UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETA’
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Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’amministrazione e
consulenza del lavoro
Prova finale
ETICA NELLA TASSAZIONE:
GIUSTIZIA SOCIALE ED
UGUAGLIANZA TRIBUTARIA
Candidato
Relatore
FEDERICO ZELFERINO
FRANCO GABOARDI
Matricola 748549
A. A. 2014/2015
INDICE
INTRODUZIONE ..................................................................................................................4
CAPITOLO I
L’origine della tassazione: evoluzione del concetto di tributo nel corso dei secoli
e teorie filosofiche annesse in una prospettiva di indagine riferita ai parametri
costituzionali nazionali
1.
2.
2.1
2.2
2.3
BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA TASSAZIONE… .6
RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE FILOSOFICHE
RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO……………………………………… .. .11
L’ideologia liberale .........................................................................................................11
Il “revival” neoliberista ..................................................................................................15
Le teorie filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste ......................19
CAPITOLO II
La prospettiva interna: giustificazione costituzionale del tributo attraverso
l’analisi del principio di capacità contributiva
1.
2.
3.
LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA: CONFIGURAZIONE
“DEMOCRATICA” E ”COMUNITARIA” DELLA FISCALITÀ……………… .....…25
IL DOPPIO CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: VINCOLO RELATIVO
O VINCOLO ASSOLUTO………………………………………………………...... ...29
FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO DI CAPACITÀ
CONTRIBUTIVA: IL BILANCIAMENTO TRA GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E
“INTERESSE FISCALE”……………………………………………………………... 36
CAPITOLO III
Il rapporto fra diritto di proprietà e diritti sociali: il minimo vitale, il limite
massimo ed il canone della progressività
1.
2.
IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO .......................................................40
IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’.....................................................................51
CONCLUSIONI ...................................................................................................................58
BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................65
INTRODUZIONE
La “questione fiscale” ha sempre avuto un rilievo sociale e politico rilevante nella vita e
nell’azione degli Stati, essendo, infatti, un argomento che rinvia alla stessa concezione
di società, di Stato e di democrazia. Il problema della giustizia nell’imposta è stato
protagonista di feroci sedizioni e cruente rivolte, scoppiate nei secoli andati in ogni
Paese d’Europa come reazione all’ingiustizia tributaria, ed ha dato il via a molteplici
spinte propulsive del costituzionalismo nell’età moderna.
Le proteste fiscali hanno segnato l’inizio di numerose rivoluzioni e insurrezioni
che hanno caratterizzato la storia degli Stati: dal I secolo a.C., quando degli zeloti
residenti in Giudea si rifiutarono di pagare le tasse imposte dall'Impero romano - come
testimoniato dalla stessa Bibbia - passando per le rivoluzioni americana e francese ed
arrivando all’indipendenza dell’India. La campagna del Mahatma Gandhi per
l'indipendenza dell'India fu un importante esempio di reazione all’ingiustizia tributaria
ed ebbe uno dei suoi punti chiave in una protesta fiscale nei confronti degli occupanti
britannici. Ne nacque così una resistenza fiscale che ebbe il suo culmine nel 1930, con
la famosa e trionfale marcia attraverso l'India di Gandhi, il cui pensiero, a proposito, era
proprio quello di “rifiutarsi di pagare le tasse” poiché esso rappresenta “uno dei metodi
più rapidi per sconfiggere un governo”.
Tuttavia, il problema della giustizia in campo tributario nelle moderne
democrazie è stato oggetto di scontro anche sul piano dialettico ed ideologico. Il diritto
tributario, nell’accezione moderna, ha un solido fondamento costituzionale che affonda
le radici negli orientamenti filosofici e politici che, a partire dal diciannovesimo secolo,
hanno caratterizzato il dibattito scientifico ed influenzato profondamente le politiche
economiche degli Stati. Tali orientamenti, pur nati in seno alla medesima ideologia
liberale, a sua volta figlia delle istanze illuministiche, hanno finito per contrapporsi,
soprattutto in riferimento alla funzione che debba essere attribuita al tributo nell'ambito
del sistema Stato.
L’analisi che segue muove da queste considerazioni descrivendo inizialmente le
premesse filosofiche e storiche che hanno portato alla nascita del pensiero moderno
riguardo al sistema tributario e successivamente, con riguardo alla prospettiva interna,
come queste premesse abbiano influenzato la storia del diritto tributario italiano: dalla
nascita della Costituzione ai giorni nostri. Nell’ultimo capitolo vengono esaminate le
interrelazioni tra il fisco, i diritti sociali e i diritti proprietari nella Costituzione italiana;
queste, difatti, rappresentano un terreno fertilissimo per una riflessione scientifica sulla
funzione che il tributo assume nel nostro sistema statale. La funzione che l'imposizione
tributaria possa e debba svolgere nel contesto delle democrazie pluraliste del mondo
occidentale contemporaneo è infatti un tema sul quale si sono vivacemente confrontati,
negli anni, autorevoli studiosi del diritto tributario.
CAPITOLO I
L’ORIGINE DELLA TASSAZIONE:
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI TRIBUTO NEL CORSO
DEI SECOLI E TEORIE FILOSOFICHE ANNESSE IN UNA
PROSPETTIVA DI INDAGINE RIFERITA AI PARAMETRI
COSTITUZIONALI NAZIONALI
SOMMARIO: 1. Breve introduzione ed evoluzione storica della tassazione – 2.
Ricostruzione storica e ideologica delle premesse filosofiche riguardo alla nozione di
tributo – 2.1. L’ideologia liberale – 2.2. Il “revival” neoliberista – 2.3. Le teorie
filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste
1. BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA
TASSAZIONE
Le origini delle prime forme di tassazione risalgono a diversi secoli fa, i reperti
archeologi1 attestano che già in epoca molto antica - a partire dalla civiltà dei Sumeri esistesse un sistema di tassazione primordiale, attraverso il quale i membri di una tribù
contribuivano alle spese comuni del gruppo: dal mantenimento del capo alle necessità in
caso di guerra2. Tuttavia, sicuramente, i tributi più onerosi erano quelli che venivano
imposti ai popoli vinti; a ragione di ciò, l’origine etimologica sia del termine tributo3
che imposta sembra che trovino la propria origine proprio in ciò che veniva richiesto dal
“vincitore” al popolo vinto come segno della sua resa e sottomissione.
Con la preparazione storica raggiunta oggi si può affermare che la tassa nella storia veniva
intesa come una prestazione d'opera, tale da potersi appunto sostituire al denaro (che infatti ancora non
esisteva); nell'antica Mesopotamia, per esempio, si iniziò presto a “tassare” i raccolti della terra e quel che
veniva prodotto dal bestiame. A. Charles, For God and Evil. L'influsso della tassazione sulla storia
dell'umanità, Liberilibri, 2008, analizza quale sia stata l'influenza della tassazione sull'economia, sulla
politica e sulla civiltà. L'autore ripercorre le vicende più significative della politica tributaria dei governi,
a partire dalle grandi civiltà del mondo antico, come Egitto, Grecia classica e Roma, fino ai nostri giorni.
2
Per approfondire tale trattazione la pubblicistica prevede il volume di G. Concetti, Etica fiscale.
Perché e fin dove pagare le tasse, Piemme, Alessandria, 1995, il quale compie una ricostruzione
antropologica della nascita dello Stato al fine di individuare i principi etici che governano, o dovrebbero
governare, i sistemi fiscali odierni.
3
Il termine tributum nacque nell’antica Roma, in seguito alla riforma della precedente
organizzazione gentilizia ad opera di Servio Tullio. L’etimo si rinviene nelle tribù, ossia circoscrizioni
territoriali in cui venivano divise città e contado, alle quali venivano imposte prestazioni pecuniarie
forzose, secondo i bisogni dello Stato.
1
A partire dalle prime forme di collettività organizzata, queste, raggiunto un
certo livello di organizzazione “statale”, necessitavano di reperire risorse fondamentali
per il loro funzionamento e conseguentemente di fissare criteri di riparto del relativo
onere tra i membri della comunità. La fiscalità, sostanziandosi in quel “potere
essenziale per la concreta attuazione delle funzioni derivanti dalla sovranità, ossia per
realizzare gli obiettivi di governo prefissati dal titolare del potere sovrano”4, si presenta
strettamente collegata al concetto di Stato affermatosi nei diversi contesti storici.
Condividendo tale argomentazione, il teologo Gino Concetti tiene a precisare
soprattutto che “non si comprenderà pienamente e rettamente il dovere fiscale se non lo
si inquadra e illustra nel concetto stesso dello Stato”5. La giustificazione
dell’imposizione tributaria, è, pertanto, caratterizzata da una relatività temporale e
spaziale, non potendosi ricercare un fondamento del fenomeno tributario unico e
universalmente condiviso.
Fu, comunque, soprattutto nella Res Publica e poi nell’Impero Romano che la
legislazione fiscale - composta, perlopiù, dal Codice Teodosiano e dalla codificazione di
Giustiniano (Istituzione, Codice e Digesto) - conobbe un enorme sviluppo, la quale,
grazie ad un continuo affinamento e ad un sistema fiscale ben strutturato, poté
sopravvivere per quasi mille anni alla caduta dell’impero romano d’occidente. Tale
“caduta”, sottolinea il teologo Giovanni Cereti, “aveva travolto anche il sistema fiscale
romano”6.
L’antichità e il medioevo erano contraddistinti da una incontrastata supremazia
del potere esercitato dal sovrano e dall’assenza di un rapporto tra valori individuali e
statali. La posizione dei contribuenti era quindi di soggezione assoluta e come si
espresse Ezio Vanoni a riguardo “è estraneo alla concezione che il cittadino
dell’antichità ha dei suoi doveri verso lo Stato, il pensiero di dovere sopportare
una contribuzione ordinaria per fare fronte ai bisogni normali dello Stato”7.
P. Boria, L’anti-sovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario,
Giappichelli, Torino, 2004, p. 53.
5
G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 9.
6
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, Cittadella Editrice, Assisi, 2010, p. 14.
7
E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, Cedam, Milano, 1932, in F. Forte,
C. Longobardi (a cura di), Opere giuridiche, I, Milano, 1961, p. 7, il quale osserva inoltre che “il
cittadino non poteva vedere nei versamenti fatti al fisco un sacrificio sopportato per il bene dello
Stato, ma soltanto un prelevamento operato dall’imperatore, in virtù del suo potere discrezionale”. G.
Vigna, Ezio Vanoni. Il sogno della giustizia fiscale, Rusconi, Milano, 1992, ha realizzato una importante
biografia su E. Vanoni affermando che “la storia ha ingessato Ezio Vanoni come il ministro della riforma
4
Pertanto l’imposta, in una situazione in cui il potere impositivo poteva essere esercitato
dal sovrano senza alcuna limitazione, veniva considerata, utilizzando un’espressione di
Bartolo da Sassoferrato, uno dei più insigni giuristi dell'Europa continentale del XIV
secolo, un “munus quod necessario subimus lege vel mero imperio eius qui habet
potestatem”, ovvero un sacrificio economico fondato solo e sempre su un rapporto di
potere incondizionato e incontrollabile fra il suo sovrano e ciascun suddito8.
La qualificazione del tributo quale strumento di partecipazione del singolo
ai carichi pubblici si affermerà solamente quando, con i processi rivoluzionari di
matrice illuministica che determinarono la nascita degli stati nazionali, ci fu lo
spostamento della sovranità sul “popolo”. La necessità di superare la concezione di
imposizione come attributo della sovranità e la volontà di perseguire un’equa
distribuzione dell’onere fiscale, abbandonando quella suddivisione in classi venutasi a
realizzare fin dall’alto medioevo9, furono fattori determinanti per il cambiamento nella
concezione di imposta. La petizione di una ripartizione dei pesi fiscali secondo
universalità ed uguaglianza, sfociata in seguito alla reazione all’ingiustizia tributaria, è
stata una delle vie più vigorose fra le molteplici spinte propulsive del costituzionalismo
nell’età moderna tanto da essere richiamata negli articoli 13 e 14 della “Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 178910 e successivamente delle
tributaria, anzi, più sbrigativamente e anche con un po’ di involontaria malignità, come il ministro delle
tasse e come il primo impositore in Italia dell’esigenza di una programmazione economica”. Tuttavia,
nonostante il ricordo affievolito dello statista, è celebre lo stralcio di articolo che il “New York Times”
scrisse all’indomani della sua morte:” Vanoni era, in maggior misura di qualsiasi altro uomo politico
italiano, vicino ad essere indispensabile e insostituibile”.
8
E’ doveroso notare che la definizione dell’imposta enunciata da molta dottrina contemporanea
non differisce da quella formulata dal giureconsulto Bartolo di Sassoferrato nel secolo quattordicesimo. A
sua volta, molto vicino a questa concezione, A.D Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario,
Utet, Torino, 1958, p. 58, fornisce una visione dell’imposta, molto vicina a quella di Bartolo, che
influenzò parte della cultura tributaristica italiana del ventesimo secolo: l’imposta è “la prestazione
pecuniaria che lo Stato, o altro ente pubblico, ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà di impero,
originaria o delegata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge allo scopo di conseguire
un’entrata”.
9
Sottolinea A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2005, p. 11, che
“la suddivisione in classi e la diversa attribuzione dell’onere fiscale, concentrato essenzialmente sul
“terzo stato”, corrispondeva ad un assetto socio-economico, venutosi a realizzare fin dall’alto medioevo,
ove a ciascuna classe si attribuivano specifiche “funzioni”, per la nobiltà e il clero apprezzate come
direttamene attuative di interessi generali, quindi surrogatorie della partecipazione ai carichi pubblici;
dopo l’avvento dello Stato assoluto e l’affermarsi di un’economia più moderna tale assetto si rivela però
inadeguato”.
10
L’Art. 13 recitava: ”Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione,
è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in
ragione delle loro sostanze.”; l’art. 14: ”Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o
Costituzioni francesi del 1946 e 1958, fungendo poi da esempio per le costituzioni di
tanti Stati d’Europa.
Superando l’idea di un rapporto bilaterale tra sovrano e suddito, il tributo
iniziò quindi ad essere concepito come “contribuzione”, cioè come obbligazione di
riparto fra più soggetti alla comune spesa, poiché “nello Stato moderno, di fronte alla
concezione che tutti abbiamo della società e del dovere primo del cittadino di dare la
sua solidarietà all’ordinato svolgersi della vita civile, l'imposta non è, come scriveva
anni or sono uno dei migliori economisti italiani, il Pantaleoni, una taglia estorta
dai briganti; l’imposta non può essere intesa che come l’espressione del dovere morale e
civico che grava su ognuno di noi, di concorrere al bene della società”11.
Alla luce di questo processo evolutivo che portò ad una nuova configurazione di
imposta, caratterizzata da una funzione di riparto, volta alla costituzione di una serie
coordinata di rapporti tra i contribuenti, nacque il problema della giustizia tributaria. Si
passò quindi da una concezione di tributo “autoritaria” ad una “democratica”,
abbandonando così quella configurazione atomistica dei rapporti d’imposta che aveva
impedito di cogliere la dimensione “comunitaria”12 dell’imposizione: solo “la miriade
di rapporti non atomisticamente intesi e non concepibili come isolate monadi,
attuano la funzione di giustizia nella ripartizione di un certo ammontare di spesa
pubblica componendo e regolando con perequazione il potenziale conflitto di
interessi tra platea dei soggetti passivi e l’ente pubblico.”13
In Italia, tale rinnovamento è stato codificato attraverso un primo riconoscimento
di un diritto di giustizia fiscale negli artt. 24, 25, 30 dello Statuto Albertino14,
nonostante
parte
della dottrina, sostenitrice del modello “organicistico” in
contrapposizione a quello “giusnaturalistico”15, condividesse ancora la definizione di
mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di
controllarne l'impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione e la durata.”
11
Così si espresse E. Vanoni nella seduta di discussione del Disegno di legge “Norme
sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario” del 27 luglio 1950, in www.senato.it.
12
Denomina appropriatamente “comunitaria” la funzione fiscale M.T Moscatelli, Moduli
consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, Giuffrè, 2007, p. 126.
13
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 24.
14
L’art. 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi
alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e
militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”; l’art. 25: “essi [i regnicoli] contribuiscono
indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”; l’art. 30: “nessun tributo può
essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re”.
15
Molto brevemente, il modello organicistico è frutto dell’idea per la quale il potere politico,
imperium, procede dall’alto verso il basso e non viceversa poiché lo Stato è anteriore e al di sopra delle
imposta come prelevamento coattivo imposto a tutti coloro che soddisfano determinati
requisiti previsti dalla legge, e rifiutasse, perciò, di attribuire rilevanza giuridica al
problema della ripartizione ottimale dei carichi pubblici.
Tale dottrina ebbe la stessa reazione di rigetto, nei primi anni successivi
all’emanazione della Costituzione, in relazione al significato del disposto “tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”,
contenuto nell’art. 53 della nuova Carta fondamentale16. L’espressione “capacità
contributiva”, afferma il giurista Franco Gaboardi, è “un’espressione che contiene
concetti anche di ordine filosofico-sociologico” e, proprio per tale motivo, “la dottrina
ha tentato di definire il suo ambito di applicazione e i suoi contenuti” 17. Alcuni autori
espressero, infatti, opinioni “svalutative” in merito al concetto di capacità contributiva,
a cui veniva attribuita scarsa rilevanza, tanto da essere definito “scatola vuota”18,
“capace di essere riempita dei significati più vari”19. Tali orientamenti rimasero tuttavia
minoritari, prevalendo in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale20, una
valorizzazione del principio di capacità
contributiva quale principio fondante
l’imposizione,
all’idoneità,
profondamente
connesso
concreta
ed
effettiva,
dell’individuo a concorrere alle spese pubbliche.
sue parti. Riguardo al fenomeno tributario questa concezione ritiene che, quindi, il potere dello Stato in
materia di prelevamento è senza limiti e, coerentemente a ciò, il contribuente occupa una posizione di
soggezione poiché è lo Stato il titolare della sovranità finanziaria. Il pensiero giusnaturalista, invece,
ritiene che il cittadino è un associato e che deve l’imposta a titolo di contribuzione, unitamente a tutti gli
altri associati, membri del medesimo consorzio politico.
16
Per una approfondita analisi delle origini dell’art. 53 della Costituzione si rimanda a G.
Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità
contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, pp. 97 e ss. L’Art. 53 così recita:“ Tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività.”
17
F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p. 105.
18
L. Einaudi, Prefazione a L.V. Berliri, La giusta imposta, Giuffrè, Roma, 1945; B. Griziotti
e parte della dottrina, rimasta però minoritaria, giungeva inoltre ad identificare la capacità contributiva
con il godimento dei pubblici servizi, in funzione dei quali si dovrebbe determinare il concorso dei
privati alle pubbliche spese. Tale concezione, che giustifica il prelievo secondo le regole del
mercato, è stata tuttavia oggetto di critiche in relazione alla necessaria valutazione della
compatibilità con altri valori insiti nella Costituzione, derivandone l’impossibilità di individuare
criteri di distribuzione dei carichi pubblici dipendenti dall’utilità arrecata a ciascuno dall’erogazione dei
servizi pubblici.
19
F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 105.
20
Si deve osservare come nel tempo i giudici costituzionali abbiano assunto posizioni
contrastanti e come spesso gli stessi preferiscano non esporsi sulla portata effettiva del principio,
rifugiandosi in escamotages formalistici. Per una visione d’insieme dell’evoluzione della giurisprudenza
della Corte costituzionale in tema di capacità contributiva: G. Marongiu, Il principio di capacità
contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Dir. prat. trib., 1985, pp. 233 e ss.
La rinascita dell’indirizzo “svalutativo” verificatasi a partire dalla fine degli
anni ottanta, o meglio “neo-svalutativo” poiché muove argomentazioni più analitiche e
sofisticate di quelle che supportavano in origine il primo orientamento svalutativo,
impone la necessità di soffermare l’attenzione, nel secondo capitolo, sull’analisi delle
due opposte concezioni di capacità contributiva, analizzando, così, la base del
contrasto dialettico in atto tra le diverse posizioni dottrinali.
2. RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE
FILOSOFICHE RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO
2.1
L’ideologia liberale
Nella successione storica il tributo, inteso come istituto giuridico, trova diverse
giustificazioni legate perlopiù alle politiche economiche degli stati a seconda che esse
siano improntate all’uno o all’altro dei due tradizionali e più importanti filoni
dell’ideologia liberale. In merito ciò, Franco Gallo, trentaseiesimo Presidente della
Corte Costituzionale della Repubblica, afferma che l’ideologia liberale si suddivide in
due indirizzi contrapposti: “quello, liberista classico, più incline a privilegiare i diritti
proprietari a fronte dell’interesse pubblico al prelievo e a svalutare l’interesse statale,
regolatore e di mediazione e quello, all’opposto, egualitario e welfaristico, repulsivo del
modello dello “stato minimo”21 e rivalutativo delle regole fiscali distributive rispetto ai
diritti proprietari medesimi.”22
Il primo orientamento, sulla spinta dell’individualismo possessivo lockeano, è
stato seguito dagli stati liberali italiani pre-unitari dell’Ottocento quando era dominante
la teoria e la pratica del laissez faire e del laissez passer23. Questa “forma di
Si parla di stato minimo per sottolineare la caratteristica propria dello Stato liberale di porsi
come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, al contrario dello Stato sociale, quello
liberale predilige il rispetto e la salvaguardia dell'iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di
dirigismo statale. Il compito fondamentale non è quello di perseguire forme di eguaglianza sostanziale,
ma di limitarsi unicamente a quelle di eguaglianza formale. Ne consegue l'idea di un apparato
"alleggerito", incentrato sulla tutela di pochi diritti essenziali ed in grado di lasciare la massima libertà
all'iniziativa dei singoli. Lo Stato minimo dovrebbe, quindi, garantire i servizi relativi alla giustizia, al
diritto e alla protezione.
22
F. Gallo, Etica e giustizia nella tassazione, in Riv. dir. int., 2007, pp. 12 e ss.
23
Massima, attribuita all’economista J.de Gournay, che nel diciottesimo secolo costituì una sorta
di slogan per i fisiocrati e i liberisti nella loro campagna rivolta a ottenere l’abolizione di ogni vincolo
21
liberalismo”, scrive Cereti, “riteneva che lo sviluppo economico esigesse che le imposte
fossero ridotte al massimo, e che fossero giustificate soltanto per assicurare allo stato i
mezzi per garantire la sicurezza del cittadino e la difesa della sua proprietà”24. Secondo
tale orientamento, non ammettendo incisive intrusioni dello stato nella società civile, si
identificava la persona con i diritti proprietari e il patrimonio dell’individuo aveva una
propria, naturale legittimazione morale. Pertanto, si considerava ingiusta ogni forma di
“prestazione imposta” che non fosse ispirata al criterio del beneficio 25: non costituisse
cioè, in un ottica contrattualistica, remunerazione del godimento di pubblici servizi resi
ai privati; dunque, il tributo, ha assunto, nella sostanza e in termini economicistici,
soprattutto, la forma e la sostanza del corrispettivo.
L’inevitabilità di questa conclusione è dettata dal fatto che “a quell’epoca la
divaricazione fra pubblico e privato, fra stato e società borghese e la tutela assoluta della
libertà individuale, da una parte, imponevano allo stato di limitarsi a correggere gli
estremi dello stato di natura26 e a tutelare la sicurezza pubblica e la proprietà
individuale; dall’altra, gli vietavano sul piano economico-finanziario sia di acquistare e
conservare capitali, sia di controllare i conti dei privati, sia di gestire industrie o
commerci”27.
Per quanto riguarda la legittimazione dell’imposta legata alla volontà popolare,
espressa attraverso i rappresentanti della categoria di appartenenza,
lo slogan “no
taxation without representation” era normalmente meglio percepito dai contribuenti non
come uno strumento di democrazia atto a dar la voce in politica, ma essenzialmente nel
senso negativo che “le tasse imposte senza consenso erano un tipo di confisca che
distruggeva i diritti proprietari”28.
La
mancanza
di
compenetrazione
fra
stato
e
società,
motivata
dall’organizzazione politica della civiltà liberale dell’epoca, e questa protezione “piena”
imposto dallo stato all’attività economica, e divenuta quindi simbolo del liberismo economico; la sua
origine più remota va ricollegata alla risposta Laisseznous faire, data dal mercante Legendre al ministro
J.B. Colbert che chiedeva cosa si poteva fare per aiutare il commercio.
24
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., pp. 14 e ss.
25
Per approfondire , vedi F. Gaboardi, nel già citato Riflessioni intorno alla finanza pubblica, p.
73, ne da una definizione chiara affermando che “la regola del beneficio” è “basata sul principio del quid
pro quo o del do ut des: al beneficio economico del cittadino, corrisponde subito, od in un momento
successivo, il beneficio economico dello Stato(o viceversa) ”.
26
J. Locke, The second Treatise on Civil Government, London, 1690, cap 5 (trad. it. Due trattati
sul governo, Torino, 1948, p .335).
27
F. Gallo in, Etica, fisco e diritti di proprietà, in Rass. trib., 2008, pp. 11 e ss.
28
J.W .Ely jr, The Guardian of Every Other Right, New York-Oxford, 1998, p. 27.
della persona e dei diritti proprietari hanno prodotto correlati sistemi normativi basati
sulla proporzionalità (piuttosto che ispirati alla progressività), con schemi attuativi della
norma tributaria che non contemplavano in punto di fatto ispezioni, accessi e
sopralluoghi presso il domicilio o presso il luogo in cui il contribuente svolgeva la sua
attività.
La storia dei rapporti fra proprietà e tributo muta verso la fine dell’Ottocento,
quando con il sorgere dei movimenti socialisti, comincia timidamente ad emergere
quell’importante filone del pensiero liberale che riconosce allo Stato un qualche ruolo di
mediatore e distributore. Il secondo importante filone del pensiero liberale e cioè il
pensiero rivalutativo del ruolo sociale dello stato e della sua funzione di riparto e
redistribuzione ha infatti trovato poi la sua definitiva affermazione dopo la seconda
guerra mondiale. Con l’abbandono delle teorie contrattualistiche e l’avvento dello stato
di diritto (democratico), infatti, ha preso via via piede l’idea di uno stato meno neutrale
e più articolato, che riconosca nella proprietà privata una funzione sociale e che cerchi
di attuare anche una maggiore giustizia sociale all’interno delle singole società.
“La dottrina liberale dominante per tutto l’Ottocento”, scrive il presbitero
genovese Giovanni Cereti, che “considerava la libera iniziativa e il diritto di proprietà
privata come un assoluto intangibile di cui non si intravedeva ancora la funzione
sociale“ - difesi per salvaguardare “la dignità ed i diritti della persona umana contro le
intromissioni e gli abusi degli apparati statali” - viene progressivamente sostituita, o
perlomeno affiancata, da “una nuova visione che impose di riconoscere la funzione
sociale della proprietà. Essa non è legata solo al fatto che siamo chiamati a condividere i
beni della Terra con gli abitanti del pianeta, ma soprattutto alla convinzione che la
proprietà è data anche per metterci in grado di rendere un servizio concreto al prossimo.
In questa nuova concezione la produzione di un reddito non può essere destinata solo al
bene del singolo e dei suoi famigliari ma deve andare a vantaggio di tutta la
collettività.”29 Tuttavia in un primo momento e fino all’avvento del fascismo lo stato si
presenta ancora come garante delle situazioni giuridiche soggettive della persona e ha,
perciò, fra le sue funzioni più importanti quella di far rispettare i diritti proprietari,
senza darsi eccessivo carico di quelli sociali. La caratteristica di tale momento storico è
data dal fatto che lo stato “pur continuando ad avere la funzione di assicurare il rispetto
29
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 71.
di tali diritti, nella sua autorità di stato titolare a sua volta di un diritto naturale di
imposizione è tuttavia abilitato a condizionarli e a limitarli, a condizione che ciò
avvenga con il consenso dei cittadini incarnato nella legge”30.
Dopo la parentesi autoritaria e la seconda guerra mondiale, con l’aumentare
delle esigenze sociali, si verifica una ulteriore evoluzione istituzionale31, che porta a
estendere la funzione di garanzia dello stato ai diritti positivi di libertà e a fare, perciò,
emergere con chiarezza il suo ruolo distributore e redistributore dei carichi pubblici
(anche) a mezzo della tassazione. In un regime democratico, infatti, la tassazione ha lo
scopo di assicurare allo stato il flusso di denaro da impiegare in tutte quelle operazioni e
iniziative che sono vantaggiose per i cittadini, che promuovono, pertanto, il bene
comune. Si impone cioè il modello dello stato sociale dove i tributi trovano la loro
giustificazione in un’ottica distributiva e non corrispettiva ed hanno fondamento, in una
prima fase, nella sovranità (fiscale) dello Stato e, più avanti nel tempo - in regime di
suffragio universale e di democrazia costituzionale - nel dovere contributivo inteso
come dovere di solidarietà, a fronte del quale si pone l’esercizio, a fini fi riparto, di una
potestà legislativa di imposizione collegata alla manifestazione di una specifica capacità
contributiva. Come sottolinea Cereti: “non si pagano le tasse perché lo stato lo impone e
non soltanto perché ci si ripromette di ricevere dallo stato servizi in contraccambio”,
bensì “la motivazione profonda è che si pagano le tasse perché si è e si vuol essere
solidali tutti con uno e uno con tutti, e perché nella società armonicamente organizzata
si raggiunge il massimo dello sviluppo e del benessere individuale e comunitario.”32
Ciò ha segnato l’inizio di quella che Sergio Steve ha chiamato l’era della
“finanza della riforma sociale”33, di quella finanza, cioè, che affida all’imposizione sia
la funzione di riparto dei carichi pubblici, compresa quella redistributiva, sia la funzione
compensativa dei cicli economici sfavorevoli; in cui il sistema fiscale deve proporsi
come, almeno potenziale, fattore di equità e di giustizia sociale.
F. Gallo, La funzione del tributo ovvero l’etica delle tasse, Giuffrè, Torino, 2009.
In merito a ciò, G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 70, ritiene che
proprio “questo progressivo allargamento dei compiti riconosciuti allo stato nella società contemporanea
è stato reso possibile anche da un cambiamento intervenuto nel concetto di proprietà”.
32
Ivi, p. 101.
33
S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1976, p. 8.
30
31
2.2
Il “revival” neoliberista
Nonostante l’evoluzione del quadro normativo verso sistemi fiscali con funzione
nettamente distributiva e redistributiva dei carichi pubblici, soprattutto nell’ultimo
ventennio si sono riproposti con grande forza in Italia - a livello sia scientifico che di
polemica politica - contrari orientamenti liberisti; i quali hanno trovato un favorevole
humus nella generale riprovazione delle politiche assistenziali eccessivamente
dispendiose degli anni settanta e ottanta e nella forte richiesta di minore pressione
fiscale, di più mercato e di superamento della crisi fiscale dello Stato attraverso la forte
riduzione delle spese sociali, necessarie per il sostegno del contestato welfare state34.
Prende le distanze da queste teorie Giovanni Cereti, il quale, ritiene che “la critica allo
stato sociale, al welfare state” è “troppo spesso legata all’affermazione egoistica del
privato e della sua inefficienza”. Egli, tuttavia, ammette che tale critica “ha delle ragioni
nella denuncia di difetti appartenenti alla sfera pubblica, dagli sprechi, agli eccessi di
burocratizzazione, al sistema delle tangenti a favore dei politici”, ma ritiene che
debbano essere necessariamente corretti “dal modello di stato di forte ispirazione etica e
solidaristica”35 quale è lo “stato sociale” così ispirato.
Ritornando alla visione neoliberista, il tributo, in essa, viene considerato come
un fattore di alterazione del diritto fondamentale di proprietà, a sua volta base ed
Nel prima citato F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, possiamo individuare
alcune definizioni di welfare state esposte da autorevoli studiosi come Briggs, Wilensky, Alber e Ferrera.
Briggs ha proposto la seguente: “Il welfare state è uno Stato in cui il potere organizzato è usato
deliberatamente (attraverso la politica e l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato
in almeno tre direzioni: primo, garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente
dal valore di mercato della loro proprietà secondo, restringendo la misura dell’insicurezza mettendo
individui e famiglie in condizione di fronteggiare certe «contingenze sociali» (per esempio, malattia,
vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a crisi individuali e familiari terzo, assicurando ad ogni
cittadino senza distinzione di classe o status i migliori standard disponibili in relazione a una gamma
concordata di servizi sociali”. Un’altra definizione molto citata in letteratura è quella di Wilensky, per il
quale “l'essenza del welfare state risiede nella protezione da parte dello stato di standard minimi di
reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abitazione, garantiti ad ogni cittadino come
diritto politico, non come carità”. Una più recente si deve a Alber per il quale: “Il termine welfare state
designa un insieme di risposte di policy al processo di modernizzazione, consistenti in interventi politici
nel funzionamento dell’economia e nella distribuzione societaria delle chances di vita; tali interventi
mirano a promuovere la sicurezza e l’eguaglianza dei cittadini al fine di accrescere l’integrazione sociale
di società industriali fortemente mobilitate”. M. Ferrera nel saggio Modelli di solidarietà, partendo
dall’etichetta formulata da Alber e alla luce delle considerazioni svolte sulla stessa, ne integra e
semplifica il significato, proponendo la seguente: “Il welfare state è un insieme di interventi pubblici
connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza,
assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l’altro specifici diritti sociali nel caso di eventi
prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria”.
35
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 93.
34
espressione della persona e della sua libertà individuale e limite, solo eccezionalmente
valicabile, alla tassazione. Pertanto, pur non potendo giungere, per evidenti ragioni sia
storiche che economiche e politiche, a riportare l’imposizione allo schema ottocentesco
di prelievo-controprestazione, viene sminuita la funzione distributiva dell’imposizione,
per apprezzare il criterio del beneficio e della proporzionalità. In questo contesto si
afferma ”il diritto naturale e originario dell’individuo all’intangibilità della sua proprietà
e alla conservazione della maggior parte dei frutti del suo lavoro”, pertanto viene
concesso “all’ente pubblico (stato, regioni ed enti locali) di prelevare, attraverso lo
strumento del tributo, solo quando è strettamente necessario per finanziare il costo della
tutela
della proprietà stessa e l’offerta di beni pubblici classici(servizi giudiziari,
polizia, difesa) e poco altro ancora”36 e, in genere, per il finanziamento delle cosiddette
libertà negative37 escludendo dal finanziamento tramite imposte la gran parte dei
fondamentali diritti positivi, sociali e civili. La visione riduttiva del ruolo del tributo e
della funzione accertatrice trova indirettamente un ulteriore sostegno nel processo di
globalizzazione, il quale processo, esautorando lo stato di una parte rilevante delle sue
prerogative a vantaggio del “privato”, imporrebbe di riservare a esso solo la
imprescindibile garanzia dell’ordine pubblico e di porre, conseguentemente, a suo
carico solo il finanziamento della relativa spesa. Riguardo agli “effetti pluridirezionali”
della globalizzazione interviene l’avvocato ed ex deputato Vittorio Emanuele Falsitta
affermando che in un contesto “globalizzato”, quale è il nostro, “i regimi fiscali
appartenenti a paesi diversi entrano in concorrenza e cercano di ridurre il livello di
pressione tributaria sui fatti reddituali e di consumo” cosicché “le imprese” si spostino
36
25 e ss.
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Il Mulino, Bologna, 2011, pp.
Con l'espressione libertà negativa si indica uno dei principi base del pensiero liberale. In uno
stato liberale, infatti, l'individuo è libero dai vincoli che un soggetto può imporgli, ed è garantita
l'iniziativa personale, come, ad esempio, scrivere liberamente su un giornale, oltrepassare senza
impedimenti i confini nazionali, oppure avviare un'attività commerciale senza essere soggetto a
costrizioni o ostacoli. La libertà negativa è intesa come non-interferenza del potere statale sulle azioni
individuali: l'individuo è tanto più libero quanto più lo stato omette di regolarne la vita. La scarsità di
vincoli è dunque inversamente proporzionale all'esercizio della libertà negativa. La distinzione teorica,
sulle orme di Kant, tra libertà "di" (positiva) e libertà "da" (negativa) è stata introdotta per la prima volta
dal filosofo liberale Isaiah Berlin, professore di teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British
Academy. Il concetto di libertà negativa venne espresso in modo completo per la prima volta dal filosofo
Hobbes e ripresa dall' inglese John Locke, nell'opera Due trattati sul governo, per merito del quale, con la
fondazione del pensiero liberale, furono enunciati per la prima volta i diritti umani basilari.
Complementare ad essa in uno stato socialista è la libertà "di", o libertà positiva. Il concetto di libertà
negativa si comprende infatti anche nel confronto con quello di libertà positiva, ascrivibile a Rousseau e
al recente comunitarismo, che valuta la libertà nell'ottica della partecipazione degli individui alla
produzione delle leggi che essi stessi devono rispettare, quindi in senso positivo.
37
“geograficamente” diventando “contribuenti dove le imposte sul reddito sono più
attenuate”38. L’adesione al neoliberismo ha portato a considerare – quanto meno sul
piano dell’enunciazione politica - sia posizioni di capitalismo protezionista, sia
all’estremo, per quanto riguarda specificatamente la politica fiscale, posizioni di
esasperata deregulation, di lotta all’imposizione in sé. A ragione di ciò si tollera
(addirittura) una relazione stabile fra il fenomeno evasivo e la pressione fiscale in cui si
dimostra una quasi “comprensione politica” per il primo in ragione dell’alto livello della
seconda.39
Storicamente, queste teorie hanno anche ascendenti più prossimi, rispetto a
Locke40,
radicati
nell’individualismo
giusnaturalista
ottocentesco
e
più
specificatamente, nell’ordoliberalismo tedesco e nel costituzionalismo liberale
hayekiano, che vedono il mercato come un “ordine spontaneo” che riesce ad
armonizzare in maniera, appunto, spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e
coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il
perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la
“Grande Società”41 - cioè la moderna società complessa - che sfugge a ogni
pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al
meccanismo della concorrenza. Tali correnti di pensiero considerano, di conseguenza, i
diritti proprietari come libertà naturali, pre-politiche e pre-istituzionali, che si traducono
sul piano giuridico in una “sorta di pretesa ostile verso terzi” da parte del soggetto che
ne è titolare e in un certo qual modo indipendenti dal loro riconoscimento
costituzionale.42
V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, Università Bocconi Editore, Milano, 2006, p. 33.
Silvio Berlusconi, 17 Febbraio 2004, conferenza stampa Palazzo Chigi: ”Se si chiede una
pressione del 50% ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere” […] “c’è una norma del diritto
naturale per la quale, se si chiede di pagare il doppio delle imposte, questo è qualcosa che può essere
ritenuto ingiusto e che può indurre qualcuno a sentirsi autorizzato a non pagare le tasse ”.
40
J. Locke, The Second Treatise, cit., cap.5. La difesa da parte di Locke dei diritti individuali di
proprietà aveva, però, allora come apprezzabile obiettivo- poi realizzato con la rivoluzione francese- la
liberazione dell’individuo dal “potere feudale e da quello arbitrario del sovrano”. Per l’individualismo
possessivo di Locke, in particolare, la proprietà dei beni terreni, trasmissibile attraverso l’istituto
dell’eredità, è diretta a escludere a vantaggio del proprietario e del suo spirito di autoconservazione ed è
perciò, distinta dalla sovranità, la quale ha sì per fine la conservazione del diritto e della proprietà, ma non
costituisce un bene privato del sovrano.
41
F. von Hayek, La via della schiavitù, trad. di Dario Antiseri e Raffaele De Mucci, Rusconi,
Milano, 1995.
42
F. Gallo, Giustizia e Riforma Fiscale, in Oss. it., 2003, pp. 847 e ss.
38
39
Questi assunti sulla originalità e naturalità del diritto proprietario e sul drastico
ridimensionamento dell’intervento pubblico distributivo hanno trovato forse la migliore
espressione, nel 1974, nella teoria del c.d. “titolo valido” coniata da Robert Nozick43.
Per tale pensatore i diritti proprietari sono un elemento strutturale del diritto di libertà
individuale44: ad ogni individuo verrebbero attribuiti, al momento della nascita, i diritti
fondamentali ed intangibili, alla disponibilità quasi esclusiva dei frutti del suo lavoro.
Secondo la sua teoria deontologica nessuna redistribuzione di ricchezza sarebbe
ammissibile da parte dello stato attraverso l’imposizione, neanche col consenso
unanime dei cittadini, perché essa interferirebbe con la dinamica del mercato e quindi,
nella sostanza, con il principio di libertà.
Tale scuola di pensiero va collegata ed è in parte conseguente, sul piano delle
dottrine economiche, alla reazione alle teorie keynesiane e roosveletiane dominanti nel
secondo dopoguerra. Fra i maggiori esponenti troviamo Ronald Coase e Milton
Friedman, i quali, sulla scia anche del pensiero da Friedrich Von Hayek, hanno
contribuito alle teorie liberiste, rilanciando le c.d. ”politiche dal lato dell’offerta”
45
ovvero quelle politiche che prescrivono il taglio delle tasse come rimedio ad ogni male
economico e come ricetta infallibile per la ripresa e sottolineando, nel contempo,
l’inefficienza della grande spesa pubblica, i limiti e le prodigalità delle politiche statali
di piena occupazione e l’inidoneità dei governi a risolvere i problemi della società.
Seguendo questa logica di pensiero, si è giunti addirittura a sostenere che
“abolizione del settore pubblico significa che tutti i pezzi di terra, tutte le aree
territoriali, incluse strade e vie di comunicazione, siano possedute privatamente da
individui, imprese, cooperative, o qualsiasi altro raggruppamento volontario di individui
e capitali […]. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è ri-orientare il nostro pensiero sino a
prendere in considerazione un mondo in cui il territorio sia posseduto privatamente”46.
Sul fronte prettamente fiscale, il descritto “revival” neoliberista ha prodotto prese di
Il pensiero di Nozick, contraddistinto da una visione fortemente minimalista dell’intervento
pubblico redistributivo, diverge da quelle teorie aventi come referente storico il consequenzialista Hume,
le quali, pur non disconoscendo l’importanza dei fondamentali diritti proprietari, li considera tuttavia una
mera conseguenza di leggi, regolamenti e norme, anche informali, che hanno come fine la tutela di altri
rilevanti valori sociali ed economici, espressione del “nuovo Welfare State”.
44
Libertà che può definirsi negativa e cioè libertà come assenza di impedimento alle azioni e al
possesso di un individuo da parte di altri individui e dello stato.
45
L’economista statunitense e vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1970, Paul
Samuelson, definisce ironicamente tali politiche “voodoo economics”.
46
M.M. Rothbard, For a new liberty, Chicago,1973, pp. 220-221.
43
posizione piuttosto forti, tali da mettere in discussione la giustificazione morale e
solidaristica del principio stesso di tassazione. E in modo esplicito Richard Epstein47quasi dimenticando la ricordata faticosa evoluzione della nozione di tributo in termini
distributivi - ha affermato che il potere di imposizione non è altro che una forma di
“espropriazione senza indennizzo” e una confisca “senza causa”, aggiungendo che ”la
tassazione è prima face una requisizione della proprietà privata”.
2.3
Le teorie filosofiche consequenzialiste, ralwsiane e quelle egualitariste
Alla rediviva visione minimalista dell’intervento pubblico si sono contrapposte le teorie
liberali consequenzialiste, riconducibili storicamente soprattutto al pensiero di Hume48.
Queste teorie, afferma Gallo, “riconoscono l’importanza dei diritti proprietari quali
garanzia delle libertà individuali, ma li sganciano tuttavia dalla persona considerandoli
una mera conseguenza di leggi, anche fiscali, che hanno come fine anche la tutela di
altri rilevanti valori sociali ed economici”49. Da ciò, deriva un’idea di proprietà come
istituto fondato sul criterio dell’appartenenza, ma nello stesso tempo legato ad un
sistema complesso di obbligazioni sociali e rispondente al principio di giustizia
distributiva.
Senza essere necessariamente consequenzialista, un moderno pensatore come
Rawls - che è stato nel Novecento uno dei maggiori teorici del principio di giustizia e
delle opportunità sociali - valorizza, con la libertà dell’individuo, il ruolo della
responsabilità collettiva e della giustizia come equità distributiva e richiama la necessità
di dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei più svantaggiati rispetto a quelle
dei più ricchi (secondo il noto principio del “maximin”). Tale ordine di idee che
presuppone “la necessaria condivisione” dei redditi con “le fasce più disagiate della
popolazione”, secondo Concetti, “tende a sottolineare” così sia “la solidarietà che deve
esistere fra le persone all’interno delle comunità”
sia
“il dovere dello stato di
intervenire per favore una maggiore eguaglianza fra tutti i cittadini”50. Il che, secondo la
R. Epstein, Takings, Cambridge, 1985, p. 100.
D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. it., in Opere filosofiche, vol. I, Roma-Bari, 1992.
49
F. Gallo, Etica e giustizia nella “nuova” riforma tributaria, Politica del diritto, n.4, 2003, pp.
47
48
3 e ss.
G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 18. Contrariamente a
questo indirizzo, Concetti, definisce lo schieramento del pensiero neoliberista come quello che continua a
50
teoria rawlsiana del “disinteresse reciproco”, in sintonia su questo punto con le teorie
consequenzialiste e in netta contrapposizione alle teorie liberiste, presuppone la
divaricazione tra ciò che alla persona appartiene e ciò che è la persona in quanto
individuo sociale titolare di diritti e doveri.
Anche altri pensatori post-consequenzialisti, come Amartya Sen51, arrivano alle
stesse conclusioni del neocontrattualista Rawls sul punto della giustizia distributiva e,
soprattutto della considerazione della persona (“divaricata” dalla proprietà) quale
individuo sociale. Alla base del pensiero di Sen c’è l’opinione, comune alle costituzioni
dei paesi europei, che è dello stato la responsabilità ultima sia nell’individuazione e
rimozione delle cause di ingiustizia distributiva, sia nell’elargizione pubblica diretta di
servizi, sia infine nel reperimento - con imposta progressiva - delle entrate necessarie a
finanziare detti servizi e a garantire, comunque, una soglia minima di benessere nella
dignità. Il quale stato, nel perseguire un ragionevole equilibrio fra i principi di libertà, di
eguaglianza e di solidarietà, deve altresì preoccuparsi che l’utilizzazione dei suddetti
beni e servizi e la fruizione di tali benefici siano consentiti e garantiti a chiunque non
certo in modo uniforme bensì adeguandoli alla “capacità” differenziata e al progetto di
vita che l’individuo vuole seguire (human functioning)52.
In merito al pensiero di tale corrente storica-ideologica, il giurista Franco Gallo
offre una mirabile sintesi affermando che: “in questo contesto di “uguaglianza di
capacità” e di “equa differenziazione “ il tributo, quasi paradossalmente, limita la libertà,
i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell’individuo, e in ciò sta
indubbiamente un sacrificio53 individuale”, ma congeniato “per aumentare la libertà
“privilegiare la proprietà privata e i suoi diritti, oltre che la libertà dell’individuo di agire anche in campo
economico senza troppi vincoli o balzelli”.
51
A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, trad. it.,
Milano,2000.
52
E’ questa la visione tendenzialmente egualitaria della welfare community che viene definita
dello “sviluppo umano”, sulla quale A. Sen, insieme a B. Williams, si è soffermato in Utilitarismo e oltre,
trad. it., Milano, 1984.
53
A proposito di sacrificio, F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., pp. 80 e
ss, elenca le tre possibili tipologie di sacrificio. Seguendo il concetto di sacrificio uguale si deve prelevare
a ciascun soggetto un’uguale quantità di utilità soggettiva, cioè non la stessa somma, ma la parte di utilità
uguale di cui vengono privati tutti gli altri soggetti; delineato da J.S. Mill, porterebbe all’imposta
proporzionale, nel caso che le utilità fossero misurabili dal fisco. Il sacrificio proporzionale, invece,
prende in considerazione gli averi (redditi e beni) di cui ciascuno è provvisto. L’uguaglianza dinanzi
all’imposta si ha quando l’imposta determina sacrifici proporzionalmente uguali all’utilità totale degli
averi che ciascuna persona possiede. È quindi misurato ancora in termini di utilità decrescente, ma la
ripartizione del carico d’imposta è equa soltanto se viene prelevato ai più ricchi quote in numero
proporzionalmente più forti che ai meno ricchi (questo concetto apre la strada all’imposta progressiva,
stessa nell’ottica dell’equo riparto (e, quindi, anche distributiva)”. Pertanto, se “si ritiene
che la libertà si espande in senso positivo nella società solo se la si associa a obiettivi di
uguaglianza” il tributo, legittimato dal consenso dei consociati espresso dalle leggi, è
“lo strumento idoneo per perseguire concretamente questa associazione.”54
Nella visione del prima citato Sen, e soprattutto in quella di altri egualitaristi di
estrazione giuridica come Dworkin55, è dunque proprio sull’uguaglianza che si fonda,
in ultima analisi, la legittimità etica dello stato sociale impositore e la sua funzione
mediatrice e distributiva. Se, infatti, per uguaglianza si intende l’eguale interesse che lo
stato deve provare per ogni cittadino da cui pretende il rispetto delle leggi, va da sé che,
attraverso le leggi medesime, esso garantisce per la sorte e le libertà di ciascuno dei suoi
cittadini e, di conseguenza, dal suo trattarli come eguali e con uguale rispetto. E per fare
ciò esso è autorizzato a porre una serie di “costrizioni” legali alla proprietà, alla
distribuzione della ricchezza nazionale e alla fruizione, in regime concorrenziale, dei
diritti patrimoniali; costrizioni che trovano un limite solo in altri diritti e principi
fondamentali inviolabili, primi fra tutti, fra i principi - corollari di quello di uguaglianza
- di razionalità, coerenza e congruità.
I diritti proprietari vanno, perciò, riconosciuti e tutelati come essenziali
strumenti dell’autonomia privata, ma nel contempo anche sganciati dalla persona
medesima e bilanciati, conformati e intrecciati con regole e leggi disegnate dallo stato
per garantire altri diritti, altri valori e altre forme di ricchezza. Ciò significa che lo stato
non si limita più a tutelare e promuovere la libertà d’impresa proteggendo la proprietà
privata ma vuole che i consociati raggiungano una condizione di sempre maggiore
dignità e benessere realizzando in tal modo una democrazia che cerca di vivere in fondo
quella richiamata dall’art 53 Cost). Infine, il sacrificio minimo collettivo prevede che ciascuno deve
contribuire in misura tale che il sacrificio della collettività di cui fa parte, sia il minore possibile. La
persona è considerata, perciò, sia per quanto possiede, ma anche perché facente parte di una collettività,
in modo tale che il sacrificio imposto sia il minore possibile (sempre tenendo conto dell’utilità
decrescente del reddito o della ricchezza di ciascuno). In sostanza si ritiene che è, dunque, la collettività
che deve soffrire il meno possibile a causa del prelievo, tuttavia se applicato rigidamente questo principio
ha il problema di “seccare la fonte” poiché livellerebbe le ricchezze andando a colpire maggiormente le
persone con maggiori possedimenti (il principio afferma così l’uguaglianza dell’utilità marginale del
reddito fra tutti i contribuenti dopo l’imposta). L’Autore si sofferma sulla possibile applicazione concreta
dei tre principi giungendo alla conclusione che è in molti casi difficile, se non impossibile, e iniqua la
rigida concretizzazione di ciascuno dei sacrifici prima espressi teorizzando, di conseguenza, l’approccio
parziale, ovvero una soluzione mediata in cui si ha una combinazione di principi tenendo in
considerazione, tuttavia, che, anche le imposte, hanno spesso fini extra-fiscali sempre più marcati.
54
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 27.
55
R. Dworkin, Virtù sovrana, teoria dell’uguaglianza, trad. it., Milano,2002.
non solo il principio di libertà, ma anche quelli dell’uguaglianza solidale ed economica.
A ragione di ciò, incidere la proprietà è, consentito, ma è giustificato e ha un senso solo
se si rispettano i principi fondamentali di uguaglianza e solidarietà e solo perché,
tramite il sacrificio di alcune quote di proprietà, possono perseguirsi qualificati,
inscindibili interessi pubblici e possono rinnovarsi e trasformarsi i contenuti dei diritti
sociali che ogni stato deve garantire. Giustamente è stato sottolineato al riguardo che
“scindere il nesso fra diritti proprietari e diritti sociali e negare che essi vadano di pari
passo […] una posizione alquanto pericolosa, compatibile, certo, con l’assolutizzazione
teorica dei diritti sociali contro la proprietà, ma anche viceversa della proprietà contro i
diritti sociali”56.
I fautori delle teorie egualitarie, insieme ai consequenzialisti ritengono altresì
che nelle democrazie moderne l’intervento pubblico sarà a volte paternalistico, ma è pur
sempre frutto della funzione conformatrice del diritto e, perciò, del fondamentale
principio del consenso popolare incarnato nella legge. Ed è indispensabile tanto per
attuare, attraverso lo strumento fiscale, il riparto dei carichi pubblici (secondo il
principio di equità distributiva, per superare gli eccessivi egoismi del libero mercato e le
disuguaglianze che ne conseguono), quanto per adottare politiche concrete ai fini della
promozione dello sviluppo e di garanzia del benessere sociale oltre che dei diritti di
libertà. Fa notare Cereti che “la gravissima depressione” del 1929 “impose un intervento
dello stato nella vita economica e sociale”, ebbene, questo“ ha trovato nelle imposte non
solo la fonte di finanziamento per l’intervento dello stato a favore delle categorie più
disagiate e per una distribuzione entro certi limiti della ricchezza fra i propri cittadini”
ma anche “il modo di regolare attraverso la loro maggiore o minore pressione la ripresa
dell’economia e soprattutto dare incremento allo sviluppo economico attraverso
consistenti investimenti statali (Keynes)”57.
G. Palombella, L’autorità dei diritti: i diritti fondamentali fra istituzioni e norme, Laterza,
Roma, 2004, p. 50. Rendono bene al riguardo l’idea del tipo di collegamento fra i due diritti Holmes e
Sunstein là dove mettono in evidenza che “sia il diritto di proprietà sia i diritti sociali rappresentano il
tentativo di integrare cittadini che si trovano in condizioni diverse in una vita sociale comune: per questo
motivo i titolari del diritto di proprietà, ben lungi dal rifuggire ogni contatto con lo stato, sono partner
indispensabili nel moderno stato liberale. Stabilmente istituiti […], i diritti sociali […] sono solo alcuni
fra i tanti strumenti volti a far sì che anche coloro che sono svantaggiati si sentano coinvolti nello sforzo
collettivo della nazione intera. Dal momento che tutte le parti ne beneficiano, una simile combinazione fra
diritto di proprietà e diritti sociali si regge autonomamente e resta stabile nel tempo ”.
57
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 74.
56
Riguardo alla materia dei rapporti fra stato e imposizione, più specificatamente
sul punto della funzione redistributrice dello stato sociale, trovano una chiara
rispondenza i pensieri di Sen, Rawls in alcune recenti autorevoli interpretazioni della
dottrina sociale della chiesa cattolica. Tra di esse la più indicativa di una visione del
fisco come bene pubblico e come strumento di distribuzione è forse quella che si coglie
nell’intervento della commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Milano, presieduta
dal cardinale Carlo Maria Martini. In un contributo presentato dallo stesso cardinale si
legge, infatti, che il fisco è ”equo quando, da una parte, fa sì che individui e gruppi
identici o simili vengano trattati in maniera la più possibile uguale o analoga e,
dall’altra, che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio più elevato contribuisca in
proporzione, secondo criteri ragionevolmente progressivi, a ciò che è richiesto dal bene
comune dell’intera collettività […]. Il cittadino contribuente e i gruppi sociali o
territoriali di cittadini-contribuenti sono consapevoli che, se pagano più di quanto
ricevono, altri individui e gruppi ne traggono – in modo trasparente e il più possibile
conforme all’equità e alla solidarietà – un beneficio da ciò che è Stato pagato”58.
Il contributo diocesano vaglia lo stato sociale impositore, il quale “da
antagonista quale era nei confronti della democrazia tende a fondersi nell’era moderna
con la democrazia stessa”. Questo processo di identificazione dello stato-comunità con
la democrazia, collegato alla essenzialità del fattore fiscale per la sussistenza dello stato
medesimo, fa sì che “la crisi fiscale di esso può gettare assai pericolosamente la sua
ombra sul funzionamento e sul grado di legittimazione di un regime democratico” e che
gli eventuali “giudizi negativi sul fisco si riversano sullo stato medesimo” e, perciò,
sulla democrazia che esso impersona.
Arrivati a questo punto, il problema che si pone è quello - essenzialmente
politico ed etico - del bilanciamento di valori (diritti sociali e diritti proprietari),
ambedue presenti nella tradizione social-liberale europea. Avendo riguardo sia della
Costituzione - l’art.53 con riferimento ai tributi e al loro riparto, e gli artt. 42 e 4359
Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, Milano, 2000, pp. 18-19.
L’Art. 42 così recita: ”La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo
Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i
modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo,
espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione
legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” Art. 43.“A fini di utilità generale la legge può
riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti
58
59
con riferimento alle altre forme di limitazione della proprietà e all’espropriazione - sia
avendo riguardo delle altre regole stabilite con legge ordinaria dalle maggioranze
politiche, ai fini o di giustizia sociale e distributiva o di interesse generale o di pubblica
utilità60. In questa specifica ottica soggettiva di riparto, il problema della rilevanza dei
diritti proprietari si pone soprattutto con riferimento alla (e in sede di) individuazione di
ragionevoli indici distributivi dei carichi pubblici da parte dello stesso legislatore
ordinario.
Tale problema si riduce, in ultima analisi, a stabilire se il criterio soggettivo di
appartenenza proprietaria debba essere assunto sempre con legittimazione e, insieme,
come limite della tassazione (e, quindi, la ricchezza personale patrimoniale del
contribuente debba essere sempre l’oggetto indeclinabile di ogni legittima tassazione),
ovvero se questa possa avvenire indipendentemente dall’applicazione di tale principio e
riguardare anche posizioni, situazioni e valori privi di contenuto patrimoniale, solo
socialmente rilevanti ed esprimenti comunque una potenzialità economica.
pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.”
60
Dice al riguardo, forse un po’ troppo drasticamente, J. Bentham che “la proprietà privata e il
diritto nascono insieme e muoiono insieme. Prima che la legge la riconoscesse, la proprietà non esisteva;
togli le leggi e ogni tipo di proprietà cessa di esistere”.
CAPITOLO II
LA PROSPETTIVA INTERNA:
GIUSTIFICAZIONE COSTITUZIONALE DEL TRIBUTO
ATTRAVERSO L’ANALISI DEL PRINCIPIO DI CAPACITA’
CONTRIBUTIVA
SOMMARIO: 1. La giustificazione etica del tributo in Italia: configurazione
“democratica” e ”comunitaria” della fiscalità – 2. Il doppio concetto di capacità
contributiva: vincolo relativo o vincolo assoluto – 3. La funzione garantista e
solidaristica del principio di capacità contributiva nel bilanciamento fra giustizia
distributiva e “interesse fiscale”
1. LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA:
CONFIGURAZIONE
“DEMOCRATICA”
E
“COMUNITARIA”
DELLA FISCALITA’
E’ nel descritto contesto storico e istituzionale e fra le indicate luci ed ombre che va
ricercata l’attuale concezione del tributo nella nostra Costituzione. Si può affermare che
l’aggrovigliarsi indissolubile del regime legale delle tasse con quello di un welfare
ragionevole e con quello della proprietà per definire gli ambiti dello stato distributore, e
redistributore, sono valori ben presenti nella nostra cultura e nel nostro ordinamento ed
hanno rappresentato lo sfondo etico e il background culturale della Costituzione italiana
e ne costituiscono oggi la componente economica e sociale. Come la stessa Costituzione
italiana mette bene in evidenza sul piano dei principi giuridici, l’imposta diventa “la
prestazione obbligatoria di una quota degli averi di ciascuno per soddisfare i crediti
degli enti pubblici nascenti dalla necessità della ripartizione dei carichi comuni”61. Si
prendono così le distanze dalla concezione atomistica dei rapporti di imposta, come
quella esposta da Giannini62 basata sul concetto di “potestà di impero” e
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 56.
A.D Giannini, Istituzioni di diritto tributario, cit. Egli riconduce tout court il fondamento giuridico
dell’imposta alla soggezione del cittadino alla potestà finanziaria dello Stato, relegando nel campo della
61
62
sull’onnipotenza del legislatore, in cui si riduce il rapporto di imposta ad una normale
obbligazione fra il contribuente e lo Stato non cogliendo l’aspetto “comunitario” della
fiscalità e non percependo il “sottile” legame di interferenza e di conflitto di interessi
che corre nell’ambito di uno stesso organismo sociale, fra l’insieme dei rapporti di una
stessa imposta. Avvallando questo criterio, Griziotti sottolinea che “il rapporto
tributario” si concretizza in “uno stato assoluto di soggezione del contribuente” in cui
“diminuisce la personalità dell’individuo” e di conseguenza “affievolisce la sua
indipendenza e libertà”63.
Diversamente, nelle società liberaldemocratiche, “la persona non si identifica più
con l’homo oeconomicus64- e perciò solo con i suoi diritti proprietari e, in genere, con
ogni titolo legittimo di possesso - ma va considerata nella sua complessità di essere
politico, sociale e morale, inserito come individuo in un contesto istituzionale e
astrattamente idoneo a concorrere alle pubbliche spese per il solo fatto di porre in essere
un presupposto espressivo di una posizione di vantaggio economicamente valutabile”65.
Da ciò si deduce che, i tributi non possono essere più valutati sul piano morale avendo
solo ed esclusivamente riguardo al criterio soggettivo di appartenenza, e cioè al loro
impatto sulla proprietà privata, concepita quest’ultima come qualcosa che ha
un’esistenza originaria e una validità propria, indipendente dalla legge.
In questa ottica la tassazione, pur traducendosi in un sacrificio economico
individuale, tende - se equamente distribuita - ad “arricchire” indirettamente la persona
quale componente della società. È, infatti, uno degli strumenti che ha l’operatore
pubblico non solo per garantire e difendere il patrimonio di ogni consociato ma anche
per realizzare il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di eguaglianza
sostanziale, per perseguire nella giustizia politiche sociali redistributive, allocative e
stabilizzatrici e per promuovere la crescita culturale e lo sviluppo economico nella
stabilità66.
politica tributaria tanto il problema delle finalità che lo Stato debba perseguire quanto quello della
eventuale iniquità o antieconomicità del tributo.
63
B. Griziotti, Principi di politica, diritto e scienza delle finanze, Padova, 1929, p. 175.
64
Astratta semplificazione della complessa realtà umana, enunciata per la prima volta da J.S. Mill,
che pone come soggetto dell’attività economica un individuo astratto, del cui agire nella complessa realtà
sociale si colgono solo le motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza.
65
F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Editoriale scientifica, 2012, p. 19.
66
Ivi, pp.20-21, afferma che: “le politiche distributive statali, anche quado non producono l’aumento
della pressione tributaria, limitano nel breve termine le risorse di alcuni a beneficio di altri. Ma se questa
redistribuzione ha come effetto di medio e lungo periodo di migliorare la salute del paese, di ridurre le
Sotto un profilo funzionale il tributo è soprattutto lo strumento di giustizia
distributiva che, secondo le diverse opzioni politiche, lo stato ha a disposizione insieme agli strumenti di politica economica67- per travalicare le opportunità del
mercato e per correggerne le distonie e le imperfezioni a favore delle libertà individuali
e collettive e a tutela dei diritti sociali. Pertanto, la spesa pubblica occorrente per
finanziare e garantire ciò, dovrebbe essere prelevata con metodi conformi alla “più
perfetta giustizia distributiva” tenendo bene in considerazione, come afferma Falsitta,
che “l’imposta espropriatrice dell’oggetto tassato o l’imposta tirannica”[…]”sono
reliquati concezioni della proprietà e della fiscalità, che la costituzione non riconosce”68.
Ribadisce, in tal senso, l’importanza della destinazione, Vanoni, là dove afferma che
“un peso imposto ai cittadini per qualsiasi abuso della forza pubblica, e che non serva
per fini di utilità collettiva, ma sia disperso in vantaggi di singoli, sarà taglia, livello,
spoglio, ma mai tributo”69.
Si delinea così nella c.d. costituzione economica, cioè in quella parte della
Costituzione italiana che disciplina i rapporti economici, una volontà di governo
pubblico dell’economia poiché come afferma Galgano, “la constatata incapacità del
mercato” da un lato, e “l’economia capitalistica, storicamente dimostratasi incapace di
autogovernarsi” dall’altro, sono inidonee a garantire, da sole, “uno sviluppo economico
equilibrato e coordinato con il progresso civile e sociale”. Di qui, prosegue Galgano,
“l’universale riconoscimento” che spetta allo Stato il compito di assicurare il
tensioni sociali, di incrementare l’accesso di tutti ai servizi fino a quel momento riservati a pochi, non può
negarsi che lo stato sociale che ha raggiunto questi obiettivi è sicuramente più benestante e garantisce ai
propri cittadini più equità, più sicurezza sociale e, quindi, più uguaglianza e maggiore rispetto di sé. E in
questa ottica egualitaria e teleologica, propria dei sistemi improntati al moderno costituzionalismo
partecipativo, non può dubitarsi che il prelievo tributario, se associato ad accorte politiche della spesa, è
uno degli strumenti più appropriati per superare le sempre e più gravi disuguaglianze derivanti dalle
maggiori o minori disponibilità dei beni della vita (sia patrimoniali che non), realizzare i valori
solidaristici e promuovere anche la crescita culturale e lo sviluppo economico”.
67
Gli interventi di politica economica possono riguardare l’economia nel suo complesso
(macroeconomia) oppure essere mirati e coinvolgere solo uno o più settori produttivi (microeconomia).
La politica macroeconomica può essere suddivisa in politica fiscale e politica monetaria. La prima
riguarda gli interventi realizzati dallo Stato attraverso variazioni della spesa pubblica o delle entrate:
l’aumento delle tasse, la riduzione della spesa pubblica, l’incremento dei trasferimenti di risorse alle
famiglie, la variazione delle pensioni sono esempi di interventi di natura fiscale. La politica monetaria
riguarda, invece, le decisioni prese dalle autorità competenti – di solito la Banca centrale – per difendere
il valore della moneta. La Banca centrale in particolare può, se vuole stimolare l’economia, aumentare la
quantità di moneta in circolazione nel mercato, oppure incentivare le banche a detenere poche riserve
monetarie e a dare in prestito una maggior quota del denaro ricevuto in deposito alle imprese produttrici,
contribuendo in questo modo ad aumentare la produzione.
68
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 82
69
E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., p. 101.
“funzionamento e lo sviluppo del sistema economico”, insieme all’ulteriore compito particolarmente accentuato dalle Carta Costituzionale - di coordinare le esigenze dello
“sviluppo economico con quelle della giustizia sociale e del pieno sviluppo della
persona”70.
Razionalmente a tale prospettiva, già negli anni quaranta e cinquanta del secolo
scorso Ezio Vanoni sottolineava l’inadeguatezza del “mercato concorrenziale” tanto ad
affrontare i problemi dell’accumulazione e dello sviluppo equilibrato, quanto a produrre
una redistribuzione della ricchezza eticamente accettabile. E da questo doppio grado di
inadeguatezza faceva derivare quella che a suo avviso doveva considerarsi una delle
indicazioni fondamentali, d’ordine anche morale, in tema di politica economica e
fiscale: un ordinamento tributario che corregge gli esiti del mercato pur nel rispetto
della concorrenza e delle libertà economiche, che attribuisce al tributo una funzione di
giustizia sociale e che disciplina il dovere di concorrere alle spese pubbliche come
dovere di solidarietà71.
Queste considerazioni del cattolico Vanoni sono riprese e sviluppate
successivamente, nel 2000, da un interprete fra i più sensibili della dottrina sociale della
chiesa: la già citata diocesi di Milano. Attraverso la sua commissione “Giustizia e Pace”
questa arriva, infatti, a definire sul piano etico la contribuzione fiscale come “un gesto
fondamentale per la creazione delle condizioni di un benessere condiviso”. Il tributo, in
particolare, è inteso nel senso, autenticamente vanoniano, di “concorso attivo al
processo di redistribuzione delle risorse, grazie alle quali promuovere i beni e i servizi
della convivenza civile. In quanto parte della società - e, conseguentemente, in nome
della propria responsabilità per il bene comune - , ogni soggetto contribuente è, quindi,
chiamato a dare l’apporto da lui dovuto insieme con gli altri contribuenti, facendosi
carico delle ragioni dei bisogni dell’intera collettività e dei mezzi con cui soddisfarli. Al
sospetto, all’isolamento e all’ostilità possono e debbono, perciò, subentrare l’intesa e la
cooperazione. E questo non soltanto in omaggio alla continua ripetizione di imperativi
morali pur validi in sé, ma anche sulla base sperimentabile di una convivenza legata
F. Galgano, L’imprenditore, III ed., Bologna, 1980, pp. 108-115
Vedi E. Vanoni, La finanza e la giustizia sociale, in Id., Scritti di finanza pubblica e di politica
economica, a cura di A. Tramontana, Padova, 1976, pp. 103-121, dove si legge che: “La finanza può
intervenire in una politica tendente al fine di attuare una maggiore giustizia sociale, indirizzando la
propria azione redistributiva nel senso di ridurre le disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza, di
dare stabilità al risparmio, di favorire il determinarsi delle migliori condizioni per l’occupazione e per
l’incremento dei salari”.
70
71
all’ottenimento di vantaggi maggiori e più duraturi di quelli che potrebbero derivare da
comportamenti chiusi nel breve raggio dell’interesse individualistico”72.
È da notare che anche il pensiero laico converge sul punto con quello cattolico,
infatti, filosofi, economisti e giuristi già richiamati in precedenza come Rawls, Sen e
Dworkin concordano seppur per vie diverse, sulla centralità in materia fiscale della
giustizia
distributiva,
giungendo
alla
conclusione
che,
come
già
esposto
precedentemente, il sacrificio imposto con la tassazione rileva al fine di un aumento
della libertà e del godimento dei diritti. Tale convergenza si può ancora meglio notare
nelle parole del teologo francescano Gino Concetti quando, nel descrivere la giustizia
“contributiva”, afferma che questa “sottolinea il valore d’obbligo” da parte dei cittadini,
in quanto membri della società, di contribuire allo stato perché essa – la giustizia
contributiva - “risponda il più efficacemente possibile” alle ”istanze personali e
comunitarie dei soggetti”, ma anche perché “possa svolgere con fedeltà e tempestività i
compiti, le funzioni per cui è stata costituita”73. Concetti, quindi, esalta il “momento
positivo e dinamico” dell’imposizione fiscale ovvero quando “da quella quota messa in
comune” derivano ai cittadini “ampi benefici” che non si esauriscono “nella fruizione
dei servizi essenziali” ma che sono “comprensivi di tutti quei beni che solo uno stato
moderno”, efficacemente organizzato, “è in grado di assicurare”74.
2. IL
DOPPIO
CONCETTO
DI
CAPACITÀ
CONTRIBUTIVA:
VINCOLO RELATIVO O VINCOLO ASSOLUTO
Come si è accennato, il fondamento del dovere tributario, inteso come dovere dei
consociati alla contribuzione alle pubbliche spese per la sussistenza della collettività
organizzata, si ritrova, nella Costituzione italiana, nell’art. 53. Tale articolo deve essere
poi letto anche alla luce di altre norme costituzionali, ugualmente espressive di doveri
inderogabili di solidarietà, ed in particolare alla luce dell’art. 2 Cost., nel quale, dopo
aver riconosciuto i diritti inviolabili della persona, viene espresso a livello generale un
dovere inderogabile “di solidarietà economica, politica e sociale”. Come ha affermato la
Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, cit., p. 52.
G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 50.
74
Ivi, p.102.
72
73
Corte Costituzionale75, tale norma pone in rilevo il criterio solidaristico del principio di
capacità contributiva, dove il dovere tributario diviene espressione dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale al cui adempimento è volta la
suddetta previsione costituzionale, emergendone così una disposizione finalizzata alla
ripartizione dell’onere dei servizi pubblici fra tutti i contribuenti.
Il carattere doveroso del concorso, che si sostanzia nell’espressione “sono
tenuti”, si evince nella necessaria sussistenza di una pluralità di prestazioni tributarie
dovute da “tutti” i consociati; prestazioni che non trovano tuttavia fondamento nel
potere di imperio dello Stato, ma bensì in un dovere generale di contribuire all’interesse
comune. Infatti l’art. 53 Cost. testimonia, in maniera definitiva, che il tributo non è più
solo “espressione della sovranità” e non basta più “l’esistenza di un pubblico potere” a
giustificarlo: “il potere tributario è funzionalizzato al finanziamento della spesa
pubblica, in correlazione con la capacità contributiva”76. Attraverso l’espresso
riferimento alla generalità del concorso viene pertanto riaffermato il principio di
uguaglianza quale divieto di derivazione del dovere di solidarietà tributaria dalla
semplice appartenenza a determinate categorie o classi, ma diversamente, “il canone
dell’uguaglianza giuridica in campo tributario”, ribadisce Gaboardi, è da specificare nel
senso che “l’uguaglianza sia rapportabile alla capacità contributiva di ciascuno”. Tale
rapporto, afferma l’autore, “è sostenuto da altre norme Costituzionali”, in particolar
modo, dall’art. 4 Cost. in cui vi sono “le premesse alla capacità contributiva e
costituzionalizza, in un certo senso, la distinzione fra reddito e reddito ai fini fiscali” ed
inoltre dall’art. 31 Cost. in cui vi è una “legittimazione alle detrazioni fiscali per carichi
famigliari e le agevolazioni alle famiglie numerose”77.
Tale lettura dell’art. 53 Cost., come espressione del principio di uguaglianza,
rappresenta il punto di partenza condiviso dalla dottrina tributaria78, da cui tuttavia si
diramano due opposte visioni che divergono principalmente nella valorizzazione della
Sentenze n.212 del 1986 e n.51 del 1992.
G. Marongiu, A. Marcheselli, Lezioni di diritto tributario, Giappichelli, 2009, p. 12.
77
F. Gaboardi , Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69.
78
Si ritiene tuttavia opportuno sottolineare come, anche tale punto di partenza, non sia privo di
visioni divergenti che riflettono sostanzialmente le diverse prese di posizione in merito al concetto di
capacità contributiva. Da un lato i sostenitori dell’approccio “relativo”, considerando il principio di
capacità contributiva privo di una valenza autonoma, di fatto lo assorbono e annullano all’interno del
principio di uguaglianza; dall’altro la dottrina appartenente all’indirizzo “assoluto”, rifiutandosi di ridurre
il principio di capacità contributiva a mera espressione di un principio di razionalità e coerenza ed
attribuendo ad esso un proprio significato, si limita a considerare il principio di uguaglianza come
presupposto dello stesso principio di capacità contributiva.
75
76
funzione della capacità quale limite “assoluto”, o al contrario “relativo” alla legittimità
costituzionale delle norme tributarie, e quindi nella diversa discrezionalità concessa al
legislatore nella scelta dei criteri di riparto. Infatti, nell’individuare gli indici di capacità
contributiva espressivi di “potenzialità economica” - corrispondenti a fatti
economicamente rilevanti - i due orientamenti giungono a riconoscere limiti diversi al
potere legislativo attraverso l’art. 53 Cost.
I sostenitori dell’indirizzo “assoluto” affermano la necessità che i presupposti dei
tributi si sostanzino in componenti patrimoniali di cui i soggetti passivi possano
disporre; mentre gli assertori dell’approccio “relativo” ritengono che “l’indice prescelto
può anche non essere misurato in termini di scambiabilità sul mercato, purché esso sia
comunque equo, coerente e ragionevole”79. Di conseguenza, secondo l’indirizzo
svalutativo80, che rappresenta una corrente minoritaria, la capacità contributiva è intesa
come vincolo relativo, ossia mera espressione di “un’esigenza di congruità
funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”81. L’art.
53, primo comma, Cost., secondo Fedele, “non esprimerebbe dunque un valore da
tutelare in via assoluta”, ma piuttosto “una funzione” consistente nella “razionale
ripartizione fra i consociati dei carichi pubblici”82. Il legislatore, in tal modo, potrà
optare per qualsiasi indice valutabile economicamente, indipendentemente dalla
consistenza patrimoniale dei “fatti indice” che possono rivelarsi anche “capacitazioni”
(nel linguaggio di Amartya Sen) “socialmente rilevanti” a condizione che siano
”espressivi, in termini di vantaggio, di una capacità differenziata economicamente
S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib.,
2004, pp. 823 e ss.
80
Tale indirizzo risale a A.D. Giannini, I rapporti tributari, in Commentario sistematico alla
Costituzione italiana (diretto da P. Calamandrei e A. Levi.), Firenze, 1950, I, p. 281. L’autore, sostenendo
che il legislatore, nella scelta dei presupposti di imposta, goda di ampia discrezionalità, afferma che lo
stesso legislatore possa individuare quali criteri di riparto “prevalentemente”, ma non necessariamente,
fatti economicamente rilevanti. Questi, pur apparendo “meglio indicati a costituire il fondamento
dell’imposizione”, secondo l’autore non devono, tuttavia, essere obbligatoriamente scelti. Nella dottrina
italiana, la tesi della capacità contributiva come limite relativo per il legislatore è stata sviluppata, in
particolare, da A. Berliri, G. Ingrosso, A. Fedele, F. Gallo, S.F. Cociani.
81
Così A. Fedele., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana,
cit., p. 21, l’autore sottolinea inoltre come la considerazione, in termini relativi, del principio di
capacità contributiva non determini tuttavia lo svuotamento dell’art. 53 Cost. di ogni autonomo
significato, riducendolo a mera applicazione dell’art. 3, primo comma, Cost. La diversità viene
individuata infatti proprio nella funzione fiscale di riparto dei carichi pubblici, elemento caratterizzante
lo stesso principio di capacità contributiva e alla cui attuazione “razionale” deve essere orientata la
scelta dei criteri per determinare la partecipazione alle pubbliche spese.
82
In questo senso, Id, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 30.
79
valutabile”83. Più specificatamente, sottolinea Cociani, l’indice prescelto “può essere
fondato sul ruolo del singolo all’interno della collettività medesima”, poiché “in assetti
sociali ed economici complessi, la posizione dell’individuo dipende non tanto dai suoi
diritti proprietari ma, almeno in buona parte, (anche) dal ruolo che egli riveste
all’interno della società”. L’autore prosegue ribadendo che per questa ragione “i criteri
di riparto ben possono tener conto sia di tali strutture intermedie, sia del ruolo che il
contribuente svolge all’interno della società e delle organizzazioni intermedie” purché
“l’indicatore prescelto risulti rispettoso nel principio di uguaglianza contributiva - che a
sua volta - trova consacrazione, anzitutto, nell’art. 3 Cost.”84
Franco Gallo, sostenitore della tesi svalutativa, giustifica la sua opinione
facendosi forte di un’interpretazione letterale dell’art. 53 Cost., il quale, non facendo
specifici riferimenti a “singole manifestazioni tipizzate di capacità contributiva (reddito,
patrimonio, consumo, eccetera)”, “presuppone nel riferimento al sistema tributario, una
gamma indeterminata di possibili tributi e pertanto di indici di capacità contributiva”85.
La discrezionalità del legislatore assume quindi un ruolo preminente nell’individuazione
di quelle posizioni differenziate dei singoli contribuenti idonee ad diventare presupposti
impositivi dei tributi: “se alla razionale attuazione della funzione di riparto si deve avere
riguardo, i criteri per determinare, nell’an e nel quantum, la partecipazione di ciascun
consociato alle pubbliche spese si identificano necessariamente con facoltà di scelta
nella soddisfazione dei propri bisogni ed interessi, usufruendo direttamente delle utilità
fornite da beni, ovvero più frequentemente, tramite comportamenti di altri soggetti. La
misura, in denaro, di tali facoltà esprime diversificate posizioni di vantaggio nel
contesto sociale, che giustificano la diversa partecipazione di ciascuno ai carichi
pubblici”86.
Gli assertori dell’approccio minoritario evidenziano, inoltre, come, solo una
nozione di capacità contributiva quale limite relativo, legittimi norme tributarie
finalizzate alla soddisfazione di particolari esigenze tutelate dall’ordinamento attraverso
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 86-87. Si riporta la
“dura” critica che G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 222, muove a Gallo
sull’utilizzo del sillogismo “capacitazioni” come fatti indice alludendo al carattere vago della parola tale
da non sapere se “si voglia alludere a qualità della persona come la fama”[…]”l’età, la bellezza”
84
S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib.,
2004, pp. 823 e ss.
85
A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., p.
21.
86
Ibidem
83
l’incentivazione o disincentivazione di determinati comportamenti (è il caso, ad
esempio, dei c.d. tributi extrafiscali87), ovvero attraverso la previsione di esenzioni o
agevolazioni fiscali che comportano l’esclusione o la riduzione del concorso in
dipendenza di situazioni non necessariamente collegate alla capacità contributiva88.
“Significa”, afferma Falsitta (Vittorio Emanuele e non Gaspare), “che il concetto di
capacità contributiva potrebbe tollerare la costituzionalità dell’imposizione anche di
fatti economici complessi per i quali la manifestazione di ricchezza tradizionale è meno
rilevante delle esternalità negative che produce”. In sostanza si ha un prevalere
“dell’esigenza solidaristica del tributo” rispetto “all’effettiva ricchezza imponibile” e
dunque, prosegue il noto tributarista, “devono prevalere gli artt. 2 e 3 Cost, piuttosto che
l’art. 53”89. Una tale lettura dell’art. 53 Cost. comporterebbe, quindi, a parere di tali
autori, che il principio di capacità contributiva non risulti “necessariamente violato da
quelle norme che delimitano o estendono l’ambito di applicazione di determinati tributi
individuando gli indici di potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori
rispetto alla valutazione della mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi”90.
G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, in Jus, 1957, pp. 35-36, contrariamente a Gallo, a
proposito dei tributi extrafiscali “sottolinea che la “specifica funzione di garanzia del principio di
attitudine alla contribuzione” è non solo compatibile con gli eventuali obiettivi extrafiscali dei tributi, “ma
addirittura necessario perché, se il presupposto del tributo extrafiscale non fosse una concreta
manifestazione di ricchezza, verrebbe meno lo stesso oggetto che si vuole diversamente distribuire,
perché [...] tale tributo scisso dalla realtà economica diverrebbe uno strumento inutilmente vessatorio [...].
La capacità contributiva [...] costituisce per il suo stesso contenuto una condizione il cui rispetto è
indispensabile perché ogni tributo, anche quello politicamente destinato ad attuare fini sociali, possa
giudicarsi costituzionalmente legittimo”.
88
F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25, rileva che “questi tipi di prelievo non sono
estranei né agli ordinamenti tributari dell’area occidentale né a quello italiano”. Infatti, sostiene, che “già
da tempo esistono tributi che hanno come presupposto beni, situazioni e attività che esprimono in termini
di capacità contributiva situazioni di vantaggio economicamente valutabili, senza necessariamente
identificarsi con il reddito o il patrimonio o il consumo e cioè con entità che pongono il contribuente in
condizione di versare la somma dovuta a titolo di concorso spese”. A ragione dimostrativa, l’autore,
elenca una serie di esempi, quali: “i tributi ambientali in senso stretto, come quelli gravano su chi utilizza
beni ambientali scarsi o emette gas inquinanti deteriorando l’ambiente, e cioè colpiscono entità non
reddituali, non patrimoniali, prive comunque di un diretto valore patrimoniale e insuscettibili di essere
scambiate sul mercato contro denaro”; le imposte sul valore aggiunto economico come in Italia l’IRAP
che “colpiscono la capacità organizzativa dell’operatore o del produttore o, comunque, altre entità non
omologabili interamente né al reddito né al patrimonio”. Così come “le accise che gravano sulla
produzione organizzata di beni”, in cui il fatto dell’immissione al consumo dei beni stessi - assunto dal
legislatore quale presupposto legittimante l’imposizione - “non contiene in sé la disponibilità della
provvista per pagare il tributo”. Appartengono, inoltre, a questo elenco anche “tutti quei tributi che hanno
come presupposto indici di capacità contributiva che non garantiscono la disponibilità di un saldo
patrimoniale attivo sufficiente ad adempiere all’obbligazione tributaria” come i prelievi sui redditi
derivanti dalla destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio di impresa o i “prelievi sui c.d. fringe
benefits, costituiti dall’uso di un’abitazione o di un auto”.
89
V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, cit., p. 119.
90
A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 31.
87
La dottrina maggioritaria condivide invece la nozione “assoluta” di capacità
contributiva, interpretando l’art. 53 Cost. non solo come criterio di “concorso alle spese
pubbliche”, ma anche come limite all’imposizione tributaria: “criterio vincolante di
giustizia distributiva” nella individuazione degli indici di riparto dei carichi pubblici e
freno rispetto alla “discrezionalità del legislatore nella scelta dei presupposti
dell’imposta”91. Sebbene venga riconosciuto il valore del giudizio di coerenza e
razionalità della disciplina tributaria, è necessario che la contribuzione richiesta ai
singoli sia commisurata alla capacità contributiva intesa come capacità economica da
questi posseduta. Non esiste, infatti, per Gaspare Falsitta, uno dei principali espositori
della nozione maggioritaria, una distinzione fra capacità contributiva e capacità
economica, ed è proprio questa - una o l’altra è, per l’appunto, indifferente - “il metro
misuratore della uguaglianza tributaria”, ovvero “unico principio distributivo
rispondente alle necessità dello Stato di diritto “sociale”92. A sostegno di tale
interpretazione maggioritaria vengono addotte dalla dottrina diverse motivazioni tra le
quali il significato letterale e originario del termine “capacità contributiva” così come
risultante dai lavori preparatori alla Costituzione. Emerge, infatti, che la Corte propose
che fosse inserito nella Costituzione, in aggiunta al limite formale rappresentato dalla
riserva di legge, un limite sostanziale al potere impositivo. Ad avviso della Corte, il
riferimento alla “capacità contributiva” rappresentava una formula idonea a garantire la
fondamentale esigenza del contribuente di non essere gravato da un prelievo che
pregiudichi “la possibilità di vita della sua economia individuale” 93.
Pertanto nella ricerca ed individuazione degli indici di riparto, il legislatore è
obbligato ad assumere, “a fatto generatore di qualsivoglia contribuzione intenda
introdurre o inventare” soltanto fattori espressivi di capacità economica a pagare
l’imposta e, dunque, “fatti consistenti o in denaro o in ricchezze non monetarie (beni)
ma agevolmente trasformabili, dal dispositore, in denaro attraverso appropriati atti di
scambio sul mercato”94. “Non esiste dunque il solo limite generalissimo del divieto di
illogicità, incoerenza, di arbitrio”, scrive F. Moschetti, ma “ancora prima, esiste il limite
Appartengono a tale indirizzo: Giardina E., Manzoni I., Gaffuri G., Perrone L., Moschetti
F., Falsitta G., Marongiu G., Fantozzi A.
92
Si veda G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 73-74.
93
Le risposte al Questionario del Ministero per la Costituente fornite dalla Corte di
Cassazione sono reperibili in www.senato.it.
94
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 14.
91
del principio di capacità contributiva, cioè non un limite implicito, ovvio, interno ad
ogni norma, ma un limite esterno, di soggezione ad una norma superiore”95.
Nella qualificazione della capacità contributiva come forza economica si
possono individuare due presupposti assoluti: in primo luogo il fatto generatore
dell’imposta deve essere individuato in un “indice rivelatore di ricchezza ossia una
disponibilità di mezzi economici potenzialmente scambiabili sul mercato”96; in secondo
luogo la forza economica non dovrà essere solo reale, ma anche esprimere una “idoneità
soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di
contribuente”97. L’equa ripartizione, secondo tale dottrina, non potrà rapportarsi solo al
rispetto del principio di universalità della partecipazione al concorso e del principio di
uguaglianza; “negligere il principio di universalità”, ad opinione di Falsitta, creando
classi o singoli privilegiati con agevolazioni, attenuazioni, esclusioni ecc. ecc. “significa
colpire al cuore l’idea di giustizia fiscale” intesa “come distribuzione dei carichi” fra i
membri dello ”Stato-comunità”, e cioè fra i “possessori dello specifico indice di riparto
eretto a presupposto di ogni specifico tributo dalla legge” 98. Dunque, “se è vero che
non può parlarsi di attitudine alla contribuzione se non in presenza e nei limiti dei
mezzi economici idonei a fronteggiare il prelievo fiscale, ne discende ovviamente che
a presupposto di tributo possano essere assunti solo fatti o situazioni di fatto che di
capacità economica siano appunto indizio o manifestazione”99. Chiarito il fatto che è il
legislatore, secondo questo ordine di idee, delegato ad imputare l’indice di forza
economica rinvenuto e modellato al soggetto che ne è possessore, Falsitta ribadisce che
“è solo la presenza di questo elemento ( il possesso in senso tributario e non meramente
civilistico) a tramutare l’indice di ricchezza colpito, su cui si modella il riparto, e che
nella sua nuda e cruda oggettività è fatto neutrale, in indice di idoneità soggettiva alla
contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente e incluso
nella platea dei contribuenti di una stessa imposta”. Infatti, divergendo dalla visione
minoritaria, gli autori della tesi assoluta ritengono sia sbagliato credere che si possa
chiamare alla contribuzione un qualsiasi soggetto in forza di un indice di forza
95
p. 9.
Così F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit.,
G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, cit., p. 889 e ss.
Id, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., p. 152.
98
Id, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15.
99
I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,
cit., p. 123
96
97
economica reale e oggettivo ma che è scompagnato dal “legame soggettivo del
possesso” 100.
3. LA FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO
DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA NEL BILANCIAMENTO TRA
GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E “INTERESSE FISCALE”
Il punto di partenza per comprendere la diversità di vedute fra le due dicotomie è
rappresentato dal collegamento tra art. 53 e art. 2 Cost., collegamento riconosciuto da
entrambi gli orientamenti dottrinali, ma da taluni valorizzato solamente in una
prospettiva unilaterale. L’art. 2 Cost., infatti, richiama “la similitudine della medaglia
poiché, “al pari della medaglia, anch’esso ha il suo retto e il suo verso”: inizia
riconoscendo e garantendo “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e conclude proclamando” i doveri
inderogabili di solidarietà”101. Pertanto, una lettura, in tal senso orientata, dell’art. 53
Cost., dovrebbe presupporre che, da un lato, si ha una funzione solidaristica, laddove
ogni soggetto viene chiamato a concorrere alla spesa pubblica necessaria per l’esistenza
e lo sviluppo della comunità, dall’altro una garantistica, laddove viene imposto tale
dovere di concorso solamente in capo a chi abbia una effettiva capacità di
contribuzione, nella misura e nei limiti della stessa. Si scorge, quindi, nella capacità
contributiva, “un diritto inviolabile” […] ”che la Costituzione ha eretto nei confronti
del legislatore ordinario a salvaguardia della “giusta imposta” per proteggerlo da abusi e
tirannie” 102.
Non esiste, secondo tali autori e Falsitta in particolare, una preminenza
dell’“interesse fiscale” che possa portare al finanziamento dei diritti sociali sia per il
fatto che una cospicua parte del gettito fiscale viene “fagocitata dalla voragine di spese
improduttive che affliggono il Paese”, e di conseguenza che “nulla hanno a che spartire
coi diritti sociali”, sia perché si ritiene insensato sacrificare l’idea della “giustizia nella
ripartizione fra i cittadini dei relativi costi” per il finanziamento dei “diritti sociali”103.
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15.
Ivi, p. 83.
102
Ivi, p. 75.
103
Ivi., pp. XX-XXI.
100
101
Infatti, adottando la visione di giustizia di Garin104, dove “giustizia significa il
trattamento proporzionale alla condizione di ciascuno”, si stabilisce che, nella
distribuzione dei ”pesi fiscali”, il principio di proporzionalità alla condizione economica
di ciascuno “non si può e non si deve calpestare”. Viene pertanto affermata la necessità
che il legislatore operi un bilanciamento tra i due interessi, trovando soluzioni
che non sacrifichino l’uno (la giustizia tributaria) per tutelare l’altro (l’interesse fiscale),
senza prevalenze e con reciproca necessità di contemperamento.
Al contrario, gli assertori dell’indirizzo “svalutativo” propendono per una
lettura, affetta da “strabismo statocentrico”105 secondo Falsitta, sbilanciata verso i
doveri, in nome di un preminente interesse della comunità alla “trasformazione sociale”,
il c.d. “interesse fiscale”106, che consentirebbe la compressione di interessi privati,
(comunque tutelati a livello costituzionale). Attraverso l’affermazione, sostenuta da
Gallo, dell’esigenza di perseguire una “giustizia sociale” anche a scapito della “giustizia
fiscale”107, viene negata la qualificazione, quale diritto fondamentale, del principio di
giustizia nella ripartizione delle spese pubbliche. Infatti, egli è consapevole del fatto che
“il dovere contributivo ben si inquadra tra i doveri inderogabili di solidarietà di cui
all’art. 2 della Costituzione”, ma, tuttavia, ritiene che “ciò non significa che si debba
instaurare, nel contempo, una relazione necessaria e funzionale tra esso e i diritti
individuali e inviolabili” 108. La correlazione fra prelievo tributario e spese pubbliche e
sociali, istituita dall’art. 53 Cost, fa emergere in tal modo la giustizia sociale come “il
valore che guida la politica fiscale nell’ottica solidaristica ed egualitaria richiamata
dagli artt. 2 e 3 Cost.”, in cui i tributi, “se sono inseriti in un sistema coerente e
ragionevole e perciò rispondono al principio di uguaglianza sostanziale, concorrono a
integrare un giusto ordine sociale”. Mentre, continua Gallo, sono “i fini economici,
politici e sociali perseguiti in sede di riparto a soddisfare gli obiettivi di solidarietà e
redistributivi, a deviare la produzione e il consumo dagli indirizzi impressi dal mercato
e a calibrare”, di conseguenza, “i diritti proprietari”(qui intesi come dati convenzionali,
essendo essi in larga misura “il prodotto anche di politiche fiscali da valutare secondo lo
E. Garin, La giustizia, Rizzoli, Napoli, 1968, p. 51.
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 83.
106
P. Boria, L’interesse fiscale, Giappichelli, Torino, 2002, p. 116.
107
F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione europea, cit., p.
104
105
12.
F. Gallo, Ordinamento comunitario e principi costituzionali tributari, in Rass. trib., 2006, II,
pp. 407 e ss.
108
standard costituzionale della giustizia sociale distributiva”), “potenziandoli o
intaccandoli”109. Ed è per questi motivi che la capacità contributiva, di cui all’art. 53
Cost., comma 1, si risolve in un “criterio distributivo dei carichi pubblici fra i
consociati” che ben si presta a realizzare la giustizia distributiva, nell’accezione della
visione minoritaria, e cioè ad attuare politiche perequative ubbidendo alle regole
dell’equità e della ragionevolezza. “Da ciò”, sottolinea Gallo, “non può non conseguire
l’esclusione della componente solidaristica quale elemento strutturale della capacità
contributiva stessa”, nel senso che, la capacità contributiva, in quanto mero criterio di
riparto, non può definirsi come “capacità economica solidaristica”110. La solidarietà,
così, pur restando fuori dalla nozione strutturale di capacità contributiva viene
valorizzata in quanto rileva ai fini estrinseci della qualificazione funzionale del dovere
contributivo. Intorno a questa concezione si denota una certa somiglianza con il
pensiero del costituente Vanoni, il quale afferma che “chi possiede può giustificare il
proprio possesso solamente se fa interamente il proprio dovere di solidarietà sociale
rispetto al corpo sociale nel quale opera.” Ed inoltre sottolinea che “ l’imposta è proprio
l’espressione migliore di questa solidarietà sociale perché è espressione regolata dalla
legge, è l’espressione in un sistema bene ordinato di uno stato che funziona; è in
sostanza la stessa giustizia sociale che opera e agisce attraverso norme che devono dare
a tutti il limite di quello che è lecito e di quello che non è lecito fare, nell’ambito
dell’azione economica e dell’azione sociale” 111.
Tale visione dell’imposta al servizio della giustizia sociale è stata criticata
osservando come lo stesso concetto di solidarietà sia “sintesi di socialità e libertà”112:
l’espressione “giustizia sociale” altro non significherebbe se non riconoscimento e,
contemporaneamente, garanzia, da parte dello Stato, dei “diritti sociali (lavoro,
istruzione, salute, previdenza, ecc.)”. Il cui finanziamento, osserva Falsitta, può
avvenire solo con metodi “conformi alla più perfetta giustizia distributiva”, in quanto
“la spesa pubblica va sempre ripartita in modo rigorosamente perequato quale che sia la
sua destinazione, sia quella occorrente per finanziare e garantire i diritti sociali, sia che
109
2014.
F. Gallo, Ancora in tema di uguaglianza, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2013.
E. Vanoni, La riforma tributaria, in Quaderni Valtellinesi, 1951/2.
112
F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p.
110
111
20.
F. Gallo, Ripensare il sistema fiscale in termini di maggiore equità distributiva, in Pol. soc.,
serva a finanziare gli istituti di sicurezza sociale o del benessere sociale, sia che serva a
finanziare gli strumenti di sicurezza tout court o del malessere sociale (polizia,
carabinieri, vigili del fuoco, ecc.)”113. Da un lato, quindi, i singoli hanno una specifica
responsabilità in termini di utilità sociale, dall’altro, tuttavia, anche lo Stato deve
rispettare e tutelare le capacità dei singoli proprio in virtù del fatto che tale capacità ha
non solo valenza individuale, ma anche collettiva poiché proprio “il fine solidaristico
delle attitudini individuali” è tale da meritare “un interesse pubblico”114. Di parere
opposto, quindi, ai sostenitori della corrente relativa, i quali, nel confronto tra ragioni di
efficienza e di massimizzazione degli obiettivi generali della collettività e ragioni di
equità e tutela dei valori individuali, il bilanciamento propende verso “gli interessi della
collettività piuttosto che in direzione della tutela individuale”115.
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 80, nota 62, osserva inoltre che
“l’equazione spesa pubblica come sinonimo di giustizia sociale sia una lettura inaccettabile se non
azzardata dell’art. 53 Cost. in una fase storica come l’attuale contrassegnata da forti critiche contro la
spesa pubblica dissipatrice di risorse ad esclusivo vantaggio di élites”. A sostegno della sua tesi, l’autore
rinvia al volume di S. Rizzo, G.A Stella, La casta, Milano, Rizzoli, in cui viene tracciato “un quadro
impietoso dei vizi, anomalie, sprechi e malefatte della classe politica”, affermando così che in tale clima
ӏ difficile continuare ad insistere nella favola della democrazia necessariamente costosa in cui ogni soldo
di spesa pubblica è speso per la libertà e per i diritti sociali.”
114
F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 20,
115
In tal senso P. Boria, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva
nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di L.
Perrone. e C. Berliri), Napoli, 2006.
113
CAPITOLO III
IL RAPPORTO FRA DIRITTO DI PROPRIETA’ E DIRITTI
SOCIALI:
IL MINIMO VITALE, IL LIMITE MASSIMO ED IL CANONE
DELLA PROGRESSIVITA’
SOMMARIO: 1. Il minimo vitale ed il limite massimo – 2. Il canone della progressività
1. IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO
La tutela del c.d. minimo vitale riguarda quelle manifestazioni economiche minime non
indicative di capacità contributiva, ossia espressive di una capacità economica non
idonea a concorrere alle spese pubbliche perché funzionale alla copertura dei bisogni
essenziali116. Anche se i sostenitori delle due diverse concezioni di capacità contributiva
concordano sull’esistenza di una tutela costituzionale del “minimo vitale” (per quanto
G. Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di
capacità contributiva nella Costituzione, cit., pp. 97 e ss. La derivazione, dal principio di capacità
contributiva, dell’esclusione da imposizione del minimo vitale è confermata dagli stessi lavori preparatori
dell’art. 53 Cost. L’on.le Scoca, infatti, dopo l’accettazione dell’emendamento dell’on.le Castelli che
prevedeva l’inserimento del concetto di capacità contributiva, dichiarò superflua la sua proposta di
articolo aggiuntivo contenente l’affermazione dell’esonero del minimo vitale in quanto la formula della
subordinazione del dovere fiscale al possesso della capacità contributiva racchiudeva in sé la tutela del
minimo vitale. Lo stesso Presidente della Commissione per la Costituzione Ruini, affermò che lo stesso
concetto di capacità contributiva “implica le esenzioni per chi non ha capacità contributiva; ed in tali
condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere”. Seguendo questa logica
vi è un riconoscimento, anche, di un limite massimo: il concorso alle spese pubbliche, dovendo avvenire
“in ragione” della capacità contributiva, non può esaurire la capacità stessa. Laddove venisse
imposto un prelievo superiore alla capacità contributiva del soggetto, si colpirebbe in sostanza una
capacità contributiva inesistente, venendo meno la necessaria correlazione tra obbligo e capacità di
contribuzione. La stessa Corte costituzionale afferma che la capacità contributiva “condiziona la misura
massima del tributo nel senso che questo non può essere fissato ad un livello superiore alla capacità
dimostrata dall’atto o dal fatto economico ma non esclude, purché tale limite sia rispettato, che gli stessi
atti o fatti possano in tempi diversi dar luogo a prelievi tributari di diversa entità, secondo gli obiettivi di
politica fiscale di volta in volta perseguiti dal legislatore. È ovvio che tali variazioni non possano e non
debbano essere arbitrarie, perché in tal caso verrebbe ad essere compromesso il principio di eguaglianza”
(Corte costituzionale, sentenza del 6 luglio 1966).
116
divergano dalla derivazione della tutela117), gli stessi, per il diverso bilanciamento tra
interesse fiscale e capacità contributiva (in merito alle interrelazioni tra diritti proprietari
e diritti sociali), hanno visioni diametralmente opposte riguardo al riconoscimento di
limiti superiori al prelievo derivanti dalle norme costituzionali che tutelano la libertà
economica e la proprietà (Art. 41 e Art. 42 Cost.).
La dottrina di minoranza, se da un lato riconosce la sussistenza di un limite
minimo di reddito da tutelare attraverso l’esenzione del minimo vitale, personale e
familiare, dall’altro nega fermamente l’esistenza di un limite massimo al potere
normativo di imposizione derivante da principi costituzionali inerenti a rapporti
economici. Tali autori ritengono che i redditi minimi siano privi di quei presupposti per
cui possa operare il dovere tributario, inteso come dovere inderogabile di solidarietà,
non essendo “logicamente possibile addossare i costi della solidarietà a quei soggetti
che ne devono essere beneficiati”118. Quanto all’ammontare del prelievo, è invece
affermata l’inesistenza di limiti costituzionali alla pressione fiscale rispetto al singolo
contribuente e ai tributi che lo colpiscono, in una prospettiva “svalutativa” della
funzione di garanzia dei diritti di proprietà e di libertà di iniziativa economica. “E’ il
pubblico che, almeno nel campo fiscale, deve prevalere sul privato”, sostiene Gallo,
poiché, qualora, venisse previsto un limite superiore e predeterminato alla pressione
fiscale, tale previsione si risolverebbe nel riconoscimento della prevalenza della
dimensione privata rispetto alla funzione tributaria, dimenticando che “la scelta dei
presupposti è frutto di valutazioni politiche”, effettuate “ai fini dell’equo riparto e non la
mera omologazione legislativa dei modelli e delle regole private del mercato”
119
.A
sostegno di ciò Bizioli osserva che anche nell’orientamento della Corte costituzionale
non si rinvengono conferme di una diretta influenza delle garanzie costituzionali
della proprietà e dell’iniziativa economica sulla definizione dei limiti del carico fiscale:
la legittimità costituzionale dei tributi, pertanto, non potrà che essere valutata solo
Se da una parte la dottrina maggioritaria ritiene che la tutela costituzionale del minimo vitale
risieda nel concetto di capacità contributiva, ex art 53, quella minoritaria ,invece, ritiene che l’esenzione
del minimo vitale risieda in altri principi costituzionali invalicabili, quale è l’art 3 Cost. ad esempio. E’
doveroso notare che anche la Corte Costituzionale accoglie per certi versi la tesi minoritaria, nella
sentenza n.97/1968 infatti si tutela il minimo vitale con l’art 3 Cost.: ”l’esenzione dei redditi minimi
costituisce attuazione del fondamentale principio di uguaglianza sostanziale al quale lo Stato deve
ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale”
118
L. Antonini, La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir.
trib., 1999, I, p. 867.
119
F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25.
117
chiamando in causa gli artt. 3, 23 e 53 Cost. “Il dovere di solidarietà tributaria”,
pertanto, richiede una “unitaria considerazione” solo ed esclusivamente dei “diritti
inviolabili della persona”, fra i quali non rientrano quelli economici; realizzando così,
attraverso la Carta costituzionale, “il definitivo superamento delle tradizioni
giuridiche liberali ottocentesche che concepivano i diritti economici, e il diritto di
proprietà in particolare, quali limite naturale al dovere tributario”120.
Di conseguenza, i diritti proprietari, non vengono considerati come dotati di una
tutela assoluta, né come un “attributo necessario e indissolubile della persona” poiché è
“la legge che li riconosce, li qualifica e ne determina i contenuti e la portata ai fini
sociali, oltre che di interesse generale e di pubblica utilità: avendo come fine quello di
garantire una ragionevole tutela di tali diritti e, nel contempo, rendere governabile e
compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale giusto” 121. Questa idea è ben
resa da L. Mengoni, quando afferma, in particolare, che “la funzione sociale deve
essere pensata insieme con il concetto di proprietà come elemento qualificante della
posizione di proprietario. […] Nella visuale del pensiero funzionale il rapporto tra
libertà della proprietà e funzione sociale si presenta non come un’antinomia, che può
risolversi in una compressione della libertà fino ad annullarla, ma come rapporto tra due
funzioni concorrenti all’interno di un medesimo ambito operazionale: la funzione di
partecipazione del singolo al sistema delle decisioni economiche e la funzione di
omogeneizzazione dell’interesse individuale con l’interesse generale. Scopo della
riserva di legge statuita dall’art. 42 è la composizione delle due funzioni in una organica
unità istituzionale operante quale strumento di integrazione sociale». In questo contesto,
prosegue l’autore, “l’art. 42 garantisce la proprietà privata non più come diritto
fondamentale della persona delimitante una sfera privata libera da intromissioni del
potere politico, bensì come diritto di partecipazione alla organizzazione e allo sviluppo
della vita economica. […] Tale articolo non garantisce la proprietà per sé sola, come
spazio riservato alla libertà individuale fine a se stessa, bensì in funzione della libertà
politica, come un elemento dell’emancipazione politica”122.
G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento
costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, p. 98,
121
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11.
122
L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv., 1988, p. 455.
120
La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana conferma e presuppone
questa interpretazione poiché da una parte, infatti, non dubita che vi sia una garanzia
costituzionale di esistenza del diritto di proprietà privata quale diritto soggettivo,
dall’altra, però, accetta una compressione del contenuto di tale diritto in relazione al
ragionevole bilanciamento compiuto dal legislatore tra il diritto medesimo e gli interessi
ad esso contrapposti123. “Nel disegno costituzionale italiano”, sostiene Gallo, “i diritti
proprietari” possono, perciò, essere “compressi” in via legislativa sia dal “limite interno
della funzione sociale che da quello esterno dell’interesse generale”. Tuttavia, il noto
giurista, ravvisa che nei casi “di espropriazione previo indennizzo di cui all’art. 42
Cost.”, di limitazione senza indennizzo della proprietà di intere categorie di “beni
privati di interesse pubblico”124 ed, infine, in quello di espropriazione di imprese di cui
al successivo art. 43 Cost., la “compressione” è disciplinata da questi stessi articoli
”affinché si raggiunga lo scopo, bilanciato e costituzionalmente garantito, di interesse
generale e di pubblica utilità”125. Anche qualora vi fossero tributi esercitanti una
pressione fiscale tale da comportare la necessità di liquidare in tutto o in parte il
patrimonio del contribuente, questi non potrebbero essere dichiarati incostituzionali ai
sensi dell’art. 42 Cost. Tuttavia, osserva Fedele, “ciò non toglie, naturalmente, che un
Esprime questa impostazione la sentenza n. 252 del 1983, laddove afferma che l’art. 42,
secondo comma, Cost. “non ha, come pure si è sostenuto da una parte della dottrina, trasformato la
proprietà privata in una funzione pubblica. Ciò inequivocabilmente risulta dal suo preciso tenore: “La
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento
e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. La Costituzione
dunque ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha
affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei
necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale.
Indubbiamente detta funzione, con il solenne riconoscimento avuto dalla Carta fondamentale, non può più
essere considerata, come per il passato, quale mera sintesi dei limiti già esistenti nell’ordinamento
positivo in base a singole disposizioni; essa rappresenta, invece, l’indirizzo generale a cui dovrà ispirarsi
la futura legislazione”.
124
A questa categoria di beni fa riferimento la Corte costituzionale nelle sentenze n. 20 e 62 del
1967 e n. 55 del 1968 per giustificare, in relazione alla clausola della funzione sociale contenuta nell’art.
42 Cost., la limitazione del diritto proprietario senza obbligo di indennizzo. In particolare, la sent. n. 55 è
chiara nell’affermare che “senza dubbio […] secondo i concetti, sempre più progrediti, di solidarietà
sociale resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui
beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto, nel suo
contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale
regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può
imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a
titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e
di disposizione”. Solo con riguardo alle imposizioni a titolo particolare la Corte esclude che esse possano
avvenire senza indennizzo. Afferma, infatti, al riguardo che dette imposizioni “non possono mai eccedere,
senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre
ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico”.
125
F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss.
123
tributo palesemente ordinato a costringere i contribuenti ad alienare determinati beni per
l’eccessivo gravame fiscale connesso alla loro disponibilità possa risultare iniquo e,
al limite della totale irrazionalità dell’intervento, dichiarato incostituzionale”126. A
parere di tale dottrina, la netta separazione tra garanzie proprietarie e tributi consente, in
tal modo, di superare l’errore dell’opposto orientamento, insito nell’affermazione per
cui il tributo non deve risolversi in espropriazione senza indennizzo. Gli artt. 53 e 42,
terzo comma, Cost., disciplinano infatti istituti separati e la distinzione fra tributo ed
espropriazione si presenta netta sia dal punto di vista funzionale che strutturale, fermo
restando che, sottolinea Fedele nell’affermazione “il tributo non deve risolversi in
espropriazione senza indennizzo” si riscontra un significato eccedente l’ovvia
considerazione “dell'irrazionalità di un sistema fiscale che porta i contribuenti alla
rovina economica”127. Ciò detto, nel caso, invece, dell’imposizione fiscale, la
“compressione” che deriva dal tributo avviene per un diverso scopo: quello di attuare
l’art. 53 Cost, ossia di realizzare “il riparto solidaristico dei carichi pubblici a titolo di
concorso alle spese pubbliche e sociali”128, avendo come limite invalicabile solo il
rispetto del principio di uguaglianza quale base e fondamento del principio di capacità
contributiva. Da questo punto di vista, si ritiene, che “in via astratta e generale il riparto
dei carichi fiscali risponde al principio di giustizia distributiva, senza che la garanzia
costituzionale della proprietà di cui all’art. 42 Cost. possa esplicare, in termini di limiti
intrinseci, alcuna diretta influenza sull’individuazione dei parametri di legittimità delle
scelte legislative effettuate ex artt. 53 e 3 Cost”129.
La dottrina di maggioranza, quindi, si pone su una posizione nettamente opposta,
difatti, secondo i sostenitori di tale orientamento, il prelievo tributario non può che
essere illegittimo laddove superi un livello massimo tale da pregiudicare la permanenza
di un’economia privata. L’asserita non sussistenza di un contrasto tra funzione
garantistica e solidaristica dell’art. 53 Cost. (solidarietà intesa come “ponte tra il privato
e il pubblico”130) e la conseguente considerazione della dimensione privata quale
presupposto per la realizzazione di quella sociale, comportano la necessità del
A. Fedele, Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella
costituzione italiana, cit., p. 984;Id., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 27.
127
Id, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, p. 77.
128
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 74-75.
129
F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss.
130
F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di),
Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 51.
126
mantenimento e della garanzia dell’autonomia privata. In quanto questa, l’autonomia
privata, si considera esplicante anche di effetti sociali: senza ricchezza privata,
diversamente distribuita tra i cittadini contribuenti, non ha senso ragionare di prelievo
fiscale. Manzoni, ribadendo la concezione di capacità contributiva come capacità
economica (vale a dire come attitudine a contribuire manifestata da fatti espressivi di
forza economica), rileva che “l'imposizione fiscale, comportando una sottrazione di
ricchezza al contribuente, ovviamente la presuppone”131. Evidenziando il problema del
rispetto dei diritti economici, costituzionalmente garantiti, Manzoni sottolinea che, in
assenza di disposizioni costituzionali a garanzia dei singoli (in specie, gli artt. 41 e 42
Cost.), lo Stato potrebbe incidere in modo indiscriminato sulla proprietà e sull'iniziativa
economica privata, allo scopo di realizzare le più disparate finalità sociali. Le
disposizioni costituzionali che proteggono i diritti economici dei singoli esprimono
invece “quella certezza dei limiti al potere di pubblico intervento, senza della quale la
stessa affermazione del principio dello “Stato di diritto” verrebbe svuotata di ogni
concreto contenuto”132. Analogamente Moschetti, ritiene che le imposte “debbono
rispettare non solo i limiti spettanti specificamente alla potestà fiscale (rispetto della
capacità contributiva che significa conformità alla capacità economica e all'interesse
collettivo ricavabile dai principi costituzionali), ma anche quelli riguardanti i campi
materiali da esse indirettamente influenzati. In particolare debbono essere rispettati i
diritti fondamentali relativi alla libertà di iniziativa economica ed alla proprietà
privata”133. L'imposizione fiscale, pertanto, pur espressione del dovere inderogabile di
solidarietà, e delle esigenze “sociali” dell'ordinamento, deve quindi rispettare i diritti dei
singoli contribuenti: i doveri fiscali ed i diritti economici dei contribuenti devono essere
tra loro in equilibrio.
I sostenitori di questa corrente ritengono così che l'imposizione fiscale, intesa
come strumento coercitivo capace di sottrarre ricchezza ai singoli contribuenti per
ridistribuirla (o, più precisamente, per finanziare il complesso dei diritti garantiti ai
cittadini), presuppone un sistema economico che riconosce e tutela l'iniziativa
economica privata ed il diritto di proprietà. Affermare che l’economia privata deve
I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,
cit., pp. 67-68.
132
Ivi, p. 71.
133
F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 253.
131
essere tutelata da eccessi di imposizione tributaria, tuttavia, sottolinea Gaffuri, “non
significa individuare un primato della funzione garantista, bensì riconoscere l’esistenza
di una dialettica fra due opposte esigenze, da una lato, quelle della finanza pubblica e,
dall’altro quelle dell’economia privata”134. La finalità solidaristica dell’imposta non
potrà pertanto intaccare gli altri principi costituzionalmente garantiti e, in particolare,
non potrà alterare le “libertà economiche, di iniziativa economica e proprietà privata”135
tutelate dalla Costituzione: il prelievo fiscale dovrà essere articolato in modo tale da
rispettare anche l’iniziativa privata. L’affermazione della preminenza dei diritti sociali
porterebbe, infatti, alla cancellazione del diritto di giustizia tributaria realizzando
fenomeni di “tirannia fiscale (Griziotti)” o “imposizione espropriatrice (Micheli)”136. E’
per questo che il limite superiore all’imposizione fiscale viene individuato nella
proprietà privata, diritto certamente correlato con il dovere fiscale, ma che non può
essere legittimamente sacrificato in nome di esso.
Secondo tale dottrina l’invocazione dell’art. 53 Cost., quale strumento idoneo a
proibire prelievi sostanzialmente espropriativi, deriverebbe dal perseguimento nella
stessa Carta fondamentale di un costante bilanciamento tra la costruzione di uno Stato
sociale e la difesa del privato e della sua indipendenza economica, proprio in quanto
“strumentale alla realizzazione del concorso alle spese pubbliche”137. Sarebbe in
contrasto con il concetto di capacità contributiva, inteso come idoneità a contribuire ai
carichi pubblici, un prelievo tale da comportare una progressiva sottrazione dei beni del
contribuente, minacciando l’economia privata. Un'imposizione fiscale di questo tipo,
osserva Gaffuri, non sarebbe compatibile con il nostro ordinamento costituzionale, che
“garantisce la coesistenza di entrambi i sistemi, escludendo che l'economia dei privati
possa essere sacrificata (...) al fabbisogno dello Stato”138. Il prelievo fiscale, anche se
G. Gaffuri, Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto
tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34.
135
F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 46.
Tale tesi è stata accolta anche dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n.384/2007 si afferma che: ”il
legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla
pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà ”.
136
Così G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, conclude che “è’
certamente vero che senza imposta non esiste lo Stato e senza lo Stato non esiste il diritto di
proprietà”, tuttavia, prosegue l’autore, “tutto ciò non significa però che l’imposta serva a distruggere la
proprietà o debba essere prelevata a scapito della giustizia”.
137
In tal senso G. Gaffuri., Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a
cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34,
138
G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, cit., p. 95, che richiama soprattutto, al riguardo, gli
artt. 41 e 42 Cost., e la conseguente tutela dell'iniziativa economica privata e della proprietà privata.
134
non lede il contenuto sostanziale del diritto di proprietà, incide infatti sensibilmente
“sull'economia dei privati stessi”139. E' quindi indispensabile “salvaguardare
l'organizzazione e l'attività economiche private” da una pressione tributaria eccessiva ed
illimitata, “che può pregiudicarle e comprimerle”140. Ciò non significa che l'economia
privata goda di una particolare preferenza rispetto a quella pubblica, ma che tra i due
sistemi economici debba esistere un equilibrio capace di garantire la coesistenza di
entrambi. “Avendo di mira l'armonica coesione tra interesse privato al possesso ed al
godimento dei beni economici (...) e l'interesse pubblico a procacciare mezzi per il
soddisfacimento delle esigenze collettive (...), si dovrà dunque determinare, nell'ambito
dei fatti economici, il limite fra quelli cui si può imporre un peso tributario e quelli che
non lo tollerano”141. La sua ricerca e fissazione implica, invece, l'esercizio di un “potere
discrezionale per stabilire, di volta in volta, se la misura del tributo ecceda il limite di
equità, ovverossia non provochi sovvertimenti tali da pregiudicare l'esistenza
dell'economia privata o da impedirne la continuazione”142. Gaffuri sostiene così che
l’'indeterminatezza del limite massimo non è, comunque, di ostacolo per la Corte
costituzionale, che può servirsene per valutare il rispetto dell'art. 53 da parte del
legislatore ordinario. La facoltà della Corte “di stabilire se un determinato prelievo
fiscale sia tanto alto da contrastare con il rispetto del principio dell'economia privata,
non si differenzia infatti dal potere, alla stessa attribuito, di valutare l'eventuale disparità
di trattamento di situazione simili, alla luce del principio di uguaglianza”143.
È proprio riguardo al limite massimo che la dottrina di minoranza viene in
particolar modo criticata, infatti, nell’ammettere l’esistenza di un limite minimo, non
intaccabile dal prelievo, nega invece il limite massimo, cadendo in contraddizione.
Qualora si riconosca che il “minimo vitale” sia espressivo di capacità contributiva, non
si può non affermare che non manifesti capacità contributiva neanche “quella ricchezza,
G. Gaffuri ritiene che l'imposizione vada tenuta distinta dall'espropriazione, non risolvendosi
in un “trasferimento della proprietà medesima a vantaggio dell'Ente pubblico”. Il limite al prelievo non
potrebbe dunque essere rinvenuto nell'art. 42 Cost. che tutela il privato dagli indiscriminati prelievi
coattivi di ricchezza in favore della Pubblica amministrazione (G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione,
cit., pp. 97-99).
140
Ivi, p, 99.
141
Ivi, p. 103.
142
Ivi, p. 107.
143
Così Ivi, p. 119, peraltro avverte che l'utilizzo a tal fine del principio di capacità contributiva è
meno agevole di quello del principio di uguaglianza: quest'ultimo richiede infatti il semplice raffronto tra
due diverse discipline legislative, mentre invece il primo impone la ricerca del limite “in via assoluta,
attraverso l'interpretazione dello stesso concetto di capacità contributiva”.
139
parimenti minima in senso sostanziale, la cui tassazione costituirebbe ostacolo al pieno
sviluppo della persona umana”144. Ammettere l’esistenza di un limite inferiore comporta
quindi automaticamente il dover riconoscere la sussistenza di un limite superiore oltre il
quale si intaccherebbe quel reddito minimo che anche l’orientamento minoritario ritiene
costituzionalmente tutelato: “se la legge d’imposta dispone che il contribuente, che ha
prodotto il reddito di cento possa legittimamente subire, senza vulnus di principi
costituzionali, l’avocazione pro fisco dell’intero cento, ciò prova che una siffatta legge
non lascia indenne da prelievo minimo vitale”145. Concludendo l’esempio, Falsitta,
afferma che in tal modo “è contraddittorio ritenere esistente la tutela del minimo e
mancante quella del massimo”146. Falsitta, nota, quindi, che si debba riconoscere la
presenza di limiti superiori inviolabili, pur non essendo espressamente previsti, in virtù
del fatto che “anche i limiti inferiori mancano di espresso riconoscimento normativo
e pur non di meno sono stati ritenuti esistenti dalla unanime dottrina fin dall'entrata in
vigore dello Statuto Albertino”147. La dottrina di maggioranza, nell’affermare la
presenza di un doppio vincolo, evidenzia come ciò non significhi sostenere la
coincidenza tra i due limiti, che rimangono invece autonomi e fondati su parametri
costituzionali distinti148. Un’imposizione eccessiva non sarà solamente quella che
minaccia la tutela della proprietà, bensì dovrà essere considerato oltre il limite massimo
anche un prelievo che aggredisca l’altro fondamentale diritto, ovvero l’iniziativa
economica privata: “l’imposizione fiscale in ogni caso, anche per i redditi più elevati,
di regola non deve spingersi fino a un punto tale da compromettere in modo sostanziale
il risultato economico”149.
Viene pertanto respinta l’argomentazione dell’opposto orientamento secondo cui
l’insindacabilità del prelievo fiscale deriverebbe dall’impossibilità di classificare il
F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 44.
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 241.
146
Ibidem
147
Id., L’imposta confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89 e ss.
148
La stessa dottrina minoritaria, per non cadere nella contraddizione sopra esposta, sostiene che
l’ammissibilità del solo limite minimo derivi dal fatto che questo non debba essere dedotto dal principio
di capacità contributiva, ma piuttosto trovi “giustificazione in altri principi costituzionali invalicabili”:
”principio di uguaglianza sostanziale, nel diritto inviolabile alla libera e dignitosa sussistenza e a disporre
dei bisogni elementari della vita” (F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p.
106, nota 3).
149
G. Falsitta, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulla
incostituzionalità delle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, in Riv. dir.
trib., 2010, II, pp. 139 e ss.
144
145
diritto alle “libertà economiche”, pur costituzionalmente previsto e garantito, tra quelli
fondamentali e inviolabili. A tal riguardo Falsitta adduce a tre principali motivazioni, le
quali, partendo da una frase di Gallo (“i diritti proprietari, pur essendo
costituzionalmente garantiti e riconosciuti, non hanno tuttavia una tutela assoluta e
preistituzionale né sono un attributo necessario e indissolubile della persona”150)
intendono snobilitare la dottrina di minoranza. Innanzitutto Falsitta osserva che non è
corretto sostenere l’esistenza di una “giuridica anteriorità dei diritti dell’uomo”, di
“posizioni soggettive fornite di tutela assoluta e preistituzionalizzata”, in quanto solo
attraverso l’ordinamento giuridico si potrà fornire una tutela a tali posizioni soggettive;
in secondo luogo sottolinea come quasi tutti i diritti fondamentali siano sottoposti a
limiti e pertanto contesta l’esclusione del carattere fondamentale dei diritti proprietari
sulla base del fatto che questi siano sottoposti a limitazioni. Infine evidenzia come la
negazione della qualificazione dei diritti proprietari quali “attributo necessario e
indissolubile della persona” non possa essere di carattere giuridico, poiché, l’autore
ricorda, chiamando in causa Bobbio, che “i contorni della categoria dei diritti umani o
assoluti o fondamentali non sarebbero precisi, ma mutevoli a seconda dei periodi storici,
derivandone pertanto l’inesistenza di diritti essenzialmente fondamentali”151.
Infine il dibattito si sposta anche sul secondo comma dell’art. 53 Cost.: il
problema del “compromesso” tra diritti economici e doveri di solidarietà diviene
particolarmente evidente quando si riflette sulla portata del principio di progressività
dell'imposizione. L'art. 53, infatti, non solo stabilisce una relazione tra capacità
contributiva e prelievo fiscale, ma definisce pure il modo in cui tale relazione deve
variare: il prelievo deve aumentare più che proporzionalmente all'aumentare della
ricchezza. La progressività del sistema tributario è senz'altro strumento necessario per
attuare le finalità solidaristiche e redistributive dell'ordinamento giuridico, ma non può
essere utilizzato per sovvertire il sistema economico previsto nella Costituzione,
sopprimendo l'economia privata e pregiudicando senza via di scampo i diritti garantiti
dagli artt. 41 e 42 Cost.152. Ne consegue che un certo grado di progressività deve
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11.
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, nota 63.
152
Espressamente in questo senso I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva
nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 185, che osserva come il livellamento ed il sovvertimento
dell'economia sia incompatibile “con quei compiti di tutela e di difesa della proprietà e dell'iniziativa
economica privata assunti dagli artt. 41 segg. Cost.”.
150
151
esistere perché l'imposizione sia legittima, ma non deve essere eccessivo. E' quindi
configurabile un limite massimo al prelievo fiscale, indispensabile per la tutela della
proprietà e dell'iniziativa economica privata, costituzionalmente garantiti: “sarebbe
curioso, per non dire assurdo, pensare che la Costituzione abbia voluto consentire al
legislatore tributario di perseguire, per diversa via, proprio quei risultati che essa ha
inteso evitare”153. Da un lato, non è ammissibile una “tassazione spinta fino al punto di
togliere ogni convenienza a produrre e rischiare”, che “indurrebbe in pratica ad uscire
dal mercato e lederebbe la libertà di iniziativa economica”, tutelata dall'art. 41 Cost154;
dall'altro, sarebbe costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 42 Cost., la
legislazione tributaria “che avesse come conseguenza la soppressione della proprietà
privata o ne impedisse a lungo andare la sopravvivenza, o la svuotasse nel suo
contenuto essenziale, o la limitasse per mera ostilità” e per ragioni diverse da quelle
previste nel secondo comma dell'art. 42 Cost: “malgrado l'intervento fiscale, la proprietà
privata deve rimanere come istituto essenziale del nostro ordinamento e non può quindi
venire eliminata o ridotta ad una funzione meramente simbolica”155.
In realtà, già qualche anno dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si era
rilevato come la progressività del prelievo espressamente stabilita a livello
costituzionale, pur esprimendo l'aspirazione ad una “democrazia sociale”, non potesse
portare ad un'imposizione illimitata. La progressività del sistema tributario dovrebbe
essere “contenuta in limiti moderati e non (...) usata come mero strumento extrafiscale
di livellamento della ricchezza”: ciò poteva desumersi (e si desume) “pure dalle norme
costituzionali che affermano il rispetto della proprietà (art. 42) e dell'iniziativa privata
(art. 41), col solo limite di indirizzarle in armonia alla funzione sociale e di moderare le
proprietà più elevate per non impedire l'altrui libero conseguimento e godimento delle
ricchezze. La proprietà non può essere espropriata se non per fini di utilità generale
determinati e salvo indennizzo (art. 42, 43). Il che è evidentemente in contrasto con una
Ivi, p. 205.
Così F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 254, che rileva come le
misure fiscali di incentivo e freno all'economia privata possano essere considerati legittimi “fino a che si
limitano a rendere più o meno appetibili certe iniziative economiche, modificando i termini di
convenienza offerti dal mercato e lasciano quindi sostanzialmente libera, anche se condizionata,
l'iniziativa economica”. Tali misure sarebbero invece incostituzionali, per violazione dell'art. 41 Cost., “se
avessero come conseguenza la pratica impossibilità di intraprendere o mantenere certe attività”.
155
Ivi, pp. 257-258. L'Autore, che muove dalla considerazione della netta diversità dell'istituto
dell'espropriazione rispetto al prelievo fiscale, conclude dunque che in materia di limiti all'imposizione, se
non “acquista rilievo il terzo comma dell'art. 42, conservano sempre importanza (...) i primi due commi”.
153
154
imposta spogliatrice e con una lotta di classe condotta per mezzo dell'imposta. Invece è
preoccupazione costante della Costituzione assicurare l’armonia fra le classi e le
categorie
economiche,
ricorrendo
a
soluzioni
temperate
ed
intermedie”156.
L'imposizione eccessiva nella sua misura dovrebbe dunque ritenersi in diretto contrasto
con il diritto individuale di proprietà, costituzionalmente tutelato: la proprietà privata
“può essere limitata, ma non può essere espropriata senza indennizzo. Una imposta
spogliatrice è come un esproprio senza indennizzo” 157.
2. IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’
Il quadro costituzionale deve essere integrato con la specifica regola della progressività
del sistema tributario nel suo complesso, dettata dal comma 2 di tale articolo, col fine
precipuo di completare il disegno etico del Costituente in senso solidaristico ed
egualitario. Infatti, “la progressività”, sottolinea Cereti, “è conforme a giustizia da una
parte per il fatto che l’imposizione sui redditi elevati incide molto meno sul tenore di
vita dei singoli e viene a discapito soprattutto dei consumi di lusso o dei risparmi che
possono essere accantonati, e dall’altra per la considerazione che coloro che godono di
redditi più elevati beneficiano maggiormente dei servizi dello Stato, che consentono,
favoriscono e proteggono le loro fonti di reddito e il loro elevato tenore di vita”158.
Concretamente, questo tipo di redistribuzione si realizza, in sede di riparto,
colpendo “meno quanti hanno una capacità contributiva minore ma anche quanti, in
proporzione, hanno più bisogni (e viceversa, naturalmente)”159. L’imposta progressiva
costituisce, in altri termini, “una delle possibili modalità di riparto dei carichi
156
Così F. Forte , Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario
italiano, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, pp. 303-304, che richiama al riguardo gli articoli da 40 a 47, e
l'art. 2 che ad un tempo “richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale”, e “garantisce i diritti individuali dell'uomo”.
157
Id, Note sulle norme tributarie costituzionali italiane, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, p. 410.
Analoga la conclusione di E. Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano,
1961, p. 463: “una progressione eversiva corrisponde nella sostanza ad una espropriazione senza
indennizzo, e come tale viola l'art. 42 della Costituzione, il quale dispone che la proprietà privata possa
essere espropriata a condizione che venga corrisposta un'indennità. Essa realizza un 'aggiramento' di
quella norma costituzionale, e pertanto, anche sotto questo profilo, va considerata costituzionalmente
illegittima”.
158
G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 27.
159
F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69.
pubblici”160 ed è, perciò, anch’essa una delle espressioni del principio di uguaglianza
sostanziale. Più in particolare, il vincolo della progressività non costituisce altro che una
sottolineatura, fatta dal Costituente al legislatore ordinario, del fatto che la progressività
vada intesa “come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio
di uguaglianza collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali
esistenti di fatto alla libertà ed alla uguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di
solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 Cost.)”161.
Tuttavia, fa notare Gallo, le decisioni politico-economiche dei legislatori
ordinari in tutto il mondo, indotti dai processi di globalizzazione, liberalizzazione e
delocalizzazione in atto162 e “spinti da orientamenti di politica economica
prevalentemente neoliberista”163, propendono maggiormente, invece, per imposte
proporzionali e regressive che sempre più vengono ”fondate”, quindi, “su criteri di
giustizia fiscale meno impegnativi”164. In tal modo egli intravede, non solo “una
tendenza a negare al sistema tributario in sé funzioni redistributive ed allocative, ma
anche un rinvigorimento di quelle opinioni dirette a contemperare i principi della
capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria con quello del beneficio; con quel
principio, cioè - una volta prevalente negli stati liberali ottocenteschi - secondo cui
l’imposizione deve avere caratteristiche tali da rendere al massimo, in termini di
corrispettività, l’idea della cosa amministrata che finanzia e va correlata al godimento
dei servizi pubblici, preferibilmente con aliquota proporzionale”165.
Dall’altra parte, tuttavia, Falsitta ed altri autori, sostengono che “attribuire alla
progressività una connotazione immancabilmente redistributiva non è accettabile” nel
senso che “è inidonea a realizzare autonomamente l’obiettivo funzionale di spostare
160
ss.
F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, IV, in Rass. trib., 2008, pp. 919 e
Corte Costituzionale, sentenza del 21 maggio 155/2001.
La crisi del tributo personale progressivo si è per di più aggravata anche a causa del processo
economico di globalizzazione e delocalizzazione in atto, che ha reso incerto il presupposto su cui sono
stati fino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali, e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce
della spesa pubblica e il contribuente che la dovrebbe finanziare. Ed inoltre è aumentata la possibilità per
i contribuenti di distribuire le materie imponibili nel più vasto ambito comunitario in funzione dei
vantaggi offerti dalle legislazioni dei singoli ordinamenti.
163
Alcuni autori, di estrazione soprattutto nordamericana come Massey ed Epstein, arrivano
addirittura al punto di riesumare vecchie teorie, secondo cui una redistribuzione economica operata in via
progressiva “distrugge” la ricchezza (C.R. Massey, Takings and Progressive Rate Taxation, in Harvard
Journal of Law and Public Policy, 20, n. 1, 1996, pp. 85-96 e, soprattutto, R. Epstein, Takings,
Cambridge (Mass.), 1985, p. 100).
164
F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, cit., pp. 919 e ss.
165
Ibidem.
161
162
ricchezza dai più abbienti ai meno abbienti”166. L’obiettivo redistributivo può essere
realizzato “indirettamente a condizione che il maggiore carico fiscale su chi si trovi in
condizioni comparativamente migliori sia effettivamente destinato a finanziare spese di
favore di chi versi in condizione opposta”167. Bisogna evitare cioè un utilizzo della
progressività come Marx ed Engels teorizzavano e cioè come strumento per spostare la
proprietà dei mezzi di produzione dalla borghesia capitalistica allo Stato. In tal senso,
Ricca Salerno, già nel 1890, notava che in questo modo si trascendono i limiti ed il
compito del diritto tributario poiché “si attribuisce all’imposta una funzione politicosociale, quella cioè di impedire il soverchio concentramento della ricchezza nelle mani
di pochi, determinandone una distribuzione più eguabile fra i privati”168. A sostegno di
questa tesi vi è anche Forte, il quale ritiene che “la progressività deve essere utilizzata
come strumento fiscale di distribuzione degli oneri e non come strumento extrafiscale di
livellamento della ricchezza”169. Analizzando nello specifico l’art. 53 Cost., Falsitta
ritiene che “lo stesso testo costituzionale muove in questa direzione” poiché ci dice che
la progressività è del sistema tributario e “ non delle parti che lo compongono” 170: sono
ammesse anche le imposte regressive, quelle proporzionali ad esempio, “purché,
insieme a tutte le altre, lo rendano progressivo nel suo complesso” ed inoltre, come
sostiene Gaboardi, con le parole “il sistema tributario è informato…” si indica “una
prescrizione e non un consiglio” 171. Si ha l’opportunità, così, di avere una libertà di
scelta su formule e tecniche adottabili per far sì che il sistema mostri connotazioni di
progressività, stabilito che il principio deve trattarsi, comunque, di una progressività,
come afferma Ricca Salerno, “moderata, lenta e mantenuta dentro limiti definiti” e non
“rapida, forte, eccessiva”172.
Pertanto, come afferma anche Gallo, ciò non vuol dire che” i criteri del beneficio
e della tassazione proporzionale, tanto apprezzati dai fautori delle teorie liberiste, non
possano coesistere con i principi - costituzionalmente privilegiati - dell’uguaglianza
tributaria e della progressività previsti dagli artt. 3, 53, primo e secondo comma
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss.
Ibidem.
168
R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p. 168.
169
F. Forte, Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario
italiano, cit. , pp. 403 e ss.
170
G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss.
171
F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, pp. 70-71.
172
R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p.168.
166
167
Cost”173.” Il richiamo a tali princìpi è”, secondo Gallo, “utile quale criterio ispiratore di
un ordinato sistema di federalismo fiscale complesso e plurilivello, fondato sulla regola
della sussidiarietà verticale, attuativo del principio generale di autonomia tributaria
(regionale e locale) e funzionale all’espansione dell’autonomia politica”174. Egli ritiene,
pertanto, che è “bene che sul piano economico i tributi “propri” degli enti territoriali
siano caratterizzati, piuttosto che come tributi generali e progressivi, come tributi
paracommutativi175 di scopo o come tributi “controprestazione” aventi aliquote
proporzionali”176. Inoltre la vicinanza tra governanti e governati che si realizza in tal
modo, consente una maggiore possibilità di monitorare il legame tra costi e benefici,
ovverosia tra imposte prelevate e servizi locali resi, fino al punto di giungere in alcuni
casi a “trasformare” il tributo in un vero e proprio canone-corrispettivo, riconducibile
più al prezzo pubblico in senso stretto che allo schema dell’imposizione fiscale. Le
giustificazioni della regola del beneficio si ritrovano, inoltre, quando c’è un
collegamento prelievo-spesa di tipo personale come il caso delle assicurazioni sociali
dove, appunto, “il dare attuale e l’avere successivo riguardano le stesse persone ed
indicano che il sacrificio del prelievo è proporzionato al beneficio del trasferimento, e
viceversa”177. Gaboardi sostiene, così, che la regola del beneficio “è ancora importante
ogni volta che permette impieghi di risorse in campi nei quali il mercato non opera, o
non può operare, o non opererebbe in misura conveniente”178: cioè in un campo in cui il
servizio è già dato e la relativa spesa sarà pagata da coloro che lo useranno. La regola
del beneficio ha, perciò, ancora delle seguenti possibilità applicative, quando, ad
esempio “il potere tributario viene esercitato nei confronti dei non residenti”, poiché “è
equo” che allo straniero si fan pagare solo le imposte allineate ai vantaggi specifici che
riceve; oppure nel caso di “imposte speciali siano meglio tollerate e capite dalle
particolari categorie di soggetti (gli automobilisti, i proprietari di immobili, etc.) che si
F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 114.
Ibidem
175
“I tributi causali, o paracommutativi, sono quelli che hanno quale presupposto un potenziale
vantaggio goduto dal contribuente, o la necessità di compensare un costo causato dal contribuente, e che
quindi ben si distinguono dall’imposta, per sua natura acausale.” in L. Del Federico, Tributi di scopo e
tributi paracommutativi: esperienze italiane ed europee. Ipotesi di costruzione del prelievo, in Trib. loc. e
reg., n. 2, 2007, p. 182.
176
F. Gallo., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, p 115.
177
F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p.74
178
Ivi, pp. 77-78.
173
174
avvantaggiano di spese speciali, a condizione che siano categorie ben definibili, in
relazione al servizio che esse usano e che altre non usano”179.
La regola del beneficio, tuttavia, per la sua rigidità ha diffusi limiti di
applicabilità; spesso è addirittura inaccettabile: nell’istruzione elementare, infatti, le
imposte non possono essere uguali per tutti gli studenti. Alcuni servizi, come anche la
difesa, non tollerano tale regola poiché “è difficile trovare in ogni servizio l’unità di
costo a cui far corrispondere un’unità d’imposta, che è sovente impossibile individuare
con sicurezza il beneficio che ciascuno si procura usando un determinato servizio, ed
infine che essa non potrebbe mai produrre tutte le risorse finanziarie di cui gli enti
pubblici hanno ora bisogno”180. Dunque è usuale, altresì, che il principio venga mitigato
da altri principi, come per il pedaggio autostradale: “lo Stato versa un contributo al
concessionario che costruisce e gestisce l’autostrada, un contributo che è quindi spesa
pubblica, coperto pertanto da imposte per tutto l’arco di tempo in cui verrà erogato e
durante il quale coprirà” anche fino “ad un terzo del costo totale di costruzione”181.
Per molti anni, economisti di indiscusso valore quali Einaudi, De Viti De Marco
e Wicksell sostennero che quella del beneficio poteva essere la regola distributiva
fondamentale: il principio di capacità contributiva e il criterio del beneficio venivano
fatti convivere anche negli assetti centralizzati e teorizzati come presupposti
fondamentali dell’imposizione. Ma è evidente che ciò è possibile solo se si assume la
teoria del “beneficio globale” di De Viti de Marco182: le imposte possono essere
considerate come la sottoscrizione di un abbonamento annuale ai servizi che una
collettività rende ai suoi membri (il che non significa che tutti gli abbonati vadano a
ogni singola performance o che apprezzino tutti i servizi). In tale caso, infatti, sarebbe
forse possibile sostenere che il criterio del beneficio, venendo a coincidere con
(ovverosia “inglobando”) quello della capacità contributiva, sia idoneo a “fondare” la
maggiore parte delle entrate fornite dai sistemi tributari, giustificandole così dal fatto
che ad una maggiore disponibilità di risorse corrisponde un uso maggiore,
potenzialmente od effettivamente. Tuttavia le giustificazioni sono lacunose ed
Ibidem.
Ibidem
181
Ivi, p. 79, nota 5.
182
A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, 1939, pp. 90-93 e, in
particolare, note 1 e 2 di p. 91, nonché pp. 122-123; Ivi, Il carattere teorico dell’economia finanziaria,
Roma, 1888, in particolare, pp. 103 e 135.
179
180
accettabili solo in parte perché l’eventuale applicazione di tale formula escluderebbe il
riferimento ai richiamati principi di uguaglianza, di capacità contributiva e di
progressività così intesi dalla Corte Costituzionale.
CONCLUSIONI
"In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: la
garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non è un'esigenza, ma una formalità
giuridica. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo stato; non ha coscienza di
esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il
parlamento italiano esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione
politica. E’ demagogico fin dal suo nascere perché è nato dalla retorica,
dall'inesperienza, dalla scimmiottatura. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in
queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono
contribuenti”183. Con queste parole Piero Gobetti, più di novanta anni fa, descriveva il
rapporto fra contribuente e Stato e, oltre a ciò, auspicava il nascere della “coscienza” e
“dell’orgoglio del contribuente” cose che, ad oggi peraltro, a parere di autorevoli autori,
sono minate dalla “crisi della giustificazione etica del tributo”.
Nella dottrina, infatti, c’è chi ravvisa una crisi della concezione etica del tributo
dovuta allo slittamento della sovranità fiscale “dallo Stato ad una pluralità di territori”
determinando “una profonda trasformazione etica del sistema tributario, in quanto
rispetto alla pluralità di ordinamenti fiscali non è più possibile rilevare la presenza di
una o più forze materiali e politiche che siano in grado di imporsi in maniera
preponderante sulle scelte normative”184. Il giurista Boria, infatti, considerando il
sistema tributario come uno “strumento giuridico” e “fattore istituzionale di ausilio e
sostegno rispetto alle idee ed esigenze espressive della società” ne intravede la crisi e
“l’annullamento di questa concezione etica della funzione fiscale”: “la frantumazione in
una pluralità di ordinamenti mette in crisi la corrispondenza biunivoca fra sistema
tributario e piano ideologico ed assiologico sottostante, rendendo evidente come lo
strumento tributario possa essere adottato in maniera flessibile per una pluralità di scopi
e finalità collettive”185. Cosicché da fondamentale obbligo di cittadinanza necessario
alla sopravvivenza della comunità il dovere tributario starebbe evolvendo in un rapporto
di altra natura, per effetto della frantumazione, e cioè in una pluralità di ordinamenti
portando inevitabilmente alla “neutralità della prestazione fiscale rispetto alle
P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 1964, p. 159.
P. Boria, Diritto tributario europeo, Giuffrè, Torino, 2010, p. 26
185
Ibidem.
183
184
convinzioni ideologiche di una società civile, valorizzando piuttosto la correlazione con
i valori di un ordine costituzionale di una comunità”186. Si assiste così alla
“neutralizzazione della funzione etica del sistema tributario, nell’ambito di un processo
di apertura verso le numerose istanze provenienti da una società ontologicamente
pluralista”187. Il lento e graduale declino del concetto di sovranità nazionale a favore
dell’U.E. evidenzia come il diritto tributario nazionale abbia perso implicitamente parte
della sua autonomia data la subordinazione delle legislazioni nazionali a quella
comunitaria. Il mutamento del concetto di sovranità statale che ha investito il comparto
tributario ha determinato una diversa giustificazione razionale dell’imposizione che
resta sì qualificato quale dovere politico sociale di concorrere alle spese pubbliche, ma
inquadrato in una visione più ampia che è rappresentata dall’appartenenza all’UE188.
Coerentemente alla trasformazione del quadro di riferimento anche la nozione di
sistema tributario riceve una conformazione “aperta, non sorretta cioè dalla preminenza
dei valori provenienti da una classe sociale e dunque da una visione particolaristica ed
egemonica del dover essere, bensì piuttosto determinata da soluzioni di compromesso
conseguenti alla mediazione politica e sociale di una pluralità di istanze emergenti dalla
società civile”189. La frantumazione del sistema tributario nei “sistemi tributari”,
prosegue Buzzacchi, produce così “una destrutturazione ideologica consentanea al
clima possibilista e dinamico di una società pluralista, non sclerotizzata intorno a idee
dominanti, ma orientata verso forme di coesistenza armonica dei valori della
convivenza civile”.
A. Fantozzi, Diritto tributario, V ed., Utet, Torino, 2012, p. 35.
Ibidem.
188
P. Boria, Diritto tributario Europeo, cit., p. 52 specifica che “in ambito comunitario la
fiscalità non è inquadrata come uno strumento di raccolta delle risorse finanziarie essenziali per la
sussistenza e per lo sviluppo di una collettività, secondo criteri equi e ragionevoli di riparto tra i
consociati; al contrario, assume un valore negativo , in quanto costituisce un fattore distorsivo del gioco
della concorrenza, che deve essere limitato e possibilmente eliminato, in linea con i postulati assiologici
risultanti dalla costituzione economica europea. Egli, inoltre, ribadisce che “la funzione assunta dal
complesso di regole tributarie di formazione comunitaria è dunque profondamente diversa da quella
assunta dagli ordinamenti fiscali nazionali: è una funzione “negativa”, rivolta cioè a limitare e a
contenere gli effetti discorsivi della fiscalità e non anche ad incidere positivamente sulla dimensione
della ricchezza nazionale e sui processi di redistribuzione del reddito tra i membri della Comunità”. ( P.
Boria, Il Sistema Tributario, Torino, 2008, pp. 115 e ss.). Si va così affermando un criterio di
“integrazione negativa”, che porta alla ortopedizzazione degli ordinamenti fiscali nazionali attraverso
l’espunzione di tutte le norme divergenti rispetto alle finalità di neutralizzazione della leva fiscale nei
confronti del mercato e della concorrenza. (A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 756 e ss.).
189
C. Buzzacchi, La solidarietà tributaria: funzione fiscale e principi costituzionali, Giuffrè,
Milano, 2011, p. 245.
186
187
Guardando invece al panorama interno, la giustificazione etica del tributo,
sembra minacciata da una lettura forse fin troppo libera dei principi tributari contenuti
nella Costituzione. Nell’ultimo capitolo della tesi sono state esposte le due
argomentazioni principali riguardo all’esistenza (o meno) dei limiti quantitativi
dell’imposizione fiscale nell’ordinamento italiano: un minimo di mezzi economici che
servono all'individuo per avere un'esistenza dignitosa sua e della sua famiglia detto,
altresì, minimo vitale , ed un limite massimo alla misura del tributo.
Dallo “scontro” dialettico fra le due correnti emerge innanzitutto che la
Costituzione italiana è, per quanto riguarda la materia tributaria, decisamente poco
univoca poiché anche se esprime alcuni principi di assoluto rilievo contributiva
e
progressività
dell'imposizione
-
lascia,
tuttavia,
uno
capacità
spazio
particolarmente significativo all'interpretazione. Ed è inoltre evidente come la Corte
costituzionale ne abbia dato una lettura nel complesso piuttosto “aperta” di tali principi,
in coerenza con il volere dei costituenti, i quali hanno collocato i principi costituzionali
in materia tributaria “nel quadro del programma di trasformazione dell'economia e della
società delineato dalla Costituzione. La scelta operata dal costituente parte dalla
premessa che i tributi sono uno strumento indispensabile per realizzare tale programma,
per cui conviene limitarsi a poche norme di principio, per non creare troppi vincoli al
legislatore” 190. Di conseguenza , i principi costituzionali tributari sono caratterizzati da
una lettura “aperta”, ed ecco perché, nel predisporre le regole costituzionali
dell'imposizione fiscale “l'enfasi non cadeva sui possibili limiti, esigenza che pure fu
presente nel corso dei lavori preparatori. Altre erano le priorità: l'obiettivo era quello di
inserire pienamente il fenomeno tributario nello stato contemporaneo, non quello di
contenerne o temperarne gli sviluppi”191. Si è preferito, dunque, rimettere alla
discrezionalità legislativa ed alla libertà del dibattito parlamentare la scelta di stabilire
l'aspetto quantitativo dell'imposizione fiscale escludendo così il quantum dell'imposta
dal novero dei parametri di legittimità costituzionale delle leggi tributarie.
Nello specifico, per quanto attiene il limite quantitativo minimo si può notare
che l'idea della necessaria esenzione da imposta dei redditi appena sufficienti a garantire
F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori
preparatori, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1997, I, p. 529.
191
Ibidem.
190
al contribuente ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa sembra godere di
larga condivisione da parte della dottrina e giurisprudenza192.
I limiti costituzionali massimi pongono, invece, problemi ancora maggiori di
quelli sollevati dal limite minimo. In primo luogo, si è potuto osservare che il principio
di capacità contributiva non porta all'individuazione di un limite quantitativo massimo
al prelievo, se non quando l'imposizione è così elevata da far ritenere l'assoluta
arbitrarietà od irragionevolezza della discrezione legislativa193. È doveroso ricordare che
parte della dottrina ritiene che nell'ordinamento italiano esista un limite quantitativo
massimo ricavabile essenzialmente dal collegamento tra gli artt. 53, 41 e 42 Cost194.
Tale corrente di pensiero è tuttavia deficitaria nelle giustificazioni riguardo ad una
precisa quantificazione di tale limite ed è oggetto di critiche fondate sulla priorità del
dovere di contribuzione e dell'interesse fiscale rispetto alla tutela dei diritti economici
dei contribuenti. In ogni caso, non v'è dubbio che la Corte costituzionale, in sostanza,
non ha mai svolto alcun sindacato sulla misura massima del prelievo sempre per il
motivo che la misura dell'imposizione è rimessa alla discrezionalità del legislatore
tributario.
A quasi settant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, i dubbi suscitati da
una lettura “aperta” dei principi costituzionali in tema di imposizione fiscale spingono a
domandarsi se non sia il caso di rivedere il rapporto tra leggi tributarie e Costituzione,
tra discrezionalità legislativa e giudizio di legittimità costituzionale, fra Fisco e
contribuente. La degenerazione di questi rapporti ha avuto effetti non certo positivi:
“crescita marcata, e malamente distribuita, della pressione tributaria; eccessiva
differenziazione dei trattamenti per le più svariate ragioni; disattenzione e disinvoltura
In linea di principio, anche la Corte costituzionale si è espressa in favore della sussistenza,
nell'ordinamento italiano, di un limite minimo implicito nel principio di capacità contributiva.
193
Arbitraria ed irragionevole, in particolare, è stata ritenuta dalla Corte costituzionale l'imposta
sostanzialmente duplicata o totalmente priva di presupposto (sentenza 29 dicembre 1972, n. 200, in Giur.
cost., 1972, 606-622), oppure quella palesemente sproporzionata in eccesso, in violazione della parità di
trattamento tra contribuenti (sentenza 17 aprile 1985, n. 104, in Giur. cost., 1985, 657-661).
194
Tale circostanza ha portato alcuni autori a sostenere che almeno il 50 per cento della
ricchezza presupposto della tassazione debba essere preservata, ovvero a riconoscere che l’aliquota
complessiva dell’imposizione sul reddito non dovrebbe superare il 60 per cento. G. Falsitta, L’imposta
confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89, richiama invece la sentenza della Corte costituzionale n.
348/2007 nella quale si afferma che “il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse
pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà” e si
riconosce che un sacrificio che incide sull'oggetto del diritto in una misura oscillante tra il 60 e il 76 per
cento è superiore alla soglia accettabile di espropriazione legittima.
192
sul piano dei principi; produzione normativa disordinata; instabilità e incertezza delle
discipline di applicazione; distorsioni e stravolgimenti nei rapporti tra fisco e
contribuente; moltiplicazione ed ibridazione dei tributi”. Ne conseguirebbe, dunque, “la
liceità di un mutamento di prospettiva: allora (...) la questione era quella della
fondazione dello stato sociale ed interventista e di uno strumento tributario adatto a tal
fine; oggi, la questione in materia è diventata, piuttosto, quella della libertà e della
giustizia a partire, questa volta, da coloro che sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche”195.
Ed è, inoltre, inevitabile che la misura dei tributi abbia un dato di assoluta
importanza quando si riflette sui rapporti tra Fisco e contribuente poiché, se è vero che
gli obiettivi del sistema fiscale ed il suo grado di efficienza nel raggiungerli sono legati
alla capacità contributiva di ciascuno, è anche “giusto” che il contribuente sia tutelato
da una misura dell'imposizione costituzionalmente legittima, nel tentativo, così, di
restituire vera dignità al rapporto contribuente e Fisco da intendersi, pertanto, come
cittadinanza attiva e non più come sudditanza. Certo è che la tendenza della
giurisprudenza costituzionale in questo ambito, unita alla mancata formulazione
espressa di vincoli quantitativi al prelievo nella Costituzione ed alle incertezze e
divergenze
dottrinali,
non
consentono
di
ravvisare
la
sussistenza
attuale,
nell'ordinamento italiano, né di un minimo vitale pienamente tutelato e né di un limite
massimo all'imposizione: “uno degli aspetti più significativi della situazione in cui si
trovano i consociati di fronte allo Stato, in Italia, è costituito dal fatto che il potere dello
Stato nei loro confronti, in materia tributaria non è limitato (...). Il che implica che il
potere dello stato in materia fiscale è assoluto”196.
A prescindere dall’effettiva quantificazione di tali limiti, l’imposizione fiscale
nel bilanciare il rapporto fra ente impositore e contribuente, deve quindi rispettare i
diritti dei singoli contribuenti, non considerando l’interesse fiscale come un valore
assoluto tale da sacrificare i diritti di cui è portatore l’individuo, e tuttavia non
abbandonare, ma anzi, sostenere fermamente la formula della funzione sociale nella
proprietà privata così come interpretata da Calamandrei: “scopo” ed “emblema della
F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori
preparatori, cit., p. 531.
196
Così E. Di Robilant, L'inaccettabilità del potere assoluto dello Stato in materia fiscale, in AA.
VV., Fisco e libertà: un dispotismo mascherato, Roma, 1981, p. 47.
195
nuova società civile”. In ragione di ciò, l’approccio da adottare nel valutare i due
opposti interessi deve essere equilibrato, orientato al raggiungimento del “primo
principio di tutto l’ordinamento etico-sociale”197, senza dimenticarsi di rispettare la
sostanza del diritto di proprietà del contribuente, ossia evitare di privare l'individuo di
una parte preponderante del proprio reddito, fino, al caso limite, della privazione di tutto
il suo patrimonio poiché “Boni pastoris est tondere pecus, non deglubere”198.
Nella recente lettera enciclica “Laudato si’” del Santo Padre Francesco sulla cura della casa
comune, riprende le parole del Padre Giovanni Paolo II affermando che egli“ ha ricordato con molta
enfasi questa dottrina”, dicendo che “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti
i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno” [...] “non sarebbe veramente degno dell’uomo un
tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e
politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli”[...] “la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla
proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre
un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato” [...] ”non è
secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto
di alcuni pochi” (Padre Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), p.
19).”Questo”, afferma Padre Francesco, “mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una
parte dell’umanità”. L’enciclica papale è interamente disponibile sul sito del Vaticano:
w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudatosi.html.
198
Gaio Svetonio Tranquillo, De Vita Caesarum, III, p. 32. La traduzione letterale è “Il buon
pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”.
197
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