del principio di capacità contributiva è meno agevole di quello del principio di uguaglianza: quest'ultimo richiede infatti il semplice raffronto tra due diverse discipline legislative, mentre invece il primo impone la ricerca del limite “in via assoluta, attraverso l'interpretazione dello stesso concetto di capacità contributiva”. 139 parimenti minima in senso sostanziale, la cui tassazione costituirebbe ostacolo al pieno sviluppo della persona umana”144. Ammettere l’esistenza di un limite inferiore comporta quindi automaticamente il dover riconoscere la sussistenza di un limite superiore oltre il quale si intaccherebbe quel reddito minimo che anche l’orientamento minoritario ritiene costituzionalmente tutelato: “se la legge d’imposta dispone che il contribuente, che ha prodotto il reddito di cento possa legittimamente subire, senza vulnus di principi costituzionali, l’avocazione pro fisco dell’intero cento, ciò prova che una siffatta legge non lascia indenne da prelievo minimo vitale”145. Concludendo l’esempio, Falsitta, afferma che in tal modo “è contraddittorio ritenere esistente la tutela del minimo e mancante quella del massimo”146. Falsitta, nota, quindi, che si debba riconoscere la presenza di limiti superiori inviolabili, pur non essendo espressamente previsti, in virtù del fatto che “anche i limiti inferiori mancano di espresso riconoscimento normativo e pur non di meno sono stati ritenuti esistenti dalla unanime dottrina fin dall'entrata in vigore dello Statuto Albertino”147. La dottrina di maggioranza, nell’affermare la presenza di un doppio vincolo, evidenzia come ciò non significhi sostenere la coincidenza tra i due limiti, che rimangono invece autonomi e fondati su parametri costituzionali distinti148. Un’imposizione eccessiva non sarà solamente quella che minaccia la tutela della proprietà, bensì dovrà essere considerato oltre il limite massimo anche un prelievo che aggredisca l’altro fondamentale diritto, ovvero l’iniziativa economica privata: “l’imposizione fiscale in ogni caso, anche per i redditi più elevati, di regola non deve spingersi fino a un punto tale da compromettere in modo sostanziale il risultato economico”149. Viene pertanto respinta l’argomentazione dell’opposto orientamento secondo cui l’insindacabilità del prelievo fiscale deriverebbe dall’impossibilità di classificare il F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 44. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 241. 146 Ibidem 147 Id., L’imposta confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89 e ss. 148 La stessa dottrina minoritaria, per non cadere nella contraddizione sopra esposta, sostiene che l’ammissibilità del solo limite minimo derivi dal fatto che questo non debba essere dedotto dal principio di capacità contributiva, ma piuttosto trovi “giustificazione in altri principi costituzionali invalicabili”: ”principio di uguaglianza sostanziale, nel diritto inviolabile alla libera e dignitosa sussistenza e a disporre dei bisogni elementari della vita” (F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 106, nota 3). 149 G. Falsitta, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulla incostituzionalità delle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, II, pp. 139 e ss. 144 145 diritto alle “libertà economiche”, pur costituzionalmente previsto e garantito, tra quelli fondamentali e inviolabili. A tal riguardo Falsitta adduce a tre principali motivazioni, le quali, partendo da una frase di Gallo (“i diritti proprietari, pur essendo costituzionalmente garantiti e riconosciuti, non hanno tuttavia una tutela assoluta e preistituzionale né sono un attributo necessario e indissolubile della persona”150) intendono snobilitare la dottrina di minoranza. Innanzitutto Falsitta osserva che non è corretto sostenere l’esistenza di una “giuridica anteriorità dei diritti dell’uomo”, di “posizioni soggettive fornite di tutela assoluta e preistituzionalizzata”, in quanto solo attraverso l’ordinamento giuridico si potrà fornire una tutela a tali posizioni soggettive; in secondo luogo sottolinea come quasi tutti i diritti fondamentali siano sottoposti a limiti e pertanto contesta l’esclusione del carattere fondamentale dei diritti proprietari sulla base del fatto che questi siano sottoposti a limitazioni. Infine evidenzia come la negazione della qualificazione dei diritti proprietari quali “attributo necessario e indissolubile della persona” non possa essere di carattere giuridico, poiché, l’autore ricorda, chiamando in causa Bobbio, che “i contorni della categoria dei diritti umani o assoluti o fondamentali non sarebbero precisi, ma mutevoli a seconda dei periodi storici, derivandone pertanto l’inesistenza di diritti essenzialmente fondamentali”151. Infine il dibattito si sposta anche sul secondo comma dell’art. 53 Cost.: il problema del “compromesso” tra diritti economici e doveri di solidarietà diviene particolarmente evidente quando si riflette sulla portata del principio di progressività dell'imposizione. L'art. 53, infatti, non solo stabilisce una relazione tra capacità contributiva e prelievo fiscale, ma definisce pure il modo in cui tale relazione deve variare: il prelievo deve aumentare più che proporzionalmente all'aumentare della ricchezza. La progressività del sistema tributario è senz'altro strumento necessario per attuare le finalità solidaristiche e redistributive dell'ordinamento giuridico, ma non può essere utilizzato per sovvertire il sistema economico previsto nella Costituzione, sopprimendo l'economia privata e pregiudicando senza via di scampo i diritti garantiti dagli artt. 41 e 42 Cost.152. Ne consegue che un certo grado di progressività deve F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, nota 63. 152 Espressamente in questo senso I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 185, che osserva come il livellamento ed il sovvertimento dell'economia sia incompatibile “con quei compiti di tutela e di difesa della proprietà e dell'iniziativa economica privata assunti dagli artt. 41 segg. Cost.”. 150 151 esistere perché l'imposizione sia legittima, ma non deve essere eccessivo. E' quindi configurabile un limite massimo al prelievo fiscale, indispensabile per la tutela della proprietà e dell'iniziativa economica privata, costituzionalmente garantiti: “sarebbe curioso, per non dire assurdo, pensare che la Costituzione abbia voluto consentire al legislatore tributario di perseguire, per diversa via, proprio quei risultati che essa ha inteso evitare”153. Da un lato, non è ammissibile una “tassazione spinta fino al punto di togliere ogni convenienza a produrre e rischiare”, che “indurrebbe in pratica ad uscire dal mercato e lederebbe la libertà di iniziativa economica”, tutelata dall'art. 41 Cost154; dall'altro, sarebbe costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 42 Cost., la legislazione tributaria “che avesse come conseguenza la soppressione della proprietà privata o ne impedisse a lungo andare la sopravvivenza, o la svuotasse nel suo contenuto essenziale, o la limitasse per mera ostilità” e per ragioni diverse da quelle previste nel secondo comma dell'art. 42 Cost: “malgrado l'intervento fiscale, la proprietà privata deve rimanere come istituto essenziale del nostro ordinamento e non può quindi venire eliminata o ridotta ad una funzione meramente simbolica”155. In realtà, già qualche anno dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si era rilevato come la progressività del prelievo espressamente stabilita a livello costituzionale, pur esprimendo l'aspirazione ad una “democrazia sociale”, non potesse portare ad un'imposizione illimitata. La progressività del sistema tributario dovrebbe essere “contenuta in limiti moderati e non (...) usata come mero strumento extrafiscale di livellamento della ricchezza”: ciò poteva desumersi (e si desume) “pure dalle norme costituzionali che affermano il rispetto della proprietà (art. 42) e dell'iniziativa privata (art. 41), col solo limite di indirizzarle in armonia alla funzione sociale e di moderare le proprietà più elevate per non impedire l'altrui libero conseguimento e godimento delle ricchezze. La proprietà non può essere espropriata se non per fini di utilità generale determinati e salvo indennizzo (art. 42, 43). Il che è evidentemente in contrasto con una Ivi, p. 205. Così F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 254, che rileva come le misure fiscali di incentivo e freno all'economia privata possano essere considerati legittimi “fino a che si limitano a rendere più o meno appetibili certe iniziative economiche, modificando i termini di convenienza offerti dal mercato e lasciano quindi sostanzialmente libera, anche se condizionata, l'iniziativa economica”. Tali misure sarebbero invece incostituzionali, per violazione dell'art. 41 Cost., “se avessero come conseguenza la pratica impossibilità di intraprendere o mantenere certe attività”. 155 Ivi, pp. 257-258. L'Autore, che muove dalla considerazione della netta diversità dell'istituto dell'espropriazione rispetto al prelievo fiscale, conclude dunque che in materia di limiti all'imposizione, se non “acquista rilievo il terzo comma dell'art. 42, conservano sempre importanza (...) i primi due commi”. 153 154 imposta spogliatrice e con una lotta di classe condotta per mezzo dell'imposta. Invece è preoccupazione costante della Costituzione assicurare l’armonia fra le classi e le categorie economiche, ricorrendo a soluzioni temperate ed intermedie”156. L'imposizione eccessiva nella sua misura dovrebbe dunque ritenersi in diretto contrasto con il diritto individuale di proprietà, costituzionalmente tutelato: la proprietà privata “può essere limitata, ma non può essere espropriata senza indennizzo. Una imposta spogliatrice è come un esproprio senza indennizzo” 157. 2. IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’ Il quadro costituzionale deve essere integrato con la specifica regola della progressività del sistema tributario nel suo complesso, dettata dal comma 2 di tale articolo, col fine precipuo di completare il disegno etico del Costituente in senso solidaristico ed egualitario. Infatti, “la progressività”, sottolinea Cereti, “è conforme a giustizia da una parte per il fatto che l’imposizione sui redditi elevati incide molto meno sul tenore di vita dei singoli e viene a discapito soprattutto dei consumi di lusso o dei risparmi che possono essere accantonati, e dall’altra per la considerazione che coloro che godono di redditi più elevati beneficiano maggiormente dei servizi dello Stato, che consentono, favoriscono e proteggono le loro fonti di reddito e il loro elevato tenore di vita”158. Concretamente, questo tipo di redistribuzione si realizza, in sede di riparto, colpendo “meno quanti hanno una capacità contributiva minore ma anche quanti, in proporzione, hanno più bisogni (e viceversa, naturalmente)”159. L’imposta progressiva costituisce, in altri termini, “una delle possibili modalità di riparto dei carichi 156 Così F. Forte , Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario italiano, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, pp. 303-304, che richiama al riguardo gli articoli da 40 a 47, e l'art. 2 che ad un tempo “richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, e “garantisce i diritti individuali dell'uomo”. 157 Id, Note sulle norme tributarie costituzionali italiane, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, p. 410. Analoga la conclusione di E. Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961, p. 463: “una progressione eversiva corrisponde nella sostanza ad una espropriazione senza indennizzo, e come tale viola l'art. 42 della Costituzione, il quale dispone che la proprietà privata possa essere espropriata a condizione che venga corrisposta un'indennità. Essa realizza un 'aggiramento' di quella norma costituzionale, e pertanto, anche sotto questo profilo, va considerata costituzionalmente illegittima”. 158 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 27. 159 F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69. pubblici”160 ed è, perciò, anch’essa una delle espressioni del principio di uguaglianza sostanziale. Più in particolare, il vincolo della progressività non costituisce altro che una sottolineatura, fatta dal Costituente al legislatore ordinario, del fatto che la progressività vada intesa “come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di uguaglianza collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed alla uguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 Cost.)”161. Tuttavia, fa notare Gallo, le decisioni politico-economiche dei legislatori ordinari in tutto il mondo, indotti dai processi di globalizzazione, liberalizzazione e delocalizzazione in atto162 e “spinti da orientamenti di politica economica prevalentemente neoliberista”163, propendono maggiormente, invece, per imposte proporzionali e regressive che sempre più vengono ”fondate”, quindi, “su criteri di giustizia fiscale meno impegnativi”164. In tal modo egli intravede, non solo “una tendenza a negare al sistema tributario in sé funzioni redistributive ed allocative, ma anche un rinvigorimento di quelle opinioni dirette a contemperare i principi della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria con quello del beneficio; con quel principio, cioè - una volta prevalente negli stati liberali ottocenteschi - secondo cui l’imposizione deve avere caratteristiche tali da rendere al massimo, in termini di corrispettività, l’idea della cosa amministrata che finanzia e va correlata al godimento dei servizi pubblici, preferibilmente con aliquota proporzionale”165. Dall’altra parte, tuttavia, Falsitta ed altri autori, sostengono che “attribuire alla progressività una connotazione immancabilmente redistributiva non è accettabile” nel senso che “è inidonea a realizzare autonomamente l’obiettivo funzionale di spostare 160 ss. F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, IV, in Rass. trib., 2008, pp. 919 e Corte Costituzionale, sentenza del 21 maggio 155/2001. La crisi del tributo personale progressivo si è per di più aggravata anche a causa del processo economico di globalizzazione e delocalizzazione in atto, che ha reso incerto il presupposto su cui sono stati fino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali, e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce della spesa pubblica e il contribuente che la dovrebbe finanziare. Ed inoltre è aumentata la possibilità per i contribuenti di distribuire le materie imponibili nel più vasto ambito comunitario in funzione dei vantaggi offerti dalle legislazioni dei singoli ordinamenti. 163 Alcuni autori, di estrazione soprattutto nordamericana come Massey ed Epstein, arrivano addirittura al punto di riesumare vecchie teorie, secondo cui una redistribuzione economica operata in via progressiva “distrugge” la ricchezza (C.R. Massey, Takings and Progressive Rate Taxation, in Harvard Journal of Law and Public Policy, 20, n. 1, 1996, pp. 85-96 e, soprattutto, R. Epstein, Takings, Cambridge (Mass.), 1985, p. 100). 164 F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, cit., pp. 919 e ss. 165 Ibidem. 161 162 ricchezza dai più abbienti ai meno abbienti”166. L’obiettivo redistributivo può essere realizzato “indirettamente a condizione che il maggiore carico fiscale su chi si trovi in condizioni comparativamente migliori sia effettivamente destinato a finanziare spese di favore di chi versi in condizione opposta”167. Bisogna evitare cioè un utilizzo della progressività come Marx ed Engels teorizzavano e cioè come strumento per spostare la proprietà dei mezzi di produzione dalla borghesia capitalistica allo Stato. In tal senso, Ricca Salerno, già nel 1890, notava che in questo modo si trascendono i limiti ed il compito del diritto tributario poiché “si attribuisce all’imposta una funzione politicosociale, quella cioè di impedire il soverchio concentramento della ricchezza nelle mani di pochi, determinandone una distribuzione più eguabile fra i privati”168. A sostegno di questa tesi vi è anche Forte, il quale ritiene che “la progressività deve essere utilizzata come strumento fiscale di distribuzione degli oneri e non come strumento extrafiscale di livellamento della ricchezza”169. Analizzando nello specifico l’art. 53 Cost., Falsitta ritiene che “lo stesso testo costituzionale muove in questa direzione” poiché ci dice che la progressività è del sistema tributario e “ non delle parti che lo compongono” 170: sono ammesse anche le imposte regressive, quelle proporzionali ad esempio, “purché, insieme a tutte le altre, lo rendano progressivo nel suo complesso” ed inoltre, come sostiene Gaboardi, con le parole “il sistema tributario è informato…” si indica “una prescrizione e non un consiglio” 171. Si ha l’opportunità, così, di avere una libertà di scelta su formule e tecniche adottabili per far sì che il sistema mostri connotazioni di progressività, stabilito che il principio deve trattarsi, comunque, di una progressività, come afferma Ricca Salerno, “moderata, lenta e mantenuta dentro limiti definiti” e non “rapida, forte, eccessiva”172. Pertanto, come afferma anche Gallo, ciò non vuol dire che” i criteri del beneficio e della tassazione proporzionale, tanto apprezzati dai fautori delle teorie liberiste, non possano coesistere con i principi - costituzionalmente privilegiati - dell’uguaglianza tributaria e della progressività previsti dagli artt. 3, 53, primo e secondo comma G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss. Ibidem. 168 R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p. 168. 169 F. Forte, Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario italiano, cit. , pp. 403 e ss. 170 G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss. 171 F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, pp. 70-71. 172 R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p.168. 166 167 Cost”173.” Il richiamo a tali princìpi è”, secondo Gallo, “utile quale criterio ispiratore di un ordinato sistema di federalismo fiscale complesso e plurilivello, fondato sulla regola della sussidiarietà verticale, attuativo del principio generale di autonomia tributaria (regionale e locale) e funzionale all’espansione dell’autonomia politica”174. Egli ritiene, pertanto, che è “bene che sul piano economico i tributi “propri” degli enti territoriali siano caratterizzati, piuttosto che come tributi generali e progressivi, come tributi paracommutativi175 di scopo o come tributi “controprestazione” aventi aliquote proporzionali”176. Inoltre la vicinanza tra governanti e governati che si realizza in tal modo, consente una maggiore possibilità di monitorare il legame tra costi e benefici, ovverosia tra imposte prelevate e servizi locali resi, fino al punto di giungere in alcuni casi a “trasformare” il tributo in un vero e proprio canone-corrispettivo, riconducibile più al prezzo pubblico in senso stretto che allo schema dell’imposizione fiscale. Le giustificazioni della regola del beneficio si ritrovano, inoltre, quando c’è un collegamento prelievo-spesa di tipo personale come il caso delle assicurazioni sociali dove, appunto, “il dare attuale e l’avere successivo riguardano le stesse persone ed indicano che il sacrificio del prelievo è proporzionato al beneficio del trasferimento, e viceversa”177. Gaboardi sostiene, così, che la regola del beneficio “è ancora importante ogni volta che permette impieghi di risorse in campi nei quali il mercato non opera, o non può operare, o non opererebbe in misura conveniente”178: cioè in un campo in cui il servizio è già dato e la relativa spesa sarà pagata da coloro che lo useranno. La regola del beneficio ha, perciò, ancora delle seguenti possibilità applicative, quando, ad esempio “il potere tributario viene esercitato nei confronti dei non residenti”, poiché “è equo” che allo straniero si fan pagare solo le imposte allineate ai vantaggi specifici che riceve; oppure nel caso di “imposte speciali siano meglio tollerate e capite dalle particolari categorie di soggetti (gli automobilisti, i proprietari di immobili, etc.) che si F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 114. Ibidem 175 “I tributi causali, o paracommutativi, sono quelli che hanno quale presupposto un potenziale vantaggio goduto dal contribuente, o la necessità di compensare un costo causato dal contribuente, e che quindi ben si distinguono dall’imposta, per sua natura acausale.” in L. Del Federico, Tributi di scopo e tributi paracommutativi: esperienze italiane ed europee. Ipotesi di costruzione del prelievo, in Trib. loc. e reg., n. 2, 2007, p. 182. 176 F. Gallo., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, p 115. 177 F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p.74 178 Ivi, pp. 77-78. 173 174 avvantaggiano di spese speciali, a condizione che siano categorie ben definibili, in relazione al servizio che esse usano e che altre non usano”179. La regola del beneficio, tuttavia, per la sua rigidità ha diffusi limiti di applicabilità; spesso è addirittura inaccettabile: nell’istruzione elementare, infatti, le imposte non possono essere uguali per tutti gli studenti. Alcuni servizi, come anche la difesa, non tollerano tale regola poiché “è difficile trovare in ogni servizio l’unità di costo a cui far corrispondere un’unità d’imposta, che è sovente impossibile individuare con sicurezza il beneficio che ciascuno si procura usando un determinato servizio, ed infine che essa non potrebbe mai produrre tutte le risorse finanziarie di cui gli enti pubblici hanno ora bisogno”180. Dunque è usuale, altresì, che il principio venga mitigato da altri principi, come per il pedaggio autostradale: “lo Stato versa un contributo al concessionario che costruisce e gestisce l’autostrada, un contributo che è quindi spesa pubblica, coperto pertanto da imposte per tutto l’arco di tempo in cui verrà erogato e durante il quale coprirà” anche fino “ad un terzo del costo totale di costruzione”181. Per molti anni, economisti di indiscusso valore quali Einaudi, De Viti De Marco e Wicksell sostennero che quella del beneficio poteva essere la regola distributiva fondamentale: il principio di capacità contributiva e il criterio del beneficio venivano fatti convivere anche negli assetti centralizzati e teorizzati come presupposti fondamentali dell’imposizione. Ma è evidente che ciò è possibile solo se si assume la teoria del “beneficio globale” di De Viti de Marco182: le imposte possono essere considerate come la sottoscrizione di un abbonamento annuale ai servizi che una collettività rende ai suoi membri (il che non significa che tutti gli abbonati vadano a ogni singola performance o che apprezzino tutti i servizi). In tale caso, infatti, sarebbe forse possibile sostenere che il criterio del beneficio, venendo a coincidere con (ovverosia “inglobando”) quello della capacità contributiva, sia idoneo a “fondare” la maggiore parte delle entrate fornite dai sistemi tributari, giustificandole così dal fatto che ad una maggiore disponibilità di risorse corrisponde un uso maggiore, potenzialmente od effettivamente. Tuttavia le giustificazioni sono lacunose ed Ibidem. Ibidem 181 Ivi, p. 79, nota 5. 182 A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, 1939, pp. 90-93 e, in particolare, note 1 e 2 di p. 91, nonché pp. 122-123; Ivi, Il carattere teorico dell’economia finanziaria, Roma, 1888, in particolare, pp. 103 e 135. 179 180 accettabili solo in parte perché l’eventuale applicazione di tale formula escluderebbe il riferimento ai richiamati principi di uguaglianza, di capacità contributiva e di progressività così intesi dalla Corte Costituzionale. CONCLUSIONI "In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non è un'esigenza, ma una formalità giuridica. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il parlamento italiano esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione politica. E’ demagogico fin dal suo nascere perché è nato dalla retorica, dall'inesperienza, dalla scimmiottatura. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti”183. Con queste parole Piero Gobetti, più di novanta anni fa, descriveva il rapporto fra contribuente e Stato e, oltre a ciò, auspicava il nascere della “coscienza” e “dell’orgoglio del contribuente” cose che, ad oggi peraltro, a parere di autorevoli autori, sono minate dalla “crisi della giustificazione etica del tributo”. Nella dottrina, infatti, c’è chi ravvisa una crisi della concezione etica del tributo dovuta allo slittamento della sovranità fiscale “dallo Stato ad una pluralità di territori” determinando “una profonda trasformazione etica del sistema tributario, in quanto rispetto alla pluralità di ordinamenti fiscali non è più possibile rilevare la presenza di una o più forze materiali e politiche che siano in grado di imporsi in maniera preponderante sulle scelte normative”184. Il giurista Boria, infatti, considerando il sistema tributario come uno “strumento giuridico” e “fattore istituzionale di ausilio e sostegno rispetto alle idee ed esigenze espressive della società” ne intravede la crisi e “l’annullamento di questa concezione etica della funzione fiscale”: “la frantumazione in una pluralità di ordinamenti mette in crisi la corrispondenza biunivoca fra sistema tributario e piano ideologico ed assiologico sottostante, rendendo evidente come lo strumento tributario possa essere adottato in maniera flessibile per una pluralità di scopi e finalità collettive”185. Cosicché da fondamentale obbligo di cittadinanza necessario alla sopravvivenza della comunità il dovere tributario starebbe evolvendo in un rapporto di altra natura, per effetto della frantumazione, e cioè in una pluralità di ordinamenti portando inevitabilmente alla “neutralità della prestazione fiscale rispetto alle P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 1964, p. 159. P. Boria, Diritto tributario europeo, Giuffrè, Torino, 2010, p. 26 185 Ibidem. 183 184 convinzioni ideologiche di una società civile, valorizzando piuttosto la correlazione con i valori di un ordine costituzionale di una comunità”186. Si assiste così alla “neutralizzazione della funzione etica del sistema tributario, nell’ambito di un processo di apertura verso le numerose istanze provenienti da una società ontologicamente pluralista”187. Il lento e graduale declino del concetto di sovranità nazionale a favore dell’U.E. evidenzia come il diritto tributario nazionale abbia perso implicitamente parte della sua autonomia data la subordinazione delle legislazioni nazionali a quella comunitaria. Il mutamento del concetto di sovranità statale che ha investito il comparto tributario ha determinato una diversa giustificazione razionale dell’imposizione che resta sì qualificato quale dovere politico sociale di concorrere alle spese pubbliche, ma inquadrato in una visione più ampia che è rappresentata dall’appartenenza all’UE188. Coerentemente alla trasformazione del quadro di riferimento anche la nozione di sistema tributario riceve una conformazione “aperta, non sorretta cioè dalla preminenza dei valori provenienti da una classe sociale e dunque da una visione particolaristica ed egemonica del dover essere, bensì piuttosto determinata da soluzioni di compromesso conseguenti alla mediazione politica e sociale di una pluralità di istanze emergenti dalla società civile”189. La frantumazione del sistema tributario nei “sistemi tributari”, prosegue Buzzacchi, produce così “una destrutturazione ideologica consentanea al clima possibilista e dinamico di una società pluralista, non sclerotizzata intorno a idee dominanti, ma orientata verso forme di coesistenza armonica dei valori della convivenza civile”. A. Fantozzi, Diritto tributario, V ed., Utet, Torino, 2012, p. 35. Ibidem. 188 P. Boria, Diritto tributario Europeo, cit., p. 52 specifica che “in ambito comunitario la fiscalità non è inquadrata come uno strumento di raccolta delle risorse finanziarie essenziali per la sussistenza e per lo sviluppo di una collettività, secondo criteri equi e ragionevoli di riparto tra i consociati; al contrario, assume un valore negativo , in quanto costituisce un fattore distorsivo del gioco della concorrenza, che deve essere limitato e possibilmente eliminato, in linea con i postulati assiologici risultanti dalla costituzione economica europea. Egli, inoltre, ribadisce che “la funzione assunta dal complesso di regole tributarie di formazione comunitaria è dunque profondamente diversa da quella assunta dagli ordinamenti fiscali nazionali: è una funzione “negativa”, rivolta cioè a limitare e a contenere gli effetti discorsivi della fiscalità e non anche ad incidere positivamente sulla dimensione della ricchezza nazionale e sui processi di redistribuzione del reddito tra i membri della Comunità”. ( P. Boria, Il Sistema Tributario, Torino, 2008, pp. 115 e ss.). Si va così affermando un criterio di “integrazione negativa”, che porta alla ortopedizzazione degli ordinamenti fiscali nazionali attraverso l’espunzione di tutte le norme divergenti rispetto alle finalità di neutralizzazione della leva fiscale nei confronti del mercato e della concorrenza. (A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 756 e ss.). 189 C. Buzzacchi, La solidarietà tributaria: funzione fiscale e principi costituzionali, Giuffrè, Milano, 2011, p. 245. 186 187 Guardando invece al panorama interno, la giustificazione etica del tributo, sembra minacciata da una lettura forse fin troppo libera dei principi tributari contenuti nella Costituzione. Nell’ultimo capitolo della tesi sono state esposte le due argomentazioni principali riguardo all’esistenza (o meno) dei limiti quantitativi dell’imposizione fiscale nell’ordinamento italiano: un minimo di mezzi economici che servono all'individuo per avere un'esistenza dignitosa sua e della sua famiglia detto, altresì, minimo vitale , ed un limite massimo alla misura del tributo. Dallo “scontro” dialettico fra le due correnti emerge innanzitutto che la Costituzione italiana è, per quanto riguarda la materia tributaria, decisamente poco univoca poiché anche se esprime alcuni principi di assoluto rilievo contributiva e progressività dell'imposizione - lascia, tuttavia, uno capacità spazio particolarmente significativo all'interpretazione. Ed è inoltre evidente come la Corte costituzionale ne abbia dato una lettura nel complesso piuttosto “aperta” di tali principi, in coerenza con il volere dei costituenti, i quali hanno collocato i principi costituzionali in materia tributaria “nel quadro del programma di trasformazione dell'economia e della società delineato dalla Costituzione. La scelta operata dal costituente parte dalla premessa che i tributi sono uno strumento indispensabile per realizzare tale programma, per cui conviene limitarsi a poche norme di principio, per non creare troppi vincoli al legislatore” 190. Di conseguenza , i principi costituzionali tributari sono caratterizzati da una lettura “aperta”, ed ecco perché, nel predisporre le regole costituzionali dell'imposizione fiscale “l'enfasi non cadeva sui possibili limiti, esigenza che pure fu presente nel corso dei lavori preparatori. Altre erano le priorità: l'obiettivo era quello di inserire pienamente il fenomeno tributario nello stato contemporaneo, non quello di contenerne o temperarne gli sviluppi”191. Si è preferito, dunque, rimettere alla discrezionalità legislativa ed alla libertà del dibattito parlamentare la scelta di stabilire l'aspetto quantitativo dell'imposizione fiscale escludendo così il quantum dell'imposta dal novero dei parametri di legittimità costituzionale delle leggi tributarie. Nello specifico, per quanto attiene il limite quantitativo minimo si può notare che l'idea della necessaria esenzione da imposta dei redditi appena sufficienti a garantire F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori preparatori, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1997, I, p. 529. 191 Ibidem. 190 al contribuente ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa sembra godere di larga condivisione da parte della dottrina e giurisprudenza192. I limiti costituzionali massimi pongono, invece, problemi ancora maggiori di quelli sollevati dal limite minimo. In primo luogo, si è potuto osservare che il principio di capacità contributiva non porta all'individuazione di un limite quantitativo massimo al prelievo, se non quando l'imposizione è così elevata da far ritenere l'assoluta arbitrarietà od irragionevolezza della discrezione legislativa193. È doveroso ricordare che parte della dottrina ritiene che nell'ordinamento italiano esista un limite quantitativo massimo ricavabile essenzialmente dal collegamento tra gli artt. 53, 41 e 42 Cost194. Tale corrente di pensiero è tuttavia deficitaria nelle giustificazioni riguardo ad una precisa quantificazione di tale limite ed è oggetto di critiche fondate sulla priorità del dovere di contribuzione e dell'interesse fiscale rispetto alla tutela dei diritti economici dei contribuenti. In ogni caso, non v'è dubbio che la Corte costituzionale, in sostanza, non ha mai svolto alcun sindacato sulla misura massima del prelievo sempre per il motivo che la misura dell'imposizione è rimessa alla discrezionalità del legislatore tributario. A quasi settant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, i dubbi suscitati da una lettura “aperta” dei principi costituzionali in tema di imposizione fiscale spingono a domandarsi se non sia il caso di rivedere il rapporto tra leggi tributarie e Costituzione, tra discrezionalità legislativa e giudizio di legittimità costituzionale, fra Fisco e contribuente. La degenerazione di questi rapporti ha avuto effetti non certo positivi: “crescita marcata, e malamente distribuita, della pressione tributaria; eccessiva differenziazione dei trattamenti per le più svariate ragioni; disattenzione e disinvoltura In linea di principio, anche la Corte costituzionale si è espressa in favore della sussistenza, nell'ordinamento italiano, di un limite minimo implicito nel principio di capacità contributiva. 193 Arbitraria ed irragionevole, in particolare, è stata ritenuta dalla Corte costituzionale l'imposta sostanzialmente duplicata o totalmente priva di presupposto (sentenza 29 dicembre 1972, n. 200, in Giur. cost., 1972, 606-622), oppure quella palesemente sproporzionata in eccesso, in violazione della parità di trattamento tra contribuenti (sentenza 17 aprile 1985, n. 104, in Giur. cost., 1985, 657-661). 194 Tale circostanza ha portato alcuni autori a sostenere che almeno il 50 per cento della ricchezza presupposto della tassazione debba essere preservata, ovvero a riconoscere che l’aliquota complessiva dell’imposizione sul reddito non dovrebbe superare il 60 per cento. G. Falsitta, L’imposta confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89, richiama invece la sentenza della Corte costituzionale n. 348/2007 nella quale si afferma che “il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà” e si riconosce che un sacrificio che incide sull'oggetto del diritto in una misura oscillante tra il 60 e il 76 per cento è superiore alla soglia accettabile di espropriazione legittima. 192 sul piano dei principi; produzione normativa disordinata; instabilità e incertezza delle discipline di applicazione; distorsioni e stravolgimenti nei rapporti tra fisco e contribuente; moltiplicazione ed ibridazione dei tributi”. Ne conseguirebbe, dunque, “la liceità di un mutamento di prospettiva: allora (...) la questione era quella della fondazione dello stato sociale ed interventista e di uno strumento tributario adatto a tal fine; oggi, la questione in materia è diventata, piuttosto, quella della libertà e della giustizia a partire, questa volta, da coloro che sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche”195. Ed è, inoltre, inevitabile che la misura dei tributi abbia un dato di assoluta importanza quando si riflette sui rapporti tra Fisco e contribuente poiché, se è vero che gli obiettivi del sistema fiscale ed il suo grado di efficienza nel raggiungerli sono legati alla capacità contributiva di ciascuno, è anche “giusto” che il contribuente sia tutelato da una misura dell'imposizione costituzionalmente legittima, nel tentativo, così, di restituire vera dignità al rapporto contribuente e Fisco da intendersi, pertanto, come cittadinanza attiva e non più come sudditanza. Certo è che la tendenza della giurisprudenza costituzionale in questo ambito, unita alla mancata formulazione espressa di vincoli quantitativi al prelievo nella Costituzione ed alle incertezze e divergenze dottrinali, non consentono di ravvisare la sussistenza attuale, nell'ordinamento italiano, né di un minimo vitale pienamente tutelato e né di un limite massimo all'imposizione: “uno degli aspetti più significativi della situazione in cui si trovano i consociati di fronte allo Stato, in Italia, è costituito dal fatto che il potere dello Stato nei loro confronti, in materia tributaria non è limitato (...). Il che implica che il potere dello stato in materia fiscale è assoluto”196. A prescindere dall’effettiva quantificazione di tali limiti, l’imposizione fiscale nel bilanciare il rapporto fra ente impositore e contribuente, deve quindi rispettare i diritti dei singoli contribuenti, non considerando l’interesse fiscale come un valore assoluto tale da sacrificare i diritti di cui è portatore l’individuo, e tuttavia non abbandonare, ma anzi, sostenere fermamente la formula della funzione sociale nella proprietà privata così come interpretata da Calamandrei: “scopo” ed “emblema della F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori preparatori, cit., p. 531. 196 Così E. Di Robilant, L'inaccettabilità del potere assoluto dello Stato in materia fiscale, in AA. VV., Fisco e libertà: un dispotismo mascherato, Roma, 1981, p. 47. 195 nuova società civile”. In ragione di ciò, l’approccio da adottare nel valutare i due opposti interessi deve essere equilibrato, orientato al raggiungimento del “primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale”197, senza dimenticarsi di rispettare la sostanza del diritto di proprietà del contribuente, ossia evitare di privare l'individuo di una parte preponderante del proprio reddito, fino, al caso limite, della privazione di tutto il suo patrimonio poiché “Boni pastoris est tondere pecus, non deglubere”198. Nella recente lettera enciclica “Laudato si’” del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, riprende le parole del Padre Giovanni Paolo II affermando che egli“ ha ricordato con molta enfasi questa dottrina”, dicendo che “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno” [...] “non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli”[...] “la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato” [...] ”non è secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto di alcuni pochi” (Padre Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), p. 19).”Questo”, afferma Padre Francesco, “mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità”. L’enciclica papale è interamente disponibile sul sito del Vaticano: w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudatosi.html. 198 Gaio Svetonio Tranquillo, De Vita Caesarum, III, p. 32. La traduzione letterale è “Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”. 197 BIBLIOGRAFIA ANTONINI L., La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 867 BERLIRI L.V., La giusta imposta, Giuffrè, Roma, 1945 BIZIOLI G., Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Cedam, Padova, 2008 BORIA P., Diritto tributario europeo, Giuffrè, Torino, 2010 BORIA P., Il Sistema Tributario, Torino, 2008 BORIA P., Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI C.), Napoli, 2006 BORIA P., L’anti-sovrano. 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